Euribor: la zeppa della Suprema Corte ai principi enunciati nell'ordinanza n. 34889/2023
17 Giugno 2024
1. Il fatto, la pronuncia della Corte d'appello e il ricorso 1.1 Nel giugno del 2018 la Elrond NPL 2017 s.r.l. intimò precetto di pagamento a Neemias s.r.l., azionando come titolo esecutivo un contratto di mutuo di cui si era resa cessionaria. L'intimata propose opposizione alla esecuzione, sostanzialmente contestando l'idoneità dell'atto notarile in concreto azionato a fungere da titolo esecutivo, ai sensi dell'art. 474 c.p.c. nonché deducendo la nullità della clausola contrattuale che, nella determinazione del costo del mutuo, aveva fatto riferimento al tasso Euribor per il periodo 2005-2008, in ragione dell'accertata manipolazione dei dati sulla cui base lo stesso era stato determinato. 1.2 Il Tribunale rigettò l'opposizione. La Corte d'appello andò dietro al giudice di prime cure, confermandone la decisione. Per quanto qui interessa, la Curia territoriale ritenne inammissibile il motivo di gravame con cui era stata reiterata la predetta eccezione di nullità, per non avere l'impugnante confutato in modo specifico, come previsto dall'art. 342 c.p.c., le ragioni addotte nella sentenza gravata a sostegno del suo rigetto. Aggiunse anche ad abundantiam, che la decisione della Commissione Europea in data 4 dicembre 2013 – che aveva sanzionato un numero significativo di istituti di credito per aver dato corso, nel periodo settembre 2005/maggio 2008, a intese restrittive della concorrenza con l'evidente finalità di incidere sul procedimento di fissazione dei tassi Euribor – non era invocabile nella fattispecie, considerato sia che “i destinatari diretti delle norme antimonopolistiche eventualmente violate (erano) esclusivamente gli imprenditori commerciali del settore di riferimento e non anche i singoli utenti”, di talché questi ultimi non avevano alcuna legittimazione “a fare valere eventuali violazioni poste in essere dal gruppo di imprese bancarie”; sia che non erano previste sanzioni di nullità con riferimento alle clausole di richiamo dell'indice Euribor, “non essendo stati disciplinati gli effetti dell'illecito anticoncorrenziale sui contratti conclusi dalle imprese con i clienti finali”. In tale contesto – e conclusivamente – il decidente affermò di condividere l'orientamento espresso dalla Suprema Corte con Cass. 10 aprile 2014 n. 8462, secondo cui la condotta sanzionata in ambito comunitario era inidonea a incidere sulla validità del contratto, “potendo rilevare il comportamento dei contraenti, in ipotesi di violazione di tali norme, come fonte di responsabilità”. 1.3 L'intimata non ci stette e propose ricorso per cassazione. Delle critiche con questo avanzate conviene focalizzare l'attenzione solo su quelle svolte nel terzo motivo, posto che le censure inerenti alla legittimità della intrapresa esecuzione (oggetto dei primi due) sono già state commentate su questo stesso portale (Aldo Angelo Dolmetta, Mutuo bancario «incompleto» per inesistenza dell'obbligazione restitutoria e titolo esecutivo), sicché non è il caso di occuparsene. Ora, con tale mezzo la ricorrente tornò a insistere sulla denunciata nullità della clausola contrattuale che, nella determinazione del costo del mutuo, aveva fatto riferimento al tasso Euribor per il periodo 2005-2008, in ragione della manipolazione dei dati sulla cui base lo stesso era stato determinato. Segnatamente contestò l'impugnante l'affermazione del giudice di merito secondo cui la decisione della Commissione Europea del 4 dicembre 2013 non incidesse in alcun modo sul contratto in lite, sia per essere l'Euribor un indice medio, calcolato sulla scorta di dati che si assumono oggettivi e avente un ruolo solo parziale nella determinazione del tasso di interesse in concreto applicato, che era composto anche da una quota fissa (spread); sia in quanto i destinatari delle norme eventualmente violate erano esclusivamente gli imprenditori commerciali e non i singoli utenti. A confutazione di tali affermazioni richiamò per contro l'esponente i principi enunciati dalle sezioni unite in Cass. SU 30 dicembre 2021 n. 41994, nonché gli accertamenti posti a fondamento delle decisioni della Commissione Europea in data 4 dicembre 2013 e 7 dicembre 2016. 2. La sentenza Cass. 3 maggio 2024 n. 12007 2.1 Del motivo sopra esposto il collegio si è (solo apparentemente) liberato, per quanto subito si dirà, con una dichiarazione di inammissibilità. Le critiche, ha detto in sostanza, non colgono la ratio decidendi del provvedimento impugnato, che era una declaratoria di inammissibilità del motivo di gravame per aspecificità delle censure. Né conta, ha precisato, che l'impugnante si sia affannato a contestare le ragioni addotte dalla Corte d'appello a sostegno della predicata infondatezza della pretesa nullità della clausola determinativa degli interessi. Esiste infatti una granitica giurisprudenza di legittimità secondo cui, una volta che il giudice si sia spogliato, con una statuizione di inammissibilità (o con una declinatoria di giurisdizione o di competenza), della potestas iudicandi in relazione al merito della controversia, le argomentazioni a questo relative devono ritenersi impropriamente inserite ad abundantiam in sentenza, di talché “la parte soccombente non ha né l'onere né l'interesse ad impugnarle. Ne consegue che, mentre è ammissibile l'impugnazione che si rivolga alla statuizione pregiudiziale, è viceversa inammissibile, per difetto di interesse, quella con cui si pretenda un sindacato anche in ordine alla motivazione sul merito della causa” (cfr. Cass. SU 20 febbraio 2007 n. 38). 2.2 Finisce qui? Niente affatto. Perché a differenza del giudice di merito, la Corte, in quanto titolare della funzione nomofilattica, ha una norma che, pur dopo la declaratoria di inammissibilità di un motivo, le consente di occuparsi della questione con esso proposta. Questa norma è l'art. 363 c.p.c., il cui terzo comma abilita il giudice di legittimità, in presenza di una problematica di particolare importanza, a pronunciare anche d'ufficio, quando il ricorso venga dichiarato inammissibile, il principio di diritto nell'interesse della legge, senza alcun effetto dunque, sul provvedimento impugnato. Il collegio attiva quindi il meccanismo decisorio consegnatole dalla predetta disposizione. Per il che, non potendo fare a meno, a questo punto, di un contesto solenne, rinvia la trattazione del ricorso alla pubblica udienza: opzione particolarmente azzeccata, alla luce del successivo evolversi della giurisprudenza della sezione, che appena due mesi dopo, senza vestire gli abiti curiali, me nelle forme dimesse della camera di consiglio non partecipata, tira fuori una vera e propria bomba, l'ordinanza Cass. 13 dicembre 2023 n. 34889, già commentata in questo Portale (Adelaide Amendola, Contratto di leasing e tasso Euribor: gli adempimento formali e il pharmakon della nullità da intese vietate). 2.3 Prima di illustrare i principi enunciati nella sentenza in commento, conviene ricapitolare le statuizioni e le argomentazioni salienti dell'arresto del 2023, perché ciò consentirà di cogliere meglio i punti in cui le due pronunce si allineano e quelle invece in cui si discostano. Nell'ordinanza Cass. 13 dicembre 2023 n. 34889 la Corte, sull'abbrivio di due precedenti di legittimità, l'uno del 1999 (Cass. 1 febbraio 1999 n. 827) e l'altro del 2005 (Cass. 4 febbraio 2005 n. 2207), ebbe a risolvere la questione della nullità della clausola contrattuale che aveva determinato il costo di un contratto di leasing immobiliare con riferimento al tasso Euribor, statuendo che:
Dal coordinamento di questi due principi, e dal rilievo che la Commissione Antitrust Europea nella decisione in data 4 dicembre 2013 aveva accertato che il tasso Euribor, richiamato per relationem nel contratto di leasing oggetto del giudizio, era stato fissato attraverso un accordo manipolativo della concorrenza da un certo numero di istituti bancari, ha concluso che la predetta decisione avrebbe dovuto considerarsi prova privilegiata “a supporto della domanda volta alla declaratoria di nullità dei tassi manipolati e alla rideterminazione degli interessi nel periodo coinvolto dalla manipolazione, a prescindere dal fatto che all'intesa illecita avesse o meno partecipato” la concedente, “giacché raggiunto dal divieto di cui all'art. 2 L. 287/1990 è qualunque contratto o negozio a valle che costituisca applicazione delle intese illecite concluse a monte (Cass. 12 dicembre 2017 n. 29810)”. Di qui la cassazione con rinvio della decisione impugnata, errata in iure in punto di violazione della normativa antitrust. 2.4 Gli ermellini chiamati a pronunciarsi nel 2024 bollano, in limine, come error iuris, l'affermazione della Corte d'appello secondo cui la nullità derivante dalla violazione della normativa antitrust possa essere invocata solo dalle imprese in concorrenza e non dagli utenti finali, ribadendo per contro, in linea con la decisione del 2023, che «il consumatore finale, che subisca danno da una contrattazione che non ammette alternative per l'effetto di una collusione “a monte”, ha a propria disposizione, ancorché non sia partecipe di un rapporto di concorrenza con gli imprenditori autori della collusione, l'azione di accertamento della nullità dell'intesa e di risarcimento del danno di cui all'art. 33 L. 287/1990, azione la cui cognizione è rimessa da quest'ultima norma alla competenza esclusiva, in unico grado di merito, della corte d'appello» (Cass. SU 4 febbraio 2005 n. 2207, Cass. 6 luglio 2005 n. 14238). Più problematico è l'approccio della Corte con altre due questioni, entrambe decisive, ai fini della soluzione della controversia:
Il collegio scioglie il primo dei predetti nodi nel senso che un contratto, intanto può essere ritenuto “a valle” di intese illecite, “nel senso fatto proprio dalla sentenza Cass. SU 30 dicembre 2021 n. 41994”, in quanto sia una consapevole o volontaria applicazione delle stesse: in quanto cioè sia allegato e provato “che la banca stipulante, al momento della conclusione del contratto, fosse o direttamente partecipe di quell'intesa” o comunque consapevole dell'esistenza della stessa o di altra pratica non negoziale avente i medesimi effetti e avesse inteso avvalersene. Aggiunge poi che “il mero riferimento, in un contratto, al parametro dell'Euribor, sull'intuitivo, sottinteso presupposto che esso sia correttamente determinato”, è del tutto legittimo, risultando per contro illecito solo laddove almeno uno dei concorrenti abbia scientemente voluto far riferimento all'indice alterato da condotte anticoncorrenziali. Per concludere che l'effetto manipolativo prodotto dalle intese o pratiche distorsive, ove non vanificabile in ragione della consapevolezza di almeno uno dei contraenti, sarà neutralizzabile “attraverso i rimedi negoziali dell'ordinamento interno”, senza spendita, quindi, di quelli “apprestati dall'ordinamento di origine sovranazionale in tema di concorrenza e, in particolare, di quelli di cui all'art. 2 L. 287/1990 e all'art. 101 TFUE”. In tale contesto – ha affermato la Corte – ove il parametro esterno inserito dai paciscenti in un contrato a integrazione del concreto assetto di autoregolamentazione degli interessi da essi voluto, venga meno, senza possibilità di essere sostituto da altro valore, ovvero “divenga sostanzialmente inidoneo a costituire espressione della volontà negoziale delle parti (eventualmente anche solo per un determinato periodo)”, in quanto alterato a causa di fatti illeciti di terzi e non ricostruibile nel suo valore genuino, la clausola che lo preveda dovrà ritenersi viziata da parziale nullità, “limitatamente al periodo in cui manchi il … dato”. 3. L'Euribor e le decisioni della Commissione UE 3.1 Per una migliore comprensione delle questioni, per vero assai controverse, sulle quali è intervenuta la Corte Regolatrice; delle scelte decisorie operate dalla sentenza del 2024; nonché delle soluzioni hinc et inde prospettate in un dibattito che diventa sempre più aspro e complesso, conviene premettere alcune informazioni. L'Euribor è un tasso di riferimento per i mercati finanziari che esprime (o dovrebbe esprimere) il tasso di interesse medio delle transazioni finanziarie in euro tra le principali banche europee. La sua misura, giornalmente calcolata, è la risultante di un articolato procedimento, che prende l'avvio con la comunicazione, a un'Agenzia indipendente, delle quotazioni dei tassi che ciascuna delle banche del Panel all'uopo istituito ritiene che un'ipotetica banca primaria applicherebbe per i depositi a termine in euro a un'altra banca primaria. Nello specifico l'operazione di determinazione, da parte dell'Agenzia, dell'indice Euribor avviene attraverso l'individuazione del valore medio dei tassi così comunicati, previa espulsione dal computo del 15% delle quotazioni ricevute rispettivamente più alte e più basse, in modo da normalizzare, per così dire, il campione utilizzato. Quel che preme però ricostruire, per le conseguenze che se ne sono tratte in punto di non qualificabilità, in termini di contratto a valle dei finanziamenti che abbiano fatto riferimento all'indice Euribor (G. Guizzi, intervento al seminario del 20 febbraio 2024, DB Formazione “Manipolazione Euribor e nullità della clausola degli interessi”), è la vicenda della manipolazione dei tassi Euribor, quale emersa nel corso del procedimento sfociato nelle due decisioni della Commissione UE, l'una del 4 dicembre 2013, relativa alle banche che, a seguito dell'avvio dell'istruttoria, avevano avanzato proposte transattive; e l'altra del 7 dicembre 2016, relativa alle banche non transigenti: decisioni le cui conclusioni sono state peraltro definitivamente confermate di recente dalla stessa Corte di Giustizia (C.Giust. UE 12 gennaio 2023 caso C-883/19 P). Nelle predette risoluzioni la Commissione ha accertato e sanzionato una concertazione tra alcuni degli Istituti aventi voce in capitolo nella determinazione dell'Euribor, priva di carattere negoziale, in quanto consistita in reiterati scambi di informazioni – “nell'ambito di rapporti in genere bilaterali ma assunti da ciascun cartellista nella consapevolezza dell'esistenza di una rete analoga di rapporti bilaterali tra altri cartellisti” (G. Guizzi, op. citata) – il cui oggetto non era la manipolazione dell'indice in quanto tale, ma piuttosto la manipolazione del posizionamento, di ciascuna delle banche coinvolte, sul mercato degli EIRD (Euro Interest Rate Derivatives; derivati su tassi di interesse in euro), al fine di ottimizzarne i profitti, tenuto conto della composizione, in quel dato momento, del proprio portafoglio di derivati. Di qui la ritenuta impossibilità di qualificare i finanziamenti a tasso variabile come contratti a valle, anche se stipulati da banche aderenti al cartello (G. Guizzi, intervento citato), nell'ambito di un più generale approccio che nega la possibilità di tacciare di illiceità la clausola relativa al prezzo di un bene o di un servizio offerto alla clientela, anche quando emerga che la misura di quel prezzo sia stata influenzata o direttamente determinata da un accordo di cartello. 4. Le tutele attivabili dall'utente 4.1 Le sofisticate argomentazioni addotte a sostegno della ritenuta impraticabilità della tutela reale della nullità, desunta dall'oggetto e dallo scopo delle interlocuzioni tra i cartellisti, non eliminano, ad avviso di chi scrive, che l'indice Euribor è di fatto generalmente assunto nei contratti di finanziamento quale valore parametrico al fine di determinare il tasso di interesse variabile da applicare in concreto, di talché, quali che siano stati i tornaconti e gli obiettivi della manipolazione operata dai cartellisti, le parti dello stipulato mutuo, o almeno uno di essi, sicuramente il cliente, si trovano al postutto negozialmente vincolati a un valore che non è espressivo, come a essi propinato dall'Istituto che li ha finanziati, del tasso di interesse medio delle transazioni finanziarie in euro tra le principali banche europee, calcolato sulla base di rilevazioni oneste, ma degli inciuci tra il personale di alcune di esse. Che è esattamente quanto la normativa antitrust intende vietare. In tale contesto per arrivare alla disattivazione dell'Euribor, almeno relativamente agli anni in cui ne è stata accertata la manipolazione, può forse essere addirittura superfluo indagare se i finanziamenti in questione siano o meno qualificabili come contratti a valle, opzione che presuppone la scelta, a monte, tra una ricostruzione che esiga, a questi fini, una componente volontaristica (la consapevolezza, nello specifico, dell'intesa o della pratica anticoncorrenziale e la volontà di avvalersene) e quella secondo cui, invece, ben se ne possa prescindere, rilevante essendo il solo fatto oggettivo del recepimento, nel contratto stipulato dall'utente finale, del dato inquinato. Quel che viene meno, infatti, è solo il meccanismo approntato dalle parti per fissare, in un regime di tasso variabile, il costo del finanziamento, e quindi l'oggetto del contratto. Per il che, in linea, sul punto, con le suggestioni offerte da Cass. 3 maggio 2024 n. 12007, allorché evoca “i rimedi negoziali dell'ordinamento interno”, ben potrebbe esplorarsi la pista della determinazione dello stesso a opera del giudice, sull'abbrivio del disposto dell'art. 1349 c. 1 c.c. che la prevede ove manchi o sia manifestamente iniqua o erronea la determinazione della prestazione rimessa a un terzo. Né sarebbe implausibile, in tale prospettiva, che il decidente, chiamato a fissare un elemento del contratto, si avvalga dei criteri stabiliti dall'art. 117 TUB per i casi di nullità delle clausole relative agli interessi. 4.2 Si è sin qui ragionato della sola tutela reale, quella che, declinata in chiave di nullità tout court della pattuizione relativa agli interessi – in applicazione a valle della nullità delle intese distorsive della concorrenza, o dei principi generali dell'ordinamento, qui non interessa – è allo stato maggiormente controversa in dottrina e in giurisprudenza. Fuori discussione è invece la praticabilità dell'azione risarcitoria nei confronti della controparte che colpevolmente si sia avvalsa della manipolazione e/o dei soggetti direttamente responsabili della stessa, sub specie, questa volta, di tutela esterna del credito. E tuttavia non sembra condivisibile il regime degli oneri probatori delineato nell'arresto di Cass. 3 maggio 2024 n. 12007, peraltro condiviso da pur autorevole dottrina (G. Guizzi, op. citata). E invero, ragionando sia con riferimento alla validità e alla efficacia delle clausole contrattuali contenenti il richiamo all'Euribor, sia all'azione risarcitoria – in un contesto in cui viene comunque riconosciuta natura di prova privilegiata di un'intesa illecita alle decisioni della Commissione Europea del 2013 e del 2016 – gli ermellini hanno posto a carico di chi alleghi la invalidità della clausola o agisca in via risarcitoria, l'onere di dare la prova, “non solo dell'esistenza di una intesa o di una pratica volta ad alterare il parametro in questione, ma anche del fatto che tale intesa o pratica abbia raggiunto il suo obbiettivo”, con l'avvertenza che “l'accertamento … deve essere compiuto non in astratto e in generale, ma caso per caso e in relazione al tempo in cui le pratiche illecite hanno avuto un effettivo riflesso sul mercato di riferimento del contratto”, valutando” dunque: “a) se le pratiche manipolative anticoncorrenziali poste in essere dal cartello … abbiano alterato effettivamente l'Euribor e non siano rimaste a livello di mero tentativo… ; b) se e per quanto tempo e in quale misura tale alterazione abbia inciso in modo significativo sulla determinazione del tasso di interesse previsto dalle parti nel singolo contratto; c) quali siano le conseguenze della eventuale nullità parziale delle relative clausole sul complessivo assetto negoziale e sulla possibilità di una sostituzione automatica – e in quali termini – con previsioni minimali di legge”. 4.3 In verità, malgrado l'autorevolezza degli autori di tali affermazioni, sembra alla scrivente più in linea con la riconosciuta natura di prova privilegiata alle decisioni della Commissione UE nonché con il generale criterio della vicinanza della prova, addossare all'istituto creditizio convenuto l'onere di provare la sostanziale genuinità dei dati trasmessi ai fini della determinazione dell'Euribor o comunque l'insignificanza della loro alterazione, malgrado le intese distorsive. E invero, se quegli accertamenti hanno natura di prova privilegiata, essi dovrebbero quanto meno importare una inversione dell'onere della prova sulla non incidenza, in senso penalizzante per l'utente finale, delle condotte anticoncorrenziali: soluzione adombrata dallo stesso Procuratore generale nella sua requisitoria scritta, allorché evoca il ricorso, da parte del giudice, a “presunzioni probabilistiche che si fondino sul rapporto di sequenza costante tra antecedente e dato conseguenziale”. Andare di contrario avviso, significa peraltro addossare al deducente una prova diabolica, posto che gli viene chiesto in sostanza di ricostruire l'assetto che avrebbe avuto l'Euribor in assenza di manipolazione, e cioè, si badi bene, dei tassi che un'ipotetica banca primaria avrebbe applicato per i depositi a termine in euro a un'altra banca primaria, secondo le previsioni degli addetti degli istituti facenti parte del panel. 5. Conclusioni Sulla questione, è evidente, dovranno prima o poi metterci la faccia le sezioni unite. Non a caso il Procuratore generale, nella menzionata requisitoria, aveva già chiesto, a questi fini, la rimessione della causa al Primo Presidente. Si tratterà anzitutto di stabilire cosa debba intendersi per “contratto a valle”: se una tipologia negoziale che consapevolmente e volutamente applichi e attui l'intesa o la pratica, poi rivelatasi contra ius, o un accordo che si limiti a recepirne il risultato, senza che neppure sia necessario indagare lo stato psicologico dei contraenti. Il collegio del 2023 ha evidentemente deciso sull'abbrivio delle suggestioni indotte dalla perentorietà del disposto dell'ultimo comma dell'art. 2 L. 287/1990, “Le intese vietate sono nulle ad ogni effetto”. E non è detto che non ci abbia azzeccato. Neppure può negarsi tuttavia che le critiche a tale approccio hanno dalla loro un rigore ermeneutico di tutto rispetto. Nella medesima prospettiva sarà necessario stabilire – con un'operazione interpretativa passibile di ricadute anche al di là del caso ora dedotto in giudizio – se, ai fini dell'allineamento agli accertamenti delle autorità sovranazionali, debba tenersi conto dello scopo dell'accordo o della pratica oggetto del loro scrutinio, o se invece ci si possa e ci si debba limitare all'accordo o alla pratica in sé, alle sue modalità e ai suoi risultati, in tesi illeciti, a prescindere dal fine perseguito dagli autori di quell'accordo e di quella pratica. Sarà poi necessario esplorare la percorribilità di possibili strade alternative, rispetto alla secca applicazione della normativa antitrust, per dare soddisfazione alla parte lesa da un contratto in cui sia inserito un indice che risulti inquinato da manipolazioni anticoncorrenziali. E in proposito non è superfluo ricordare che autorevoli studiosi hanno mostrato apprezzamento per il rebalancing rule – la riconduzione ad equità del contenuto del contratto – individuato come rimedio ottimale per i contratti incisi da violazioni della normativa antitrust (M. Libertini, Gli effetti delle intese restrittive della concorrenza sui c.d. contratti a valle. Un commento sullo stato della giurisprudenza in Italia, in Nuova giur. comm. 2020, 378 e segg.; G. Guizzi, op. cit.). Infine si tratterà di fare chiarezza sugli oneri probatori spettanti a chi agisca in giudizio chiedendo la tutela reale e/o risarcitoria a fronte di una pratica anticoncorrenziale. È dunque ragionevole attendere un intervento chiarificatore delle sezioni unite. Nella speranza che questa attesa non si risolva in quella di Godot. |