Il socio può impugnare il contratto concluso dalla società che costituisce atto abnorme dell’amministratore

15 Luglio 2024

La Cassazione fornisce chiarimenti in merito alla legittimazione ad agire dei soci, per la declaratoria di nullità di un contratto di cessione d’azienda concluso dagli amministratori di una società in accomandita semplice.

Massima

Il socio non è legittimato a contestare la validità di atti a rilevanza esterna compiuti dalla società attraverso il proprio organo amministrativo, salvo che l'impugnazione non sia diretta a neutralizzare gli effetti che tali atti producono sull'operatività stessa della società, ovvero sulla possibilità di continuare a operare per il raggiungimento del proprio oggetto sociale.

Il caso

L'amministratore di una società in accomandita semplice concludeva un contratto con cui trasferiva a un soggetto terzo l'intera azienda di cui era proprietaria la società.

I soci accomandanti agivano in giudizio affinché fosse dichiarata la nullità del contratto, con conseguente condanna del cessionario alla restituzione dell'azienda.

Il Tribunale di Milano accoglieva la domanda, con sentenza confermata all'esito del giudizio d'appello.

Avverso la sentenza di secondo grado veniva proposto ricorso per cassazione, con cui veniva contestata la ravvisata legittimazione dei soci accomandanti a impugnare il contratto di cessione d'azienda.

Le questioni giuridiche e la soluzione

Con l'ordinanza che si annota, la Corte di cassazione ha confermato la correttezza della statuizione resa dalla Corte d'appello di Milano in punto di legittimazione dei soci ad agire per la declaratoria di nullità del contratto di cessione d'azienda concluso dalla società.

I passaggi principali nei quali si articola la pronuncia sono i seguenti: 1) il socio è legittimato a fare valere i vizi relativi ad atti che hanno rilevanza interna alla società, mentre analoga legittimazione non sussiste in relazione a quelli a rilevanza esterna posti in essere dall'organo amministrativo; 2) la competenza a stabilire le condizioni per il funzionamento della società appartiene, tuttavia, ai soci; 3) pertanto, deve riconoscersi la legittimazione del socio a contestare la validità dell'atto a rilevanza esterna per gli effetti che produce sull'operatività stessa della società, ossia perché impedisce a quest'ultima di continuare a operare per il raggiungimento del proprio oggetto sociale.

Osservazioni

Con un'interessante pronuncia, la Corte di cassazione afferma un principio, per certi versi, dirompente e, nel contempo, ne delimita l'ambito di operatività, per armonizzarlo con le regole fondamentali dettate in materia di società.

È nota, infatti, la distinzione di ruoli e di prerogative che, soprattutto nelle società di capitali, caratterizza, rispettivamente, i soci (che, per effetto dei conferimenti, sono proprietari pro quota della società e sono titolari di diritti partecipativi – quale quello alla formazione delle decisioni inerenti alla vita della società e alla ripartizione degli utili – e di controllo) e gli amministratori (ai quali è affidata la gestione operativa della società).

Allo stesso modo, sono note le regole alle quali dev'essere informato l'agire dell'amministratore di società, che deve adempiere i propri doveri con la diligenza richiesta dalla natura dell'incarico e dalle sue specifiche competenze, nonché dalle dimensioni, dall'oggetto sociale e dalla struttura proprietaria e organizzativa della società, destinando i mezzi conferiti dai soci o acquisiti presso terzi a un risultato positivo, frutto di un'accorta organizzazione gestionale volta alla realizzazione dell'interesse sociale. Per effetto della cosiddetta business judgement rule, peraltro, le scelte di carattere gestorio, essendo a esclusivo appannaggio degli amministratori della società, non possono essere sindacate ovvero contestate nel merito, se assunte in buona fede e in base a un processo razionale, né dai soci, né dai creditori sociali, né dagli organi giurisdizionali, dal momento che chiunque pretenda di giudicare gli atti o i fatti compiuti dagli amministratori nell'esercizio del loro ufficio sovrapporrebbe ex post il proprio apprezzamento a quello dell'organo gestorio, sulla base di criteri di opportunità e di convenienza del tutto soggettivi.

È proprio nell'ambito di queste coordinate di riferimento che la Corte di cassazione, con l'ordinanza annotata, giunge ad affermare che, a determinate condizioni, al socio può essere riconosciuta la legittimazione a impugnare atti tipicamente riservati all'organo amministrativo, quali i contratti conclusi – suo tramite – dalla società, per farne valere quella che i giudici di legittimità definiscono “abnormità”.

In linea generale, infatti, la posizione del socio è valorizzata all'interno dell'ente, per le ripercussioni che il valore della quota di cui è titolare – per effetto del conferimento – subisce in conseguenza delle decisioni assunte dall'organo gestorio nei rapporti con i terzi, ovvero nello svolgimento dell'attività sociale.

In questo senso, sempre in linea generale e ferma restando l'operatività della business judgement rule alla quale si è accennato in precedenza, il socio può contestare la responsabilità dell'amministratore che abbia compiuto atti dannosi per la società che si riflettono sulla sua quota, ma, almeno di norma, non è legittimato ad agire per farne valere l'invalidità quanto ai profili di rilevanza esterna, ossia in relazione agli effetti che si producono in capo alla società e ai soggetti terzi che li vedono coinvolti.

In altre parole, mentre il socio ha piena legittimazione a fare valere eventuali vizi che inficino la validità di atti endosocietari, analoga legittimazione non sussiste con riguardo agli atti posti in essere dall'organo amministrativo della società con i terzi, potendo il socio solo contestare agli amministratori l'inadempimento del mandato ricevuto, quando abbia a subire effetti pregiudizievoli sulla valorizzazione della propria quota per effetto dell'eventuale invalidità o illiceità degli atti di gestione a carattere negoziale dagli stessi compiuti in nome e per conto della società con i terzi.

Se questa è la regola generale, i giudici di legittimità precisano che la sua applicazione postula che l'atto di gestione sia posto in essere dall'amministratore avvalendosi dei poteri che la legge e lo statuto gli attribuiscono al fine di conseguire l'oggetto sociale.

Quando, tuttavia, la contestazione del socio attinga un atto che tracimi addirittura nell'abnormità, perché, attraverso di esso, la società è stata messa nelle condizioni di non potere più continuare a operare per il raggiungimento del proprio oggetto sociale (com'era avvenuto nel caso di specie, in cui il socio accomandatario aveva alienato a terzi l'intera azienda, facendo sì che la società venisse a versare, di fatto, in una situazione di totale inattività e in una conseguente condizione giuridica di scioglimento), occorre adottare un altro approccio.

Va rammentato, infatti, che appartiene in via esclusiva ai soci la competenza ad assumere le decisioni inerenti alla vita della società e alle condizioni per il suo funzionamento; competenza che non può essere né delegata dal socio ad altri, né esercitata da altri organi al di fuori di qualsiasi autorizzazione, verificandosi altrimenti un esercizio abusivo della funzione che non può essere tollerato dall'ordinamento.

Di conseguenza, nel momento in cui l'invalidità di un atto gestorio a rilevanza esterna compiuto dall'amministratore venga dedotta dal socio per gli effetti immediati e diretti che esso produce sull'operatività della società, la contestazione impinge, in realtà, la sua stessa qualificazione e, in quanto sia funzionale a fare valere la violazione del perimetro delle attribuzioni delle competenze attribuite ai diversi organi societari, deve reputarsi ammissibile: così, nella fattispecie esaminata dai giudici di legittimità, i soci accomandanti, adducendo la nullità del contratto di cessione d'azienda concluso dal socio accomandatario, avevano inteso far emergere la condizione di scioglimento – derivante dalla situazione di completa inattività derivante dalla cessione dell'intera e unica azienda – in cui era venuta a trovarsi la società in conseguenza della decisione assunta da un solo socio (che assommava in sé anche la funzione di amministratore), senza che fosse stata deliberata dagli altri.

Quando, dunque, l'impugnazione della validità del contratto nei suoi rapporti con i terzi stipulanti sia direttamente collegata alla ricaduta endosocietaria che la scelta gestionale di concludere il negozio ha avuto in relazione alla prosecuzione dell'attività della società e sia dunque finalizzata a contestare la connessa violazione del riparto di competenze tra gli organi della società medesima, non può negarsi la legittimazione del socio a proporla, dal momento che, in questo modo, egli rivendica l'essenzialità delle attribuzioni spettantigli all'interno della società.

In definitiva, l'impugnazione da parte del socio del contratto concluso dalla società è da considerarsi ammissibile quando è funzionale non solo a fare valere i profili di responsabilità addebitabili all'amministratore, ma prima ancora a consentire di neutralizzare gli effetti che l'invasione da parte sua delle competenze altrui ha prodotto all'interno della società: così, nel caso di specie, poiché la declaratoria di nullità del contratto di cessione d'azienda era stata invocata al fine di consentire di recuperare al patrimonio della società, in virtù degli effetti che discendono dalla relativa pronuncia ai sensi dell'art. 2033 c.c., i beni necessari per garantirne l'operatività e, in questo modo, ricostituire le condizioni giuridiche ed economiche indispensabili per il suo mantenimento in vita, i soci dovevano considerarsi pienamente legittimati a proporre l'azione, diretta a evitare che l'atto abnorme compiuto dall'amministratore si traducesse, di fatto, in un'indebita espropriazione delle loro funzioni e delle loro quote.

Conclusioni

La Corte di cassazione, con l'ordinanza annotata, amplia il novero dei poteri riconosciuti ai soci nei confronti degli atti compiuti dagli amministratori, attraverso un coordinamento delle regole che disciplinano le competenze e le funzioni attribuite agli organi societari.

Così, se l'impugnazione di un contratto concluso dalla società rappresenta lo strumento attraverso il quale viene veicolata l'illegittima invasione da parte dell'amministratore di attribuzioni riservate ai soci (nella fattispecie concreta, era stata dedotta la nullità di un contratto di cessione di azienda attraverso il quale la società era stata, di fatto, svuotata, al punto da non potere più svolgere alcuna attività), non vi è motivo di escludere la loro legittimazione a farla valere.

Per meglio comprendere il principio evincibile dalla pronuncia, occorre effettuare alcune precisazioni.

La legittimazione del socio a impugnare un contratto concluso dalla società può sussistere in quanto ne venga addotta la nullità, che, a differenza delle altre cause d'invalidità o d'inefficacia, può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse e non solo da uno dei contraenti (quindi, quantomeno potenzialmente, anche dal socio, che pure non è parte del negozio): la sussistenza della nullità, nel caso di specie, è stata ravvisata in ragione del difetto di causa in concreto che caratterizzava il contratto di cessione d'azienda, in conseguenza del totale svuotamento della società derivante dalla cessione di tutti i beni aziendali, determinante uno stato di sostanziale inattività e di formale liquidazione, tale da far emergere l'abnormità dell'atto gestorio compiuto dall'amministratore, che, di fatto, aveva determinato lo stato di liquidazione della società in assenza di qualsiasi deliberazione da parte dei soci.

L'azione di nullità, al pari di ogni altra, dev'essere inoltre sorretta da un interesse giuridicamente rilevante, ravvisabile, nel caso di specie, nella possibilità di chiedere e ottenere, ai sensi dell'art. 2033 c.c., la restituzione dell'azienda ceduta, quale conseguenza della declaratoria di invalidità del contratto; in altre parole, quest'ultima presuppone che si produca un effetto rilevante nella sfera giuridica dell'istante, ossia un risultato giuridicamente apprezzabile, tant'è vero che, in accoglimento dei ricorsi incidentali proposti di soci impugnanti, la Corte di cassazione ha cassato la sentenza della Corte d'appello di Milano, nella parte in cui non aveva accolto l'istanza restitutoria pure formulata con la domanda di nullità.

È evidente, pertanto, che, facendo corretta interpretazione e applicazione dei principi affermati dalla Corte di cassazione, se, a fronte di un atto illegittimo o financo abnorme dell'amministratore, non dovesse ricorrere anche una sola delle suddette condizioni, l'impugnabilità del contratto da parte del socio non potrebbe dirsi affatto scontata.

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