Anche il convivente di fatto fa parte dell’impresa familiare
26 Agosto 2024
Massima L'art. 230-bis, comma 3, c.c. è costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede come familiare anche il «convivente di fatto» e come impresa familiare quella cui collabora anche il «convivente di fatto»; in via consequenziale, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), è costituzionalmente illegittimo anche l'art. 230-ter c.c., che attribuisce al convivente di fatto una tutela dimidiata dal mancato riconoscimento del lavoro «nella famiglia», del diritto al mantenimento, del diritto di prelazione nonché dei diritti partecipativi, e quindi significativamente più ridotta rispetto a quella prevista per il familiare dall'art. 230-bis c.c. Il caso La questione ha ad oggetto la domanda proposta dalla convivente del de cuius, nei confronti dei figli di quest'ultimo, innanzi al Tribunale ordinario, in funzione di giudice del lavoro, avente ad oggetto l'accertamento dell'esistenza di una impresa familiare e di condanna alla liquidazione della quota spettantele in qualità di partecipante all'impresa. Deduceva la ricorrente di aver prestato attività lavorativa in modo continuativo nell'azienda del convivente dal 2004 (anno di iscrizione del registro delle imprese) fino al 2012. Il Tribunale adito rigettava la domanda, rilevando che il convivente di fatto non poteva essere considerato «familiare» ai sensi dell'art. 230-bis, comma 3, c.c. La Corte d'appello confermava il rigetto sull'identico presupposto, escludendo, altresì, l'applicabilità dell'art. 230-ter c.c., in quanto il rapporto di convivenza era cessato prima dell'entrata in vigore della legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), che, con l'aggiunta del suddetto articolo, aveva in parte esteso ai conviventi la disciplina dell'impresa familiare. Con ricorso per cassazione, la ricorrente denunciava la violazione e falsa applicazione dell'art. 230-bis c.c., in relazione all'art. 360, comma 1, numero 3), del codice di procedura civile, per la mancata considerazione delle mutate sensibilità sociali in materia di convivenza more uxorio, oltre che delle aperture della giurisprudenza sia di legittimità che costituzionale, che avrebbero consentito di applicare la disciplina dell'impresa familiare anche in mancanza di una norma che lo preveda espressamente, in base ad una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 230-bis c.c.; deduceva, inoltre, la violazione degli artt. 230-bis e 230-ter c.c. e dell'art. 11 delle preleggi, dovendosi ammettere una deroga al principio di irretroattività, non presidiato da una norma costituzionale, ove ciò risponda a un criterio di ragionevolezza e di maggior giustizia. La Corte di cassazione, sezione lavoro, con ordinanza interlocutoria, chiedeva l'intervento nomofilattico delle Sezioni unite al fine di chiarire se l'art. 230-bis, comma 3, c.c. potesse essere evolutivamente interpretato nel senso di prevedere l'applicabilità della relativa disciplina anche al convivente more uxorio. Con ordinanza del 18 gennaio 2024 la Corte di cassazione, sezioni unite civili, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2,3, 4, 35 e 36 della Costituzione, all'art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (CDFUE) ed all'art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 12 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU), dell'art. 230-bis, commi 1 e 3, c.c., nella parte in cui non include nel novero dei familiari il convivente more uxorio, e, «in via derivata», dell'art. 230-ter c.c., che «applica al convivente di fatto, che presti stabilmente la propria opera nell'impresa dell'altro convivente, una tutela inferiore rispetto a quella prevista per il familiare». La questione Le Sezioni Unite rimettenti osservano che la rilevanza della questione discende dalla circostanza che, solo all'esito di una dichiarazione d'illegittimità costituzionale della norma dell'art. 230-bis c.c., nella parte in cui non include nel novero dei familiari il convivente more uxorio, si sarebbe potuto accertare, da parte dei giudici di merito, la sussistenza e l'effettività di un'impresa familiare tra l'imprenditore defunto e il convivente di fatto. Non appare infatti criticabile, per le Sezioni unite, la decisione di rigetto dei giudici di merito, in quanto, nell'attuale disciplina, mentre ognuna delle parti dell'unione civile rientra nell'elenco dei familiari di cui all'art. 230-bis, comma 3, c.c., per il convivente stabile, ai sensi dell'art. 230-ter c.c., opera una tutela minore rispetto a quella del familiare, che, per il principio d'irretroattività di cui all'art. 11 delle disposizioni preliminari al codice civile, come già avvenuto per l'art. 230-bis c.c., non può trovare applicazione a situazioni giuridiche definitivamente compiute sotto il regime anteriore alla riforma del 2016; dovendosi, inoltre, escludere un'applicazione estensiva dell'art. 230-bis c.c., costituzionalmente orientata nel senso di un riconoscimento al convivente more uxorio degli stessi diritti previsti per il coniuge, che determinerebbe una distonia sistemica, accordando ex post al convivente, la cui attività nell'impresa familiare fino al 2016 era esclusa dall'alveo applicativo della disposizione, una tutela per i fatti antecedenti al 2016 addirittura superiore a quella poi prevista dal legislatore con la L. n. 76/2016. Per tale ragione, il giudice a quo sollevava questione di legittimità costituzionale dell'art. 230-bis, commi 1 e 3, c.c., nella parte in cui non include il convivente more uxorio nel novero dei familiari che prestano in modo continuativo attività di lavoro nella famiglia o nell'impresa familiare, per contrasto con le seguenti norme: l'art. 2 Cost., che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità; l'art. 3 Cost., per la discriminazione tra soggetti che, in modo continuativo, esplicano la medesima attività lavorativa nell'impresa familiare, fondata sulla (sola) condizione personale (la qualità di coniuge); l'art. 4 Cost., incidendo sullo stretto legame tra il lavoro, che non è fine in sé o mero strumento di guadagno, ma anche strumento di affermazione della personalità del singolo; gli artt. 35 e 36 Cost., lasciando prive della tutela riconosciuta prestazioni lavorative rese nell'ambito di un rapporto di convivenza more uxorio; l'art. 9 CDFUE che riconosce tra le libertà fondamentali il diritto di sposarsi in modo disgiunto rispetto al diritto di fondare una famiglia; l'art. 117, comma 1, Cost, in relazione agli artt. 8 e 12 CEDU, come evolutivamente interpretati dalla giurisprudenza della Corte EDU, nel senso di non limitare la nozione di “famiglia” alle relazioni basate sul matrimonio, ma di estenderla anche ad altri legami “familiari” di fatto; prospettando, infine, l'illegittimità costituzionale derivata dell'art. 230-ter c.c. che, riconoscendo al convivente di fatto che presta stabilmente la propria opera nell'impresa dell'altro convivente il mero diritto a partecipare agli utili, ai beni e agli incrementi, avrebbe applicato allo stesso una tutela patrimoniale inferiore rispetto a quella riconosciuta al familiare dall'art. 230-bis c.c., privandolo di ogni compenso per l'attività lavorativa prestata in caso di mancata produzione di utili. Le soluzioni giuridiche Con la sentenza in commento, la Consulta ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 230-bis, comma 3, c.c., in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 35 e 36 Cost., nella parte in cui non prevede come familiare anche il «convivente di fatto» e come impresa familiare quella cui collabora anche il «convivente di fatto». L'ampliamento della tutela apprestata, per effetto della pronuncia di illegittimità costituzionale dall'art. 230 bis c.c. al convivente di fatto, fa sì che la previsione dell'art. 230-ter c.c. avrebbe oggi il significato, non più di attribuire a quest'ultimo una garanzia prima non prevista, come nell'intendimento del legislatore del 2016, bensì quello di restringere – ingiustificatamente e in modo discriminatorio (in violazione dell'art. 3, comma 1, Cost.) – la più ampia tutela riconosciuta dalla norma precedente, violando, altresì, il diritto fondamentale al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.) e il diritto alla giusta retribuzione (art. 36, primo comma, Cost.). Pertanto, la dichiarazione di illegittimità costituzionale viene estesa in via consequenziale all'art. 230 ter c.c., che attribuisce al convivente di fatto una tutela dimidiata dal mancato riconoscimento del lavoro «nella famiglia», del diritto al mantenimento, del diritto di prelazione nonché dei diritti partecipativi, e quindi significativamente più ridotta rispetto a quella che consegue all'accoglimento della questione sollevata in riferimento all'art. 230-bis c.c. La pronuncia d'illegittimità costituzionale si fonda sul presupposto giuridico dell'impossibilità di procedere ad un'interpretazione costituzionalmente orientata della norma, in quanto dalla legge n. 76 del 2016 si desume l'applicabilità dell'art. 230 bis c.c. alle unioni civili, mentre, con l'introduzione della nuova disposizione dell'art. 230-ter c.c. – che prevede che al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all'interno dell'impresa dell'altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, commisurata al lavoro prestato – si desume a contrario la non applicabilità dell'art. 230-bis c.c. alle convivenze more uxorio. L'esigenza di approntare una speciale tutela del lavoro familiare è stata realizzata, con la legge di riforma del diritto di famiglia del 1975, attraverso l'introduzione dell'art. 230-bis c.c., il quale si estende, con un ampio raggio di applicazione, non solo il coniuge e gli stretti congiunti dell'imprenditore, ma anche tutti i parenti fino al terzo grado e gli affini fino al secondo grado (comma 3); elencazione alla quale devono ritenersi aggiunti, nel 2016, i soggetti legati da unioni civili, ma non il convivente di fatto, per il quale il legislatore ha introdotto una fattispecie dimidiata e non sufficiente di partecipazione all'impresa familiare (art. 230 ter c.c.). Nell'impossibilità di un'interpretazione costituzionalmente orientata delle suddette norme, l'incidente di costituzionalità rappresenta l'unica possibilità per assicurare al lavoro del convivente la stessa protezione di quello del coniuge, non potendo essa essere inferiore a quella riconosciuta finanche all'affine di secondo grado che presti la propria attività lavorativa nell'impresa familiare. Tale esigenza di protezione si riviene per la Corte, odiernamente, in ragione del mutato contesto socio-culturale, anche in capo al convivente more uxorio, per il quale l'affectio maritalis rischia di far ricadere la prestazione lavorativa nell'orbita del lavoro gratuito, smarrendo l'effettività della protezione del suo lavoro che, in termini fattuali, non differisce da quello prestato da chi è legato all'imprenditore da un rapporto di coniugio, parentela o affinità. Dopo l'excursus storico dell'istituto, la Corte Costituzionale individua il fulcro delle sollevate questioni di legittimità costituzionale nella portata della tutela del convivente more uxorio ai sensi dell'art. 2 Cost., che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, qual è, appunto, la convivenza di fatto, la quale esige una tutela che si affianchi a quella che l'art. 29, comma 1, Cost. riserva alla famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio, inteso quale unione tra persone di sesso diverso, è riconducibile all'art. 29 Cost., mentre le convivenze di fatto, al pari delle unioni civili, appartengono alle formazioni sociali di cui all'art. 2 Cost., all'interno delle quali l'individuo afferma e sviluppa la propria personalità. A sostegno, la Consulta evidenzia come vi sia stata, nel tempo, una convergente evoluzione, sia della normativa, sia della giurisprudenza costituzionale, comune ed europea, nel dare piena dignità alla famiglia composta da conviventi di fatto. Viene richiamata la giurisprudenza penale di legittimità, che, nell'estendere al convivente more uxorio il perimetro applicativo della scusante soggettiva di cui all'art. 384, comma 1, c.p. (Cass. pen., sentenza n. 10381/2021), consente di applicare al convivente di fatto disposizioni che, tradizionalmente, facevano esclusivo riferimento alla famiglia fondata sul matrimonio. Nell'ambito europeo, osserva che l'adeguamento dell'ordinamento interno al quadro di progressiva evoluzione dei costumi del nostro paese ha trovato conforto e a volte stimolo nei principi della CEDU (che all'art. 8 riconosce il «Diritto al rispetto della vita privata e familiare») e in quelli della CDFUE (che all'art. 9 riconosce il «Diritto di sposarsi e di costituire una famiglia»); l'interpretazione di tali principi ad opera degli organi giurisdizionali sovranazionali si orienta nel riconoscimento della tutela dei diritti legati alla vita privata e familiare all'unione di due persone in sé, anche se dello stesso sesso, a prescindere dalla celebrazione del matrimonio, purché la stessa sia connotata da stabilità. Pertanto, posto che il modello, secondo la scelta del Costituente, è la famiglia fondata sul matrimonio (art. 29 Cost.), pur nella consapevolezza dell'insopprimibile differenza strutturale tra la condizione del coniuge e quella del convivente more uxorio, quando si tratta di diritti fondamentali la tutela non può che essere la stessa, essendo fondamentale il diritto al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.) e alla giusta retribuzione (art. 36,comma 1, Cost.), che, quando reso nel contesto di un'impresa familiare, richiede uguale protezione sia per il coniuge che per il convivente. Per tutto quanto detto, risulta la violazione, da parte dell'art. 230-bis c.c., del diritto fondamentale al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.) e alla giusta retribuzione (art. 36, comma 1, Cost.), in un contesto di formazione sociale, quale è la famiglia di fatto (art. 2 Cost.), e dell'art. 3 Cost., non per la sua portata eguagliatrice, restando comunque diversificata la condizione del coniuge da quella del convivente, ma per la contraddittorietà logica della esclusione del convivente dalla previsione di una norma posta a tutela del diritto al lavoro che va riconosciuto quale strumento di realizzazione della dignità di ogni persona, sia come singolo che quale componente della comunità, a partire da quella familiare (ancora, art. 2 Cost.). Osservazioni La sentenza della Corte Costituzione del 25 luglio 2024, n. 148, costituisce occasione per ripercorrere alcune importanti questioni in tema d'impresa familiare, come disciplinata dall'art. 230-bis c.c., ai sensi del quale: “Salvo che sia configurabile un diverso rapporto, il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell'impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato. Le decisioni concernenti l'impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell'impresa sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano all'impresa stessa […] Ai fini della disposizione di cui al primo comma si intende come familiare il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo; per impresa familiare quella cui collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo”. A livello civilistico, l'impresa familiare costituisce un istituto del diritto di famiglia, disciplinato dal codice civile (art. 230 bis) nell'ambito del regime patrimoniale della famiglia, nato con riferimento alla piccola impresa e teso a valorizzare l'apporto di ciascun coniuge all'impresa familiare. Trattasi di un istituto avente natura autonoma, di carattere speciale ma non eccezionale, e residuale rispetto ad ogni altro rapporto negoziale eventualmente configurabile tra imprenditore e suoi collaboratori (Cass. n. 11533/2020), ossia giuridicamente riscontrabile solo nel caso in cui l'apporto lavorativo del congiunto all'impresa non rientri in altri archetipi lavorativi, quali il rapporto di lavoro subordinato ovvero di tipo societario, restando l'impresa familiare incompatibile con la disciplina delle società (Cass. S.U. n. 23676/2014). L'impresa familiare, pur nascendo per l'impresa di piccole dimensioni, può costituirsi con riguardo a tutte le attività di impresa, a prescindere dalle loro effettive dimensioni e dalla natura, agricola o commerciale, delle stesse (Cass. n. 4/1987; Cass. n. 262/1986; Cass. n. 3722/1984; T. Milano 23.5.1985). Si dubita della configurabilità dell'impresa familiare con riguardo all'attività non imprenditoriale in senso stretto, ma professionale. La dottrina prevalente ritiene che non sia possibile organizzare in forma imprenditoriale l'attività professionale, che mal si concilierebbe con la disciplina di cui all'art. 230 bis c.c., in special modo per tutte quelle professioni insuscettibili di assumere forma societaria. Quanto alla natura giuridica, parte della dottrina ritiene l'impresa familiare una forma d'impresa collettiva gestita attraverso un'associazione tra imprenditore e familiari ovvero una società di fatto o sui generis. Per la dottrina prevalente essa è pur sempre una impresa individuale, come confermato dal comma 3 dell'art. 230 bis c.c., in cui l'espressione “collaboratore” lascia intendere la distinzione tra colui che è titolare dell'impresa – e, in quanto tale, soggetto a liquidazione giudiziale - e colui che vi svolge mera attività collaborativa. La distinzione è stata accolta dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 34222/2019; Cass. n. 874/2005, Cass. n. 7223/2004), per la quale: “La natura individuale dell'impresa familiare comporta che ne sia titolare soltanto l'imprenditore, in conseguenza la posizione degli altri familiari, che prestano il loro apporto sul piano lavorativo, assume rilevanza esclusivamente nei rapporti interni, restando esclusa la configurabilità di un'ipotesi di litisconsorzio necessario”. Nell'impresa familiare si distingue, pertanto, un profilo esterno, concernente i rapporti dell'imprenditore con i terzi, e un profilo interno di collaborazione tra l'imprenditore e i suoi familiari. Vale a dire che nei rapporti esterni l'impresa familiare è personificata dall'imprenditore individuale, che agisce in modo autonomo e discrezionale, anche in caso di contrasto o di assenza di consenso dei collaboratori familiari, il cui assenso presenta valore meramente interno all'impresa familiare stessa. Dopo un iniziale contrasto, la giurisprudenza di legittimità si è consolidata nel configurare l'impresa familiare solo qualora il titolare dell'impresa sia un imprenditore individuale, escludendo quindi l'applicazione dell'art. 230 bis c.c. a vantaggio del familiare che presti la propria opera nell'ambito dell'impresa gestita in forma societaria (Cass. S.U. n. 23676/2014). L'assunto è confermato dalla Corte Costituzione nella sentenza in commento, per la quale, secondo il diritto vivente, l'impresa familiare non costituisce una modalità di gestione collettiva dell'impresa, bensì una forma di collaborazione all'interno di essa e la norma di cui all'art. 230 bis c.c. disciplina unicamente il rapporto che si instaura tra soggetti – il familiare (o i familiari) e l'imprenditore – per effetto dello svolgimento della prestazione di lavoro, senza con ciò interferire sull'imputazione dell'attività d'impresa, di cui resta titolare l'imprenditore che è l'unico soggetto ad agire sul piano dei rapporti esterni, assumendo il rischio inerente all'esercizio dell'impresa. Relativamente alla sua costituzione, per la teoria contrattualistica la fonte del rapporto dell'impresa familiare dovrebbe essere sempre un contratto, concludentesi anche in forma tacita e non solo espressa. Prevale in dottrina la teoria del fatto giuridico, secondo cui l'impresa familiare nascerebbe dal fatto giuridico rilevante della collaborazione dei familiari all'impresa individuale. L'accoglimento di una tesi piuttosto dell'altra presenta rilevanti ripercussioni di ordine pratico relative alla redazione dell'atto costitutivo dell'impresa, in quanto, affermare che essa nasca dall'esercizio di fatto di una collaborazione familiare comporta l'adesione alla natura dichiarativa dell'atto con cui le parti, dinanzi ad un pubblico ufficiale, confermano la sussistenza tra loro di un'impresa familiare già di fatto costituita. Recente giurisprudenza di merito (Tribunale di Parma, sez. I, 30 maggio 2022 n. 205) avvalora tale impostazione, riconoscendo che l'impresa familiare non nasce da un contratto, ma si costituisce in base al fatto giuridico della collaborazione dei familiari all'impresa: “tale applicazione origina da circostanze di fatto, senza necessità di dichiarazione di tipo negoziale al riguardo” (Cass. n. 2060/1995). Ne consegue che la formalizzazione dell'impresa familiare rappresenta un mero atto dichiarativo dell'esistenza di un'impresa familiare già di fatto costituitasi per effetto della collaborazione instauratasi tra l'imprenditore e suoi familiari. L'istituto presenta, inoltre, rilevante valenza fiscale, in quanto l'art. 5 d.p.r. 917/1986 al comma 4 prevede che “I redditi delle imprese familiari di cui all'articolo 230 bis del codice civile, limitatamente al 49 per cento dell'ammontare risultante dalla dichiarazione dei redditi dell'imprenditore, sono imputati a ciascun familiare, che abbia prestato in modo continuativo e prevalente la sua attività di lavoro nell'impresa, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili…”. Appare, infatti, evidente che la distribuzione del reddito tra più soggetti comporti indubbi vantaggi fiscali, costituendo l'imposta sul reddito un'aliquota di tipo proporzionale. L'impresa familiare presuppone, quindi, per la sua configurabilità: a) l'esistenza di una impresa individuale ; b) la prestazione lavorativa svolta nell'interesse dell'impresa medesima dal familiare, con carattere di continuità, ossia con costanza e regolarità, ma non necessariamente esclusiva; c) in alternativa, la prestazione di lavoro nella famiglia, ma senza che possa assumere rilevanza la mera attività domestica, essendo sempre necessario un collegamento causale e funzionale con l'attività di impresa. In forza della previsione di cui all'art. 230 bis c.c., il familiare che presta la propria attività di lavoro, in modo continuativo nella famiglia o nell'impresa familiare, cioè a favore di un imprenditore a lui legato da vincolo di coniugio, parentela entro il terzo grado o affinità entro il secondo, gode di una complessiva posizione partecipativa che consta sia di diritti patrimoniali che di diritti amministrativo-gestori. Sotto il profilo economico, il familiare ha innanzitutto diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e, in caso di buon andamento dell'attività d'impresa, ha diritto ad una quota di utili e di incrementi, anche in ordine all'avviamento, proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato, e partecipa, sempre in detta proporzione, ai beni acquistati con gli utili. Le decisioni concernenti l'impiego degli utili e degli incrementi, nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell'impresa sono adottate a maggioranza, così garantendo al familiare un trattamento diverso rispetto a quello normalmente riservato ad un lavoratore subordinato in ragione del particolare vincolo di solidarietà familiare che lega i partecipanti all'impresa. Rilevante per la comprensione della sentenza in commento appare l'individuazione della ratio sottesa all'istituto. Guardando alla genesi storica dell'istituto, l'art. 230 bis c.c. è stato introdotto, quale regime patrimoniale secondario, nell'ambito del Regime patrimoniale della famiglia, dall'art. 89 l. 19 maggio 1975, n. 151 (c.d. Riforma del diritto di famiglia), in sostituzione dell'abrogata comunione tacita familiare (art. 2140 c.c.), allo scopo di tutelare, in ragione del clima culturale e politico dell'epoca, la posizione di coloro che contribuivano attivamente nell'ambito dell'impresa e della famiglia, in particolare il lavoro casalingo della donna all'interno della famiglia. Appare evidente, al tempo della sua introduzione, l'equiparazione ideologica e funzionale dell'impresa familiare all'istituto della comunione legale, entrambe adagiate sul dogma della famiglia fondata sul matrimonio e dell'uguaglianza dei coniugi, diretto a consentire che, a prescindere dall'apporto economico di ciascun coniuge, i beni acquistati da ciascuno di essi cadano in comunione perché presumibilmente acquistati con il frutto e il lavoro di entrambi, anche di tipo casalingo. Proprio con riguardo al valore e ai limiti di rilevanza del lavoro casalingo all'interno dell'impresa familiare si è aperto, all'indomani dell'introduzione della norma, un vivace dibattito sul concetto di “collaborazione” prestato dal coniuge “nella famiglia o nell'impresa famigliare” ed un primo scostamento dalla ratio della comunione legale. Secondo un primo orientamento, rientrerebbe nel concetto di collaborazione all'impresa anche il mero lavoro casalingo del coniuge (Cass. n. 5741/1991); secondo un'altra interpretazione, invece, il lavoro casalingo del coniuge assumerebbe rilevanza come collaborazione d'impresa solo ove si presenti di tipo continuativo e funzionalmente collegato all'attività d'impresa che, in ragione di esso, ne risulta direttamente avvantaggiata (Cass. S.U. n. 89/1995). Il dibattito è stato risolto dalle Sezioni Unite della Cassazione, per le quali il lavoro casalingo aveva già ottenuto, all'indomani della riforma, un duplice riconoscimento, sia personale, sul piano dei doveri di collaborazione tra coniugi, che patrimoniale, mediante la scelta della comunione dei beni come regime patrimoniale legale tra coniugi, di guisa che, per configurarsi collaborazione all'impresa familiare del coniuge, occorre quel quid pluris rappresentato dal collegamento tra l'apporto lavorativo e l'accrescimento della produttività dell'impresa. In modo conforme, la Corte Costituzionale afferma che, quanto alla possibilità di fruire della tutela ex art. 230 bis c.c. anche per il familiare che presta la propria attività all'interno della famiglia, appare necessario che il lavoro domestico risulti strettamente correlato e finalizzato alla gestione dell'impresa familiare, quale espressione di coordinamento e frazionamento dei compiti nell'ambito del consorzio domestico, in vista dell'attuazione dei fini di produzione o di scambio dei beni o servizi proprio della stessa (Cass. n. 1525/1997). Nella medesima ottica di diversificazione dell'istituto si osserva che, pur essendo inserito nel Capo dedicato ai rapporti patrimoniali tra coniugi, l'art. 230 bis c.c. non disciplina la sola attività lavorativa del coniuge, ma anche quella dei parenti entro il terzo grado e degli affini entro il secondo, e, inoltre, non avendo la riforma della filiazione (d.lgs. n. 154/2013) modificato il testo della norma, in dottrina si ritiene che l'impresa familiare possa essere costituita anche a prescindere dalla presenza del coniuge, con i soli parenti entro il terzo grado e affini entro il secondo, che fossero tali in virtù di rapporti di filiazione naturale. La questione relativa all'applicabilità dell'art. 230 bis c.c. al convivente di fatto non è nuova, avendo la giurisprudenza, già in passato, talvolta, scelto la soluzione affermativa (Cass. n. 5632/2006), talaltra, e in modo prevalente (Cass. n. 22405/2004; Cass. n. 4204/1994), negato tale possibilità, sul presupposto che la famiglia legittima, e non la mera convivenza, fosse alla base dell'istituto. L'introduzione dell'art. 230 ter c.c., ad opera della legge n. 76 del 2016, risolve solo apparentemente il problema, in quanto il legislatore, inserendo tale previsione, ha riconosciuto una tutela nuova nel caso di impresa familiare alla quale partecipi un convivente di fatto, sul ritenuto presupposto, implicito ma inequivocabile, che prima non fosse prevista e che, quindi, l'art. 230 bis c.c. non potesse applicarsi estensivamente al convivente di fatto. Il Legislatore ha, quindi, introdotto una nuova, autonoma e specifica disciplina, pur di portata minore rispetto a quella dell'art. 230 bis c.c., operante solo per il futuro e con efficacia non retroattiva. Il comma 36 dell'art. 1 della suddetta legge definisce conviventi di fatto «due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità, adozione, da matrimonio o da un'unione civile». Poiché la convivenza di fatto implica un “legame affettivo di coppia”, non vi rientra la convivenza, ancorché stabile, meramente amicale, di sostegno o di compagnia. Il comma 37 aggiunge poi che, ferma restando la sussistenza dei presupposti di cui al comma 36, ai fini dell'accertamento della stabile convivenza, occorre fare riferimento alla dichiarazione anagrafica di cui all'art. 4 e alla lettera b) del comma 1 dell'art. 13 del d.p.r. 30 maggio 1989, n. 223 (Approvazione del nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente), che crea una presunzione di stabilità del vincolo affettivo di coppia e agevola, sul piano probatorio, il riconoscimento dei diritti in favore dei conviventi di fatto. Il comma 13 dell'articolo unico della legge – che prevede il regime patrimoniale dell'unione civile tra persone dello stesso sesso – prescrive espressamente che si applichino le disposizioni di cui alle Sezioni II, III, IV, V e VI del Capo VI del Titolo VI del libro primo del codice civile. Da ciò si desume l'applicabilità dell'art. 230 bis c.c. alle unioni civili, con conseguente ampliamento del catalogo del suo terzo comma nella parte in cui definisce come familiare il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo. Il comma 46 dello stesso articolo unico introduce l'art. 230 ter c.c., che attribuisce al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all'interno dell'impresa dell'altro convivente una tutela limitata a taluni, circoscritti, aspetti, quali «una partecipazione agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento». L'espresso riferimento al lavoro prestato «all'interno dell'impresa dell'altro convivente» lascia fuori dal perimetro delle tutele il lavoro «nella famiglia»; al convivente non spetta il diritto al mantenimento ma solo una partecipazione basata sui risultati economici dell'impresa commisurata sul «lavoro prestato» e poiché gli utili e gli incrementi potrebbero anche mancare in caso di risultati negativi dell'azienda, la sua tutela economica resta meramente eventuale. Manca la previsione di un diritto di prelazione per il caso di divisione ereditaria o cessione dell'impresa familiare e non viene riconosciuto alcun diritto partecipativo, con la conseguenza che il convivente, pur collaborando unitamente ad altri familiari dell'imprenditore, deve attenersi alle decisioni gestionali e sugli indirizzi produttivi adottate dagli altri componenti, anche in ordine alla eventuale partecipazione agli utili a cui avrebbe diritto; viene, invece, confermato il carattere residuale della tutela, con la precisazione che il diritto di partecipazione non spetta nei soli casi di esistenza di un rapporto di società o di lavoro subordinato Da quest'ultima disposizione, in particolare, si desume a contrario la non applicabilità della norma dell'art. 230 bis c.c. alle convivenze more uxorio, con preclusione di ogni interpretazione costituzionalmente conforme e adeguatrice della stessa, per la quale è possibile sollevare l'incidente di costituzionalità. Presupposto della dichiarazione d'illegittimità costituzionale della norma è la mutata ratio dell'istituto, come tratteggiata sia dalle Sezioni Uniti remittenti che dalla Corte Costituzionale, le quali, pur nella consapevolezza dell'insopprimibile differenza strutturale tra la condizione del coniuge e quella del convivente more uxorio, individuano la ragione giustificatrice dell'istituto dell'impresa familiare nel rifiuto della presunta gratuità della prestazione lavorativa resa nell'ambito di una certa relazione sociale, di vita, di affetti e di solidarietà, da trasferirsi a rapporti, diversi da quello di coniugio, nei quali si ravvisino caratteri analoghi. Ponendo a fondamento della tutela enucleata dall'art. 230 bis c.c., non più il concetto di famiglia legittima, ma la prestazione continuativa del familiare all'interno di un progetto lavorativo comune al gruppo, fulcro della disciplina di tutela divengono i valori costituzionali di dignità, libertà e uguaglianza della persona che lavora, nei cui confronti, inevitabilmente, retrocede la sostanziale differenza tra posizioni di famiglia legittima e famiglia di fatto. Ne consegue che, se l'art. 230 bis c.c. appare preordinato alla protezione del bene “lavoro” in ogni sua forma, questo bene non muta a seconda del soggetto che lo svolge, per cui, senza dover porre sullo stesso piano coniugio e convivenza more uxorio, si tratterrebbe di riconoscere all'apporto di lavoro del convivente una tutela minima e inderogabile all'interno dell'aggregato familiare. La ratio dell'istituto viene, cioè, traslata, in coerenza con il mutato contesto socioeconomico di riferimento, dalla tutela della famiglia legittima, alla tutela del bene “lavoro”. Per la Consulta, il matrimonio, inteso quale unione tra persone di sesso diverso, è riconducibile all'art. 29 Cost., mentre, le convivenze di fatto, al pari delle unioni civili, appartengono alle formazioni sociali di cui all'art. 2 Cost., all'interno delle quali l'individuo afferma e sviluppa la propria personalità. Le differenze di disciplina, tuttavia, dinanzi a diritti fondamentali, quali il diritto al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.) e alla giusta retribuzione (art. 36, comma 1, Cost.), sono recessive e la tutela non può che essere la stessa per il lavoro svolto dal coniuge o dal convivente nel contesto di un'impresa familiare, in quanto, in entrambe le ipotesi, l'affectio maritalis fa sbiadire l'assoggettamento al potere direttivo dell'imprenditore, tipico del lavoro subordinato, e la prestazione lavorativa rischia di divenire gratuita, smarrendosi l'effettività della protezione del lavoro del convivente che, in termini fattuali, non differisce da quello del lavoro familiare prestato da chi è legato all'imprenditore da un rapporto di coniugio, parentela o affinità. Pertanto, nonostante il dogma della famiglia fondata sul matrimonio trovi smentita nell'esistenza di forme legali di nuclei familiari ricollegabili a precisi atti fondativi ufficiali e nel nuovo riconosciuto ruolo dell'autonomia privata nella sfera dei rapporti personali ed associativi, la differenza tra i due fenomeni (famiglia legittima e famigli di fatto) non può indurre l'interprete all'applicazione analogica e indiscriminata della disciplina della famiglia legittima alla convivenza di fatto, né a ritenere che la conseguente disparità di trattamento tra coniuge legittimo e coniuge di fatto possa condurre ad una generalizzata incostituzionalità della normativa in tema di famiglia legittima, dimenticando il favor dimostrato per essa dal Costituente e la sua istituzionalizzazione. Tuttavia, in una lettura costituzionalmente orientata degli istituti del diritto civile, non può omettersi di considerare che, quando la famiglia non fondata sul matrimonio risponde all'esigenza di sviluppo delle persone che ne fanno parte, essa rappresenta una comunità intermedia meritevole di tutela (art. 2 Cost.), non in sé considerata, ma in funzione dello sviluppo delle persone che ne fanno parte e della tutela dei loro diritti fondamentali. In tal senso, il richiamo effettuato alla violazione dell'art. 3 Cost., “non per la sua portata eguagliatrice”, è teso a superare l'idea di una formale parità tra coniuge legittimo e convivente di fatto in favore di un'eguaglianza di tipo sostanziale, diretta a correggere la disuguaglianza di fatto tra i due soggetti a parità di condizioni, non meritevoli di trattamenti differenziati. Conclusioni La Corte Costituzionale conclude, pertanto, riconoscendo la violazione del diritto fondamentale al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.) e alla giusta retribuzione (art. 36, comma 1, Cost.), in un contesto di formazione sociale, quale è la famiglia di fatto (art. 2 Cost.), nonché dell'art. 3 Cost., «non per la sua portata eguagliatrice, restando comunque diversificata la condizione del coniuge da quella del convivente», ma per la contraddittorietà logica della esclusione del convivente dalla previsione di una norma posta a tutela del diritto al lavoro che va riconosciuto quale strumento di realizzazione della dignità di ogni persona, sia come singolo che quale componente della comunità, a partire da quella familiare (ancora, art. 2 Cost.). La reductio ad legitimitatem della disposizione censurata viene operata inserendo il convivente di fatto dell'imprenditore nell'elenco dei soggetti legittimati a partecipare all'impresa familiare di cui al terzo comma dell'art. 230-bis c.c., e quindi prevedendo come impresa familiare quella cui collabora anche «il convivente di fatto», a cui vanno dunque riconosciute le stesse prerogative patrimoniali e partecipative del coniuge e della persona unita civilmente all'imprenditore. L'ampliamento della tutela apprestata dall'art. 230-bis c.c. al convivente di fatto per effetto della predetta pronuncia d'illegittimità costituzionale va estesa in via consequenziale all'art. 230-ter c.c., che attribuisce al convivente di fatto una tutela dimidiata dal mancato riconoscimento del lavoro «nella famiglia», del diritto al mantenimento, del diritto di prelazione nonché dei diritti partecipativi, e quindi significativamente più ridotta rispetto a quella che consegue all'accoglimento della questione sollevata in riferimento all'art. 230-bis c.c. M. Paladini, L'impresa familiare, in Trattato di diritto di famiglia diretto da G. Bonilini, Milano, 2022. P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale, Napoli, 1991. G. Gabrielli voce “Regime patrimoniale della famiglia”, in Dig. Disc. Priv., Sez. civ., XVI, Torino, 1997. G.A.M. Trimarchi, Il regime patrimoniale della famiglia e l'impresa individuale e collettiva, in Notariato, 2006. F. Corsi, Il regime patrimoniale della famiglia, I. I rapporti patrimoniali tra coniugi in generale. La comunione legale, in Tratt. dir. civ. e comm. diretto da Cicu – Messineo, Milano, 1979. G. Tamburrino, Lineamenti del nuovo diritto di famiglia, Torino, 1978. E. Simonetto, Impresa familiare: dubbi interpretative e lacune normative, in. Dir. soc. 1976. C.M. Bianca, Regimi patrimoniali della famiglia e attività d'impresa, in AA.VV., L'impresa nel nuovo diritto di famiglia, Napoli, 1977. |