Morte del figliastro: il patrigno, convivente con la vittima primaria, ha diritto al risarcimento?

Michele Liguori
02 Settembre 2024

La Suprema Corte si occupa del diritto del patrigno al risarcimento del danno non patrimoniale subito per la morte del figliastro in presenza di convivenza e riafferma alcuni principi pacifici, ma talvolta dimenticati dagli operatori, in tema di onere di allegazione e prova.

Massima

In tema di risarcimento del danno da lesione o perdita del rapporto parentale, in caso di assenza del rapporto di parentela, non è sufficiente l’allegazione della mera convivenza, ma è necessaria l’allegazione della lesione di un legame affettivo.

Inoltre il rapporto di convivenza, pur costituendo elemento probatorio utile a dimostrarne l’ampiezza e la profondità, non assurge a connotato minimo di esistenza di rapporti costanti di reciproco affetto e solidarietà, escludendoli automaticamente in caso di sua mancanza, dovendoci essere comunque un’incidenza sull’intimità della relazione, sul reciproco legame affettivo e sulla pratica della solidarietà.

Il caso

Un detenuto, a causa di forti dolori addominali, viene visitato più volte dai medici in servizio presso la casa circondariale.

Successivamente viene trovato in coma nella sua cella e, trasferito presso un ospedale, subisce un intervento chirurgico e, ciononostante, decede per una grave peritonite in atto.

Viene così instaurato un procedimento penale nei confronti dei medici che hanno avuto in cura il detenuto indagati per il reato di omicidio colposo (art. 590 c.p.) in cooperazione tra loro (art. 113 c.p.). Nel corso del procedimento penale si costituisce come parte civile il patrigno convivente della vittima primaria.

Il Tribunale di Ascoli Piceno, sezione penale, con sentenza del 2 luglio 2007 assolve i medici dai reati loro ascritti, ex art. 530, comma 2, c.p.p.

Il patrigno propone appello ai soli fini civili avverso detta sentenza.

La Corte di Appello di Ancona, sez. pen., con sentenza del 2 ottobre 2014 n. 3052:

  • rigetta l'appello;
  • conferma l'assoluzione dei medici.

Il patrigno propone ricorso ai soli fini civili avverso detta sentenza.

La Suprema Corte di Cassazione, sezione penale, con sentenza Cass. pen., 22 marzo 2016, n. 12238:

  • accoglie il ricorso;
  • annulla l'impugnata sentenza ai soli effetti civili;
  • rinvia la causa al giudice civile competente per valore in grado di appello.

Il patrigno, con atto di citazione in riassunzione ex art. 392 c.p.c. e art. 622 c.p.p., riassume il giudizio in sede civile innanzi alla Corte di Appello di Ancona e chiede il risarcimento del danno non patrimoniale per la perdita del rapporto parentale con il figliastro.

Radicatasi così la lite si sono costituiti:

  • i medici assolti nel giudizio penale che hanno chiesto e ottenuto la chiamata in causa dell'impresa di assicurazione della R.C. professionale;
  • l'impresa di assicurazione.

Tali parti chiedono il rigetto della domanda.

La Corte di Appello di Ancona, con sentenza del 6 luglio 2020 n. 656 - prima di valutare se, contrariamente a quanto assunto dai giudici penali di merito e conformemente a quanto ipotizzato dalla Cassazione penale, vi fosse un nesso di causalità tra la condotta dei sanitari e la morte del paziente - rigetta la domanda ritenendo che il patrigno avesse allegato una mera convivenza, ma non avesse allegato l'esistenza di un legame affettivo, che è necessaria perché la lesione della convivenza produca danno risarcibile.

Il patrigno propone ricorso per cassazione avverso detta sentenza affidato a quattro motivi.

Con il primo motivo lamenta «violazione degli artt. 384, 392, 393 c.p. e 622, 627 c.p.p. nonché art. 112 c.p.c.»: il ricorrente, con tale motivo, lamenta sostanzialmente che i giudici del rinvio abbiano erroneamente ritenuto non provato il legame affettivo tra lui e il figliastro in quanto la prova era in realtà in atti atteso che era stato ammesso a costituirsi parte civile, e questa decisione in sede penale era dimostrazione del fatto che egli era persona danneggiata dal reato e, anzi, su tale questione si era, per ciò stesso, formato giudicato, inoltre v'era agli atti del giudizio penale lo stato di famiglia e, comunque, egli aveva chiesto la prova per testi.

Con il secondo motivo lamenta «violazione dell’art. 101 c.p.c. e degli artt. 24 e 111 Cost.»: il ricorrente con tale motivo lamenta sostanzialmente che i giudici del rinvio abbiano erroneamente fatto applicazione di un principio di diritto, quello sulla diversità del giudizio civile di rinvio da quello penale e sulla necessità che il primo si svolga secondo le regole proprie e, cioè, in autonomia rispetto a quanto accertato in quello penale senza sottoporre la questione al contraddittorio delle parti.

Con il terzo motivo lamenta «violazione dell’art. 185 c.p., nonché art. 116 c.p.c. e art. 2727 c.c.»: il ricorrente con tale motivo lamenta sostanzialmente che i giudici del rinvio abbiano erroneamente ritenuto non provato il legame affettivo tra lui e il figliastro in quanto dai documenti in atti risultava chiaramente come si trattasse di una famiglia di fatto e che non è vero che egli si è limitato a invocare la convivenza, in quanto egli aveva, per contro, allegato l'esistenza proprio di una famiglia di fatto, alla cui dimostrazione ha destinato la richiesta di prova testimoniale.

Con il quarto e ultimo motivo lamenta «violazione dell'art. 92 c.p.c.»: il ricorrente con tale motivo non formula alcuna specifica censura all'impugnata sentenza ma auspica che, in caso di accoglimento del ricorso, venga rivisto il regime delle spese di lite.

Radicatasi così la lite in sede di legittimità i medici resistono con controricorso mentre l'impresa di assicurazione rimane intimata.

La Suprema Corte con la decisione in commento (Cass. civ., sez. III, 15 novembre 2023 n. 31867):

  • rigetta il ricorso (rigetta i primi tre motivi e rileva che il quarto non contiene alcuna censura);
  • condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite
  • rileva, ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, D.P.R. n. 115/2002 - comma inserito dall'art. 1, comma 17, l. n. 228/2012 - della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, D.P.R. n. 115/2002

La questione

Le questioni giuridiche affrontate dal giudice di legittimità sono varie, ma quella oggetto del presente commento è relativa al diritto del patrigno al risarcimento del danno non patrimoniale subito per la morte del figliastro in presenza di convivenza e al conseguente onere del danneggiato di allegazione e prova.

Le soluzioni giuridiche

La Suprema Corte, dopo aver affrontato e risolto alcuni problemi prettamente processuali relativi al secondo motivo, passa a esaminare congiuntamente il primo e il terzo motivo, che attengono alla medesima questione e li ritiene infondati.

La Suprema Corte, in particolare, rileva che:

  • non si tratta tanto (o soltanto) del difetto di prova, ma di un difetto di allegazione e, cioè, del fatto che il ricorrente si è limitato a dichiararsi convivente, ma non ha dedotto la lesione di un legame affettivo ulteriore rispetto alla mera convivenza;
  • non si è formato il giudicato sulla decisione del giudice penale di ammettere il ricorrente a costituirsi parte civile per l'assoluta diversità e autonomia dei giudizi, penale/civile, con la conseguenza che la circostanza che il giudice penale abbia ritenuto il ricorrente danneggiato dal reato non implica alcun vincolo per il giudice civile che, pertanto, è libero di accertare il contrario;
  • il rapporto di convivenza, pur costituendo elemento probatorio utile a dimostrarne l'ampiezza e la profondità, non assurge a connotato minimo di esistenza di rapporti costanti di reciproco affetto e solidarietà così come, di contro, la mancanza di convivenza non li esclude automaticamente;
  • la prova di un unico stato familiare o gruppo familiare, in assenza di rapporto di parentela, non è sufficiente, così come non è sufficiente la mera convivenza;
  • i giudici di merito, a fronte della mancata allegazione del rapporto affettivo, hanno autonomamente raggiunto la convinzione che tale rapporto non vi fosse dalle testimonianze assunte nel processo penale, da cui era dato ricavare che il defunto ragazzo non gradiva tornare a casa o comunque tornare a vivere con il patrigno che lo aveva fatto oggetto di vessazioni.

La Suprema Corte, pertanto, alla luce di tali principi rigetta il ricorso.

Osservazioni

La decisione della Suprema Corte, in relazione al diritto del patrigno al risarcimento del danno non patrimoniale subito per la morte del figliastro in presenza di convivenza, appare senz'altro corretta sia un punto di vista processuale che sostanziale.

Queste le ragioni.

Da un punto di vista processuale in quanto la Suprema Corte ha rilevato il deficit di allegazione del ricorrente.

Tale decisione è perfettamente in linea:

  • con il combinato disposto di cui agli art. 163, comma 2, n. 4, c.p.c. e art. 2697 comma 1, c.c. in base al quale i fatti primari e, cioè, quelli costitutivi del diritto al risarcimento del danno, vanno prima allegati e poi provati, sicché la prova di fatti non allegati è processualmente irrilevante; l'onere di allegazione, del resto, è altresì funzionale all'esplicazione del diritto di difesa, onde consentire di circoscrivere il contenuto dello speculare onere di contestazione e, di conseguenza, di delimitare, nell'ambito dei fatti allegati, quelli da provare;
  • con la giurisprudenza consolidata di legittimità.

È ius receptum, infatti, che:

  • «l'onere di allegazione è concettualmente distinto dall'onere della prova, attenendo il primo alla delimitazione del thema decidendum mentre il secondo, attenendo alla verifica della fondatezza della domanda o dell'eccezione, costituisce per il giudice regola di definizione del processo» (Cass.civ. sez. un. 13 giugno 2019, n. 15895; conf. Cass. civ., sez. VI, 8 luglio 2021, n. 19469; Cass. civ., sez.VI, 4 marzo 2021, n. 6058; Cass. civ., sez. I, 28 febbraio 2020, n. 5610; Cass. civ., sez. I, 28 febbraio 2020, n. 5609; Cass. civ., sez. I, 6 dicembre 2019, n. 31935; Cass. civ., sez. I, 23 luglio 2019, n. 19878);
  • «il giudice - se può sopperire alla carenza di prova attraverso il ricorso alle presunzioni ed anche alla esplicazione dei poteri istruttori ufficiosi previsti dall'art. 421 cod. proc. civ. - non può invece mai sopperire all'onere di allegazione che concerne sia l'oggetto della domanda sia le circostanze in fatto su cui questa trova supporto» (Cass. civ., sez. un., 24 marzo 2006, n. 6572; conf. Cass. civ., sez. un., 3 febbraio 1998, n. 1099).

Tali principi sono applicabili anche al caso del danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale subito dai congiunti della vittima primaria che è un danno-conseguenza, sicché esso non coincide con la lesione dell'interesse (ovvero non è in re ipsa) e, pertanto, deve essere allegato e provato da chi chiede il relativo risarcimento (Cass. civ., sez. III, 7 luglio 2021, n. 19372; Cass. civ., sez. III, 14 maggio 2021, n. 13158; Cass. civ., sez. III, 12 maggio 2021, n. 12681; Cass. civ., sez. III, 28 febbraio 2019, n. 5807; Cass. civ., sez. III, 30 aprile 2018, n. 10321; Cass. civ., sez. III, 17 gennaio 2018, n. 907; Cass. civ., sez. III, 6 settembre 2012, n. 14931; Cass. civ., sez. III, 9 maggio 2011, n. 10108; Cass. civ., sez. III, 5 aprile 2011, n. 7728; Cass. civ., sez. III, 19 febbraio 2007, n. 3758; Cass. civ., sez. III, 11 novembre 2003, n. 16946; Cass. civ., sez. III, 19 agosto 2003, n. 12124).

Da un punto di vista sostanziale,  la sentenza appare corretta in quanto perfettamente in linea con la giurisprudenza consolidata di legittimità, la quale ha costantemente ritenuto che il danno conseguente alla lesione e/o perdita del rapporto parentale possa essere riconosciuto in relazione a qualsiasi tipo di rapporto che abbia le caratteristiche di una stabile relazione affettiva, indipendentemente dalla circostanza che il rapporto sia intrattenuto con un parente di sangue o con un soggetto che non sia legato da un vincolo di consanguineità naturale.

A tal fine il rapporto di convivenza, pur costituendo elemento probatorio utile a dimostrarne l'ampiezza e la profondità, non assurge a connotato minimo di esistenza di rapporti costanti di reciproco affetto e solidarietà, escludendoli automaticamente in caso di sua mancanza, atteso che deve esserci comunque un'incidenza sull'intimità della relazione, sul reciproco legame affettivo e sulla pratica della solidarietà.

È ius receptum, infatti, che:

  • «il danno derivante dalla sofferenza per la morte ex delicto del congiunto non è rigorosamente circoscritto ai familiari con lui conviventi al momento del decesso…la cessazione della convivenza non è elemento indiziario a sorreggere da solo la congettura di un automatico allentamento della comunione spirituale tra congiunti…con conseguente riduzione della sofferenza dei superstiti a livelli immeritevoli di apprezzamento giuridico…il rapporto di convivenza, pur costituendo elemento probatorio utile a dimostrarne l'ampiezza e la profondità, non assurge a connotato minimo di esistenza di rapporti costanti di reciproco affetto e solidarietà con il familiare defunto, escludendoli automaticamente, in caso di insussistenza dello stesso» (Cass. civ., sez. III, 5 novembre 2020, n. 24689; conf. Cass. civ., sez. III, 26 maggio 2020, n. 9696; Cass. civ., sez. III, 8 aprile 2020, n. 7743);
  • «il danno conseguente alla lesione del rapporto parentale (e non soltanto alla sua perdita) deve essere riconosciuto in relazione a qualsiasi tipo di rapporto che abbia le caratteristiche di una stabile relazione affettiva, indipendentemente dalla circostanza che il rapporto sia intrattenuto con un parente di sangue o con un soggetto che non sia legato da un vincolo di consanguineità naturale, ma che abbia con il danneggiato analoga relazione di affetto, di consuetudine di vita e di abitudini, e che infonda nel danneggiato quel sentimento di protezione e di sicurezza insito, riferendosi alla presente fattispecie, nel rapporto padre-figlio. Il danno deve, in particolare, essere riconosciuto in relazione a qualsiasi causa interrompa questo rapporto, che non deve essere necessariamente la morte del padre…il danno da perdita del rapporto parentale spetta quando vi sia la rottura di tale rapporto anche con un soggetto non consanguineo, ma che rappresenti per il danneggiato la identica figura del padre, e che la lesione del rapporto parentale possa essere determinata anche da un evento diverso dalla morte» (Cass. civ., sez. III, 21 agosto 2018, n. 20835);
  • «il rapporto affettivo tra il figlio del partner e il compagno del suo genitore può dirsi rilevante per il diritto quando si inserisca in quella rete di rapporti che sinteticamente viene qualificata come famiglia di fatto. Solo in questo caso, infatti, può dirsi costituita una «formazione sociale» ai sensi dell'art. 2 Cost., come tale meritevole di tutela anche sotto il profilo risarcitorio. Una famiglia di fatto, ovviamente, non sussiste sol perché delle persone convivano. La sussistenza di essa può desumersi solo da una serie cospicua di indici presuntivi: la risalenza della convivenza, la diuturnitas delle frequentazioni, il mutuum adiutorium, l'assunzione concreta, da parte del genitore de facto, di tutti gli oneri, i doveri e le potestà incombenti sul genitore de iure» (Cass. civ., sez. III, 21 aprile 2016, n. 8037);
  • «il risarcimento del danno da uccisione di un prossimo congiunto spetta non soltanto ai membri della famiglia legittima della vittima, ma anche a quelli della famiglia naturale, come il convivente more uxorio ed il figlio naturale non riconosciuto, a condizione che gli interessati dimostrino la sussistenza di un saldo e duraturo legame affettivo tra essi e la vittima assimilabile al rapporto coniugale» (Cass. 7/6/11 n. 12278).

Nel caso esaminato dalla Suprema Corte il patrigno ha allegato la mera convivenza con il figliastro.

Ma ciò, come innanzi esposto, non è sufficiente in quanto avrebbe dovuto allegare prima e provare, poi, con tutti i mezzi di prova normativamente previsti (tra cui il notorio, le massime di esperienza, le presunzioni semplici) l'esistenza di rapporti costanti di reciproco affetto e solidarietà con il defunto.

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