Niente vantaggi compensativi se non si è in presenza di un “gruppo” di imprese

Ciro Santoriello
31 Ottobre 2024

La Cassazione torna ad occuparsi di operazioni infragruppo e dei presupposti per ritenere leciti - e quindi non rilevanti in sede penale, con riferimento al reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale - trasferimenti di risorse da una società all’altra, con specifico riferimento ai c.d. vantaggi compensativi.

Massima

In tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale per operazioni infragruppo, presupposto essenziale per ritenere giustificato, in base a possibili vantaggi compensativi, il trasferimento di risorse da una società all'altra è la sussistenza di un gruppo di imprese ovvero la ricorrenza di una relazione economico imprenditoriale tra i soggetti imprenditoriali componenti del gruppo e la presenza di un ente con funzioni di coordinamento e direzione.

 In tema di reati fallimentari, la consumazione del patrimonio in operazioni di pura sorte o manifestamente imprudenti integra il delitto di bancarotta semplice nel caso in cui tali operazioni si inquadrino nell'ambito di condotte tenute comunque nell'interesse dell'impresa, configurandosi, invece, il delitto di bancarotta fraudolenta nel caso in cui l'agente abbia - come nel caso dì specie - dolosamente perseguito un interesse proprio o di terzi estranei all'impresa .

Il caso

In sede di merito più soggetti erano condannati per i reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale, aggravate dalla pluralità di condotte e dell'entità del danno patrimoniale. In particolare, agli imputati erano contestate plurime condotte distrattive in relazione ad operazioni infragruppo come la fornitura di merce poi in parte non pagata posta in essere dalla società fallita a favore di altre persone giuridiche ricollegabili ai medesimi soggetto; le società operavano infatti secondo una logica di gruppo ed erano gestite ed amministrate in regime di "mutuo soccorso", con l'allocazione di risorse laddove vi era necessità, al fine di consolidare l'attività di impresa sotto la stessa insegna, ancorché con diversa ragione sociale. Si trattava sostanzialmente di una sola impresa, di proprietà di tre famiglie, costituita in più società di capitali di modeste dimensioni in relazione alle quali sarebbero state poste in essere le operazioni infragruppo oggetto dì contestazione che non avevano dunque alcuna operazioni infragruppo

In sede di ricorso per cassazione, le difese contestavano questa ricostruzione, negando che le scelte avessero una finalità distrattiva di lesione della garanzia dei creditori quanto piuttosto quella di riallocazione delle risorse tra i vari enti societari facenti di fatto capo ad un'unica impresa. I giudici di merito avevano escluso la sussistenza dei vantaggi compensativi di gruppo solo in termini puramente economici e patrimoniali, senza considerare i vantaggi compensativi di natura non prettamente economica che il gruppo aveva inteso perseguire con le cd. "forniture interne" ed effettivamente ottenuto con la contestata riallocazione di risorse, a fronte della necessità di riassortire la merce dei negozi volta per volta lanciati e promuovere la propria iniziativa commerciale. In particolare, i vantaggi compensativi conseguiti sarebbero stati la continuità dell'attività di vendita presso i singoli negozi, secondo la necessità di ciascuno, nella prospettiva di implementare la rete di vendita e consolidarne l'avviamento, anche mediante il sostegno del sistema bancario, puntando a consolidare l'attività di impresa e, con i profitti sperati, saldare i debiti pregressi e ripartire gli utili; il tutto, senza pregiudizio sia ai fornitori, che sono stati pagati, sia al sistema bancario, che è stato garantito. Inoltre, ai fini della configurabilità del reato di bancarotta fraudolenta, non basta considerare solo il disavanzo di gestione ed il dissesto economico aziendale, ma bisogna accertare che l'eccedenza passiva sia conseguenza della distrazione di beni determinati, la cui esistenza sia nota già precedentemente alla formazione del deficit; in un contesto di gruppo di imprese, la verifica dell'eccedenza passiva verificatasi per effetto e conseguenza della condotta distrattiva contestata, non andava svolta avuto riguardo al solo passivo della singola azienda fallita, ma al passivo dell'intero gruppo di imprese e se la verifica fosse stata condotta in tal modo il saldo finale ovvero il deficit patrimoniale di gruppo sarebbe rimasto invariato per la oggettiva irrilevanza delle cessioni di beni effettuate infragruppo.

La difesa non nasconde che l'iniziativa imprenditoriale facente capo agli imputati era stata assolutamente temeraria ma ciò avrebbe dovuto condurre a riconoscere la mancanza di intenti fraudolenti dei soci per qualificare l'accaduto in  termini di operazioni di pura sorte e/o manifestamente imprudenti, poste in essere come scelte imprenditoriali colpose e comunque avventate per aver l'amministrazione fatto negligentemente affidamento nel pagamento delle fatture di vendita merce da parte delle società acquirenti, stante la situazione di dissesto generale del gruppo, in sé e per sé considerato.

Le questioni

Per lungo tempo, la giurisprudenza penale è rimasta ferma nel sostenere che il concetto di gruppo di società ha solo valenza finanziaria e programmatica, lasciando inalterata la distinzione giuridico patrimoniale tra le diverse società. Ovvia la conseguenza in tema di bancarotta fraudolenta per distrazione: la destinazione di risorse da una società all'altra, sia pur se collegate o facenti parte di un medesimo gruppo, integrava senz'altro la violazione del vincolo patrimoniale nei confronti dello scopo strettamente sociale e configura la condotta del delitto sopra menzionato (Cass., sez. V, 14 dicembre 1999, n. 1070).

Questa impostazione ha iniziato a modificarsi con l'ingresso nel diritto penale societario del delitto di infedeltà patrimoniale di cui all'art. 2634 cod. civ. (su cui CONSULICH, Art. 2634, in Commentario Scialoja – Branca. Legge fallimentare, a cura di PERINI, Bologna – Roma 2019, 472; MEZZETTI, Reati societari, in AMBROSETTI – MEZZETTI – RONCO, Diritto penale dell'impresa, Bologna, 2008, 210; MILITELLO, L'infedeltà patrimoniale, in I nuovi reati societari: diritto e processo, a cura di GIARDA – SEMINARA, 3^ ed., Padova 2002, 483; FOFFANI, Art. 2634, in Commentario breve alle leggi penali, 2^ ed., Padova 2007, 975), il cui comma terzo è dedicato proprio ai rapporti fra enti facenti parte di un medesimo gruppo di imprese e secondo cui nel valutare la sussistenza di eventuali illeciti penali conseguenti alla gestione del patrimonio di una delle società facenti parti del gruppo occorre verificare se i danni subita da quest'ultima non risulti in qualche modo compensati dal suo collegamento con altre imprese: come dispone la norma citata, “non è ingiusto il profitto della società collegata o del gruppo [derivante da operazioni, se compensato da vantaggi, conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall'appartenenza al gruppo.

Con la previsione di cui al comma 3^ citato il legislatore, aderendo ad alcune proposte avanzate dalla dottrina civilistica (ABRIANI, Gruppi di società e criterio dei vantaggi compensativi nella riforma del diritto societario, in Giur. Comm., 2002, I, 618; MONTALENTI, Conflitto di interessi nei gruppi di società e teoria dei vantaggi compensativi, in Persona giuridica, gruppi di società, corporate governance, Padova 1999, anche in Giur. Comm., 1995, l, 243; SACCHI, Sulla responsabilità da direzione e coordinamento nella riforma delle società di capitali, in Giur. Comm., 2003, I, 672), ha inteso riconoscere come pienamente legittime le ordinarie modalità di funzionamento e condotta dei gruppi di società, subordinando l'operatività della risposta penale in tali ambiti imprenditoriali ad una previa verifica circa il grado di effettiva compatibilità fra l'interesse della società e l'interesse del gruppo unitariamente considerato: le volte in cui tali interessi non siano in rapporto di elusione, anche alla luce dei vantaggi che la società cui l'operazione inerisce riceve conseguentemente al soddisfacimento di interessi facenti capo al gruppo o a società collegate, deve ritenersi insussistente l'ipotesi delittuosa in esame.

Peraltro, per lungo tempo la giurisprudenza ha dubitato che la previsione di cui all'art. 2634, comma 3, c.c. potesse operare anche in relazione al delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale (e non solo in relazione alla fattispecie d'infedeltà patrimoniale). A fronte di una posizione assolutamente favorevole della dottrina (AMATI, Infedeltà patrimoniale, cit., 426; Benussi, Infedeltà patrimoniale e gruppi di società, Milano 2009, 176; Id., La Cassazione ad una svolta: la clausola dei vantaggi compensativi è esportabile nella bancarotta per distrazione, Riv. It. Dir. Pen. Proc., 2007, 424), la giurisprudenza per lungo tempo si è opposta a tale conclusione sostenendo che “il vantaggio compensativo non può andare oltre la sfera dell'"infedeltà patrimoniale" per la quale è previsto e non è, dunque, applicabile all'ipotesi di bancarotta fraudolenta impropria riguardante una società collegata od appartenente al gruppo, in quanto il fenomeno del collegamento societario non vulnera il principio dell'autonomia soggettiva delle società interessate ed il fallimento di una di esse prescinde dalla considerazione degli interessi del gruppo societario” (Cass., sez. V, 8 novembre 2007, n. 7326; Cass., sez. V, 4 dicembre 2007, n. 4410). Solo di recente la Cassazione ha modificato il proprio atteggiamento sostenendo che anche in un giudizio inteso a verificare la sussistenza di reati fallimentari la condotta degli organi apicali di una società, ricompresa all'interno di un gruppo di imprese, può essere valutata alla luce della cd. teoria dei vantaggi compensativi, per cui in alcune decisioni si è affermato, ad esempio, che non integra una distrazione patrimoniale la scelta dell'amministratore di una società successivamente fallita di intervenire ad ausilio di un'altra società cui la prima aveva prestato una fideiussione, posto che la dichiarazione di fallimento della persona giuridica a favore della quale la fideiussione era stata prestata si sarebbe poi inevitabilmente riverberata a svantaggio della società datrice di garanzia (Cass., sez. V, 18 ottobre 2016, n. 44103).

Circa la natura giuridica di tale previsione alcuni la qualificano come clausola di esclusione della tipicità, sotto forma di elemento negativo del dolo specifico (AMATI, Infedeltà patrimoniale, in ROSSI (a cura di), Reati societari, Torino 2005, 425; BELLACOSA, Obblighi di fedeltà dell'amministratore di società e sanzioni penali, Milano 2006, 139; MEZZETTI, L'infedeltà patrimoniale nella nuova dimensione del diritto penale societario, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2004, 23; ZANOTTI, Il nuovo diritto penale dell'economia, Milano 2006, 273; BENUSSI, Vantaggi compensativi e infedeltà patrimoniale nei gruppi di società, in Studi in onore di Giorgio Marinucci, III, a cura di DOLCINI e PALIERO, Milano 2006, 2207) ovvero come riconoscimento dell'insussistenza dell'elemento materiale del danno a carico della singola impresa (MANNA, Abuso d'ufficio e conflitto d'interessi nel sistema penale, Torino 2004, 160; FOFFANI, Le infedeltà, in ALESSANDRI (a cura di), Il nuovo diritto penale delle società, Milano 2002, 359) ed altri ancora come scriminante (MUCCIARELLI, Il ruolo dei vantaggi compensativi nell'economia del delitto di infedeltà patrimoniale, in Giur. Comm., 2002, I, 631; GUERCIA, L'infedeltà patrimoniale, in Corso di diritto penale dell'impresa, a cura di Manna, Padova 2018, 340).

In ogni caso, perché si possa applicare il comma 3 in esame l'imprenditore deve provare che gli ipotizzati benefici indiretti della società danneggiata risultino non solo effettivamente connessi ad un vantaggio complessivo del gruppo, ma siano altresì idonei a compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi conseguenti all'operazione compiuta, non potendo tali benefici individuarsi nel solo fatto della partecipazione al gruppo, né consistere nel vantaggio della società controllante: alla luce della perdurante autonomia soggettiva delle singole società pur se a vario titolo collegate fra loro, la comune appartenenza a un gruppo imprenditoriale unitario è solo la premessa dalla quale muovere per individuare uno specifico e concreto vantaggio per la società che compie l'atto di disposizione del proprio patrimonio e che, in prima battuta, pare pregiudicata dallo stesso (Cass., sez. V, 16 giugno 2019, n. 47216; Cass., sez. II, 30 ottobre 2018, n. 55412; Cass., sez. V, 2 novembre 2017, n. 50080; Cass., sez. V, 8 novembre 2016, n. 46689. In dottrina in questo senso CODAZZI, Vantaggi compensativi ed infedeltà patrimoniali (dalla compensazione ‘virtuale' alla compensazione ‘reale'): alcune riflessioni alla luce della riforma del diritto societario, in Giur. Comm., 2004, 599). Si ricorda che invece secondo la dottrina i vantaggi che devono compensare il danno possono anche avere natura non patrimoniale, purché però funzionali ad utilità economicamente valutabili per la società, ma anche che ai fini della sussistenza dell'ipotesi di penale irrilevanza della condotta il danno subito dalla società possa essere compensato dalla presenza di vantaggi connessi alla sua appartenenza al gruppo: si sostiene così che laddove il beneficio che la società danneggiata ha ricevuto sia comunque particolarmente significativo, sia pur inferiore al danno subito, sarà difficilmente contestabile l'ipotesi delittuosa, potendo il soggetto agente addurre la mancata intenzione di danneggiare l'ente collettivo da lui gestito (MASUCCI, Vantaggi del gruppo e dell'impresa collegata nel governo penale degli abusi di gestione, in Riv. Trim. Dir. Pen. Ec., 2004, 885; MUCCIARELLI, Il ruolo dei vantaggi compensativi nell'economia del delitto di infedeltà patrimoniale, in Giur. Comm., 2002, I, 631).

  Inoltre, a fronte di un'impostazione dottrinale secondo cui non occorre che i vantaggi di cui fa menzione la disposizione in discorso siano il frutto di una specifica operazione economica o negoziale collegata a quella da cui è derivato il danno in capo alla società svantaggiata, potendo riferirsi l'espressione “vantaggi fondatamente prevedibili” a valutazioni prospettiche, purché ragionevoli e quand'anche le stesse poi non abbiano trovato conferma nell'effettivo prosieguo dell'attività imprenditoriale (ALDROVANDI, Art. 2634, cit., 201; CODAZZI, Vantaggi compensativi ed infedeltà patrimoniali, cit., 599; NAPOLEONI, Geometrie parallele e bagliori corruschi del diritto penale dei gruppi (bancarotta infragruppo, infedeltà patrimoniale e “vantaggi compensativi, in Cass. Pen., 2005, 3787. Nel senso che per formulare il giudizio circa la fondatezza delle conclusioni assunti dagli amministratori societari circa l'ottenimento di futuri benefici si possa far ricorso agli indici desumibili dai principi economici – finanziari e statistici, agli standard di ragionevolezza ed avvedutezza imprenditoriale, AMATI, Infedeltà patrimoniale, cit., 425; MEZZETTI, L'infedeltà patrimoniale nella nuova dimensione, cit., 237; richiama il parametro dell'homo eiusdem professioni et condicionis, ALDROVANDI, Art. 2634, cit., 201), la giurisprudenza ritiene che il comma 3 dell'art. 2634 c.c. va applicato al solo caso della ricorrenza di “concreti vantaggi compensativi dell'appropriazione e del conseguente danno provocato alle singole società, non essendo sufficiente la mera speranza, ma che i vantaggi corrispondenti, compensativi della ricchezza perduta, siano "conseguiti" o "prevedibili" fondatamente e, cioè, basati su elementi sicuri, pressoché certi e non meramente aleatori o costituenti una semplice aspettativa; deve trattarsi, quindi, di una previsione di sostanziale certezza”, per cui viene “escluso che la previsione dell'art. 2634 comma 3 c.c. po[ssa] venire in rilievo in rapporto ai pagamenti di debiti di una società effettuati con beni di altra società, poi fallita, appartenente al medesimo soggetto, essendosi invece in tal caso in presenza di una fattispecie integrativa del delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale” (Cass., sez. V, 21 aprile 2022, n. 15638; Cass., sez. V, 23 giugno 2003, n. 38110; Cass., sez. V, 18 novembre 2004, n. 10688).

Osservazioni

I ricorsi sono stati rigettati.

La Cassazione, pur riconoscendo la sussistenza di un gruppo di imprese (nel caso dì specie erano state costituite almeno nove società che nel contesto ad hoc creato operarono insieme per la realizzazione di un progetto), ha escluso la possibilità di qualificare tale gruppo di imprese - individuale e societarie - come gruppo inteso in senso tecnico, ai sensi delle disposizioni del codice civile. In tutte le società in considerazione (delle quali cinque fallite) comparivano come amministratori, in varia composizione, sempre i soliti soggetti, senza però che uno di loro assumesse un ruolo di coordinamento, né tale ruolo poteva essere attribuito alla società fallita; di conseguenza, nel caso di specie si poteva parlare di un gruppo solo con l'intento di far riferimento ad una sorta di regia comune fra diversi nuclei familiari.

E' infatti pacifico nella giurisprudenza che il dato rilevante ai fini del concetto di gruppo è la relazione economico imprenditoriale tra i soggetti imprenditoriali componenti del gruppo e la presenza di un ente con funzioni di coordinamento e direzione; nel caso di specie, pure a voler ritenere che a capo del gruppo possa esserci anche un ente non societario o un'impresa individuale, non era possibile ritenere che uno degli enti coinvolti avesse assunto funzioni di coordinamento e direzione, in senso tecnico e quindi non si poteva parlare di un gruppo di imprese rilevante ai fini della ipotizzabilità di eventuali "vantaggi compensativi'', non potendosi ritenere instaurato tra le imprese convolte, societarie e non, quel rapporto di direzione e di coordinamento e controllo delle rispettive attività facente capo ad un soggetto giuridico controllante.

Non rilevante, al fine di sconfessare tale impostazione, sarebbe, secondo la Cassazione, il coinvolgimento delle diverse società in un unico progetto imprenditoriale posto che la funzione di coordinamento e direzione implica sì l'esistenza di un progetto, a monte, comune a tutte le imprese coinvolte, ma necessita poi di estrinsecarsi attraverso compiute attività direzionali capaci di conferire dignità e valore al piano di azione comune o quanto meno di muoversi nell'ottica della sua realizzazione. Solo in tal caso il progetto comune, l'interesse ulteriore eventualmente perseguito, che va oltre la logica della singola realtà imprenditoriale, assume rilievo giuridico, trovando rispondenza attuativa nella direzione e nel coordinamento dell'impresa che assume in tal modo anche la responsabilità della sua realizzazione (ex art. 2497 cod. civ.), mirando al bene comune, la cui valutazione, ove perseguito a costo del sacrificio immediato ricadente su una singola società, non può prescindere dal risultato complessivo dell'attività di direzione e coordinamento (di cui all'art. 2497 cit.) e dal cd. vantaggio compensativo (di cui all'art. 2634 cod. civ.). Nel caso in esame, invece, è emerso solo che in tutte le nove società suindicate (delle quali cinque fallite) gli amministratori erano i medesimi o comunque erano soggetti facenti senz'altro capo ai diversi imputati, i quali così si palesavano come dominus delle diverse persone giuridiche coinvolte, che quindi non avevamo assolutamente perso la loro individualità ed identità. In sostanza, nella vicenda oggetto della decisione in commento, “le società sono state svilite a meri strumenti attuativi di un progetto peraltro neppure esattamente ricostruito dagli stessi interessati”.

Inoltre, la Corte di legittimità, dopo aver ricordato come, qualora le scelte gestionali passibili di qualificazione giuridica si riferiscano a rapporti intercorsi fra società appartenenti al medesimo gruppo, “solo il saldo finale positivo delle operazioni compiute nella logica e nell'interesse del gruppo può consentire di ritenere legittima l'operazione temporaneamente svantaggiosa per la società sacrificata” e nel caso di specie la difese non avevano saputo delineare i vantaggi compensativi che sarebbero derivati o si sperava di conseguire e che avrebbe dovuto riequilibrare gli effetti immediatamente negativi per la società fallita e neutralizzare gli svantaggi per i creditori sociali.

A fronte di queste conclusioni pacifiche raggiunte in giurisprudenza, priva di pregio è il tentativo, avanzato dai ricorsi, di giustificare il passivo della singola società fallita ed a ci si riferivano le accuse facendo riferimento al saldo finale del gruppo che era rimasto invariato per la oggettiva irrilevanza delle cessioni dei beni effettuate infragruppo che avevano comportato solo una diversa allocazione dei beni nel medesimo gruppo senza pregiudizio per i creditori. Chiaro l'errore di questa impostazione: si presuppone, in maniera scorretta, che la singola realtà imprenditoriale costituisca unicamente un mero strumento nell'ambito di tale attività di riallocazione dei beni, privo di una propria autonomia e responsabilità patrimoniale che invece permane anche nel caso in cui si configura il gruppo di impresa e a maggior ragione quando - come nel caso di specie - si sia escluso che le imprese costituiscono un gruppo in senso tecnico. Nessun assetto societario o di gruppo, infatti, giustifica il passaggio di risorse da una società ad un'altra, anche facenti parte dello stesso gruppo, in una situazione di conclamata sofferenza della società deprivata, senza garanzia di restituzione dei valori trasferiti e al di fuori di un credibile programma di riassestamento del gruppo, che sia rivolto a superare prioritariamente le problennatiche dell'ente in sofferenza (Cass., sez. V, 1 marzo 2019, n. 22860) e la salvaguardia delle risorse sociali va attuata innanzitutto all'interno del soggetto proprietario, nell'interesse dei creditori e dei terzi che hanno fatto affidamento sul patrimonio e sulla capacità operativa della singola società e non già del gruppo - e ciò soprattutto allorquando, come nel caso in esame, attraverso il trasferimento del bene si ottiene altresì il risultato di scindere la debitoria che rimane in carico alla cedente dal patrimonio che passa, in tutto o in parte, ad altri soggetti.

Quanto alla tesi difensiva secondo cui nel caso di specie andava contestata la fattispecie di bancarotta semplice, avendo l'imprenditore che " consumato una notevole parte del suo patrimonio in operazioni di pura sorte o manifestamente imprudenti", la Cassazione – conformemente ad orientamento consolidato – rinviene la distinzione fra la fattispecie di bancarotta fraudolenta per dissipazione/distrazione e di bancarotta semplice per consumazione del patrimonio in operazioni aleatorie o imprudenti, quanto al profilo oggettivo, nell'incoerenza, nella prospettiva delle esigenze dell'impresa, delle operazioni poste in essere e, sotto il profilo soggettivo, nella consapevolezza dell'autore della condotta di diminuire il patrimonio della stessa per scopi del tutto estranei alla medesima (Cass., sez. V, 19 ottobre 2011, n. 47040). Inoltre, viene ribadito che non ricorre l'ipotesi di bancarotta semplice integrata da operazioni di manifesta imprudenza, ma quella più grave della bancarotta fraudolenta, allorché si tratti di operazioni che comportino un notevole impegno sul patrimonio sociale, essendo quasi del tutto inesistente la prospettiva di un vantaggio per la società, mentre le operazioni realizzate con imprudenza costitutive della fattispecie incriminatrice della bancarotta semplice sono quelle il cui successo dipende in tutto o in parte dall'alea o da scelte avventate e tali da rendere palese a prima vista che il rischio affrontato non è proporzionato alle possibilità di successo, fermo restando che, in ogni caso, si tratta pur sempre di comportamenti realizzati nell'interesse dell'impresa (Cass., sez. V, 9 giugno 2015).

Nel caso di specie, si era in presenza di attività di finanziamento/forniture giustificate dalla necessità di riallocazione dei beni tra le società costituite (nella prospettiva di riuscire coi profitti ricavati a ripianare non solo i debiti pregressi ma anche ai nuovi), senza però che fosse stato operata alcuna valutazione per dimostrare che la società in prima battuta penalizzata dalle operazioni ne potesse in seguito ricavare un vantaggio, essendo anzi emerso che le varie società coinvolte avevano avuto una funzione del tutto strumentale anche rispetto all'ottenimento di ulteriori risorse finanziarie ed il progetto era consistito nell'utilizzare il vastissimo magazzino della società fallita per alimentare una pluralità di negozi, realizzando di fatto la dissociazione tra patrimonio e debitoria, passata e rimasta in capo alla prima società fornitrice che nulla incassava per le forniture dei beni in favore delle altre società (che si risolvevano quindi in una sorta di finanziamento a fondo perduto).

Conclusioni

La sentenza della Cassazione non presenta alcun profilo di differenziazione rispetto alla giurisprudenza ormai costante in tema di possibilità di ritenere penalmente non rilevanti trasferimenti di risorse fra società collegate. Conformemente all'orientamento consolidato, si riconosce la sussistenza di potenziali vantaggi compensativi – in quanto tali idonei ad elidere la potenziale rilevanza criminale dell'operazione – con estremo rigore, insistendo sulla necessaria ricorrenza di “concreti vantaggi compensativi dell'appropriazione e del conseguente danno provocato alle singole società, non essendo sufficiente la mera speranza, ma che i vantaggi corrispondenti, compensativi della ricchezza perduta, siano "conseguiti" o "prevedibili" fondatamente e, cioè, basati su elementi sicuri, pressoché certi e non meramente aleatori o costituenti una semplice aspettativa; deve trattarsi, quindi, di una previsione di sostanziale certezza”.

Rispetto a decisione di analogo tenore, nella pronuncia in commento la Corte di legittimità insiste in particolare sulla circostanza che, per parlare di vantaggi compensativi, sia essenziale la sussistenza di un gruppo di imprese. Sulla nozione di gruppo di imprese, Cass., sez. V, 6 marzo 2018, n. 31997, che ritiene configurabile un "gruppo di imprese" - rilevante ai fini della ipotizzabilità di eventuali "vantaggi compensativi" - anche tra enti che abbiano differente natura giuridica (società ed associazioni senza fini di lucro ovvero, come nel caso deciso dalla presente decisione, da una persona fisica), purché tra loro si instauri un rapporto di direzione nonché di coordinamento e controllo delle rispettive attività facente capo al soggetto giuridico controllante (nella pronuncia citata la Corte ha escluso, in concreto, l'esistenza di un "gruppo di imprese" per l'assenza di attività di direzione da parte dell'associazione senza fini di lucro indicata come controllante, nonché di un centro unico di coordinamento delle attività e di un piano di azione imprenditoriale comune con le società fallite ad essa collegate).

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