È ammissibile una cessione del credito con funzione di garanzia e, al contempo, solutoria? Riflessioni a margine di Cass. 21019/2024

15 Novembre 2024

La natura giuridica della cessione del credito è stata oggetto di una lunga diatriba dottrinaria, in passato, ma la pronuncia in esame si muove su un terreno meno arato dalla giurisprudenza. Può tale istituto svolgere, contemporaneamente, tanto una funzione di garanzia quanto una funzione solutoria? Vi è contraddittorietà, oppur no, fra le due possibili finalità sottese all'operazione in parola?

Massima

La cessione ha funzione di garanzia, innanzitutto, ed in un primo momento, e, solo ove l'obbligazione garantita non sia adempiuta, allora l'incasso del credito ha funzione solutoria.

Il caso

Il giudizio di ultima istanza che ha condotto la Cassazione a pronunciarsi sul tema segnalato in rubrica trae abbrivio dalla cessione di un credito, vantato da una società di costruzioni nei confronti della Provincia di Macerata per un appalto di lavori di rifacimento di un ponte, a favore della Unicredit S.p.A., a fronte dell'erogazione da parte di tale istituto bancario di un prestito di €. 300.000 alla cedente.

Nelle more della scadenza del termine previsto per la restituzione del prestito, Unicredit S.p.A. incassava dalla Provincia di Macerata circa la metà del corrispettivo spettante alla cedente, pari, approssimativamente, ad un importo complessivo di 1.000.000 di euro.

Stante il dissesto della società mutuataria, il curatore fallimentare agiva in giudizio, per sentir dichiarare la nullità del contratto concluso con l'istituto di credito, ovvero per ottenere, in ogni caso, da quest'ultimo la restituzione dell'indebito (pari alla differenza tra il corrispettivo incassato per l'appalto e la somma erogata in prestito).

La domanda attorea veniva rigettata sia dai giudici di prime cure che dai giudici d'appello, in ragione di una peculiare qualificazione del contratto, poi contestata nel ricorso per cassazione esperito da un'altra società, in forza dell'acquisto del credito del fallimento.

Segnatamente, la ricorrente fondava le proprie ragioni su tre motivi (ai quali la resistente si opponeva, instando per il rigetto), riassumibili, in sintesi, come segue:

  1. nullità della sentenza per motivazione illogica e contraddittoria, sulla base del rilievo che, laddove il contratto venga inteso come una cessione di credito con effetto solutorio immediato, esso costituisce strumento di adempimento del debito di restituzione della somma e non può, pertanto, assolvere anche l'ulteriore funzione di garanzia del pagamento della medesima;
  2. violazione delle norme codicistiche dettate in materia di interpretazione del contratto e, più nello specifico, degli artt. 1362 e 1367 c.c., essendo stato espressamente pattuito nell'accordo de quo che la banca avrebbe potuto incassare il proprio credito dal debitore ceduto solo nel caso in cui la cedente non avesse restituito la somma presa a prestito, clausola che avrebbe escluso, in maniera inequivocabile, la funzione solutoria della cessione oggetto del contendere;
  3. ulteriore violazione dell'art. 1362 c.c. nella parte in cui i giudici di merito avrebbero individuato una presunta clausola di rimborso dell'eccedenza della somma incassata dall'istituto di credito cessionario, in realtà mai convenuta dalle parti, bensì frutto di un macroscopico errore di interpretazione (il termine rimborso avrebbe fatto, invero, riferimento all'obbligo di restituzione del prestito assunto dalla società cedente e non ad un obbligo di restituzione dell'eccedenza di quanto incassato assunto dall'istituto cessionario).

Il Collegio procedeva, dunque, all'esame del ricorso, ritenendo, all'esito, di dover cassare la sentenza impugnata, con rinvio al giudice d'appello in diversa composizione, sulla base dell'accoglimento dei primi due motivi (assorbito il terzo).

La questione

Il nodo gordiano, che gli Ermellini sono stati chiamati a sciogliere nella pronuncia in commento, è se il contratto di cessione del credito, concepito con un effetto solutorio immediato, vale a dire come strumento di adempimento del debito pecuniario, possa svolgere, al contempo, anche una funzione di garanzia di quello stesso debito.

Soluzioni giuridiche

Al fine di comprendere meglio la portata dell'ordinanza oggetto del presente contributo, è opportuno procedere, in primis, ad un inquadramento sistematico della cessione del credito, dando atto del dibattito sulla natura giuridica, che ha impegnato in passato gli operatori del diritto.

In particolare, secondo la tesi c.d. effettuale, sostenuta da autorevole, ma minoritaria dottrina, la cessione del credito costituirebbe l'effetto di un diverso negozio presupposto, produttivo del trasferimento del diritto relativo.

Viceversa, secondo la tesi c.d. negoziale, prevalsa in giurisprudenza, la cessione del credito costituirebbe un contratto autonomo, con causa propria.

Nell'alveo di quest'ultima teoria, si è, poi, delineata una netta dicotomia fra chi propende per una causa generica e costante e chi depone per una causa variabile, da individuarsi concretamente, a seconda degli interessi perseguiti dalle parti (in questo solco, si inserisce anche la pronuncia in commento, si veda infra).

In ogni caso, accogliendo la definizione della dottrina maggioritaria, la cessione del credito viene oggi intesa come il contratto con cui il creditore cedente, pattuisce con un terzo cessionario, il trasferimento, a titolo gratuito o a titolo oneroso, in capo a quest'ultimo del suo diritto di credito verso il debitore ceduto, il quale, normalmente, resta estraneo al rapporto di cessione, tanto che nei suoi confronti la comunicazione dell'avvenuta cessione ha il solo scopo di evitare che egli esegua la prestazione nei confronti dell'ormai creditore apparente (il cedente), ex art. 1189 c.c.

Così opinando, la cessione del credito può essere qualificata, a ben guardare, sia come contratto autonomo sia come effetto del contratto stesso, ovverosia come trasferimento del credito.

Ed è proprio valorizzando questo secondo aspetto che la cessione del credito viene ormai pacificamente ricompresa tra le vicende modificative, nel lato attivo, del rapporto obbligatorio, comportando una successione a titolo particolare, per effetto di atti inter vivos, nel credito (al contrario della modificazione, nel lato passivo, in ragione della quale si verifica pur sempre una successione a titolo particolare, per effetto di atti inter vivos, ma nel debito).

A tal proposito, importa rilevare che l'attuale possibilità di porre in essere atti di trasferimento dei diritti di credito sottende una rinnovata considerazione dei medesimi da parte dell'ordinamento, che non li ritiene più quali diritti ancillari rispetto ai diritti reali, bensì quali autonomi strumenti di circolazione della ricchezza.

Sotto ulteriore profilo – circoscrivendo, comunque, la trattazione solo agli aspetti essenziali dell'istituto e utili all'analisi della pronuncia in commento – occorre rammentare che la cessione del credito può avvenire secondo due diverse modalità:

  1. pro soluto (che è la formula più utilizzata nella prassi commerciale), nel caso in cui il cedente si liberi da ogni responsabilità relativa all'adempimento da parte del debitore ceduto, limitandosi a fornire al cessionario i documenti probatori dell'esistenza del credito;
  2. pro solvendo , qualora il cedente si impegni a garantire che il debitore ceduto eseguirà la prestazione dovuta, con la conseguenza che, in caso di inadempimento di quest'ultimo, il cessionario potrà rivolgersi direttamente al primo.

Un classico esempio di cessione del credito, come nella fattispecie precipua esaminata dalla Suprema Corte, è il factoring, a mezzo del quale un'impresa cede un credito commerciale, normalmente a una banca (denominata “factor”), al fine di ottenere un'immediata liquidità.

Le due possibili forme di factoring rispecchiano le modalità già illustrate per la cessione del credito:

  • nel factoring pro soluto(che, simmetricamente alla cessione ordinaria del credito, è la formula più utilizzata nella prassi bancaria), l'impresa cedente si libera del rischio di inadempimento da parte del debitore, addossandolo alla banca;
  • nel factoring pro solvendo, invece, l'impresa cedente rimane responsabile in caso di insolvibilità del debitore (ricevendo dalla banca, a fronte di questo rischio maggiore, più liquidità).

Ad ogni buon conto, lo schema di riferimento è sempre quello delineato dall'art. 1260 e s. c.c. per la cessione del credito.

Vi è, poi, un'ipotesi specifica di cessione del credito, contemplata dall'art. 1198 c.c. sub specie di prestazione in luogo dell'adempimento. Si tratta di un istituto di matrice romanistica, riconducibile alla c.d. datio in solutum, che integra, come è noto, una forma estintiva satisfattiva della prestazione originaria.

In sostanza, quando, in luogo dell'adempimento, è ceduto un credito, l'obbligazione si estingue con la riscossione del credito e si parla, propriamente, di cessione solutoria. Tale cessione si presume pro solvendo, ossia il cedente non è liberato finché il creditore cessionario non ottiene la prestazione.

In applicazione delle regole della cessione pro solvendo, il cedente è obbligato a garantire la solvenza del debitore, salvo che il cessionario non riesca a dimostrare di aver assolto all'onere posto dall'art. 1267 c. 2 c.c., ovvero di aver presentato richiesta di pagamento di quanto dovuto al debitore ceduto, o quantomeno, la totale inutilità delle istanze di pagamento, attesa la notoria insolvenza del debitore al momento della cessione (cfr. Cass. 24 febbraio 2000 n. 2110).

A differenza dalla cessione solutoria, con la cessione a scopo di garanzia, invece, il cedente non intende estinguere il proprio debito verso il cessionario, ma solo rafforzare l'obbligazione assunta, nel senso che, solo ove il cedente non adempia l'obbligazione principale, il cessionario potrà soddisfarsi riscuotendo il credito oggetto della cessione.

A questo proposito, è appena il caso di precisare che l'art. 1198 c. 2 c.c. nel rinviare all'art. 1267 c. 2 c.c. ove si richiede che il cedente abbia garantito la solvenza del debitore, non ha nulla a che vedere con cessione a scopo garanzia.

Ed invero, con la cessio pro solvendo (di cui, come innanzi detto, la cessione solutoria integra una species), il cedente garantisce al cessionario la solvenza del debitore ceduto, che è cosa ben diversa dalla c.d. cessio in securitatem, propria della cessione del credito con funzione di garanzia, dove la riscossione del debito ceduto si trova su un piano subordinato (infatti, la garanzia ha natura accessoria).

L'art. 1260 c.c. non individua, tuttavia, uno schema di riferimento, ragion per cui la funzione perseguita dal contratto che realizza la cessione del credito va individuata alla stregua di una corretta interpretazione dell'assetto di interessi posto in essere dalle parti o, per meglio dire – mutuando un'espressione molto cara alla giurisprudenza, da un ventennio a questa parte –, della causa in concreto sottesa all'operazione negoziale.

Osservazioni

È precipuamente in relazione a questa necessaria attività di interpretazione che la sentenza di appello è stata cassata con rinvio dall'ordinanza resa dalla Suprema Corte a fine luglio del corrente anno, segnatamente nella parte in cui è giunta erroneamente ad affermare che le due diverse funzioni (solutoria e di garanzia) svolte dalla cessione del credito possano confluire in un unico contratto.

Per inciso, l'interpretazione del contratto, consistendo in un'operazione di accertamento della volontà dei contraenti, si risolve in un'indagine di fatto, in quanto tale strettamente riservata al giudice di merito, il cui accertamento è censurabile in cassazione soltanto – come avvenuto nel caso in esame – in ipotesi di violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale, ovvero di motivazione contraria a logica ed incongrua.

La ricerca finalizzata ad individuare la reale voluntas dei contraenti, utile per la successiva qualificazione del negozio, infatti, non può prescindere dall'osservanza dei canoni ermeneutici di cui all'art. 1362 e s. c.c., che rappresentano delle vere e proprie norme cogenti.

In tale prospettiva, secondo il consolidato orientamento pretorio, l'interpretazione data dalle corti di merito può sottrarsi al sindacato di legittimità quando sia una di quelle possibili, non essendo richiesto che sia la migliore in astratto (ex multis, Cass. 26 febbraio 2019 n. 5670).

Nondimeno, alla luce di quanto chiarito nella pronuncia in esame, non vi è dubbio che una e una sola fosse l'interpretazione possibile, nel senso che – per come era stato concepito e predisposto l'accordo contrattuale – le parti non potevano aver voluto altro che una cessione del credito con funzione di garanzia.

Tanto emergeva ictu oculi dalla lettura del testo contrattuale, essendo stato precisato in molteplici clausole che la cessione stesse avvenendo“a scopo di garanzia” (cfr. pag. 4, § 2.3.1. dell'ordinanza in commento).

Né si sarebbe potuto sostenere – come avevano fatto i giudici di merito, aderendo ad una tesi patrocinata da una giurisprudenza ormai datata e del tutto anacronistica – che, laddove con l'atto di garanzia si trasferisca la proprietà del bene, quell'atto debba per forza avere funzione solutoria.

Ed invero, come puntualmente chiarito dagli Ermellini, “è ormai pacificamente riconosciuto come la funzione di garanzia è idonea a sorreggere il trasferimento del diritto, è idonea cioè a giustificare l'effetto traslativo; e dunque la circostanza, come nel pegno irregolare, e come altresì nella cessione del credito a scopo di garanzia, che venga attribuita la proprietà del bene al creditore, non è incompatibile con lo scopo di garanzia” (cfr. pag. 6, § 2.3.1. dell'ordinanza in commento).

Anzi, proprio la diffusione del fenomeno su larga scala ha indotto il formante giurisprudenziale ad attenzionare con scrupolosità l'istituto di cui trattasi, nel tentativo di arginare gli effetti collaterali ad esso connessi e, in special modo, la possibilità di incorrere, per tale via, nella violazione del divieto di patto commissorio, posto dalla norma imperativa contenuta nell'art. 2744 c.c.

In particolare, la cessione a scopo di garanzia viene sovente conclusa in un regime di “asimmetria contrattuale”, nel quale vi è una parte debole del rapporto (il cedente), che, pur di ottenere la liquidità cui anela, mosso, il più delle volte, da pressanti contingenze economiche, trasferisce un credito alla parte forte (il cessionario), al solo fine di rafforzare l'obbligazione assunta nei confronti di quest'ultima.

È pur vero che, in origine, la dottrina aveva operato un'esegesi molto rigorosa dell'art. 2744 c.c., limitando il suo ambito applicativo alle ipotesi tipizzate dal legislatore.

L'art. 2744 recita, infatti, come segue: ‹‹È nullo il patto col quale si conviene che, in mancanza del pagamento del credito nel termine fissato, la proprietà della cosa ipotecata o data in pegno passi al creditore. Il patto è nullo anche se posteriore alla costituzione dell'ipoteca o del pegno››.

Alla stregua del dato testuale, il divieto normativo dovrebbe estendersi solo al patto accessorio rispetto ad una garanzia reale tipica, vale a dire al patto che accede ad un contratto costitutivo di pegno o di ipoteca.

In sostanza, ai sensi dell'art. 2744 c.c., la nullità dovrebbe essere circoscritta al patto con il quale si stabilisce che, in caso di inadempimento del debitore, la proprietà della cosa ipotecata o data in pegno venga trasferita al creditore.

Tale interpretazione troverebbe, peraltro, conferma nel disposto dell'art. 1963 c.c., dove il legislatore ribadisce il divieto di patto commissorio, che accede a quella particolare forma di garanzia personale che è l'anticresi.

Sennonché, è da tempo in atto una rilettura, da parte della giurisprudenza, dell'art. 2744 c.c., alla luce di un'interpretazione funzionalistica e sostanzialistica.

In questa prospettiva, la norma de qua è stata apprezzata come norma “di risultato”, cioè come una norma che, al di là della fattispecie normativamente descritta, vieta ogni tipo di operazione idonea a realizzare un trasferimento della proprietà con funzione di garanzia.

L'orientamento pretorio più risalente, inoltre, sempre sulla base di un'ermeneusi squisitamente letterale della norma, aveva affermato che il divieto di cui all'art. 2744 c.c. si estendesse solo alle alienazioni sottoposte alla condizione sospensiva del mancato pagamento del debito, dovendosi, per contro, considerare lecite le alienazioni risolutivamente condizionate, in cui la proprietà viene trasferita al creditore sin dalla pattuizione, piuttosto che al momento del verificarsi dell'inadempimento del debitore.

Ebbene, anche la tesi appena esposta deve ormai considerarsi vetusta.

La giurisprudenza di legittimità, già a partire dagli anni '80 del secolo scorso, ha evidenziato l'irrilevanza della distinzione tra alienazione sospensivamente condizionata e alienazione risolutivamente condizionata.

Ciò che rileva, ai fini dell'accertamento dell'esistenza del patto commissorio, è “il comune intento delle parti di attribuire alla vendita funzione di garanzia e l'esistenza di un nesso teleologico e strumentale fra i due negozi posti in essere con uno stretto vincolo di interdipendenza, operante nel senso di attribuire irrevocabilmente il bene al creditore, in soddisfacimento del suo diritto solo all'atto dell'inadempimento” (in terminis, Cass. 6 giugno 1983 n. 3843).

Ricostruiti in questo modo i termini del dibattito, anche la cessione del credito, in virtù della più moderna concezione di causa, come funzione economico-individuale dell'affare, pur non incorrendo in una violazione diretta dell'art. 2744 c.c., ben potrebbe rientrare (attraverso un'applicazione estensiva del divieto alle c.d. alienazioni a scopo di garanzia) fra quelle operazioni economiche che aggirano il divieto posto dalla norma.

Non a caso, la dottrina più recente (si veda, in particolare, Luminoso A., “Patto commissorio, patto marciano e nuovi strumenti di autotutela esecutiva”, in Principi, regole, interpretazione. Contratti e obbligazioni, famiglie e successioni. Scritti in onore di Giovanni Furgiuele, III, a cura di G. Conte e S. Landini, Universitas studiorum, Mantova 2017) ha posto l'accento sull'inopportunità di qualificare il patto commissorio come mero trasferimento a scopo di garanzia, valorizzando anche la sussistenza di una causa lato sensu solutoria.

Si fa riferimento alla funzione “solutoria”, per indicare che l'operazione realizza un meccanismo di autosoddisfazione del creditore, ma si specifica che tale funzione è tale solo lato sensu perché il bene del debitore (che può essere anche un credito) non estingue immediatamente l'obbligazione originaria, essendo il suo trasferimento (ovvero la sua riscossione, ove si tratti di una cessione del credito) subordinato all'inadempimento del debitore cedente.

Alcuni autori hanno parlato, enfaticamente, di datio in solutum preventiva”, proprio per descrivere quella forma di attuazione coattiva del vincolo di responsabilità contrattuale, che si estrinseca nella previsione pattizia di un congegno di autosoddisfacimento a favore del creditore.

Del resto, proprio il confronto con la datio in solutum in senso tecnico, contemplata dall'art. 1197 c.c., consente di comprendere meglio la ratio che permea il divieto di patto commissorio.

Ciò che caratterizza la datio in solutum è la perdita immediata e definitiva della proprietà del bene, che costituisce un surrogato della prestazione dovuta.

Di contro, addivenendo alla conclusione di un patto commissorio, il debitore vincola in via meramente programmatica un bene di sua proprietà al futuro autosoddisfacimento del creditore, subordinando il trasferimento della proprietà medesima (la riscossione di un credito, per quanto di interesse in questa sede) all'inadempimento.

Tale meccanismo consente, nelle more, al debitore di conservare la proprietà del bene fino al momento dell'inadempimento (alienazione a scopo di garanzia sottoposta a condizione sospensiva di inadempimento), ovvero di recuperare la proprietà del bene, attraverso il pagamento del debito (alienazione a scopo di garanzia sottoposta a condizione risolutiva di adempimento).

L'illiceità del patto commissorio emerge, tuttavia, da un'insidia alla quale è esposto il debitore, indotto – come ben evidenziato da autorevole dottrina – a programmare il trasferimento di un bene, il cui valore, nella maggior parte dei casi, eccede l'entità del proprio debito, facendo affidamento sulla speranza (spesso disattesa) di riuscire a procurarsi, prima della scadenza, le somme necessarie all'adempimento.

Accedendo a questa ricostruzione dell'istituto, la ratio del divieto di patto commissorio è stata, dunque, individuata nella necessità di tutelare il debitore dall'arbitrio del creditore, il quale potrebbe approfittare del bisogno di denaro del primo, per ottenere dei vantaggi nettamente sproporzionati all'entità del credito vantato.

Tale ratio è oggi ulteriormente avvalorata dalla proliferazione dei c.d. patti marciani tipici, previsti dalla legislazione speciale, che consentono di escludere che il divieto di patto commissorio possa rinvenire la sua ragion d'essere in altre esigenze, quali il divieto di autotutela esecutiva, o la tutela della par condicio creditorum.

Il patto marciano, infatti, specialmente quando non accede ad una garanzia reale tipica, inevitabilmente altera la par condicio creditorum, in quanto consente al creditore di soddisfarsi direttamente sul bene oggetto del patto (salvo il dovere di restituire l'eccedenza), senza concorrere con gli altri creditori.

Inoltre, l'introduzione di una clausola marciana rappresenta una deroga al monopolio statale dell'azione esecutiva, ma viene, ciò nondimeno, ammessa sempre più spesso dal nostro ordinamento, per far fronte alla lentezza delle procedure esecutive.

Oltre ai patti marciani previsti dalla legislazione speciale, peraltro, già il codice civile contiene numerosi esempi di autotutela esecutiva.

Basti richiamare i due istituti già menzionati dalla Suprema Corte nella pronuncia in commento, vale a dire:

  1. il pegno di crediti pecuniari, in cui l'autotutela esecutiva si realizza mediante ritenzione da parte del creditore pignoratizio (fino a concorrenza del credito garantito) delle somme riscosse, ovvero mediante vendita o assegnazione delle cose diverse dal denaro (art. 2803 c.c.), o mediante assegnazione in pagamento al creditore del credito dato in pegno (fino a concorrenza del credito garantito), o vendita dello stesso nelle forme stabilite nell'art. 2797 c.c. (art. 2804 c.c.);
  2. il pegno irregolare, che consente al debitore di pretendere dal creditore la somma o la parte delle merci o dei titoli che eccedono l'ammontare dei crediti garantiti (art. 1851 c.c.).

Orbene, non vi è dubbio che, come appena detto, l'ordinamento ammetta delle forme di autotutela esecutiva, tanto che questo ha consentito alla Suprema Corte, nell'ordinanza in esame, di affermare, senza tema di smentita, che la circostanza (…) che venga attribuita la proprietà del bene al creditore, non è incompatibile con lo scopo di garanzia” (cfr. pag. 6, § 2.3.1. dell'ordinanza in commento), ma il punctum dolens è un altro.

Si tratta, cioè, di appurare se, allorquando le parti addivengano alla conclusione di una cessione a scopo di garanzia, quella cessione possa considerarsi valida, sic et simpliciter, ovvero debba essere dichiarata nulla, per violazione del divieto di patto commissorio, ai sensi dell'art. 2744 c.c., in assenza di una cautela marciana (dando per assodata, in uno a quanto sostenuto dalla dottrina più all'avanguardia, la configurabilità di una cautela marciana c.d. atipica, espressione dell'autonomia privata e non conforme ad uno schema legale).

Il patto marciano, invero, non è altro che una clausola correttiva del patto commissorio, con la quale si conviene che, a fronte del trasferimento della proprietà di un bene del debitore, previsto in caso di inadempimento, a favore del creditore, quest'ultimo sia tenuto a restituire l'eventuale eccedenza di valore del bene, la cui stima – sempre a tutela del debitore, parte debole del rapporto – viene rimessa, in una fase successiva all'inadempimento, ad un terzo imparziale.

La questione assume indubbio rilievo nel caso venuto all'attenzione della Suprema Corte, proprio perché in quella fattispecie concreta la banca cessionaria aveva trattenuto un importo (circa la metà del prezzo spettante all'impresa cedente per l'appalto di lavori pubblici) di gran lunga superiore a quello corrispondente al credito vantato nei confronti dell'impresa cedente, senza che, nel contratto, fosse prevista alcuna clausola di restituzione dell'eccedenza. Come chiarito nella medesima pronuncia, infatti, la “clausola di rimborso” ivi inserita, a dispetto di quanto asserito dai giudici di merito, non poteva essere certamente intesa come clausola di restituzione dell'eccedenza, facendo riferimento a tutt'altro e, segnatamente, all'obbligo assunto dal cedente di adempiere il proprio debito.

A questo proposito, nella motivazione è dato leggere: ‹‹Da questa clausola si deduce il contrario di ciò che i giudici di merito assumono, e cioè si deduce che la cessione del credito non ha affatto una funzione di adempimento, tanto è vero che il cliente, cioè la Pema srl che ha ricevuto il prestito dalla banca, è comunque tenuto a rimborsarlo entro il termine di un giorno dalla richiesta scritta di pagamento. Segno evidente che la cessione non può avere avuto efficacia immediatamente estintiva del debito (il prestito)›› (cfr. pag. 5, § 2.3.1. dell'ordinanza in commento).

Sennonché, giunti a questo punto, i giudici di ultima istanza non hanno portato sino alle estreme conseguenze il ragionamento condotto, omettendo di rilevare la nullità dell'alienazione a scopo di garanzia, per violazione del divieto di patto commissorio, posto dall'art. 2744 c.c.

In conclusione, alla luce dell'analisi fin qui condotta, è senz'altro condivisibile la soluzione accolta dai giudici di Piazza Cavour, nella parte in cui spiegano che la cessione del credito con scopo di garanzia non poteva aver avuto efficacia immediatamente estintiva

In linea con quanto chiarito prima, infatti, ciò che distingue l'alienazione a scopo di garanzia dalla datio in solutum tecnicamente intesa è proprio il fatto che nella prima, a differenza della seconda, manca un passaggio immediato e definitivo della proprietà del bene del debitore in capo al creditore.

Inoltre, nel caso di specie, risultava provata per tabulas la volontà dei contraenti di concludere una cessione con scopo di garanzia, nella quale la funzione latu senso solutoria non poteva che rimanere sullo sfondo, cioè sopraggiungere solo in via eventuale e comunque in un momento cronologicamente successivo rispetto a quello della stipulazione, vale a dire in caso di inadempimento da parte del debitore cedente.

Sul punto, allora, condivisibilmente, il Collegio afferma: ‹‹L'ordine delle funzioni attribuite all'atto è logicamente l'inverso di quanto ipotizzato dai giudici: la cessione ha funzione di garanzia, innanzitutto, ed in un primo momento, e, solo ove l'obbligazione garantita non sia adempiuta, allora l'incasso del credito ha funzione solutoria: non il contrario, come ritenuto dai giudici di merito. Altrimenti estinta l'obbligazione, mediante cessione del credito con funzione solutoria, non si comprende come possa residuare spazio per una funzione di garanzia›› (cfr. pag. 7, § 2.3.1. dell'ordinanza in commento).

Ciò nondimeno, a parere di chi scrive, sarebbe stato forse più appropriato rilevare anche la nullità di questa cessione a scopo di garanzia per violazione del divieto di patto commissorio, ai sensi dell'art. 2744 c.c., in quanto posta in essere senza alcuna cautela marciana e, pertanto, idonea ad esporre il debitore ceduto al rischio di un approfittamento da parte del creditore cessionario.

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