Rapporti tra informativa contrattuale in materia consumeristica ed esercizio del diritto di recesso

06 Dicembre 2024

L’ordinanza in commento, nella quale la Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi sulla correttezza dell’informativa trasmessa dal professionista al privato, relativamente ad un contratto concluso fuori dei locali commerciali, offre l’occasione per fare il punto sul peculiare rapporto che intercorre tra gli obblighi di informazione precontrattuali posti in capo al professionista e il diritto di recesso riconosciuto dalla legislazione speciale al consumatore.

Massima

La norma ratione temporis applicabile (art. 52 D.Lgs. 206/2005) stabilisce (ndr) che «il consumatore dispone di un periodo di quattordici giorni per recedere da un contratto a distanza o negoziato fuori dei locali commerciali senza dover fornire alcuna motivazione e senza dover sostenere costi diversi da quelli previsti»; l'art. 53 D.Lgs. 206/2005 aggiunge (ndr) che «se…il professionista non fornisce al consumatore le informazioni sul diritto di recesso, il periodo di recesso termina dodici mesi dopo la fine del periodo di recesso iniziale, come determinato a norma dell'articolo 52 c. 2 D.Lgs. 206/2005.

Il caso

La fattispecie concreta posta al vaglio della Suprema Corte, nell'ordinanza che ci si accinge ad esaminare, ha ad oggetto un contratto, concluso fuori dei locali commerciali, per la fornitura e l'installazione, completa di collaudo, di pannelli fotovoltaici, destinati alla produzione di energia ad uso domestico.

Dopo la sottoscrizione da parte del consumatore dell'offerta commerciale ricevuta, la società specializzata in energie rinnovabili procedeva all'installazione ed al relativo collaudo dell'impianto fotovoltaico.

Il ricorrente riscontrava subito alcuni vizi, ma desisteva dal presentare denuncia, nella convinzione che fosse ormai spirato il termine per esercitare il diritto di recesso. La società resistente aveva, infatti, indicato nella informativa trasmessa all'oblato un termine per l'esercizio del diritto di recesso pari a soli dieci (10) giorni, decorrenti, peraltro, dalla conclusione del contratto.

Sennonché, dopo essersi consultato con il proprio avvocato, il deducente prendeva atto della persistente possibilità di addivenire allo scioglimento del vincolo contrattuale e alla conseguente restituzione del corrispettivo già pagato, proprio in ragione dell'inesattezza delle informazioni contenute nell'offerta in ordine ai termini e alle modalità di esercizio del diritto di recesso.

Seguiva il giudizio, dinanzi al giudice di primo grado competente (in specie, il Tribunale di Brescia), nel quale il consumatore conveniva la società di energie rinnovabili, al fine di accertare la legittimità del recesso, nelle more esercitato, con contestuale condanna della controparte alla restituzione degli importi ricevuti.

All'accoglimento della domanda attorea, in primo grado, faceva da contraltare la riforma della sentenza, ad opera del giudice d'appello, sul presupposto che l'informativa sul recesso fosse avvenuta, nonostante l'indicazione di un termine non più coerente con la disciplina applicabile ratione temporis (pari a 10 giorni, anziché 14), e che comunque il consumatore avesse superato, per l'esercizio del suo diritto di ripensamento, anche il termine previsto dalla normativa attuale.

Infine, il consumatore adiva il Giudice di ultima istanza, per la cassazione della sentenza di secondo grado, affidando il proprio ricorso a due principali motivi:

  1. violazione e falsa applicazione degli artt. 495253 D.Lgs. 206/2005, non avendo la Corte d'appello preso in considerazione l'inesattezza dell'informativa sul recesso (sia per l'erronea indicazione dei giorni utili al suo esercizio, sia per la decorrenza), idonea a trasformare il termine per il recesso in un termine annuale, rendendo tempestivo il diritto di ripensamento esercitato nel caso concreto dal ricorrente;
  2. violazione degli artt. 49 e 53 D.Lgs. 206/2005, per omesso esame della questione relativa alla decorrenza del termine per recedere, coincidente con il giorno della consegna dei beni, ai sensi dell'art. 52 c. 2 D.Lgs. 206/2005, ratione temporis applicabile, e non con il giorno dell'offerta (rectius, della conclusione del contratto), come indicato nell'informativa precontrattuale.

All'esito, la Suprema Corte, valutata la fondatezza del ricorso, accoglieva entrambi i motivi ad esso sottesi, procedendo al loro esame congiunto, per ragioni di connessione.

La questione

La decisione del Collegio, fondata sull’assunto che l’inesattezza dell’informativa precontrattuale sul recesso determini un allungamento del termine per il suo esercizio da 14 giorni a dodici mesi, involve la seguente questione di diritto: che valore ha il deficit informativo, in materia consumeristica?

Le soluzioni giuridiche

È noto che, nell'ordinamento civilistico, il recesso dal contratto sia il rimedio caducatorio di più difficile collocazione dogmatica.

Del resto, “il contratto ha forza di legge fra le parti”, come recita testualmente l'art. 1372 c. 1 c.c., e “non può essere sciolto che per mutuo consenso (ndr, di comune accordo) o per cause ammesse dalla legge”.

In questa cornice normativa, il recesso, disciplinato dall'art. 1373 c.c., unica norma del codice civile interamente dedicata all'istituto de quo, da intendersi come diritto potestativo di una parte di sciogliersi unilateralmente dal vincolo contrattuale, tramite una dichiarazione comunicata all'altra parte, può configurarsi o come recesso legale, o come recesso convenzionale.

Ad ogni modo, eccezion fatta per alcuni casi specifici, riconducibili a quelli in cui l'esecuzione del contratto si protrae nel tempo, senza che sia stabilito in anticipo il momento di cessazione, nei quali è il legislatore stesso a prevedere il diritto potestativo di recesso (c.d. recesso legale), nel sistema codicistico, il recesso deve essere, di regola, previsto dalle parti con apposita clausola (c.d. recesso convenzionale).

Il recesso convenzionale è, tuttavia, espressione di una extrema ratio e, proprio per questo, si ritiene che sia uno strumento “costoso”, avvenendo spesso in cambio di un corrispettivo, in favore della parte che subisce lo scioglimento del rapporto contrattuale (es. multa e caparra penitenziale).

In netta controtendenza rispetto al sistema appena descritto, il recesso di pentimento (o diritto di ripensamento, che dir si voglia) viene concepito, invece, in materia consumeristica, quale rimedio “generale”, che può essere esercitato ad nutum, cioè senza necessità di addurre alcuna motivazione, e, soprattutto, “gratuito”, cioè senza dover sostenere costi. Il requisito della gratuità, peraltro, è stato recentemente ribadito anche nella recente sentenza C. Giust. UE Ottava Sezione 17 maggio 2023, dove la Corte di Giustizia – nel dare risposta negativa alla questione sollevata dinanzi ad essa, con la quale il giudice del rinvio si interrogava sulla potenziale antinomia tra la normativa europea e la norma interna tedesca, in tema di arricchimento senza causa, che avrebbe giustificato una pretesa restitutoria del professionista nei confronti del consumatore, arricchitosi della prestazione di facere senza sopportarne i costi – ha precisato che il professionista non può pretendere dal consumatore “importi compensativi”, così offrendo una lettura del rimedio privatistico, in cui dissuasività ed effettività prevalgono sulla proporzionalità, quantomeno in determinati contesti negoziali.

Importa precisare, al riguardo, che questo peculiare tipo di recesso può essere esercitato solo nel caso di contratti a distanza, o negoziati fuori dai locali commerciali, così come espressamente disposto dall'art. 52 D.Lgs. 206/2005.

La logica è piuttosto chiara: i contratti conclusi a distanza o fuori dei locali commerciali espongono in maniera significativa ad un deficit informativo il consumatore, il quale non può verificare di persona le caratteristiche del bene acquistato (è il caso dei contratti a distanza), oppure può trovarsi maggiormente esposto alla pressione psicologica esercitata dal professionista (come accade frequentemente nei contratti conclusi fuori dei locali commerciali).

Prendendo atto dello status quo, la legislazione consumeristica (contenuta nel D.Lgs. 206/2005, recante il c.d. codice del consumo) fa precedere l'esercizio del recesso penitenziale da uno spatium deliberandi, vale a dire una fase che si potrebbe enfaticamente definire di “congelamento”, durante la quale tale soggetto può ponderare meglio la scelta negoziale fatta ed eventualmente determinarsi per lo scioglimento del contratto.

È di palmare evidenza, però, come un simile rimedio integri una vistosa deroga al principio di diritto comune condensato nel brocardo pacta sunt servanda (cfr. G. Amadio, Lezioni di diritto civile, Torino, 2016).

Qual è, dunque, la ratio sottesa a questo regime di favore riservato al consumatore?

Volendo chiudere il cerchio delle coordinate sin qui tracciate, la chiave ermeneutica per comprendere cosa abbia spinto il legislatore a tutelare tanto l'interesse del consumatore alla rimozione del vincolo si rinviene – come spesso accade – nella stessa relazione introduttiva al codice del consumo.

Non è un caso che in quella sede vengano richiamati i “principi di analisi sociologica e psicologica nella più generale teoria del consumatore”, che fanno espresso riferimento agli approdi delle scienze comportamentali, particolarmente pregnanti nei casi, fra i quali rientra quello di specie, di contratti negoziati fuori dei locali commerciali o a distanza.

Ciò che accomuna tale tipologia di contratti è la strategia commerciale utilizzata dal professionista per “carpire” il consenso della controparte, sovente abusando della propria posizione di vantaggio, derivante dall'aver predisposto unilateralmente (e per una serie indefinita di rapporti) un contratto c.d. per adesione, che il consumatore si limita a sottoscrivere, senza averne negoziato le clausole.

D'altronde, il consumatore è un soggetto che compie, per ragioni estranee all'attività professionale eventualmente svolta, numerosi atti negoziali, con i quali fa fronte alle proprie esigenze quotidiane, il più delle volte senza avere neanche il tempo di informarsi adeguatamente.

In definitiva, il consumatore si presume parte debole del rapporto e la sua debolezza viene ricondotta ad un deficit informativo. Coerentemente, a differenza del modello delineato nel codice civile, ove la fase precontrattuale è molto scarna e sostanzialmente limitata ad un generico e reciproco obbligo di buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto (cfr. art. 1337 c.c., di cui si ritiene che l'art. 1338 c.c., sulla conoscenza delle cause di invalidità, costituisca una specificazione), la materia consumeristica si contraddistingue per la previsione di dettagliati obblighi precontrattuali in capo al professionista, che sono, appunto, nella maggior parte dei casi, obblighi informativi, finalizzati a garantire la massima trasparenza e a colmare il divario che intercorre con il consumatore.

La proliferazione di obblighi comportamentali precontrattuali è tesa, infatti, a fare acquisire al consumatore quelle informazioni che autonomamente non acquisisce, o non è in grado di acquisire, o potrebbe acquisire, ma in maniera difficoltosa. Tale esigenza è avvertita in maniera talmente intensa che il c.d. contratto del consumatore deve essere sottoscritto necessariamente in forma scritta, in deroga al principio di libertà delle forme, immanente nel codice civile, avendo la forma scritta la funzione precipua di veicolare nel regolamento contrattuale le informazioni precontrattuali.

Ove i rimedi preventivi non bastassero, il codice del consumo sanziona, nella maggior parte dei casi, con la nullità (c.d. di protezione, perché può essere fatta valere solo nell'interesse del consumatore, e parziale, perché – sempre nell'interesse del consumatore – non si estende all'intero contratto, ma colpisce solo la parte da essa affetta) la violazione degli obblighi informativi, in deroga al disposto dell'art. 1418 c.c., che commina la nullità virtuale per le sole ipotesi di violazione di norme imperative. La commistione tra norme comportamentali e norme di validità è la cartina di tornasole di quanto detto sinora: il consumatore è parte debole del rapporto, al punto tale che il legislatore va oltre le categorie giuridiche tradizionali.

Anche il recesso si inserisce nel ventaglio dei rimedi, integrando un fondamentale strumento di reazione al difetto di informazione del professionista, con una funzione di deterrenza in parte assimilabile a quella assolta dalla nullità di protezione. Si ritiene, infatti, che il timore di incorrere nelle gravi conseguenze discendenti da esso induca, generalmente, i professionisti a rafforzare le informazioni immesse sul mercato.

La discrasia rispetto al sistema comune, si giustifica in considerazione del fatto che il codice del consumo è frutto del recepimento della Dir. 2011/83/UE, che sostituisce la Dir. 85/577/CEE sulle vendite a domicilio e la Dir. 97/7/CE sulle vendite a distanza.

Queste ultime rappresentano i precedenti storici della normativa europea in materia di vendite eseguite fuori dai locali commerciali, con le quali, per la prima volta, si tentò di conformare il rapporto tra operatore professionale e consumatore, offrendo alla parte debole degli inediti e più efficaci strumenti di tutela privatistica.

Originariamente, la tutela apprestata dal legislatore comunitario era talmente robusta da riconoscere al consumatore, che avesse concluso questa tipologia di contratto, un diritto potestativo di recesso non solo avulso da qualsivoglia giustificazione, ma esperibile sine die, nel caso in cui il professionista avesse omesso l'informazione sul diritto recesso.

Di contro, la disciplina vigente (art. 53 c. 1 D.Lgs. 206/2005) prevede, in caso di omessa informazione sul diritto di recesso, ai sensi ex art. 49 c. 1 lett. h D.Lgs. 206/2005, un termine, sì, sanzionatorio, ma non temporalmente illimitato. Si tratta di un termine decadenziale annuale (rectius di dodici mesi), che decorre trascorsi 14 giorni dalla conclusione del contratto o dalla consegna dei beni, a seconda che si tratti, rispettivamente, di contratti di servizi o di contratti di vendita.

Peraltro, se ci si limitasse ad un'interpretazione meramente testuale della norma, l'art. 53 D.Lgs. 206/2005, nel disporre la proroga del termine di decadenza per l'esercizio del recesso, sembrerebbe prendere in considerazione la sola omissione in senso stretto dell'obbligo di informazione.

Sennonché il formante giurisprudenziale, nel solco del quale si inserisce anche la pronuncia oggetto delle presenti note, ha avallato una lettura estensiva, idonea a ricomprendere in questa fattispecie rimediale non solo l'ipotesi estrema di omessa informazione, ma ogni caso di lesione dell'interesse del consumatore, che può verificarsi, altresì, ogniqualvolta l'informazione sia stata inesatta o, comunque, non chiara, in violazione degli obblighi di trasparenza imposti dal legislatore al professionista.

In particolare, l'ordinanza in commento rigetta la soluzione accolta dai giudici di merito in secondo grado, secondo i quali l'informazione inesatta (consistente, nel caso di specie, nell'aver richiamato in contratto norme del codice del consumo non più in vigore, che prevedevano un termine di 10 giorni, in luogo di 14) non sarebbe idonea a far scattare la proroga del termine iniziale a “dodici mesi dopo la fine del periodo di recesso iniziale, come determinato a norma dell'articolo 52, comma 2”, così come disposto dall'art. 53 c. 1 D.Lgs. 206/2005.

La Suprema Corte ha, infatti, censurato – dichiarandola errata – la conclusione secondo cui la fattispecie concreta appena descritta non sarebbe idonea ad essere sussunta nella fattispecie astratta della mancata informazione, solo perché il professionista avrebbe indicato nelle clausole negoziali un termine per l'esercizio del recesso, sia pure non corretto.

Segnatamente, il passaggio motivazionale nel quale gli Ermellini condensano il proprio convincimento è tranchant: “Le informazioni cui si riferisce la norma (ndr, il riferimento è all'art. 53 D.Lgs. 206/2005) non possono che essere, per logica, quelle previste, non bastando una qualunque e anche fuorviante ovvero inutile informazione”.

Alla stregua di questa impostazione, oltremodo protettiva nei confronti del consumatore, viene considerato fisiologico l'esercizio, anche in maniera opportunistica o speculativa, del diritto di recesso, il cui termine viene prorogato sino a dodici mesi dalla scadenza del termine originario, in caso di omessa informazione, peraltro non solo nel contesto del mercato dei beni, ma anche in quello dei servizi.

Sotto quest'ultimo profilo, accogliendo anche il secondo motivo (con il quale è stato contestato l'omesso esame della questione relativa alla decorrenza del termine per recedere, coincidente, secondo la prospettazione del ricorrente, con il giorno della consegna dei beni, ai sensi dell'art. 52 c. 2 D.Lgs. 206/2005, ratione temporis applicabile, e non con il giorno della conclusione del contratto, come indicato nell'informativa precontrattuale), il Collegio ha osservato come i giudici d'appello abbiano errato anche nell'assumere una ragione decisoria che potesse prescindere dall'accertamento ad essa prodromico.

La Corte territoriale avrebbe dovuto, in primis, procedere alla qualificazione negoziale, stabilendo, ai fini della decorrenza del termine per l'esercizio del recesso, se il contratto concluso fosse un contratto di vendita di beni o di servizi, considerato che, nel primo caso, il termine sarebbe decorso dal giorno della consegna dei beni, mentre, nel secondo, dalla conclusione del contratto stesso.

Anche da questo punto di vista, secondo i giudici di Piazza Cavour, la non corretta informazione sarebbe stata idonea ad indurre in errore il consumatore che, al momento del ricevimento dei beni stessi, avrebbe potuto ritenere – come di fatto accaduto, secondo la tesi sostenuta dal ricorrente – di non essere più in tempo per esercitare il recesso ad nutum.

Osservazioni

La pronuncia esaminata sposa un’interpretazione pienamente coerente con la strategia normativa sottesa al codice del consumo, a sua volta espressione dei dictat posti dal legislatore europeo, che obbliga il professionista a fornire al consumatore informazioni chiare e comprensibili (cfr. art. 48 D.Lgs. 206/2005), nel rispetto del requisito di trasparenza (cfr. art. 35 D.Lgs. 206/2005).

Si tratta di una visione senz’altro conciliativa, che ben si attaglia alle scelte di politica economica promananti dall’ordinamento eurounitario e imposte agli Stati membri, chiamati ad adeguarvisi.

Nondimeno, se è vero, come insegnato dalla migliore dottrina civilistica italiana (cfr. R. Sacco-G. De Nova, Obbligazioni e contratti, tomo 2, in Trattato di Diritto Privato, diretto da P. Rescigno, vol. 10, Torino, UTET, 2002), che la libertà contrattuale è tale solo se frutto delle scelte consapevoli e ponderate di entrambe le parti, a fortiori la parte debole del rapporto, in materia consumeristica, deve essere messa nelle stesse condizioni dell’operatore professionale, onde potersi correttamente autodeterminare.

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