Risarcimento del danno ai familiari per la morte del malato convinto a seguire una terapia alternativa

13 Gennaio 2025

Spetta il risarcimento del danno ai familiari di una vittima turlupinata a seguire una terapia alternativa per la cura del cancro? Il danno patito dai familiari si configura iure proprio o iure hereditatis?

Massima

I parenti della vittima, deceduta dopo esser stata convinta a seguire una terapia alternativa per curare un tumore, hanno diritto al risarcimento del pregiudizio patito sia iure proprio che iure hereditatis. In particolare, la Cassazione conferma che il danno patito dai familiari costituisca un danno iure proprio per le sofferenze patite in seguito all'affidamento mal riposto nel miglioramento del congiunto e un pregiudizio iure hereditatis derivante dall'alterazione della libertà di determinazione, ossia il diritto di intraprendere delle scelte per sé e la propria vita, in completa libertà e piena autoresponsabilità.

Il caso

A Tizio viene diagnosticato un tumore ai polmoni incurabile ed inizia la terapia a base di chemioterapia e morfina. I suoi familiari, tramite Caio (anch'esso medico), vengono messi in contatto con un medico, Mevio, che li persuade ad abbandonare le cure tradizionali e ad assumere un solo farmaco, garantendone la guarigione. Stante l'assenza di miglioramenti, i congiunti contattano ancora Mevio, che consiglia la somministrazione endovenosa ma, di lì a poco, Tizio muore. La moglie e i figli dell'uomo evocano in giudizio Mevio al fine di vederlo condannare al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali patiti.

In particolare, gli attori si dolgono del fatto che il convenuto abbia sfruttato la loro condizione di debolezza ingenerando la falsa speranza della guarigione del loro congiunto per trarne un profitto. I familiari del malato agiscono contro Mevio anche in sede penale ove lo stesso viene condannato ex art. 444 c.p.p. per i reati di associazione per delinquere, esercizio abusivo dell'attività di biochimico farmaceutico, commercio di medicinali senza autorizzazione e, infine, per truffa in concorso con Caio. In primo e secondo grado, i convenuti sono condannati al pagamento del danno patrimoniale pari a 500,00 euro (ossia il costo del medicinale) e al pagamento di 25 mila euro a favore di ciascuno degli attori a titolo di danno non patrimoniale. Secondo il giudice d'appello, l'oggetto del processo riguarda la sussistenza del nesso eziologico tra le sofferenze patite e la condotta truffaldina (non già il nesso tra il decesso e il comportamento dei convenuti). Inoltre, il danno patito dai familiari è sia un danno iure proprio per le sofferenze patite in seguito all'affidamento riposto nel miglioramento del congiunto sia un pregiudizio iure hereditatis derivante dalla lesione del diritto all'autodeterminazione del defunto. Si giunge così al terzo grado di giudizio.

La questione

Spetta il risarcimento del danno ai familiari di una vittima turlupinata a seguire una terapia alternativa per la cura del cancro? Il danno patito dai familiari si configura iure proprio o iure hereditatis?

La Corte di cassazione, con l'ordinanza Cass. civ., sez. III, 22 maggio 2024, n. 14245 rigetta il ricorso del medico e afferma che i parenti della vittima hanno diritto al risarcimento del pregiudizio patito sia iure proprio che iure hereditatis. Secondo i giudici di legittimità, il ricorso del medico è diretto a fornire una diversa interpretazione del petitum ed è, quindi, inammissibile. Infatti, l'oggetto del processo riguarda non tanto il nesso tra il decesso e il comportamento del ricorrente quanto la sussistenza del nesso eziologico tra le sofferenze patite e la condotta truffaldina del medico per aver garantito la guarigione pur sapendo dell'incurabilità della malattia.

Gli ermellini confermano che il danno patito dai familiari costituisca un danno iure proprio per le sofferenze patite in seguito all'affidamento mal riposto nel miglioramento del congiunto e un pregiudizio iure hereditatis derivante dall'alterazione della libertà di determinazione, ovvero il diritto di intraprendere delle scelte per sé e la propria vita, in completa libertà e piena autoresponsabilità. Nella quantificazione del danno, i giudici di merito, correttamente, hanno valutato la condotta e le modalità subdole con cui il medico ha sfruttato la soggezione emotiva di fronte alla diagnosi infausta, la profonda frustrazione dei familiari derivante dalle assicurazioni di guarigione e, infine, la circostanza che il ricorrente abbia indotto il malato ad abbandonare la chemioterapia e l'assunzione di morfina, la quale, se proseguita, avrebbe quantomeno lenito il dolore derivante dall'ingravescenza della malattia. L'interpretazione del contenuto della domanda è sindacabile in sede di legittimità in casi specifici. Il ricorrente lamenta che la decisione gravata lo abbia condannato al risarcimento del danno benché sia stato ritenuto insussistente il nesso eziologico tra la sua condotta illecita e la morte del malato. La Suprema Corte ritiene inammissibile tale doglianza, in quanto con il motivo di ricorso il medico ha inteso sindacare l'interpretazione del contenuto della domanda giudiziale operata dal giudice di merito.

La decisione gravata, infatti, ha ritenuto che il petitum riguardi il rapporto tra la sofferenza patita dai familiari nonché dal loro congiunto e la condotta truffaldina del ricorrente.

Nel caso analizzato la censura del ricorrente è inammissibile poiché non ha riguardato nessuna delle ipotesi previste dalla Corte di cassazione passibili di costituire oggetto di sindacato, ovvero:

  • quando si risolva in un vizio di nullità processuale; 
  • qualora comporti un vizio nel ragionamento logico decisorio; 
  • quando si traduca in un errore che coinvolge la qualificazione giuridica dei fatti allegati nell'atto introduttivo o l'omessa rilevazione di un fatto allegato e non contestato da ritenere decisivo.

 

Il ricorrente, lamentando l'assenza del nesso causale tra il decesso del paziente e la propria condotta illecita, intende ricondurre i fatti nell'ambito della sola domanda risarcitoria sollevata iure proprio dagli attori per la perdita del rapporto parentale. In tal caso, infatti, è necessario che la morte della vittima sia causalmente riconducibile alla condotta illecita del terzo. Il ricorrente, dunque, propone un'interpretazione della domanda giudiziale alternativa rispetto a quella effettuata dal giudice di merito. Invero, la corte territoriale ha individuato il petitum nel nesso di causalità esistente tra la condotta truffaldina del ricorrente e l'alterazione della libertà di determinazione della vittima. La suddetta alterazione ha provocato sofferenze sia al malato che ai congiunti, ingenerando l'affidamento nell'efficacia della cura. Il giudice d'appello ha posto a fondamento del danno la lesione del diritto all'autodeterminazione del malato, ovvero il diritto di intraprendere delle scelte per sé e la propria vita, in completa libertà e piena autoresponsabilità, in assenza di ingerenze da parte di condotte di soggetti terzi. Dalla lesione del diritto all'autodeterminazione possono derivare sia danni patrimoniali (lesione del diritto all'autodeterminazione negoziale) che danni non patrimoniali (sofferenze soggettive e limitazione della libertà di disporre di sé stessi).

Tali pregiudizi, salva prova contraria, devono essere risarciti. La giurisprudenza si è pronunciata sulla lesione del diritto all'autodeterminazione principalmente con riguardo ai casi di omessa diagnosi tempestiva in caso di malattie oncologiche ad esito infausto. In tali fattispecie, il pregiudizio consiste nella perdita di un bene reale e certo come il diritto di decidere liberamente il proprio percorso di vita. In sostanza, è autonomamente risarcibile la «perdita del ventaglio di opzioni, tra le quali il paziente ha diritto di scegliere dinanzi alla prospettiva di un exitus imminente». Ad esempio, la ricerca e la scelta di una determinata terapia oppure l'accettazione della fine senza ricorrere ad alcun intervento medico. Tali tipologie di scelta appartengono al singolo.

Il caso più ricorrente di lesione del diritto all'autodeterminazione attiene le omesse informazioni da parte del medico ove, a causa del deficit informativo, il paziente non viene messo in condizione di assentire al trattamento sanitario con una volontà consapevole delle sue implicazioni. È opportuno ricordare che ciascun paziente ha diritto a ricevere un'informazione specifica e adeguata sulle conseguenze dell'intervento medico a cui si sottopone o della cura che intraprende. Conseguentemente, il soggetto decide con consapevolezza di sottoporsi ad una terapia o ad un esame clinico per eliminare uno stato patologico preesistente o per prevenire una patologia o un aggravamento. La violazione dell'obbligo informativo, gravante sul medico, può determinare un duplice nocumento: una lesione del principio di autodeterminazione e un danno alla salute. Si ricorda che il diritto all'autodeterminazione è connesso ma distinto dal diritto alla salute.

Nel caso analizzato, la condotta del medico, il quale ha garantito la guarigione dalla patologia grazie all'assunzione di un unico farmaco pur essendo consapevole della incurabilità della malattia, ha leso il diritto all'autodeterminazione del malato, il quale, mal riponendo la propria fiducia nelle rassicurazioni del sanitario, ha abbandonato la terapia chemioterapica e l'assunzione di morfina che, quantomeno, avrebbe potuto lenire il dolore.

I giudici di legittimità ritengono che la decisione in questione abbia correttamente ritenuto risarcibile il danno per lesione del diritto all'autodeterminazione. In particolare, i congiunti hanno patito un danno non patrimoniale: iure proprio per la sofferenza morale e la disperazione conseguente all'affidamento nell'efficacia curativa della terapia; iure hereditatis per l'alterazione delle scelte personali del malato effettuate in prossimità della fine della propria vita.

Relativamente alla quantificazione del danno, il provvedimento analizzato ha considerato:

  1. la grave condotta con cui il medico ha approfittato del malato e dei suoi familiari sfruttando la soggezione emotiva di fronte alla diagnosi infausta;
  2. le modalità subdole con cui è stata protratta la condotta illecita (ad esempio, con la somministrazione via endovena nelle ultime fasi della malattia);
  3. il senso di profonda frustrazione scaturente dalle assicurazioni di guarigione;
  4. infine è stata considerata l'interruzione della terapia (chemioterapia e assunzione di morfina) operata su indicazione del convenuto che, se avesse proseguito, avrebbe quantomeno lenito il dolore derivante dalla malattia.

 

Secondo il giudice di merito, quelle indicate rappresentano le conseguenze patite dagli eredi sia in proprio che in via successoria e rientrano nell'alveo dei danni derivanti dalla lesione del diritto all'autodeterminazione individuato «come perno del petitum prima, in sede di interpretazione della domanda giudiziale, e del processo, poi».

Tra le varie censure, il ricorrente lamenta il fatto che la decisione abbia fondato la sussistenza della responsabilità sulla base delle prove acquisite nel processo penale conclusosi con una sentenza di patteggiamento. Secondo la Cassazione la doglianza è infondata, in quanto la sentenza impugnata, correttamente, ha attribuito alle prove acquisite nel procedimento penale il valore di argomenti di prova. I giudici hanno considerato alcuni elementi derivanti dal giudizio penale ma essi hanno costituito solo una parte della più ampia valutazione del giudizio di responsabilità a cui hanno contribuito le stesse affermazioni dell'appellante rese nel giudizio civile. In particolare, sono state rilevanti ai fini dell'accertamento della condotta illecita le dichiarazioni del ricorrente che, da una parte, ha sostenuto che il medicinale somministrato al malato non fosse un farmaco ma un integratore e, dall'altra, che la malattia si trovava in uno stato troppo avanzato affinché il medicinale sortisse effetto. Tali elementi sono stati utilizzati per corroborare la tesi del comportamento manipolatorio e dei raggiri operati ai danni dalla famiglia.

In conclusione, la Corte di cassazione rigettando il ricorso del medico ha sottolineato che la situazione giuridica soggettiva tutelata dall'ordinamento, posta dal secondo giudice a fondamento del danno evento asseritamente leso dalla condotta illecita, è il diritto all'autodeterminazione, quale diritto ad intraprendere, in libertà e consapevole autoresponsabilità, scelte per sé e la propria esistenza in assenza di qualsiasi alterazione o interferenza da parte di condotte riconducibili a soggetti terzi; là dove da tale lesione siano dunque derivate conseguenze dannose di natura patrimoniale (lesione del diritto alla autodeterminazione negoziale) ovvero di natura non patrimoniale (quali sofferenze soggettive e limitazione della libertà di disporre di se stessi) esse non potranno che essere risarcite, salva pur sempre la prova contraria».

Osservazioni

Un evento lesivo, quale può essere un sinistro o altro illecito, non coinvolge soltanto il soggetto che direttamente ha vissuto l'evento, ovvero la vittima.

Vi sono degli eventi cosiddetti “plurioffensivi”, che coinvolgono anche i familiari, quali vittime secondarie dell'evento morte del congiunto. È ovvio, infatti, che la perdita di un familiare determina per i cari un'enorme sofferenza, che merita un giusto ristoro quantificato in termini patrimoniali. Si tratta comunque di una conseguenza immediata e diretta del fatto dannoso del terzo che ha leso in primo luogo la vittima. È opportuno effettuare una disamina dei danni per i quali i congiunti possono avere diritto di ottenere il risarcimento.

Si tratta di danni che si ripercuotono direttamente nella loro sfera giuridica e risarcibili iure proprio, cioè non ereditati dalla vittima, ma maturati direttamente dai congiunti. Uno è il danno patrimoniale iure proprio: si tratta delle perdite delle utilità economiche elargite dal defunto al prossimo congiunto e delle quali beneficiava e avrebbe presumibilmente continuato a beneficiare in futuro.

Ulteriore tipologia di danno è il danno biologico iure proprio: ricorre nel caso in cui la perdita del congiunto abbia determinato nei familiari una lesione dell'integrità psicofisica; il danno da morte iure proprio, invece, è il danno derivante dalla recisione grave e irreparabile del legame familiare costituzionalmente tutelato, derivante dal decesso del congiunto. Tale ultima voce di danno, va concretamente accertata tenendo conto del concreto legame affettivo intercorrente con la vittima.

Il danno da perdita parentale sarà senz'altro configurabile, ad esempio, tra genitori e figli, tra fratelli e tra nonni e nipoti particolarmente vicini.

Oltre questi danni, i congiunti hanno, altresì, il diritto, ove ricorrano i presupposti, al risarcimento dei danni patiti personalmente dalla vittima prima di spirare e trasmessi a loro iure hereditatis, ovvero per eredità.  

Si tratta del danno biologico terminale e del danno morale soggettivo. Il primo si configura come la lesione al bene salute nella sua massima intensità, poiché si tratta di lesioni che condurranno alla morte del soggetto. Il danno morale invece consiste nelle sofferenze patite dalla vittima per l'avvicinarsi dell'evento morte, dalla stessa percepito.

Con riguardo al danno biologico terminale, condizione necessaria per la sua risarcibilità è che tra l'evento lesivo e la morte sia trascorso un apprezzabile lasso di tempo. In altre parole, occorre che vi sia stata una netta separazione temporale tra i due eventi.

Con riguardo in vece al danno morale soggettivo, la Suprema Corte di cassazione ha precisato che la vittima, per maturare tale voce di danno, deve essere lucida nella sua agonia. Ciò in quanto deve aver potuto concretamente e coscientemente percepire l'apprestarsi della morte. Pertanto, chi ha subito la grave perdita di un congiunto può avere diritto al risarcimento di una pluralità di danni, a seconda delle circostanze del caso concreto.

Come si è detto, la risarcibilità del danno da perdita parentale trova fondamento nella Costituzione. In particolare, ad essere tutelata è l'intangibilità degli affetti che derivano dal rapporto di parentela. Tuttavia, alla luce dell'evoluzione del concetto di “famiglia naturale” è evidente come ormai si intendano quali legami familiari, anche legami che si fondano sull'affetto e la condivisione e non soltanto su vincoli di sangue. Il legame di parentela, dunque, non è un requisito imprescindibile ai fini della risarcibilità del danno né lo è quello della convivenza in sé. La Suprema Corte di cassazione si è occupata dunque del danno da perdita parentale in assenza di convivenza, chiarendo che il rapporto non di stretta parentela, per essere ritenuto giuridicamente qualificato e rilevante, non può essere ancorato alla sola convivenza, con esclusione automatica, nel caso di non sussistenza della stessa, della possibilità per tali congiunti di provare in concreto la sussistenza di rapporti costanti di reciproco affetto e di solidarietà con il familiare defunto. Infatti, il prossimo congiunto ha diritto al risarcimento del danno se prova l'effettività e la consistenza della relazione affettiva, sicché la convivenza non rappresenta una condicio sine qua non, ma soltanto un criterio utile per dimostrare quella relazione.

Pertanto, la sussistenza dello stretto vincolo di parentela, pur costituendo un requisito fondamentale secondo l'impostazione tradizionale, non costituisce l'unico requisito ai fini del riconoscimento del danno parentale. Ciò in quanto la progressiva estensione del modello familiare ai rapporti fatto ha condotto al riconoscimento del danno parentale anche ai conviventi more uxorio.

Inoltre, pur in presenza di un legame di sangue, va indagata la presenza di altri presupposti, ad esempio un rapporto di convivenza, al fine di verificare l'esistenza di un reale e profondo legame affettivo, meritevole di tutela.

Riferimenti

Giurisprudenza conforme:

  • Cass. civ., sent. n. 18069/2018;
  • Cass. civ., sent. n. 7260/2018;
  • Cass. 23328/2019;
  • Cass. civ., sent. n. 12973/2020;
  • Cass. civ., sent. n. 26104/2022. 

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