Codice di Procedura Civile art. 555 - Forma del pignoramento1.

Rinaldo D'Alonzo

Forma del pignoramento1.

[I]. Il pignoramento immobiliare si esegue mediante notificazione al debitore e successiva trascrizione [29141 n. 1 c.c.] di un atto nel quale gli si indicano esattamente [170 att.], con gli estremi richiesti dal codice civile per la individuazione dell'immobile ipotecato [2826 c.c.], i beni e i diritti immobiliari [812, 813 c.c.] che si intendono sottoporre a esecuzione, e gli si fa l'ingiunzione prevista nell'articolo 492.

[II]. Immediatamente dopo la notificazione l'ufficiale giudiziario consegna copia autentica dell'atto con le note di trascrizione [26591 c.c.] al competente conservatore dei registri immobiliari [2663 c.c.], che trascrive l'atto e gli restituisce una delle note [26642 c.c.] 2.

[III]. Le attività previste nel comma precedente possono essere compiute anche dal creditore pignorante, al quale l'ufficiale giudiziario, se richiesto, deve consegnare gli atti di cui sopra [5572].

 

[1]  Ai sensi dell'art. 54-ter d.l. 17 marzo 2020, n. 18, conv., con modif., in l. 24 aprile 2020, n. 27, come da ultimo modificato dall'art. 13, comma 14, del d.l. 31 dicembre 2020, n. 183,  conv., con modif., in l. 26 febbraio 2021, n. 21, « al fine di contenere gli effetti negativi dell'emergenza epidemiologica da COVID-19, in tutto il territorio nazionale è sospesa, fino al 30 giugno 2021, ogni procedura esecutiva per il pignoramento immobiliare, di cui al presente articolo, che abbia ad oggetto l'abitazione principale del debitore.» Successivamente la Corte costituzionale, con sentenza n. 128 depositata il 22 giugno 2021 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 13, comma 14, del decreto-legge 31 dicembre 2020, n. 183. L'originario termine di « sei mesi a decorrere dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto » era stato sostituito con il termine del 31 dicembre 2020 dall'art. 4 comma 1 d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, conv. con modif. in legge 18 dicembre 2020, n. 176 che ha, inoltre, disposto che « è inefficace ogni procedura esecutiva per il pignoramento immobiliare, che abbia ad oggetto l'abitazione principale del debitore, effettuata dal 25 ottobre 2020 alla data di entrata in vigore della legge di conversione del d.l. n. 137, cit. ». Da ultimo, la Corte cost. n. 87 del 4 aprile 2022 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 del d.l. n. 137/2020, conv., con modif., in l. 18 dicembre 2020, n. 176, nella parte in cui prevede che «È inefficace ogni procedura esecutiva per il pignoramento immobiliare, di cui all’articolo 555 del codice di procedura civile, che abbia ad oggetto l’abitazione principale del debitore, effettuata dal 25 ottobre 2020 alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto».

[2] Comma così modificato dal r.d. 20 aprile 1942, n. 504.

Inquadramento

La disciplina del pignoramento immobiliare è contenuta negli artt. 555-600.

Mentre nel codice di rito del 1865 il pignoramento degli immobili si perfezionava con la semplice trascrizione dell'atto di precetto, opportunamente predisposto con la descrizione dei beni oggetto di espropriazione, cui seguiva la vendita disposta con sentenza, nell'attuale sistema il pignoramento immobiliare costituisce una fattispecie complessa, che a norma dell'art. 555 c.p.c. si compie con la notificazione e la successiva trascrizione dei un atto contente gli estremi identificativi dei beni che si intendono aggredire, e l'ingiunzione di cui all'art. 492 c.p.c., con tutti gli inviti e gli avvertimenti contemplati all'interno di detta disposizione.

Poiché il pignoramento immobiliare è quello che ha ad oggetto un bene immobile, è centrale che lo stesso sia compiutamente individuato sotto un duplice profilo.

In primo luogo, viene in rilievo il connotato giuridico del bene staggito, dovendosi individuare quale diritto reale è stato sottoposto ad esecuzione. In secondo luogo, occorre perimetrare nella sua consistenza fisica il bene, poiché esso costituisce il perno attorno al quale ruota tutta la procedura esecutiva. È dunque di vitale importanza quello di capire «cosa» è stato pignorato e, dunque, «cosa» dovrà vendersi e trasferire all'aggiudicatario.

Il pignoramento immobiliare è quello che ha ad oggetto i beni immobili. Non appare superfluo ricordare a questo proposito che tali sono secondo l'art. 812 c.c. il suolo, le sorgenti e i corsi d'acqua, gli alberi, gli edifici e le altre costruzioni, anche se unite al suolo a scopo transitorio, e in genere tutto ciò che naturalmente o artificialmente è incorporato al suolo.

Come si vede, il legislatore ha inteso utilizzare una nozione ampia di immobile, ricomprendendovi tutto ciò che è «incorporato» al suolo, sia a carattere definitivo che precario, indipendentemente dalle modalità costruttive utilizzate.

In argomento va ricordato un risalente, per quanto attuale, precedente giurisprudenziale si ha affermato che «A norma del comma 1 dell'art. 812 c.c., sono, tra l'altro, considerati immobili, gli edifici e le altre costruzioni, anche se unite al suolo a scopo transitorio. L'espressione legislativa, assai ampia e generica, «altre costruzioni» fa ritenere che essa sia stata usata per designare qualsiasi costruzione, a qualunque uso adibita, fatta con qualsiasi materiale. Non vale, pertanto, a negare ad un chiosco per la distribuzione di carburante il carattere di costruzione la circostanza che esso sia stato fabbricato, con una cabina di metallo e con vetri, i quali materiali, peraltro, sono oramai frequentemente usati, anche per la costruzione di veri e propri edifici; ne rileva, al predetto fine, che la costruzione non sia stata assoggettata all'imposta sui fabbricati, poiché l'imposizione tributaria relativa ad un bene non può valere a qualificarne la natura ad effetti diversi» (Cass. n. 1964/1962).

Espropriabili sono tutti i diritti reali immobiliari che siano suscettibili di scambio, compresi la nuda proprietà, l'usufrutto, la superficie e l'enfiteusi. Non sono espropriabili il diritto di servitù, nonché i diritti di uso e di abitazione, in quanto non autonomamente trasferibili.

Il pignoramento della nuda proprietà e dell'usufrutto

Sia il diritto di nuda proprietà che il diritto di usufrutto possono essere oggetto di pignoramento immobiliare. Prova indiretta di questa possibilità si ricava anche dagli artt. 2810 e 2814 c.c., a mente dei quali sia la nuda proprietà che l'usufrutto possono costituire oggetto di ipoteca.

Poiché ai sensi dell'art. 979, comma 1, c.c. «La durata dell'usufrutto non può eccedere la vita dell'usufruttuario», se è posto in vendita il diritto di usufrutto, esso comunque, al più tardi, si estinguerà alla morte dell'usufruttuario originario, dovendosi solo precisare che ai sensi dell'art. 999 c.c. le locazioni concluse dall'usufruttuario, in corso al tempo della cessazione dell'usufrutto, purché constino da atto pubblico o da scrittura privata di data certa anteriore, continuano per la durata stabilita, ma non oltre il quinquennio dalla cessazione dell'usufrutto. Se la cessazione dell'usufrutto avviene per la scadenza del termine stabilito, le locazioni non durano in ogni caso se non per l'anno, e, trattandosi di fondi rustici dei quali il principale raccolto è biennale o triennale, se non per il biennio o triennio in corso al tempo in cui cessa l'usufrutto.

Resta sottratto al pignoramento l'usufrutto legale esercitato dai genitori esercenti la potestà sui beni del figlio, che l'art. 326, comma 1, c.c., sottrae all'esecuzione forzata da parte dei creditori.

Non è tuttavia infrequente che il pignoramento non sia stato correttamente eseguito poiché cadente su un diritto diverso da quello di cui il debitore esecutato è effettivamente titolare (Astuni, 617 ss.).

Pignoramento cadente sul diritto di proprietà anziché sulla nuda proprietà

Può accadere che il pignoramento abbia avuto ad oggetto la piena proprietà, ma dall'analisi della documentazione ipocatastale emerge che il debitore esecutato è solo nudo proprietario.

In questo caso, poiché vale il brocardo quod abuntat non vitiat, può ugualmente darsi corso alla vendita forzata del diritto di proprietà, il quale risulterà gravato del diritto reale di godimento. Oggetto della vendita forzata, cioè, sarà il medesimo diritto pignorato, con la particolarità che esso non sarà esercitabile dall'aggiudicatario in tutto il suo normale contenuto, poiché temporaneamente e parzialmente compresso per la presenza del diritto di usufrutto fatto valere dal terzo sul bene.

A questa regola fa eccezione il diritto di usufrutto costituito su cosa ipotecata. Invero, questo diritto si estingue con l'espropriazione del bene ai sensi dell'art. 2812 c.c., ed al relativo titolare (cui andrà notificato l'avviso ex art. 498 c.p.c.) viene riconosciuta la facoltà di far valere le proprie ragioni sul ricavato dalla vendita, con preferenza rispetto alle ipoteche iscritte posteriormente alla trascrizione del diritto.

Eseguito il pignoramento sulla proprietà, l'estinzione del relativo usufrutto (che ai sensi dell'art. 979 c.c. non può eccedere la vita dell'usufruttuario) comporterà, con il riespandersi del diritto del nudo proprietario, che resterà così assoggettato alla procedura espropriativa per la piena proprietà.

Pignoramento cadente sul diritto di proprietà anziché sul diritto di usufrutto.

All'opposto, può verificarsi che il debitore esecutato sia titolare del solo usufrutto, ma oggetto del pignoramento è stata la piena proprietà.

In questo contesto sembra ammettere la possibilità di procedere alla vendita la giurisprudenza della Corte di Cassazione, secondo la quale un principio di economia processuale e di conservazione degli atti imporrebbe di salvare gli effetti del pignoramento quante volte esso, sebbene viziato per eccesso (in quanto avente ad oggetto una quota o un diritto di estensione maggiore rispetto a quello di cui il debitore è titolare), consenta la prosecuzione della procedura sulla porzione minore. Il riferimento è a Cass. III, n. 6833/2015, nella quale è stato affrontato, tra gli altri, il caso di un pignoramento cadente su una quota indivisa del bene maggiore di quella effettivamente in titolarità dell'esecutato.

Nel ritenere salvi gli effetti del pignoramento i giudici di legittimità hanno osservato che è ben vero, infatti, che l'oggettiva non titolarità in capo al debitore non potrebbe mai utilmente consentire l'assoggettamento a procedura esecutiva di quella porzione di diritto che al debitore non faccia capo; e tuttavia non si ha ragione di negare l'efficacia propria del pignoramento almeno per il minor diritto a lui spettante, alla duplice condizione:

– che con quell'atto di impulso del processo esecutivo non si tenda a dar luogo a diritti prima ontologicamente inesistenti, ovvero a costituirne di nuovi, sul bene oggetto di pignoramento;

– che il creditore non annetta espressamente carattere di inscindibilità al diritto da lui reso oggetto di pignoramento e quindi di indispensabilità alla soggezione alla procedura proprio di quello come da lui erroneamente individuato, tanto da insistere esclusivamente per la vendita di quest'ultimo e non di altro o minore.

In altri termini, il pignoramento c.d. in eccesso vitiatur sed non vitiat, perché è sufficiente, anche in questo caso per il principio di conservazione degli atti giuridici e soprattutto di quelli processuali, già richiamato, limitarne l'estensione e gli effetti al diritto, minore di quello ivi descritto, del quale sia effettivamente titolare il debitore.

Pignoramento cadente sulla nuda proprietà anziché sulla piena proprietà

La situazione ricorre quando dall'esame delle risultanze della Conservatoria dei registri immobiliari il debitore esecutato risulta nudo proprietario e il pignoramento viene pertanto eseguito sulla nuda proprietà: sennonché, ad insaputa del creditore, al momento della trascrizione dell'atto di pignoramento l'usufruttuario era ormai deceduto; è evidente che in questo caso il diritto pignorato (nuda proprietà) è meno ampio di quello di cui il debitore esecutato era effettivamente titolare.

Per risolvere il problema delle sorti del pignoramento occorre muovere dalla considerazione che in questo caso oggetto di esecuzione forzata è stato un fascio di facoltà più ristretto rispetto a quello di cui il debitore esecutato era titolare; il debitore esecutato, cioè, in quanto pieno proprietario, è titolare di una serie di facoltà che non vengono tutte sottoposte ad esecuzione, essendo viceversa colpite solo quelle corrispondenti al diritto di nuda proprietà. L'ipotesi è apparentemente simile a quella in cui viene sottoposta ad esecuzione soltanto una parte dell'immobile, con l'avvertenza che in quest'ultimo caso v'è un apporzionamento per così dire «quantitativo» del bene, mentre nel caso che ci occupa si tratterebbe di un apporzionamento «qualitativo».

In argomento mancano precedenti giurisprudenziali che abbiano affrontato il tema ex professo, ed allora nella risoluzione del problema possono utilmente prendersi a prestito le riflessioni compiute dalla dottrina in materia di ipoteca (Astuni, 621).

Sulla base di quelle riflessioni può forse dirsi in primo luogo che non è possibile ipotecare, e quindi pignorare, diritti che non esistono, con la conseguenza che se il debitore esecutato è pieno proprietario non è possibile ipotecare o pignorare in suo danno la nuda proprietà.

In secondo luogo, premesso che la vendita forzata implica il trasferimento di diritti esistenti, non già la costituzione di diritti nuovi, se in capo al pieno proprietario si pignorasse la sola nuda proprietà, il trasferimento della stessa all'aggiudicatario costituirebbe (inammissibilmente) in capo al debitore esecutato un diritto di usufrutto.

Venendo alle ricadute processuali di una situazione di questo tipo si aprono due possibili soluzioni.

Una prima strada potrebbe essere quella di considerare il pignoramento è nullo, e quindi la procedura dovrebbe essere dichiarata improseguibile.

Una soluzione meno tranchant è viceversa quella di ritenere ammissibile l'integrazione del pignoramento, fatte salve le iscrizioni e trascrizioni medio tempore eseguite sulla piena proprietà. È allora evidente, ove si decida di seguire questa seconda opzione, che all'integrazione del pignoramento dovrà accompagnarsi l'integrazione della documentazione ipocatastale che abbracci il periodo ricompreso tra il primo ed il secondo pignoramento.

Pignoramento cadente sull'usufrutto anziché sulla piena proprietà

Valgono qui le medesime considerazioni svolte con riferimento all'ipotesi inversa, sopra trattata, stante l'identità di situazioni.

Pignoramento cadente sulla piena proprietà anziché sulla proprietà superficiaria

Un'altra rilevante questione attiene alla validità o meno del pignoramento eseguito sulla piena proprietà di un immobile allorquando il debitore sia invece titolare del solo diritto di proprietà superficiaria previsto dal capoverso dell'art. 952 c.c.

Il tema è stato affrontato, per la prima volta, dalla Corte di cassazione, con l'ordinanza n. 6576/2013. Nel motivare il proprio convincimento circa la validità di un siffatto pignoramento, i giudici di legittimità sono partiti dalla premessa secondo cui «la peculiarità del diritto di proprietà superficiaria ... sta in ciò, che essa identifica, come oggetto di un diritto reale di godimento su immobile altrui, una porzione fisica separata dell'oggetto del diritto di proprietà su di un fondo (il quale ultimo normalmente si estende verso l'alto e verso il basso, entro i limiti ragionevoli di una adeguata possibilità di concreto sfruttamento), porzione che diviene oggetto di un diritto reale analogo a quello della proprietà, salvo solo il limite derivante nei confronti del concedente e del negozio di costituzione del diritto», cosicché «nei confronti dei terzi il titolare della proprietà superficiaria può equipararsi ad un proprietario, essendo appunto dotato nei loro confronti, quanto al bene edificato al di sopra del suolo, di tutte le facoltà di norma facenti capo al dominus».

Da questo assunto di ordine generale la Cassazione fa derivare due precipitati.

Il primo è che essendo la proprietà dell'immobile edificato – distinta dalla proprietà dal suolo su cui sorge – una proprietà limitata da un punto di vista soggettivo (nei confronti dei soggetti diversi dal concedente) e temporale (in relazione al negozio di costituzione del diritto), essa è un quid minoris rispetto alla seconda ed in essa ricompresa, con la conseguenza che il pignoramento va a colpire ipso iure il minor diritto.

Il secondo è che l'indicazione, nell'atto di pignoramento, del superficiario come proprietario del solo bene edificato oggetto della superficie non è scorretta, visto che di quel bene egli è effettivamente proprietario.

È comunque evidente che, ove questa circostanza emerga dopo l'adozione dell'ordinanza di vendita, le relative operazioni andranno sospese e sarà necessario procedere ad una integrazione dell'elaborato peritale al fine di verificare se il prezzo di vendita debba essere rideterminato.

Gli alloggi di edilizia popolare ed economica

La speciale disciplina che li contraddistingue, e le finalità di rilievo pubblicistico del relativo regime circolatorio pone nella prassi il problema di stabilire se possano essere sottoposti ad esecuzione forzata gli alloggi di edilizia economica popolare.

La tematica sorge in quanto le norme che ne disciplinano la concessione (si vedano, ad esempio, gli artt. 29 l. n. 60/1963, e 28, comma 5, l. n. 513/1977) prevedono un vincolo (normalmente decennale) di inalienabilità, diretto ad evitare che le agevolazioni concesse dallo Stato possano favorire intenti speculativi, e richiedono in capo all'acquirente specifiche condizioni soggettive dirette ad assicurare la funzione sociale propria di questa peculiare categoria residenziale. Ci si è dunque chiesti se il vincolo di inalienabilità valesse anche per i trasferimenti coattivi a seguito di vendita forzata, e se l'aggiudicatario debba possedere i requisiti che lo rendano candidato idoneo alla concessione dell'alloggio.

I dubbi sono stati dissipati da Cass. III, n. 6748/1987, la quale ha affermato che, «gli alloggi di edilizia economica e popolare assegnati e ceduti senza riserva di proprietà possono essere oggetto di pignoramento da parte dei creditori degli assegnatari e, quindi, possono anche essere venduti all'asta a qualsiasi partecipante alla gara a conclusione della procedura esecutiva, ancor prima che sia trascorso il decennio di cui agli artt. 29 della l. n. 60/1963 e 28 comma 5, l. n. 513/1977 ed indipendentemente dal possesso, da parte dell'acquirente, dei requisiti prescritti per la cessione originaria di quei medesimi alloggi, atteso che la nullità stabilita dalle disposizioni contenute nelle norme sopracitate riguarda esclusivamente gli atti volontari di disposizione compiuti dagli stessi assegnatari».

Negli stessi termini si è espressa la giurisprudenza amministrativa (Cons. St. n. 4749/2016), la quale affrontando il caso di un immobile destinato ad edilizia residenziale convenzionata ex art. 35 della l. n. 865/1971 (recante, tra l'altro, «Programmi e coordinamento dell'edilizia residenziale pubblica»), nel condividere il richiamato arresto del giudice nomofilattico ha ricordato come i vincoli propri dell'edilizia economica e popolare non mutano il regime giuridico del diritto di proprietà trasmesso all'assegnatario, ma esauriscono la loro funzione nei rapporti tra quest'ultimo e l'ente pubblico proprietario, ed è solo nel perimetro di questa relazione che si esplicano le finalità sociali connesse alla realizzazione e gestione del patrimonio edilizio residenziale popolare, in particolare per impedire operazioni di carattere speculativo contrarie alle medesime finalità. Ergo, colui che si renda acquirente di un alloggio popolare per mezzo di una vendita giudiziaria è estraneo alla disciplina pubblicistica dell'assegnazione, che dunque non gli può essere opposta come impeditiva al trasferimento del bene, anche perché, aggiunge la citata pronuncia, l'imposizione di questi requisiti in capo agli offerenti si risolverebbe in una ingiustificata limitazione della garanzia patrimoniale generica di cui godono i creditori a mente dell'art. 2740 c.c., non giustificata da un interesse pubblico che ha già trovato composizione nel rapporto tra ente e originario cessionario dell'alloggio.

Merita un richiamo la previsione di cui all'art. 37, comma 1, della l. n. 865/1971 cit. (successivamente abrogato dall'art. 44, comma 4, l. n. 457/1978) a mente del quale «Nel caso di procedimento esecutivo sull'immobile costruito su area in concessione superficiaria o in proprietà, l'immobile potrà essere aggiudicato, in concessione superficiaria o in proprietà, a soggetti aventi i requisiti per l'assegnazione di case economiche e popolari». La norma, nel dettare direttamente una condizione dell'aggiudicazione si erge a vera e propria regola processuale, sicché in ossequio al principio tempus regit actum, non sarà applicabile alle vendite esecutive compiute successivamente alla sua abrogazione.

Infine, occorre dare conto della circostanza per cui nella prassi si registrano a volte provvedimenti concessori (adottati ad esempio a norma dell'art. 35 l. n. 865/1971) in cui si prevede che i successivi trasferimenti possano eseguirsi solo in favore di soggetti aventi i requisiti richiesti per la assegnazione di alloggi economici e popolari, anche laddove il trasferimento si perfezioni nell'ambito di un procedimento di esecuzione forzata per espropriazione immobiliare.

Non pare che tali prescrizioni possano spiegare un qualche effetto in sede esecutiva, poiché esse si risolvono nella imposizione di un inammissibile vincolo processuale dettato alla stessa procedura al difuori di qualsiasi previsione normativa, creando di fatto, per provvedimento amministrativo, un divieto di acquisto analogo a quello di cui all'art. 571 c.p.c., che vieta al debitore di formulare offerte di acquisto; la previsione, in effetti, si sostanzia in una preclusione alla formulazione di offerte in capo a coloro i quali non posseggono i requisiti per l'assegnazione di alloggi popolari, in violazione dell'art. 111, comma 1, Cost., (secondo il quale «la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge») e dello stesso art. 571 c.p.c., (a mente del quale «tutti» tranne il debitore possono presentare offerte di acquisto), che la costante giurisprudenza considera norma eccezionale, e come tale insuscettibile di applicazione analogica (Cass. n. 4407/1979; Cass. n. 605/1982; Cass. n. 11258/2007 a proposito dell'analogo art. 579. A proposito della natura e del divieto di acquisto di cui all'art. 571 c.p.c. cfr. D'Alonzo, 379 ss.).

Posto dunque che gli immobili destinati ad edilizia economica popolare ben possono essere oggetto di pignoramento immobiliare, e chiarito che il loro trasferimento in sede esecutiva prescinde dall'accertamento delle condizioni soggettive dell'acquirente richieste dalla speciale disciplina pubblicistica, occorre chiedersi se operi nella procedura esecutiva l'istituto della prelazione legale che a volte il legislatore riconosce allo IACP o agli enti individuati come titolari del potere di amministrazione di questi patrimoni.

Il riferimento è all'art. 1, comma 20, l. n. 560/1993 a mente del quale «In caso di vendita gli IACP e i loro consorzi, comunque denominati e disciplinati con legge regionale, hanno diritto di prelazione», ed all'art. 28, comma 9, l. n. 513/1977 il quale dispone che «L'assegnatario può alienare l'alloggio qualora ricorrano, le condizioni di cui al precedente comma 5. In tal caso deve darne comunicazione al competente istituto autonomo per le case popolari, il quale potrà esercitare, entro 60 giorni dal ricevimento della comunicazione, il diritto di prelazione all'acquisto per un prezzo pari a quello di cessione rivalutato sulla base della variazione accertata dall'ISTAT dell'indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati». Tale ultima prelazione si estingue, alle condizioni di cui all'art. 1, comma 25, l. n. 560/993, il quale prevede che «Il diritto di prelazione di cui al nono comma dell'art. 28 della l. 8 agosto 1977, n. 513 e successive modificazioni, si estingue qualora l'acquirente dell'alloggio ceduto in applicazione del medesimo art. 28 versi all'ente cedente un importo pari al 10% del valore calcolato sulla base degli estimi catastali».

Orbene, se si analizza il tessuto normativo di riferimento, ci si avvede del fatto che il legislatore ha incastonato il diritto di prelazione avente ad oggetto gli immobili destinati all'edilizia economica popolare nel quadro dei trasferimenti negoziali, immaginando una prelazione destinata ad intervenire allorquando il proprietario del bene decida di venderlo. Questo schema si coglie sia nell'art. 1, comma 20 l. n. 560/1993 (dove il legislatore prima afferma che questi alloggi «non possono essere alienati... per un periodo di dieci anni ... e comunque fino a quando non sia pagato interamente il prezzo», per poi aggiungere al periodo successivo che «In caso di vendita gli IACP ... hanno diritto di prelazione») che nell'art. 28 l. n. 513/1977, ove è previsto che «L'assegnatario può alienare l'alloggio» ma «In tal caso deve darne comunicazione al competente istituto autonomo per le case popolari, il quale potrà esercitare, entro 60 giorni dal ricevimento della comunicazione, il diritto di prelazione all'acquisto».

È chiaro dunque che non sarebbe possibile applicare l'illustrato diritto di prelazione ai trasferimenti coattivi derivanti da esecuzione forzata (Fontana, Vigorito, 1037/2021, in inexecutivis.it) eccentrici rispetto al paradigma disegnato dalle norme su richiamate.

L'espropriazione forzata avente ad oggetto gli immobili abusivi

Si ritiene pacificamente che gli immobili realizzati abusivamente siano suscettibili di essere aggrediti in via esecutiva e che il loro trasferimento coattivo non è impedito dai divieti normativi di alienazione di immobili abusivi, poiché tali divieti non si applicano ai trasferimenti derivanti da esecuzioni immobiliari o da altre esecuzioni coattive.

Il dato normativo dal quale si ricava questa conclusione è rappresentato dall'art. 46 del d.P.R. n. 380/2001 («Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia»), il quale similmente a quanto già disponevano gli artt. 17 e 40 della l. n. 47/1985, prevede che gli atti tra vivi, sia in forma pubblica che privata aventi per oggetto il trasferimento, la costituzione o lo scioglimento della comunione di diritti reali relativi ad edifici o loro parti, la cui costruzione sia iniziata dopo il 17 marzo 1985, sono nulli e non possono essere stipulati ove da essi non risultino, per dichiarazione dell'alienante, gli estremi del permesso di costruire o del permesso in sanatoria, ma dispone anche che tale nullità non si applica agli atti derivanti da procedure esecutive immobiliari, individuali o concorsuali. (Con Cass. sent. n. 8230/2019 le Sezioni Unite hanno statuito che la nullità comminata dall'art. 46 del d.P.R. n. 380/2001 e dagli artt. 17 e 40 della l. n. 47/1985 va ricondotta nell'ambito del comma 3 dell'art. 1418 c.c., di cui costituisce una specifica declinazione, e deve qualificarsi come nullità «testuale», con tale espressione dovendo intendersi, in stretta adesione al dato normativo, un'unica fattispecie di nullità che colpisce gli atti tra vivi ad effetti reali elencati nelle norme che la prevedono, volta a sanzionare la mancata inclusione in detti atti degli estremi del titolo abilitativo dell'immobile, titolo che, tuttavia, deve esistere realmente e deve esser riferibile, proprio, a quell'immobile. Pertanto, in presenza nell'atto della dichiarazione dell'alienante degli estremi del titolo urbanistico, reale e riferibile all'immobile, il contratto è valido a prescindere dal profilo della conformità o della difformità della costruzione realizzata al titolo menzionato). Aggiunge che l'aggiudicatario, qualora l'immobile si trovi nelle condizioni previste per il rilascio del permesso di costruire in sanatoria, dovrà presentare la relativa domanda entro il termine di centoventi giorni dalla notifica del decreto emesso dall'autorità giudiziaria.

Non è superfluo rammentare che gli artt. 173-bis e -quater disp. att. c.p.c. sanciscono exspressis verbis che la condizione urbanistico edilizia del bene pignorato deve essere accertata dall'esperto nominato per la stima, e descritta nell'avviso di vendita. Ovviamente di essa, e delle somme necessarie per sanare eventuali irregolarità, va tenuto conto ai fini della determinazione del prezzo di vendita.

In particolare, ai sensi dell'art. 173-bis, comma 1, n. 7), disp. att. c.p.c. egli è tenuto a verificare innanzitutto la possibilità di sanatoria c.d. ordinaria ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380/2001 (che riproduce la previsione dell'abrogato art. 13 l. n. 47/1985), a mente del quale «...il responsabile dell'abuso, o l'attuale proprietario dell'immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda».

Quindi, una prima ipotesi di sanatoria deriva dalla sussistenza del requisito della così detta «doppia conformità». L'aggiudicatario, qualora ricorra questa condizione, potrà presentare domanda di sanatoria entro centoventi giorni dalla notifica del decreto di trasferimento ai sensi dell'art. 46, comma 5 d.P.R. n. 380/2001 (sebbene vada precisato che nessuna norma del codice di procedura civile preveda che il decreto di trasferimento sia notificato all'aggiudicatario).

In secondo luogo, ove non ricorra questa situazione, lo stimatore dovrà accertare l'eventuale presentazione di istanze di condono indicando, secondo quanto previsto dal citato art. 173-bis, comma 1, n. 7), disp. att. c.p.c.: il soggetto istante e la normativa in forza della quale l'istanza di condono è stata presentata; lo stato del procedimento; i costi della sanatoria e le eventuali oblazioni già corrisposte o ancora da versare.

L'ausiliario deve verificare inoltre, ai fini della domanda in sanatoria che l'aggiudicatario potrà eventualmente presentare, se gli immobili pignorati si trovino o meno nelle condizioni previste dall'art. 40, comma 6 l. n. 47/1985 o dall'art. 46, comma 5, d.P.R. n. 380/2001, cit. (già art. 17, comma 5, l. n. 47/1985, cit.). La prima delle due norme richiamate prevede, in particolare, che «nella ipotesi in cui l'immobile rientri nelle previsioni di sanabilità di cui al capo IV della presente legge e sia oggetto di trasferimento derivante da procedure esecutive, la domanda di sanatoria può essere presentata entro centoventi giorni dall'atto di trasferimento dell'immobile purché le ragioni di credito per cui si interviene o procede siano di data anteriore all'entrata in vigore della presente legge». A questo proposito va ricordato che ai sensi dell'art. 31, comma 1, l. n. 47/1985 potevano essere sanate le opere abusive che fossero state ultimate entro la data del 1° ottobre 1983 (il comma 2 della medesima disposizione specifica che «Ai fini delle disposizioni del comma precedente, si intendono ultimati gli edifici nei quali sia stato eseguito il rustico e completata la copertura, ovvero, quanto alle opere interne agli edifici già esistenti e a quelle non destinate alla residenza, quando esse siano state completate funzionalmente»). L'art. 35 della citata legge prevede poi che la domanda in sanatoria doveva essere presentata al comune entro il termine perentorio del 30 novembre 1985.

Qualora l'immobile abusivo sia oggetto di un trasferimento coattivo, la possibilità di richiedere la sanatoria in parola viene riconosciuta anche all'aggiudicatario dal citato art. 40 comma 6, il quale può chiederla, come si è visto, entro centoventi giorni dall'atto di trasferimento dell'immobile purché le ragioni di credito per cui si interviene o procede siano di data anteriore all'entrata in vigore della legge.

Pertanto, al fine di comprendere se sia possibile o meno per l'aggiudicatario ricorrere alla sanatoria prevista dal capo IV della l. n. 47/1985, (artt. 31 e ss.), occorrerà accertare: che le ragioni di credito per cui si interviene o procede siano di data anteriori all'entrata in vigore della predetta l. n. 47/1985 (cioè 17 marzo 1985, il che ad oggi è alquanto improbabile); che l'abuso sia stato realizzato entro il primo ottobre 1983.

Un'altra ipotesi di condono è prevista dall'art. 39 l. n. 724/1994, che estende la sanatoria di cui alla l. n. 47/1985 alle opere abusive (che rispettino i requisiti del citato art. 31) che: risultino ultimate entro il 31 dicembre 1993; a condizione che le ragioni di credito siano anteriori al 1° gennaio 1995 (data di entrata in vigore di detta legge, ai sensi dell'art. 47 della medesima).

Va poi considerata l'ulteriore ipotesi prevista dall'art. 32, d.l. n. 269/2003, convertito in l. n. 326/2003, il cui comma 25 consente il condono (alle condizioni previste da questa disposizione) delle opere abusive che: risultino ultimate entro il 31 marzo 2003; sempre che le ragioni di credito per cui si procede o si interviene nella procedura siano sorte anteriormente al 2 ottobre 2003 (data di entrata in vigore della norma) come si ricava dalla lettura del comma 28 del medesimo art. 32.

Infine, per gli immobili realizzati dopo il 31 marzo 2003 è possibile soltanto la sanatoria di cui al citato art. 36, d.P.R. n. 380/2001 che richiede, come si è visto, il requisito della doppia conformità.

Il problema non sussiste per gli immobili la cui costruzione sia iniziata in data anteriore al primo settembre 1967 possono circolare indipendentemente dalla loro regolarità urbanistico edilizia. Infatti, secondo il disposto dell'art. 40 l. n. 47/1985 gli immobili costruiti in epoca anteriore al 2 settembre 1967 sono liberamente commerciabili, qualunque sia l'abuso edilizio commesso dall'alienante, a condizione che, nell'atto pubblico di trasferimento, risulti inserita una dichiarazione sostitutiva di atto notorio, rilasciata dal proprietario o da altro avente titolo, attestante l'inizio dell'opera in data anteriore al 2 settembre 1967, senza che rilevi, pertanto, ai fini della legittimità del trasferimento, la mancanza dell'attestazione di conformità della costruzione alla licenza edilizia ovvero la esistenza di una concessione in sanatoria (ovvero la domanda, ad essa relativa, corredata della prova dell'avvenuto versamento delle prime due rate dell'oblazione) (Cass. n. 8339/1998).

Peculiare è poi la questione relativa alle conseguenze della omessa indicazione, nell'avviso di vendita, della condizione urbanistico edilizia del bene posto in vendita.

La Corte di Cassazione ha ritenuto in proposito che l'aggiudicatario può esercitare l'azione ex art. 1489 c.c., in base al quale, qualora l'immobile aggiudicato risulti gravato da diritti reali non apparenti e non indicati negli atti della procedura, senza che l'aggiudicatario sia a conoscenza della situazione reale, va riconosciuto a costui non il diritto a far valere la garanzia per evizione, limitata al solo diritto di proprietà (Cass. n. 7294/2003), ma a chiedere la risoluzione del contratto o la riduzione del prezzo secondo le regole comuni, tenuto conto che tali regole incontrano una deroga nella vendita forzata solo con riguardo alla garanzia per vizi, esclusa dall'art. 2922, comma 1, c.c. (Cass. n. 11018/1994).

Quanto alle modalità processuali attraverso le quali i rimedi di diritto sostanziale possono essere fatti valere, si contendono il campo due tesi. La prima ritiene l'aggiudicatario un acquirente tout court, e dunque, titolare degli stessi rimedi processuali generalmente riconosciuti in caso di vendita di aliud pro alio; la seconda invece argomenta nel senso che, poiché la vendita si inserisce nell'ambito di un iter processuale con regole sue proprie, ad essa soggiace, con la conseguenza che l'aliud pro alio deve essere fatto valere nei limiti dell'opposizione agli atti esecutivi.

In seno alla sezione terza della Corte di Cassazione si sono registrati entrambi gli orientamenti.

Invero, nella sent. n. 4378/2012, si è affermato, in continuità con precedenti arresti della giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 7294/2003; Cass. n. 10320/1991) che mentre i soggetti del processo esecutivo, diversi dall'aggiudicatario, possono fare valere la diversità del bene venduto rispetto a quello staggito soltanto con una (tempestiva) opposizione agli atti esecutivi avverso il provvedimento di aggiudicazione e gli atti successivi e conseguenti, l'acquirente aggiudicatario ha a disposizione gli stessi strumenti di tutela azionabili in caso di vendita volontaria.

In consapevole contrasto con questa pronuncia si è invece posta la sent. Cass. n. 7708/2014, secondo cui l'aggiudicatario di un bene pignorato ha l'onere di far valere l'ipotesi di aliud pro alio (che si configura ove la cosa appartenga a un genere del tutto diverso da quello indicato nell'ordinanza, ovvero manchi delle particolari qualità necessarie per assolvere la sua naturale funzione economico-sociale, oppure risulti del tutto compromessa la destinazione della cosa all'uso che, preso in considerazione nell'ordinanza di vendita, abbia costituito elemento determinante per l'offerta di acquisto) con il solo rimedio dell'opposizione agli atti esecutivi e quest'ultima deve essere esperita comunque – nel limite temporale massimo dell'esaurimento della fase satisfattiva dell'espropriazione forzata, costituito dalla definitiva approvazione del progetto di distribuzione – entro il termine perentorio di venti giorni dalla legale conoscenza dell'atto viziato, ovvero dal momento in cui la conoscenza del vizio si è conseguita o sarebbe stata conseguibile secondo una diligenza ordinaria.

Quest'ultimo indirizzo è stato poi confermato, seppur meglio precisato, dalla sent. n. 1669/2016, e dalla ord. n. 11729/2017, le quali hanno affermato che il termine di cui all'art. 617 c.p.c. «decorre dalla conoscenza del vizio o delle difformità integranti la diversità del bene aggiudicato rispetto a quello offerto, occorrendo, conseguentemente, anche fornire la prova della tempestività della relativa opposizione all'interno del processo esecutivo».

Immobili produttivi edificati su suoli concessi in diritto di superficie in virtù di convenzioni urbanistiche

Può succedere che oggetto del pignoramento sia un immobile realizzato su suolo concesso dal comune al fine di realizzare insediamenti produttivi, in forza di una convenzione di lottizzazione che preveda vincoli di inalienabilità temporanea. Si tratta dei così detti immobili ricadenti nelle zone PIP, piani per gli insediamenti produttivi, disciplinati dall'art. 27 della l. n. 865/1971.

Detti piani sono diretti a favorire «la realizzazione di impianti produttivi di carattere industriale, artigianale, commerciale e turistico» e le loro caratteristiche sono analoghe a quelle dei piani previsti dalla stessa legge per incentivare la costruzione di unità abitative (art. 35).

Le aree ricomprese nel piano sono espropriabili da parte dei comuni o dei consorzi tra di essi costituiti e, dopo essere state acquisite dal comune, vengono cedute in proprietà (ovvero concesse in godimento mediante la costituzione di un diritto di superficie) ad operatori economici, pubblici o privati, per la concreta realizzazione degli obbiettivi di piano.

Le aree espropriate entrano a far parte del patrimonio indisponibile del comune o del consorzio, posto che sono destinate direttamente al soddisfacimento di una specifica finalità d'interesse pubblico. Ergo, le aree incluse nei piani di insediamento produttivo, debitamente approvato, non possono essere sottratte alla loro destinazione, «se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano» (art. 830, comma 2, c.c.) e questo porta a ritenere che esse si trovino in una condizione giuridica che ne preclude l'assoggettamento ad espropriazione forzata (Cass. n. 4496/1986).

A norma dell'art. 27, «contestualmente» alla cessione della proprietà dell'area, tra il comune e l'acquirente deve essere stipulata una convenzione «con la quale vengono disciplinati gli oneri posti a carico... dell'acquirente e le sanzioni per la loro inosservanza». Ciò sta ad indicare che le norme di carattere pubblicistico contenute in detta disposizione non riguardano solo l'individuazione, la delimitazione e l'espropriazione delle aree da destinare alla creazione di insediamenti produttivi, ma caratterizzano anche il loro trasferimento all'assegnatario. Il momento pianificatorio e quello convenzionale sono pertanto legati da un rapporto di interdipendenza nel senso che la cessione trova il suo ineliminabile presupposto nell'esistenza del piano, ed al contempo ne consente la concreta attuazione.

La cessione del bene non è quindi fine a sé stessa, ma concorre alla realizzazione dell'assetto urbanistico prefigurato nel piano; ergo, gli obblighi posti a carico del cessionario circa l'utilizzazione dell'area trovano il loro presupposto nell'esigenza di assicurare la realizzazione degli obiettivi di piano.

Appunto perché finalizzata alla tutela di esigenze di carattere generale, deve escludersi che l'efficacia degli «oneri» (e, in particolare, del divieto di alienazione) sia quella (meramente obbligatoria) stabilita all'art. 1379 c.c., dal momento che questa disposizione ha riferimento a limitazioni poste nell'interesse privato e non può quindi essere invocata quando, come nel caso di specie, le limitazioni trovino invece la loro giustificazione in interessi di carattere generale. Deve quindi riconoscersi che tali limitazioni operano anche nei confronti dei terzi, non escluso il creditore pignorante.

Sulla scorta di queste deduzioni Cass. n. 9508 /1997, ha concluso nel senso che se è vero che il divieto temporaneo di alienazione imposto al cessionario trova la sua giustificazione nell'esigenza di evitare che le agevolazioni concesse nel quadro di una politica di interesse sociale si trasformino in un inammissibile strumento di speculazione, è altrettanto vero che detta trasformazione, di certo, non può determinarsi per effetto delle azioni esecutive dei creditori, il cui esercizio non viene ad interferire minimamente con il raggiungimento degli obbiettivi perseguiti dal legislatore, le quali pertanto potranno essere svolte, ferma restando la destinazione pubblicistica del bene. In altri termini, cioè, se il divieto di alienazione ha la funzione precipua di garantire la funzionalizzazione del bene all'interesse pubblico che ne ha determinato la espropriazione prima e la cessione poi, detto divieto è inevitabilmente destinato a non operare quante volte, come nel caso di azioni esecutive, il trasferimento del bene non costituisca l'oggetto di una manovra speculativa e la destinazione pubblicistica del bene rimanga inalterata.

I beni gravati da livello

Accade a volte che dall'esame della documentazione ipocatastale o della certificazione notarile sostituiva emerga che il bene risulti gravato da livello.

Il livello è un contratto agrario, in uso nel medioevo e rimasto in vita fino agli inizi del 1800, che consisteva nella concessione di una terra dietro il pagamento di un fitto, la cui durata era generalmente di 19 anni per evitare l'usucapione; il diritto, cosiddetto dominio utile, col tempo divenne alienabile. Il rapporto generalmente sorgeva tra il proprietario (spesso un nobile, un monastero, una chiesa) e il livellario.

Oggi esso è integralmente assimilabile all'enfiteusi, con la conseguenza che il terreno gravato da livello può essere oggetto di affrancazione (Cass. n. 1366/1961; Cass. n. 1682/1963). Ne deriva che, come per il diritto enfiteutico, anche il terreno gravato da livello può essere oggetto di pignoramento.

Anche in termini più recenti la Corte di Cassazione ha ribadito il concetto, affermando che il regime giuridico del cosiddetto «livello» va assimilato a quello dell'enfiteusi, in quanto i due istituti, pur se originariamente distinti, finirono in prosieguo per confondersi ed unificarsi, dovendosi, pertanto, ricomprendere anche il primo, al pari della seconda, tra i diritti reali di godimento. Ne consegue che l'accertamento positivo o negativo dell'esistenza del «livello» esula dalla competenza «ratione materiae» della sezione specializzata agraria, non attenendo ad un rapporto astrattamente riconducibile nell'ambito di quelli contemplati dalla speciale legislazione sui contrati agrari (Cass. n. 9135/2012).

Con la sent. n. 30823/2023 la seconda sezione civile della Corte di cassazione ha ribadito che anche a proposito del livello, l'esistenza del diritto non può essere desunta dai dati catastali, preordinato a fini essenzialmente fiscali.

I beni costituenti il fondo patrimoniale

Il fondo patrimoniale, previsto dall'art. 167 c.c., è l'atto con il quale entrambi i coniugi, uno di essi o un terzo vincolano determinati beni immobili, mobili registrati o titoli di credito al soddisfacimento dei diritti di mantenimento, di assistenza e di contribuzione della famiglia. Si costituisce per atto pubblico – ove abbia ad oggetto beni immobili – ed ai fini della sua opponibilità deve essere annotato a margine dell'atto di matrimonio; assolve invece ad una funzione di mera pubblicità notizia la sua trascrizione presso i registri immobiliari.

Secondo Cass. n. 21658/2009, (e nello stesso senso, da ultimo, da Cass. n. 12545/2019) la costituzione del fondo patrimoniale di cui all'art. 167 c.c. è soggetta alle disposizioni dell'art. 162 c.c., circa le forme delle convenzioni matrimoniali, ivi inclusa quella del comma 4, che ne condiziona l'opponibilità ai terzi all'annotazione del relativo contratto a margine dell'atto di matrimonio, mentre la trascrizione del vincolo per gli immobili, ai sensi dell'art. 2647 c.c., resta degradata a mera pubblicità-notizia e non sopperisce al difetto di annotazione nei registri dello stato civile, che non ammette deroghe o equipollenti, restando irrilevante la conoscenza che i terzi abbiano acquisito altrimenti della costituzione del fondo. (Nella specie, le S.U. hanno confermato la sentenza di merito che – in presenza di un atto di costituzione del fondo patrimoniale trascritto nei pubblici registri immobiliari, ma annotato a margine dell'atto di matrimonio successivamente all'iscrizione di ipoteca sui beni del fondo medesimo – aveva ritenuto che l'esistenza del fondo non fosse opponibile al creditore ipotecario).

Esso dà vita alla costituzione di un patrimonio separato, con limitazione dei poteri dispositivi dei costituenti alle predette finalità.

Secondo Cass. n. 18065/2004, la costituzione del fondo patrimoniale determina soltanto un vincolo di destinazione sui beni confluiti nel fondo stesso, affinché con i loro frutti sia assicurato il soddisfacimento dei bisogni della famiglia, ma non incide sulla titolarità della proprietà dei beni stessi.

L'istituto ha incontrato abbastanza favore tra i coniugi anche se esso viene sovente utilizzato per scopi che non attengono strettamente alle esigenze della famiglia, quanto piuttosto come mezzo per sottrarre ai creditori la loro garanzia patrimoniale.

L'art. 170 c.c. dispone che l'esecuzione sui beni del fondo patrimoniale e sui frutti di essi non può aver luogo per debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia. I beni del fondo possono essere aggrediti quindi solo a seguito dell'inadempimento di obbligazioni assunte da uno o da entrambi i coniugi per i bisogni della famiglia. Sarà possibile agire in executivis sui frutti e sui beni del fondo anche per le obbligazioni contratte da uno o da entrambi i coniugi per i bisogni estranei alle esigenze della famiglia, solo se i creditori ignoravano tale estraneità.

La destinazione del debito ai bisogni di famiglia di cui all'art. 170 c.c. non va intesa in senso restrittivo.

L'obbligazione, secondo l'ormai consolidato indirizzo giurisprudenziale, non deve essere legata alla necessità di soddisfare le esigenze essenziali del nucleo familiare, ma può avere riguardo alle più ampie e varie esigenze dirette al pieno mantenimento ed all'armonico sviluppo della famiglia, nonché al potenziamento delle sue capacità lavorative, con esclusione delle sole esigenze voluttuarie o caratterizzate da intenti meramente speculativi (Cass. n. 134/1984). Nella stessa direzione Cass. III, n. 12998/2006, secondo cui «In tema di fondo patrimoniale, il criterio identificativo dei crediti il cui soddisfacimento può essere realizzato in via esecutiva sui beni conferiti nel fondo va ricercato nella relazione esistente tra gli scopi per cui i debiti sono stati contratti ed i bisogni della famiglia, con la conseguenza che l'esecuzione sui beni del fondo o sui frutti di esso può avere luogo qualora la fonte e la ragione del rapporto obbligatorio abbiano inerenza diretta ed immediata con i bisogni della famiglia».

Sul versante processuale, la prova che i beni sottoposti ad esecuzione non possono essere aggrediti poiché ricadenti nel fondo patrimoniale deve essere fornita dal debitore, dovendo questi dimostrare che il debito è stato contratto per uno scopo estraneo ai bisogni della famiglia e che il creditore era a conoscenza di tale circostanza.

In questi termini si è espressa Cass. n. 5385/2013, ed in precedenza, nella stessa direzione era andata Cass. n. 5684/2006, secondo la quale «L'esecuzione sui beni e sui frutti del fondo patrimoniale è consentita, a norma dell'art. 170 c.c., soltanto per debiti contratti per fare fronte ad esigenze familiari, sicché, in sede di opposizione al pignoramento, spetta al debitore provare che il creditore conosceva l'estraneità del credito ai bisogni della famiglia, sia perché i fatti negativi (nella specie l'ignoranza) non possono formare oggetto di prova, sia perché esiste una presunzione di inerenza dei debiti ai detti bisogni».

Anche nella giurisprudenza di merito è stato affermato che «Il ricorso ad un dato tipo negoziale (in specie, la fideiussione) non esonera il debitore dal dover provare, e rigorosamente, i presupposti di opponibilità del fondo patrimoniale, vale a dire l'estraneità del debito ai bisogni della famiglia e la conoscenza di tale circostanza da parte del debitore: in dettaglio, non può presumersi, con onere della prova contraria in capo al creditore, che tali presupposti siano in re ipsa quando il debitore abbia prestato fideiussione per garantire l'obbligazione di un terzo» (Trib. Napoli Nord 28 gennaio 2022, in www.inexecutivis.it).

Il pignoramento dei beni della comunione legale tra i coniugi

Il tema del pignoramento dei beni della comunione legale tra i coniugi è stato certamente, fino a qualche tempo fa, uno dei più tormentati della materia esecutiva. Importanti indicazioni sono venute dalla sentenza pronunciata dalla sezione terza della Cass. n. 6575/2013, che per la prima volta è intervenuta ex professo sulla questione della disciplina cui soggiace il pignoramento dei beni della comunione legale tra i coniugi eseguito dal creditore particolare di uno di essi.

La Corte, pur ricordando i dissensi di parte della dottrina muove, facendola propria, dalla premessa giurisprudenziale assolutamente prevalente (C. cost. n. 311/1988) secondo cui la comunione dei beni nascente dal matrimonio è una comunione senza quote, nella quale i coniugi sono solidalmente titolari di un diritto avente ad oggetto tutti i beni di essa e rispetto alla quale non è ammessa la partecipazione di estranei (Cass. n. 12923/2012; Cass. n. 22082/2011; Cass. n. 4890/2006), trattandosi di comunione finalizzata, a differenza della comunione ordinaria, non già alla tutela della proprietà individuale, ma piuttosto a quella della famiglia (Cass. n. 21098/2007; Cass. n. 517/2011). Ricorda la Corte che detta comunione può sciogliersi nei soli casi previsti dalla legge ed è indisponibile da parte dei singoli coniugi i quali, tra l'altro, non possono scegliere quali beni farvi rientrare e quali no, ma solo mutare integralmente il regime patrimoniale con atti opponibili ai terzi mediante l'annotazione formale a margine dell'atto di matrimonio. La quota dunque non è un elemento strutturale della proprietà e nei rapporti coi terzi ciascuno dei coniugi, mentre non ha diritto di disporre della propria quota, può tuttavia disporre dell'intero bene comune.

Sulla scorta di questi postulati i giudici di legittimità dopo aver tratto i precipitati secondo cui essi impediscono di considerare la comunione legale come una universalità di beni, precludendo l'applicabilità sia della disciplina dell'espropriazione di quote (di cui agli artt. 599 ss. c.p.c.), sia di quella dell'espropriazione contro il terzo non debitore (quanto alla prima perché il bene appartiene ad altro soggetto solidalmente per l'intero, quanto alla seconda perché trattasi di disciplina eccezionale, come tale insuscettibile di applicazione analogica), osservano che l'opzione ricostruttiva più coerente con siffatte premesse, e dalle conseguenze meno incongruenti, – se non pure della minore negatività delle ricadute pratiche ed operative (che, detto per inciso, erano alla base del diverso orientamento seguito da molti altri tribunali) – sia necessariamente quella di sottoporre, per il credito personale verso uno solo dei coniugi, il bene a pignoramento per l'intero (e sull'intero bene esso dovrà trascriversi), nei limiti dei diritti nascenti dalla comunione legale.

Da tanto consegue, prosegue la sentenza, la messa in vendita o l'assegnazione del bene per intero e lo scioglimento (eccezionale e desumibile dal sistema legislativo) della comunione legale limitatamente a quel bene, scioglimento che si perfeziona al momento del trasferimento della proprietà del bene (e quindi, per gli immobili, con la pronuncia del decreto di trasferimento tanto in caso di vendita che di assegnazione), con diritto del coniuge non debitore, in applicazione dei principi generali sulla ripartizione del ricavato dallo scioglimento della comunione, ad ottenere il controvalore lordo del bene nel corso della stessa procedura esecutiva, neppure potendo a lui farsi carico delle spese di trasformazione in denaro del bene (cioè quelle della procedura medesima), rese necessarie per il solo fatto del coniuge debitore che non ha adempiuto i suoi debiti personali.

In questa procedura esecutiva la soggezione ad espropriazione di un bene sul quale ha eguale contitolarità il coniuge non debitore lo configura come soggetto passivo del giudizio in executivis, con diritti e doveri identici a quelli del coniuge debitore esecutato: tale sua condizione imporrà la notificazione anche al coniuge non debitore del pignoramento, come pure l'applicazione al medesimo dell'art. 498 e dell'art. 567 c.p.c., vale a dire la necessità dell'avviso ai suoi creditori iscritti personali e della documentazione c.d. ipotecaria almeno ventennale a lui relativa, al fine di non pregiudicare diritti di terzi validamente costituiti anche da lui sul medesimo bene.

La Corte conclude, quindi, affermando il seguente principio di diritto: «la natura di comunione senza quote della comunione legale dei coniugi comporta che l'espropriazione, per crediti personali di uno solo dei coniugi, di un bene (o di più beni) in comunione, abbia ad oggetto il bene nella sua interezza e non per la metà, con scioglimento della comunione legale limitatamente al bene staggito all'atto della sua vendita od assegnazione e diritto del coniuge non debitore alla metà della somma lorda ricavata dalla vendita del bene stesso o del valore di questo, in caso di assegnazione».

Alla luce dunque dell'indirizzo espresso della su richiamata pronuncia, paiono necessarie le seguenti enunciazioni procedurali:

– Il bene facente parte della comunione legale dei beni dovrà essere pignorato per l'intero anche quando ad agire è il creditore particolare del coniuge. A questo proposito Cass. n. 9536/2023 ha specificato che anche la trascrizione del pignoramento «anche nei confronti del coniuge non debitore, in quanto anch'egli soggetto passivo dell'espropriazione, considerato che nella struttura di fattispecie a formazione progressiva del pignoramento immobiliare la formalità pubblicitaria ha la funzione di completare il pignoramento e di renderlo opponibile ai terzi, dovendosi dar conto della natura di cespite in comunione legale nel quadro “D” della nota di trascrizione».

– Il pignoramento deve essere notificato anche al coniuge non debitore poiché costui assume la posizione di parte processuale pur non essendo personalmente obbligato.

– La documentazione ipocatastale depositata ai sensi dell'art. 567 dovrà riguardare entrambi i coniugi al fine di verificare se anche il coniuge non debitore abbia posto in essere atti dispositivi del bene pignorato.

– Dovrà essere notificato l'avviso di cui all'art. 498 c.p.c. anche ai creditori particolari del coniuge non obbligato.

– Occorrerà verificare che nella perizia di stima sia dato conto anche dei gravami (ipoteche, pignoramenti, domande giudiziali ecc. trascritte contro il coniuge del debitore).

– Con il decreto di trasferimento dovranno essere cancellate anche le ipoteche eventualmente iscritte contro il coniuge non obbligato.

– Il 50% del ricavato dalla vendita dovrà essere corrisposto al coniuge non obbligato senza portare in prededuzione le spese della procedura, che dunque graveranno integralmente sul restante 50%.

– Per concorrere alla distribuzione del ricavato il coniuge non obbligato non è onerato dalla necessità di spiegare un intervento, trovando applicazione l'art. 510, ultimo comma, c.p.c., che come sappiamo riconosce al debitore quanto sopravanza dalla distribuzione del ricavato.

La possibilità per il coniuge di partecipare alla vendita

Ci si chiede nella prassi se il coniuge in regime di comunioni non debitore possa partecipare alla vendita. Il problema si pone sulla scorta del combinato disposto di due norme: l'art. 579, comma 1, c.p.c., ai sensi del quale «ognuno, tranne il debitore, è ammesso a fare offerte all'incanto», e l'art. 604 c.p.c. secondo il quale nel pignoramento contro il terzo proprietario, si applicano nei suoi confronti le disposizioni relative al debitore, «tranne il divieto di cui all'art. 579 comma 1».

A tenore di una prima impostazione la possibilità di partecipazione dovrebbe essere ammessa sulla scorta del principio generale di cui all'art. 579 c.p.c.: poiché il divieto di partecipazione vale solo per il debitore, e tale non è il coniuge – sebbene esecutato – questi potrà formulare offerte. Sotto questo profilo la previsione di cui all'art. 604 c.p.c. sarebbe esplicativa del principio appena detto, poiché essa ammette il terzo proprietario alla gara proprio perché non debitore, tanto che, si potrebbe dire, la norma sotto questo profilo apparirebbe pleonastica.

A supporto di questa tesi pare esservi quanto deciso da Cass. III, n. 605/1982, secondo cui «In tema di espropriazione forzata immobiliare, la previsione dello art. 579 c.p.c. denegativa per il debitore esecutato dalla legittimazione di fare offerte all'incanto – che non integra un divieto dell'acquisto da parte del debitore – costituendo norma eccezionale rispetto alla «regola» stabilita dallo stesso art. 579 per la quale la legittimazione all'offerta compete ad «ognuno», non può trovare applicazione analogica per altre ipotesi od a altri soggetti non considerati in detta norma, neppure con riguardo al coniuge del debitore – ancorché sussista tra i coniugi il regime di comunione legale dei beni previsto dagli artt. 177 e ss. c.c. – sicché questi rientrando nell'ampia e onnicomprensiva categoria delineata dal richiamato art. 579 c.p.c., è ammesso a fare offerte per l'incanto ed offerta di aumento del sesto dopo la aggiudicazione, senza che rilevi il fatto che, per volontà della legge, l'effetto traslativo del bene – operato direttamente soltanto in capo a lui quale offerente aggiudicatario – si ripercuota per la metà nel patrimonio del debitore esecutato».

Sembrerebbe muoversi in questa direzione anche Cass. n. 11258/2007, la quale ha ribadito che «In tema di espropriazione forzata immobiliare, la previsione contenuta nell'art. 579 c.p.c. (che inibisce al debitore esecutato la legittimazione di fare offerte all'incanto), costituendo norma eccezionale rispetto alla regola generale stabilita dallo stesso art. 579, non può trovare applicazione analogica rispetto ad altri soggetti non considerati in detta norma, salvo che non ricorra un'ipotesi di interposizione fittizia o che si configuri, in caso di accordo fra debitore esecutato e terzo da lui incaricato di acquistare per suo conto l'immobile, un negozio in frode alla legge».

A siffatta ricostruzione può obiettarsi che da un lato il precedente della Cassazione, risalente al 1982, è l'evidente risvolto della ritenuta concezione «quotista» della comunione legale dei beni tra i coniugi; dall'altro che se si ammettesse la possibilità per il coniuge non debitore di partecipare alla vendita, l'acquisto da lui compiuto ricadrebbe nella comunione, consentendo all'altro coniuge debitore di rientrare nella disponibilità del bene, così aggirando il divieto di cui all'art. 579 c.p.c.

Certamente, non pare revocabile in dubbio che l'art. 579 c.p.c. sia norma eccezionale, e dunque insuscettibile di applicazione analogica ex art. 14 prel.; è da ritenere pertanto ammissibile la partecipazione del coniuge non debitore alla vendita (Cardino,1089). Certo il problema dell'ingresso del bene all'interno della comunione, con conseguente violazione del divieto di riacquisto, si pone, ma ad esso può farsi fronte applicando i principi enunciati dalla giurisprudenza da ultimo richiamata, e cioè verificando di volta in volta se ricorre un'ipotesi di interposizione fittizia di persona.

Il pignoramento dei beni in trust

«Trust» è un termine inglese che, letteralmente, significa «fiducia»: secondo una storica descrizione inglese, «quando una persona è titolare di diritti che è tenuta ad esercitare nell'interesse di un'altra persona o per il raggiungimento di un determinato scopo, si dice che questa persona è titolare di detti diritti in trust per l'altra persona o per il raggiungimento di questo scopo, e viene pertanto chiamata trustee» (Malaguti, 183).

In generale (Lupoi), attraverso il trust un soggetto (settlor o grantor o «disponente») crea un trust (per scopi di mera gestione dei beni, di tutela della propria discendenza o di soggetti svantaggiati, di beneficenza, di garanzia del credito, ecc.) o dichiarandosi «trustee» di taluni suoi beni (o crediti) nell'interesse di una o più persone (il beneficiario); oppure «trasferendo» questi beni a una o più persone (trustee) affinché «in trust» li detengano o li gestiscano in favore del beneficiario.

L'atto costitutivo del disponente può (in alcuni casi «deve») indicare dei soggetti con il compito di controllare l'operato del trustee, i cosiddetti «guardiani» (o protectors o enforcers).

I beni o diritti oggetto del trust (detti trust property o trust estate o trust-fund) costituiscono un patrimonio separato da quello del trustee, inattaccabile sia dai suoi creditori che da quelli del disponente.

La figura del trust è stata introdotta nell'ordinamento italiano con la l. n. 364/1989 con cui è stata ratificata la «Convenzione sulla legge applicabile ai trusts e sul loro riconoscimento» adottata a L'Aja in data 1° luglio 1985. Secondo la Convenzione il trust è il rapporto giuridico stipulato in forma scritta con cui il costituente – con atto tra vivi o mortis causa – pone dei beni sotto il controllo di un trustee nell'interesse di un beneficiario o per un fine specifico.

I suoi effetti sono disciplinati dall'art. 11, secondo cui «un trust costituito in conformità alla legge specificata al precedente capitolo dovrà essere riconosciuto come trust. Tale riconoscimento implica quanto meno che i beni del trust siano separati dal patrimonio personale del trustee, che il trustee abbia le capacità di agire in giudizio ed essere citato in giudizio, o di comparire in qualità di trustee davanti a un notaio o altra persona che rappresenti un'autorità pubblica. Qualora la legge applicabile al trust lo richieda, o lo preveda, tale riconoscimento implicherà, in particolare: a) che i creditori personali del trustee non possano sequestrare i beni del trust; b) che i beni del trust siano separati dal patrimonio del trustee in caso di insolvenza di quest'ultimo o di sua bancarotta; c) che i beni del trust non facciano parte del regime matrimoniale o della successione dei beni del trustee; d) che la rivendicazione dei beni del trust sia permessa qualora il trustee, in violazione degli obblighi derivanti dal trust, abbia confuso i beni del trust con i suoi e gli obblighi di un terzo possessore dei beni del trust rimangono soggetti alla legge fissata dalle regole di conflitto del foro».

La Convenzione si preoccupa di specificare (art. 4) che essa non disciplina le «questioni» relative alla validità dell'atto in forza del quale i beni confluiscono nel trust le quali dunque dovranno essere vagliata in base alla lex fori. Essa così implicitamente distingue il cosiddetto «negozio di dotazione», che è l'atto di conferimento dei beni, dall'atto istitutivo del trust.

L'art. 8 della Convenzione dispone poi che sia la legge regolatrice straniera a disciplinare «la validità, l'interpretazione, gli effetti e l'amministrazione del trust».

Si ritiene in dottrina (Lupoi, 1997) che il trust sia una fattispecie negoziale residuale, cui è possibile ricorrere allorquando gli altri strumenti di esercizio dell'autonomia patrimoniale sono inidonei a perseguire il fine precipuo che il disponente intende conseguire.

Anche la prevalente giurisprudenza si è mossa nel solco di questa opinione, osservando che «la funzione, la meritevolezza di interessi e la pertinenza dell'operazione» rispetto al fine del trust debba essere scandagliata dal Giudice (Per tutte, Trib. Reggio Emilia n. 1337/2011, in Trusts e attività fiduciarie, 2012, 61 ss.).

Causa del negozio istitutivo di trust è il programma della segregazione di una o più posizioni soggettive o di un complesso di posizioni soggettive unitariamente considerato (beni in trust) affidate al trustee per la tutela di interessi che l'ordinamento ritiene meritevoli di tutela (scopo del trust). Corollario di quanto sin qui detto è che la finalità perseguita non può essere quella di sottrarre ai creditori il patrimonio del disponente poiché in tal caso non vi sarebbe alcun interesse meritevole di protezione; la separazione dei patrimoni, infatti costituisce un effetto del trust, ma non può rappresentarne il fine ultimo (Trib. Reggio Emilia n. 1337/2011), con l'ulteriore conseguenza che è revocabile, ex art. 2901 c.c., l'atto istitutivo del trust che sia compiuto in frode ai creditori (Lupoi, Azione revocatoria e trust familiare, 446; Trib. Cassino 8 gennaio 2009, in Trusts e Attività Fiduciarie, 2009, 419; Trib. Cassino 1° aprile 2009, in Trusts e Attività Fiduciarie, 2010, 183; Trib. Torino, Sez. Moncalieri, 15 giugno 2009, in Trusts e Attività Fiduciarie, 2010, 83).

Il trust non ha personalità giuridica, e dunque il trustee è l'unico soggetto legittimato nei rapporti con i terzi, in quanto dispone in esclusiva del patrimonio vincolato alla predeterminata destinazione (Cass. n. 25800/2015).

Di conseguenza, è il trustee l'unica persona di riferimento con i terzi e non quale legale rappresentante, ma quale soggetto che dispone del diritto (Cass. n. 25478/2015; Cass. n. 3456/2015): e ciò in quanto l'effetto proprio del trust non è quello di dare vita ad un nuovo soggetto di diritto, ma quello di istituire un patrimonio destinato ad un fine prestabilito (Cass. n. 10105/2014. Negli stessi termini Cass. n. 1826/2022, secondo la quale Il «trust», previsto dall'art. 2 della Convenzione dell'Aja del 1 luglio 1985, resa esecutiva in Italia con l. n. 364/1989, pur essendo riconosciuto soggetto passivo dell'imposta sul reddito delle società dall'art. 1 della l. n. 296/2006, non può, tuttavia, essere ritenuto ente titolare di diritti, dotato di personalità giuridica, in quanto l'effetto proprio di detto istituto è solo quello di istituire un patrimonio destinato ad un fine prestabilito amministrato dal «trustee» nell'interesse di uno o più beneficiari. Ne deriva che l'unico soggetto di riferimento nei rapporti con i terzi – dotato altresì di legittimazione processuale – è solo il «trustee»).

Sul piano esecutivo, allora, le conseguenze che derivano dall'aggressione di beni oggetto di un trust sono molteplici.

In primo luogo, i beni in trust non possono essere pignorati per debiti del disponente: ciò in quanto titolare dei cespiti è il trustee (e, nel caso di trust autodichiarato, rileva l'apposizione del vincolo di trust), e dunque un soggetto diverso dal debitore.

In secondo luogo, i beni caduti in trust non possono essere aggrediti per ottenere la soddisfazione di debiti personali del trustee, debiti dei quali i beni in trust non rispondono poiché costituiscono un patrimonio separato e vincolato.

Occorre poi accertarsi se il pignoramento, sotto il profilo formale, sia stato compiuto correttamente.

A questo proposito assai correttamente Trib. Reggio Emilia 25 marzo 2013 ha osservato che il trust è un rapporto (art. 2 della Convenzione) tra soggetti, non già un ente munito di soggettività giuridica; ne deriva che il pignoramento non deve essere notificato al trust in persona del trustee, ma a quest'ultimo in proprio quale proprietario dei beni.

Per le medesime ragioni, la citata giurisprudenza ha ritenuto illegittima la trascrizione del pignoramento «contro il trust», anche se sul punto va registrata l'opposta soluzione di Trib. Torino 10 febbraio 2011, secondo cui il pignoramento del trust potrebbe essere trascritto «contro il disponente e a favore del trust».

Questo principio è stato confermato dalla Corte di Cassazione, con la sent. n. 2043/2017, nella quale si è ribadito che il pignoramento dei beni conferiti in trust deve essere trascritto nei confronti del trustee quale titolare dei beni e non quale legale rappresentante del trust.

I beni conferiti nel trust debbono essere pignorati nei confronti del trustee, perfino a prescindere dall'espressa spendita di tale qualità, relegando ad una valutazione di mera opportunità – e quindi di mera facoltatività – un'apposita menzione dell'appartenenza di quelli ad una massa separata o segregata, quale in genere viene ricostruito il patrimonio che il trust compone.

Al contrario, un pignoramento che colpisca beni che si prospettano nella – formale e separata – titolarità di un trust prospetta una fattispecie giuridicamente impossibile secondo il vigente ordinamento interno e, quindi, insanabilmente nulla per impossibilità di identificare un soggetto esecutato giuridicamente possibile, siccome inesistente e quindi insuscettibile tanto di essere titolare di diritti che – soprattutto e per quanto rileva ai fini della proseguibilità del relativo processo esecutivo – di subire espropriazioni (cioè coattivi trasferimenti) dei medesimi (Cass. n. 2043/2017).

Il pignoramento dei beni concessi in locazione

Il tema del pignoramento degli immobili concessi in locazione è sostanzialmente il tema della opponibilità della locazione al creditore pignorante, e dunque all'acquirente.

In argomento, la summa divisio va operata in primo luogo tra contratti stipulati dopo il pignoramento e contratti di locazione conclusi in data antecedente ad esso.

A questo proposito occorre preliminarmente intendersi in ordine ai riferimenti temporali cui avere riguardo per stabilire se il contratto di locazione sia stato stipulato prima o dopo il pignoramento. In particolare, poiché com'è noto l'art. 555 c.p.c. costruisce il pignoramento immobiliare come una fattispecie a formazione progressiva, che si compie con la notifica e successiva trascrizione dell'atto, ci si chiede se ai fini della opponibilità del contratto di locazione alla procedura debba aversi riguardo alla data di notifica o a quella di trascrizione del pignoramento.

Muovendo dall'assunto per cui con la notifica del pignoramento si crea un vincolo di indisponibilità del bene colpito, si potrebbe ritenere che il contratto di locazione stipulato dal debitore dopo la notifica del pignoramento, sebbene prima della sua trascrizione, è inopponibile alla procedura. Questa affermazione è del tutto coerente con la lettera degli artt. 559 e 560 c.p.c., in forza dei quali il debitore, costituito ex lege custode del compendio pignorato con il pignoramento (recte con la notifica del pignoramento), non può darlo in locazione senza il consenso del Giudice. Essa, inoltre, consente di porre rimedio a comportamenti fraudolenti del debitore esecutato, il quale venuto a conoscenza del pignoramento potrebbe concederlo in locazione prima che lo stesso venga trascritto, al fine di rendere il bene meno appetito sul mercato.

A questa ricostruzione si affianca la diversa opinione di chi invece ritiene che il contratto di locazione stipulato dopo la notifica del pignoramento ma prima della trascrizione dello stesso sia opponibile alla procedura (Ghedini Mazzagardi, 191), osservandosi in proposito che nei confronti del terzo conduttore ai fini della conoscibilità/opponibilità del pignoramento occorre avere riguardo alla trascrizione del medesimo.

Certamente la seconda soluzione ha il pregio di salvaguardare meglio la posizione del conduttore in buona fede (che diversamente potrebbe contare esclusivamente sul rimedio di cui all'art. 1601 c.c.), ma non considera, forse, che l'art. 2923 c.c. non fa altro che ribadire in sede esecutiva, con gli opportuni adattamenti, il principio emptio non tollit locatum, già affermato in sede di vendita dagli artt. 1599 e ss. c.c.

Ciò chiarito, con riferimento alle locazioni stipulate dopo il pignoramento, è facile osservare che le stesse saranno inopponibili alla procedura. L'art. 2923, comma 1, c.c. è lapidario in proposito: «le locazioni consentite da chi ha subito l'espropriazione sono opponibili all'acquirente se hanno data certa anteriore al pignoramento»; ergo, le locazioni successive al pignoramento non sono opponibili all'aggiudicatario (Bonsignori, Effetti della vendita forzata e dell'assegnazione, 142). Alla medesima conclusione si giunge in applicazione dell'art. 560, comma 7, il quale subordina la stipula del contratto di locazione (evidentemente successivo al pignoramento) alla previa autorizzazione giudiziale.

Con riferimento alle locazioni stipulate prima del pignoramento, occorre esaminare l'art. 2923 c.c., il quale nel disciplinare i rapporti tra locatore ed acquirente distingue quattro ipotesi.

Vengono in considerazione, dapprima, le locazioni di durata fino a nove anni.

Esse sono opponibili alla procedura se hanno data certa anteriore al pignoramento. Questo regime di opponibilità non muta anche qualora il contratto, di durata inferiore ai nove anni, si sia rinnovato. Invero, il dato normativo (art. 2643, n. 8 c.c.) è chiaro nel richiedere la trascrizione soltanto per i contratti di durata superiore ai nove anni, e tale non è il contratto di durata inferiore, anche se per effetto di rinnovi giunga ad avere una durata complessivamente superiore ai nove anni. In questi termini si è condivisibilmente espressa, anche se non recentemente, la giurisprudenza (Cass. n. 89/1974) la quale ha affermato che «Nell'ipotesi di contratto di locazione per il quale sia stata stabilita la durata di nove anni e nel quale si sia inoltre convenuto che, se una delle parti non avrà dato disdetta entro un certo termine anteriore alla scadenza fissata, il contratto stesso sarà tacitamente rinnovato per ulteriori nove anni, sono da ravvisare due distinti rapporti infranovennali, come tali non soggetti all'Onere della trascrizione per essere opponibili al terzo acquirente; il quale e tenuto a rispettare il secondo rapporto novennale soltanto se questo e già iniziato al momento dell'acquisto».

Diversa disciplina riguarda le locazioni di durata superiore nove anni: esse sono opponibili alla procedura se trascritte nei registri immobiliari prima del pignoramento. Ovviamente, ove la locazione ultranovennale non sia stata trascritta, essa sarà opponibile nei limiti del novennio, sempre che abbia comunque data certa. (Sulla durata nei limiti del novennio delle locazioni ultranovennali non trascritte v. Cass. n. 5792/2014; Cass. n. 3016/2008).

Un'altra categoria ricomprende le locazioni prive di data certa: esse sono opponibili alla procedura se la detenzione è anteriore al pignoramento, ed in questo caso l'acquirente è tenuto a rispettare la locazione per la durata corrispondente a quella stabilita per le locazioni a tempo indeterminato. La prova della detenzione può essere fornita con qualsiasi mezzo, e anche per presunzioni. A questo fine possono rilevare il certificato di residenza storico, l'intestazione delle utenze ed i bollettini di pagamento delle medesime, le quietanze di pagamento dei canoni, ecc.

Questa tipologia di contratti pone oggi una serie di rilevanti problemi.

Il primo attiene al suo coordinamento con l'art. 1 della l. n. 431/1998, la quale ha imposto, per le locazioni abitative, il requisito della forma scritta a pena di nullità. Se ne deve ricavare allora, che il contratto privo di forma scritta, poiché nullo, non sarà opponibile alla procedura, a meno che non si ritenga che il conduttore possa invocare anche nei confronti del creditore pignorante l'art. 13 della citata legge, la quale riconosce all'inquilino il diritto di richiedere che la locazione venga ricondotta a condizioni conformi allorquando il locatore non abbia provveduto a registrare il contratto, a norma del comma 1 (D'Alonzo, Il pignoramento e la locazione, 11 ss.).

Altra questione è quella relativa al se il rinvio operato dall'art. 2923 c.c. debba intendersi come rinvio fisso, con la conseguenza che anche a prescindere dalla imposizione di termini minimi di durata, resta fermo il riferimento a quelli di cui all'art. 1574 c.c. per le locazioni a tempo indeterminato (Vaccarella, 488; Vanz, 183), oppure se il rinvio vada qualificato quale rinvio mobile, e dunque ai termini di durata delle locazioni eventualmente imposti dalla legge (Astuni, Vincoli opponibili nelle procedure esecutive: la locazione di immobili). L'analisi della struttura complessiva dell'art. 2923 c.c., e le finalità cui esso è preordinato, suggeriscono di ritenere che il regime vincolistico della durata di alcune tipologie di locazioni non sposti i termini di durata cui si riferisce la norma, e che quindi il rinvio resti pur sempre all'art. 1574 c.c. Invero, il comma 4 dell'art. 2923, muovendosi nell'ottica di tutelare una situazione che sul piano fattuale preesiste al pignoramento, senza pregiudicare oltremodo un aggiudicatario cui non sia opponibile una data (e quindi una durata del rapporto) certa, ha previsto che quella locazione sia opponibile per un termine pari a quello delle locazioni a tempo indeterminato. Questo non vuol dire che la locazione priva di data certa con detenzione anteriore vada (ri)qualificata come locazione a tempo indeterminato, con conseguente applicazione della normativa speciale che quelle locazioni disciplina; più semplicemente, il codice ha inteso introdurre un elemento di certezza, e lo ha individuato nel termine di durata dalle locazioni a tempo indeterminato, così come fissato in altra parte del codice. Quanto al dies a quo di questo termine, è evidente che non possa che aversi riguardo al momento di adozione del decreto di trasferimento, poiché la data del decreto di trasferimento segna il trasferimento della proprietà e dunque il subentro nel preesistente contratto di locazione.

Infine, deve chiedersi come si concili questa norma con l'obbligo di registrazione dei contratti di locazione (L'obbligo di registrazione delle locazioni è previsto dagli artt. 2, lett. a) e b), e 3, lett. a), del d.P.R. n. 131/1986 - «Testo Unico sull'imposta di registro», nonché all'art. 5, comma 1, lett. b) della «Tariffa» allegata, parte I, e all'art. 2-bis, parte II della medesima Tariffa, richiamata dal citato art. 2, i quali prevedono, per quanto di interesse in questa sede, che sono soggetti a registrazione i contratti di locazione immobiliare, sia se stipulati per iscritto sia se conclusi verbalmente, indipendentemente dall'ammontare del canone, esclusi i contratti di durata non superiore a trenta giorni nell'anno (i quali sono soggetti a registrazione solo in caso d'uso), nonché i contratti di comodato conclusi per iscritto. Ai sensi dell'art. 17, comma 1, del medesimo d.P.R., come modificato dall'art. 68 della l. n. 342/2000 la registrazione deve essere effettuata entro trenta giorni dalla data dell'atto o dalla sua esecuzione in caso di contratto verbale. Infine, l'art. 13 comma 1, l. n. 431/1998 ha posto a carico del locatore l'obbligo di provvedere alla registrazione del contratto entro il termine perentorio di trenta giorni). Invero, ai sensi dell'art. 1, comma 346 l. n. 311/2004, «I contratti di locazione, o che comunque costituiscono diritti relativi di godimento, di unità immobiliari ovvero di loro porzioni, comunque stipulati, sono nulli se, ricorrendone i presupposti, non sono registrati».

A proposito di questa norma la C. cost. ord., n. 420/2007 ha affermato che essa «non introduce ostacoli al ricorso alla tutela giurisdizionale, ma eleva la norma tributaria al rango di norma imperativa, la violazione della quale determina la nullità del negozio ai sensi dell'art. 1418 c.c.». Se si accede dunque all'idea secondo la quale i contratti di locazione non registrati sarebbero colpiti da nullità, è evidente che tutti i contratti privi di data certa sarebbero nulli, e dunque non opponibili alla procedura.

In termini simili, e trattando degli effetti della registrazione tardiva si è espressa Cass. n. 10498/2017, la quale ha osservato che «In tema di locazione immobiliare (nella specie per uso non abitativo), la mancata registrazione del contratto determina, ai sensi dell'art. 1, comma 346, della l. n. 311/2004, una nullità per violazione di norme imperative ex art. 1418 c.c., la quale, in ragione della sua atipicità, desumibile dal complessivo impianto normativo in materia ed in particolare dalla espressa previsione di forme di sanatoria nella legislazione succedutasi nel tempo e dall'istituto del ravvedimento operoso, risulta sanata con effetti «ex tunc» dalla tardiva registrazione del contratto stesso, implicitamente ammessa dalla normativa tributaria, coerentemente con l'esigenza di contrastare l'evasione fiscale e, nel contempo, di mantenere stabili gli effetti negoziali voluti dalle parti, nonché con il superamento del tradizionale principio di non interferenza della normativa tributaria con gli effetti civilistici del contratto, progressivamente affermatosi a partire dal 1998».

L'ultima categoria è quella delle locazioni il cui prezzo sia inferiore di un terzo a quello giusto o a quello risultante dalle precedenti locazioni: esse sono inopponibili alla procedura. In quest'ultimo caso si pongono sostanzialmente tre questioni: a) se il rilievo del canone vile possa essere formulato da soggetti diversi dall'acquirente dell'immobile, cui l'art. 2923 si riferisce espressamente; b) se la viltà del canone possa essere accertata in seno all'esecuzione dal G.E. incidenter tantum; c) se, accertata la viltà del canone, lo strumento per ottenere la disponibilità dell'immobile da parte del custode sia quello dell'art 700 c.p.c. o se invece costui possa agire mettendo in esecuzione l'ordine di liberazione.

A tutti i quesiti si ritiene perlopiù che debba essere data risposta positiva.

Con riferimento al primo di essi, si osserva che l'art. 2923 fa riferimento al solo acquirente soltanto perché, dal punto di vista sostanziale, l'unico conflitto ipotizzabile è quello tra conduttore ed acquirente, posto che l'esistenza di una locazione non impedisce al creditore di chiedere ed ottenere la vendita del bene; ne consegue allora che la lettera dell'art. 2923 non è di ostacolo al riconoscimento, anche in capo al custode, del potere di eccepire la misura vile del canone. A questo proposito, dunque, da un lato non esiste preclusione normativa; dall'altro, deve osservarsi che la riforma del 2005, nel rendere sostanzialmente doverosa l'adozione dell'ordine di liberazione dell'immobile in funzione della necessità di assicurare che all'acquirente sia trasferito un bene libero, impone al custode di anticipare la risoluzione di tutti quei conflitti in cui si discuta della possibilità per l'aggiudicatario di conseguire la disponibilità dell'immobile all'esito dell'adozione da parte del Giudice del decreto di trasferimento, e certamente è tale la situazione in cui lo stesso sia condotto da un terzo ad un prezzo inferiore a quello giusto.

Sul punto si registra anche la pronuncia resa da Cass. III, n. 9877/2022, secondo la quale ciò che non è opponibile all'aggiudicatario non è opponibile neppure alla procedura o ai creditori che ad essa danno impulso, nell'interesse non solo e non tanto del primo, quanto nell'interesse pubblicistico al rituale sviluppo della procedura e quindi per ragioni di ordine pubblico processuale; con la conseguenza che al giudice dell'esecuzione, al fine della sua attuazione per il tramite del custode, è dato allora il potere di adottare l'ordine di liberazione finalizzato al conseguimento della disponibilità del bene pignorato, avvalendosi delle stesse inopponibilità che potrà un domani far valere l'aggiudicatario.

Un ulteriore dato sul quale la norma impone di soffermarsi attiene alla individuazione del momento in cui deve essere scandagliata la congruità del canone. In particolare, ci si chiede se il canone giusto sia quello che tale appare all'atto della stipula del contratto, piuttosto che alla data del pignoramento o dell'aggiudicazione.

Autorevole dottrina ha ritenuto che il momento rilevante sia quello dell'aggiudicazione, poiché l'interesse del locatore a percepire un canone «giusto» sorgerebbe solo in quel momento; inoltre, ha aggiunto, così argomentando potrebbero tenersi in considerazione quelle variazioni di canone che consentono di ridurlo ad equità (Bonsignori,153).

L'indicata soluzione aderisce alla lettera della norma, che guarda ai rapporti tra aggiudicatario e conduttore, sicché è coerente rispetto ad essa analizzare il prezzo della locazione al momento in cui quel prezzo diviene rilevante per l'aggiudicatario, che è il momento del trasferimento del bene. In realtà quella dottrina si riferisce al momento dell'aggiudicazione, ma ciò solo in ragione della premessa per cui da quel momento – così Cass. n. 2322/1972 –, e non dalla pronuncia del decreto di trasferimento, sorgerebbe in capo all'aggiudicatario il diritto alla percezione dei canoni.

Essa tuttavia non persuade completamente, ed è preferibile seguire quella giurisprudenza di legittimità secondo la quale «poiché nel procedimento esecutivo è il pignoramento che pone il vincolo di devoluzione effettiva del patrimonio del debitore al soddisfacimento del creditore, in tale momento si cristallizza la situazione giuridica opponibile ai creditori pignoranti e ai terzi che dall'esecuzione forzata acquisiscano diritti. conseguentemente, nel caso di locazione concernente i beni pignorati anteriore al pignoramento, l'adeguatezza del prezzo – che l'art. 2923 c.c. pone, insieme ad altre, come condizione per l'applicabilità alla particolare situazione del generale principio emptio non tollit locatum – va considerata con riferimento alla data del pignoramento e non a quella della stipulazione del contratto, ovvero della assegnazione del bene» (Cass. n. 2462/1982, nonché Cass. n. 7909/2024).

Questa soluzione, infatti: consente di fare riferimento ad un dato certo «spendibile» anche nel corso della procedura da parte del custode; risolve sin da subito, a vantaggio dei creditori, il problema della opponibilità della locazione; contribuisce al celere divenire dell'esecuzione perché la sottrae all'alea della opponibilità della locazione.

Recentemente, una giurisprudenza di merito (Trib. Verona 13 maggio 2020) ha indicato la necessità di avere riguardo alla data della stipula, giustificando questa scelta sulla scorta dell'affermazione per cui, se la previsione ha lo scopo di sanzionare una ipotesi di contratto che si presume iuris et de iure in frode ai creditori, non può che venire in considerazione il momento genetico del sinallagma.

La pronuncia non sembra offrire argomenti capaci imporsi rispetto al convincimento espresso dalla Corte di Cassazione. Essa, invero, pur cogliendo il precedente storico della norma (che anche i giudici di legittimità avevano sottolineato nella pronuncia su richiamata), non si confronta con il dato per cui il legislatore del ‘42 ha oggettivizzato il concetto di frode, così imponendo la regola della inopponibilità tout court; essa, inoltre, non considera che la situazione di adeguatezza del canone va risolta con esclusivo riferimento alla data del pignoramento poiché è solo in quel momento che il problema del conflitto si pone. Diversamente argomentando, ad esempio, un canone congruo alla data della stipula dovrebbe rendere opponibile una locazione il cui canone è divenuto, per fatti sopravvenuti, vile al momento del pignoramento.

Occorre infine analizzare quali strumenti possano essere utilizzati nei confronti del conduttore che, pur vantando un titolo opponibile alla procedura, si renda moroso o rifiuti di riconsegnare l'immobile alla scadenza del contratto. L'orientamento prevalente esclude che in questi casi si possa agire con l'ordine di liberazione pronunciato dal giudice dell'esecuzione ai sensi dell'art. 560, comma 3, c.p.c. in quanto, essendo il titolo opponibile alla procedura, non sono utilizzabili gli strumenti endoprocessuali, e dunque l'ordine di liberazione. Ergo dovrà essere coltivata la strada della intimazione di sfratto per morosità o per finita locazione (cfr. Cass. n. 26238; Trib. Reggio Emilia n. 1644/2012; Trib. Reggio Emilia, sez. agr., ord. 8 novembre 2011).

Qualche incertezza potrebbe profilarsi rispetto ad un contratto risolto in forza di una clausola risolutiva espressa, poiché essa determina l'estinzione ex lege del vincolo sinallagmatico a norma dell'art. 1456, comma 2, c.c. (Cass. n. 11864/2015; Cass. n. 25743/2013; Cass. n. 23625/2004). In realtà pare corretto ritenere che, anche in questo caso, trattandosi di locazione opponibile, lo strumento processuale utilizzabile sia quello della intimazione di sfratto, poiché il discrimine non può essere individuato nella natura, dichiarativa o costitutiva, della sentenza che accerta la cessazione del rapporto contrattuale, ma va comunque ricercato nella anteriorità o meno della nascita del rapporto locatizio rispetto al pignoramento.

Diverso sarebbe il caso in cui il rapporto fosse già venuto meno alla data del pignoramento, poiché in questa evenienza un rapporto contrattuale ormai estintosi sarebbe per sua natura inopponibile, e dunque la pronuncia dell'ordine di liberazione si giustificherebbe in ragione della inesistenza, alla data del pignoramento, di un titolo opponibile.

Peculiare, inoltre, è il rapporto tra locazione ed ipoteca, ponendosi in particolare il problema della opponibilità delle locazioni stipulate prima del pignoramento ma dopo l'iscrizione ipotecaria.

La dottrina che si è occupata dall'argomento appare divisa (Si esprimono nel senso della opponibilità della locazione Chinale, 412 ss.; Gentile, 1961, 66; Tamburrino, 117 ss.; Maiorca, 138. Propendono invece per la tesi della inopponibilità Gorla, Zanelli, 254, 375), mentre la Corte di Cassazione con la sent. n. 7776/2016 ha affermato che «Non tutti i diritti personali di godimento resistono dinanzi al prevalente diritto del creditore ipotecario, anzi, di regola vale il contrario (come è per il diritto del comodatario). Vi resiste la locazione, perché l'ordinamento consente che l'ipoteca si estenda ai frutti del bene, compresi i canoni di locazione (arg. ex art. 2811 c.c.), che quindi sono soggetti ad espropriazione ai sensi dell'art. 2808 c.c. Pertanto, il contratto di locazione sopravvenuto all'iscrizione d'ipoteca non pregiudica il creditore ipotecario poiché non priva il bene del valore d'uso e ne consente la vendita come bene produttivo di reddito; tanto ciò è vero che quando invece questo non sia possibile – come nell'ipotesi prevista dall'art. 2643 n. 9 e dagli ultimi due comma dell'art. 2812 c.c. (cessioni e liberazioni di pigioni e di fitti non scaduti) – è lo stesso legislatore a prevedere che il diritto del conduttore, che superi determinati limiti temporali, debba essere trascritto e che l'iscrizione ipotecaria prevalga sul diritto del conduttore non trascritto o trascritto successivamente».

In passato ha costituito oggetto di discussione la possibilità che il conduttore dell'immobile locato potesse esercitare, nei confronti dell'aggiudicatario, il diritto di prelazione di cui all'art. 38 l. n. 392/1978.

Il quesito costituiva uno dei precipitati applicativi di due filosofie di fondo che, all'indomani della entrata in vigore della legge sull'equo canone, si sono fronteggiate nello studio della dinamica dei rapporti tra esecuzione forzata e locazione.

Invero, taluni consideravano le nuove regole sulla locazione previste dalla legge l'espressione di un vero e proprio microsistema, prevalente rispetto alla disciplina dell'esecuzione forzata siccome disciplinata dal codice civile, cui norme in contrasto con quell'innovativo microsistema dovevano considerarsi tacitamente abrogate, come ad esempio l'art. 2923 c.c. (cfr. Irti, 920 ss.).

Una opposta opinione rilevava invece che fossero proprio le peculiarità del processo esecutivo ad escludere da questo specifico contesto l'applicazione della normativa speciale (Cass. n. 1615/1989).

Con il tempo l'elaborazione giurisprudenziale si è fatta carico di trovare una soluzione di compromesso, la quale ha verificato di volta in volta la compatibilità dei singoli istituti previsti dalla normativa vincolistica con la disciplina e gli interessi sottesi all'esecuzione forzata.

E così, venendo al tema della prelazione, Cass. n. 11225/1996, ha affermato che «Il diritto di prelazione che l'art. 38 della legge sull'equo canone riconosce al conduttore di immobili adibiti ad uso non abitativo, presuppone la volontarietà e la onerosità dell'alienazione. Pertanto, la norma non trova applicazione nel caso di vendita forzata dell'immobile locato». Questo orientamento è stato successivamente ribadito da Cass. S.U., n. 2576/2004, che peraltro ha riconosciuto l'operatività della prelazione volontaria a seguito della scelta operata dal curatore fallimentare, di subentrare nel contratto «pendente» di affitto di azienda munito di tal clausola, ai sensi dell'art. 80 l.fall.

Pignoramento e sublocazione

Con riferimento al contratto di sublocazione deve osservarsi come esso sarà opponibile o meno alla procedura negli stessi termini in cui lo è il contratto di locazione. Ciò in forza della regola ricavabile dall'art. 1593, comma 3, c.c., a mente quale la nullità, la risoluzione o comunque il venir meno del contratto di locazione determina la caducazione anche del rapporto di sublocazione, in aderenza al principio generale resoluto iure dantis resolvitur et ius accipientis senza applicare direttamente questo principio, ma argomentando intorno alla irrilevanza del subcontratto, non contemplato dall'art. 2923 c.c., Cass. n. 3978/1982, ha affermato che quando l'immobile espropriato risulti locato con contratto non avente data certa, soltanto la detenzione, anteriore al pignoramento, del conduttore, e non anche quella del subconduttore, obbliga l'acquirente, a norma dell'art. 2923, comma 4, c.c., a rispettare la locazione per la durata stabilita per le locazioni a tempo indeterminato.

Sempre a proposito della sublocazione va detto che i canoni di locazione dovuti dal subconduttore al conduttore (suo locatore) non possono costituire frutti della cosa pignorata ai sensi dell'art. 2912 c.c., poiché il subconduttore è soggetto del tutto estraneo alla procedura ed ha rapporti solo con il proprio locatore. Frutti della cosa pignorata (e dunque sottoposti al pignoramento) sono infatti solo quelli che derivano dalla locazione principale. Quindi, mentre il debitore/locatore dovrà versare i frutti al custode, il subconduttore non ha analogo obbligo, poiché estraneo al rapporto di locazione stipulato dal proprietario, e nel quale è subentrato il custode per effetto del pignoramento.

Nei termini qui indicati si sono espresse le sezioni unite della Corte di cassazione con la sent. n. 11830/2013, che sulla scorta delle considerazioni appena svolte hanno ritenuto che il sublocatore è legittimato a promuove azione di sfatto per morosità nei confronti del suo subconduttore, il quale non può eccepire di non essere più tenuto al pagamento dei canoni di locazione in forza dell'intervenuto pignoramento.

Il pignoramento dei beni culturali

Qualora il pignoramento colpisca beni di interesse storico o artistico la procedura esecutiva deve fare i conti con alcune disposizioni della disciplina speciale che regola la circolazione giuridica di tali beni, oggi contenuta nel d.lgs. n. 42/2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio).

La citata normativa si applica ope legis ai i beni appartenenti allo Stato, alle regioni alle province, ai comuni o alle persone giuridiche prive di finalità di lucro, ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti (art. 10 comma 1).

Per i beni appartenenti ad altri soggetti, invece, il vincolo viene dichiarato con decreto del Ministero, notificato al proprietario e, in caso di immobili, trascritto nei registri immobiliari (art. 15).

La trascrizione lo rende opponibile «nei confronti di ogni successivo proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo»

Ai sensi dell'art. 59 del citato d.lgs. gli atti che trasferiscono, in tutto o in parte, a qualsiasi titolo, la proprietà di beni culturali sono denunciati al Ministero entro trenta giorni dalla stipula, presso la Soprintendenza del luogo in cui si trovano i beni.

La denuncia è presentata:

a) dall'alienante, in caso di alienazione a titolo oneroso o gratuito o di trasferimento della detenzione;

b) dall'acquirente, in caso di trasferimento avvenuto nell'ambito di procedure di vendita forzata o fallimentare ovvero in forza di sentenza che produca gli effetti di un contratto di alienazione non concluso;

c) dall'erede o dal legatario, in caso di successione a causa di morte (per l'erede, il termine decorre dall'accettazione dell'eredità o dalla presentazione della dichiarazione di successione; per il legatario, il termine decorre dalla comunicazione notarile prevista dall'art. 623 del codice civile, salva rinuncia).

Ai sensi del comma 4 del citato art. 59 la denuncia contiene:

a) i dati identificativi delle parti e la sottoscrizione delle medesime o dei loro rappresentanti legali;

b) i dati identificativi dei beni;

c) l'indicazione del luogo ove si trovano i beni;

d) l'indicazione della natura e delle condizioni dell'atto di trasferimento;

e) l'indicazione del domicilio in Italia delle parti ai fini delle eventuali comunicazioni previste dalla legge.

In forza del successivo art. 61, il Ministero esercita la prelazione nel termine di sessanta giorni dalla data di ricezione della denuncia (o nel termine di 180 giorni decorrenti dal momento in cui ha ricevuto la denuncia tardiva o ha comunque acquisito tutti gli elementi costitutivi della stessa) notificando all'acquirente il provvedimento di prelazione.

Molto importante, ai fini che qui interessano, è l'ultimo comma dell'art. 61, a mente del quale «In pendenza del termine prescritto dal comma 1 l'atto di alienazione rimane condizionato sospensivamente all'esercizio della prelazione e all'alienante è vietato effettuare la consegna della cosa».

Coordinando le norme appena richiamate con la disciplina della procedura esecutiva, quando il pignoramento abbia colpito un bene culturale dovrà in primo luogo verificarsi se il vincolo sia stato costituito prima o dopo che il bene sia stato acquistato dal debitore esecutato.

Se il vincolo è stato costituito (e trascritto) prima della trascrizione dell'acquisto in capo al debitore esecutato, occorrerà assicurarsi che l'atto di acquisto sia stato notificato al ministero (ai sensi dell'art. 30, l. n. 1089/1939, art. 58 d.lgs. n. 490/1999, art. 59 d.lgs. n. 42/2004, a seconda della disciplina vigente al tempo del trasferimento).

Ove la stessa non sia stata eseguita, occorrerà provi rimedio. A questo proposito deve osservarsi che sebbene, come si è visto, il relativo onere sia posto espressamente a carico dell'alienante (art. 59 comma 2, lett. b), d.lgs. n. 42/2004), poiché l'esercizio della prelazione è questione che interessa anche la procedura (poiché condiziona la possibilità che essa prosegua e che si possa procedere alla distribuzione del ricavato tra i creditori), alla stesa può provvedere anche il professionista delegato o il creditore che abbia interesse al prosieguo della procedura.

Eseguita la denuncia (o acquisita la prova che la stessa era già stata effettuata all'epoca dell'acquisto) in base al tenore letterale dell'art. 2668, comma 3 c.c., occorrerebbe procedere alla cancellazione della condizione in forza di sentenza o di dichiarazione resa dall'alienante (la norma parla di parte «in danno della quale la condizione sospensiva si è verificata») ma riteniamo che possa procedersi anche in forza di provvedimento ricognitivo del Giudice il quale attesti la mancata verificazione della condizione sospensiva.

Ove invece il vincolo sia stato apposto e trascritto dopo la trascrizione dell'acquisto del bene in capo al debitore esecutato, il professionista delegato dovrà avere cura di eseguire la denuncia di cui all'art. 59, comma 2, cit., ossia di trasmettere (a mezzo raccomandata A.R. o a mezzo PEC) il decreto di trasferimento al competente Soprintendente nel termine di trenta giorni.

Si osservi che secondo una risalente pronuncia (Cass. n. 3005/1953) l'obbligo di denuncia si ricollega al decreto di trasferimento, non già al provvedimento di aggiudicazione, sicché l'aggiudicatario deve aver già versato il saldo del prezzo.

Non sembra tuttavia pregiudizievole la possibilità di ipotizzare la diversa soluzione per cui oggetto di denuncia sia il provvedimento di aggiudicazione (accompagnato da una bozza del decreto di trasferimento), in modo tale da consentire alla pubblica amministrazione di esercitare il diritto di prelazione senza costringere l'aggiudicatario ad un (potenzialmente inutile) esborso monetario.

Come si è detto sopra, in pendenza del termine di sessanta giorni per l'esercizio della prelazione il trasferimento della proprietà è sospensivamente condizionato.

Se la prelazione non viene esercitata, il GE adotterà un provvedimento (meramente ricognitivo) con il quale si darà atto del mancato esercizio della prelazione, il quale costituisce titolo per la cancellazione della condizione sospensiva ai sensi dell'art. 2668, comma 3, c.c.

Se invece il ministero esercita il diritto di prelazione, il decreto di trasferimento (ove emesso) si considererà tam quam non esset ed all'aggiudicatario andrà restituito il prezzo versato (ove si aderisca alla tesi per cui la denuncia presuppone l'intervenuta emissione del decreto di trasferimento). Con il tempestivo esercizio della prelazione, «la proprietà passa allo Stato dalla data dell'ultima notifica» (art. 61, comma 3), il che esclude la necessità di pronunciare un nuovo decreto di trasferimento.

Il pignoramento di immobili gravati da diritto di abitazione

Il diritto di abitazione un diritto reale è disciplinato dagli artt. 1022 e ss. c.c., a mente del quale «Chi ha il diritto di abitazione di una casa può abitarla limitatamente ai bisogni suoi e della sua famiglia».

Il successivo art. art. 1026 c.c. prevede poi che le disposizioni relative all'usufrutto si applicano, in quanto compatibili, all'uso e all'abitazione.

Orbene, poiché ai sensi dell'art. 2643, comma 1, n. 4 c.c., i contratti che costituiscono o modificano (tra gli altri) il diritto di abitazione sono soggetti a trascrizione, la conseguenza sarà che, in virtù di quanto previsto dall'artt. 2644,2914,2915 e 2919 c.c., il diritto di abitazione, se trascritto in data successiva al pignoramento (o all'ipoteca), sarà inopponibile all'aggiudicatario.

In particolare, poi, ai sensi dell'art. 2812 c.c., il diritto di abitazione (come le servitù, il diritto di usufrutto e di uso), di cui sia stata trascritta la costituzione dopo l'iscrizione dell'ipoteca, si estingue con l'espropriazione del fondo ed il titolare del diritto è ammesso a partecipare alla distribuzione del ricavato con un diritto di preferenza rispetto ad altri creditori. In questo caso è opportuno che nel decreto di trasferimento sia dato conto dell'intervenuta estinzione del diritto, atteso che questa precisazione consentirà di annotare, a margine della trascrizione del diritto di abitazione, l'intervenuta estinzione.

In caso contrario (ove cioè il diritto di abitazione sia stato trascritto in data antecedente al pignoramento, o all'ipoteca), la proprietà del bene pignorato verrà trasferita come gravata dal diritto di abitazione e gli atti espropriativi non potranno pregiudicare il titolare dello stesso.

Assegnazione della casa familiare e pignoramento

Un tema assai delicato attiene alla opponibilità al pignoramento del provvedimento di assegnazione della casa coniugale disposto in seno a giudizi di separazione e divorzio.

A questo proposito va subito detto che ai sensi dell'art. 2915 c.c. se il provvedimento di assegnazione subentra al pignoramento, esso non è opponibile alla procedura.

Altra distinzione va eseguita con riferimento al titolare del diritto: se l'assegnazione della casa coniugale viene disposta in favore del debitore esecutato, nulla questio, e dunque lo stesso subirà l'esecuzione, non potendo ricevere un trattamento diverso, e privilegiato, rispetto a colui che dimora nella propria abitazione senza essere destinatario di provvedimenti di assegnazione, bensì quale mero proprietario.

Occorre poi verificare nell'ambito di quale tipologia di giudizio di separazione il diritto di abitazione è stato costituito. Invero, il problema non si porrà quante volte l'assegnazione della casa coniugale tragga origine da un giudizio di separazione consensuale; in tal caso, infatti, essa ha natura negoziale, e dunque sarà assimilabile al comodato, con la conseguenza che l'aggiudicatario potrà invocarne la cessazione.

Invero, secondo Cass. n. 11424/1992, l'acquirente di un immobile non può risentire alcun pregiudizio dell'esistenza di un comodato costituito in precedenza dal venditore, giacché per effetto del trasferimento in suo favore il compratore acquista «ipso iure» il diritto di far cessare il godimento da parte del comodatario e di ottenere la piena disponibilità della cosa.

Analogo principio è ricavabile da Cass. n. 4735/2011, secondo la quale «L'assegnazione della casa coniugale disposta sulla base della concorde richiesta dei coniugi in sede di giudizio di separazione, in assenza di figli minori o maggiorenni non autosufficienti, non è opponibile né ai terzi acquirenti, né al coniuge non assegnatario che voglia proporre domanda di divisione del bene immobile di cui sia comproprietario, poiché l'opponibilità è ancorata all'imprescindibile presupposto che il coniuge assegnatario della casa coniugale sia anche affidatario della prole, considerato che in caso di estensione dell'opponibilità anche all'ipotesi di assegnazione della casa coniugale come mezzo di regolamentazione dei rapporti patrimoniali tra i coniugi, si determinerebbe una sostanziale espropriazione del diritto di proprietà dell'altro coniuge, in quanto la durata del vincolo coinciderebbe con la vita dell'assegnatario».

Le problematiche attengo tutte all'ipotesi inversa, cioè all'ipotesi di provvedimento di assegnazione anteriore al pignoramento. Sul punto, come è noto, le Sezioni Unite con la Cass. sent. n. 11096/2002 hanno affermato che se il provvedimento di assegnazione non è trascritto, esso è opponibile entro il novennio; se trascritto, sarà opponibile anche oltre questo limite, e fino al raggiungimento dell'autosufficienza economica da parte della prole.

Questo approdo, secondo alcuni, deve essere rivisto alla luce della l. n. 54/2006, la quale introducendo l'art. 155-quater c.c. ha previsto che il provvedimento di assegnazione della casa familiare è trascrivibile ed opponibile ai terzi ai sensi dell'art. 2643 c.c., con la conseguenza che allora il regime di opponibilità dei provvedimenti di assegnazione emessi dopo il 28 febbraio 2006 (data di entrata in vigore della norma) dovrebbe essere disciplinato con esclusiva applicazione delle regole della trascrizione (per inciso, l'abrogazione dell'art. 155-quater c.c. e la sua sostituzione con l'art. 337-sexies c.c., ad opera dell'art. 55, comma 1, del d.lgs. n. 154/2013, non ha modificato i termini della questione, stante la riproposizione del medesimo precetto.

In questi termini si è espressa la Corte di cassazione, secondo la quale «L'assegnazione della casa familiare, disposta in sede di separazione personale o divorzio ai sensi dell'abrogato art. 155-quater c.c., applicabile «ratione temporis», è opponibile ai terzi solo se trascritta anteriormente alla trascrizione del titolo del diritto del terzo sull'immobile, così come previsto dalla norma citata (trasposta, senza modifiche, nel vigente art. 337-sexies c.c.), e non anche nei limiti del novennio ove non trascritta, ai sensi del combinato disposto di cui all'art. 6, comma 6, l. n. 898/1970, e all'art. 1599, comma 3 c.c., perché a seguito dell'introduzione dell'art. 155-quater c.c. l'assegnazione della casa coniugale è trascrivibile come tale, e non più agli effetti, non più previsti, dell'art. 1599 c.c., non potendo trarsi argomento contrario dalla circostanza della mancata abrogazione dell'art. 6, comma 6, l. n. 898/1970, in considerazione dei limiti della delega legislativa di cui all'art. 2 della l. n. 219/2012.» (Cass. n. 12387/2022).

I giudici di legittimità (Cass. n. 772/2018) hanno ulteriormente precisato che se il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa familiare al coniuge affidatario della prole (opponibile) si atteggia a vincolo di destinazione, estraneo alla categoria degli obblighi di mantenimento e collegato all'interesse superiore dei figli a conservare il proprio «habitat» domestico. Ne deriva che esso non può ritenersi venuto meno per effetto della morte del coniuge, trattandosi di diritto di godimento sui generis, suscettibile di estinguersi soltanto per il venir meno dei presupposti che hanno giustificato il relativo provvedimento o a seguito dell'accertamento delle circostanze di cui all'art. 337-sexies c.c., legittimanti una sua revoca giudiziale. (Nella specie, la S.C. ha confermato la pronuncia di merito, che aveva rigettato la domanda di rilascio della casa familiare, avanzata nei confronti del coniuge assegnatario da un terzo, il quale, avendo acquistato l'intero immobile dopo il provvedimento di assegnazione, sosteneva il travolgimento di quest'ultimo in virtù del sopravvenuto decesso dell'altro coniuge, suo dante causa).

Ovviamente nulla esclude che il custode, ed a fortiori l'acquirente, possano eccepire al titolare del diritto di abitazione della casa coniugale l'intervenuta estinzione del diritto medesimo per sopravvenuta insussistenza dei presupposti attributivi dello stesso (raggiungimento della maggiore età e autosufficienza dei figli conviventi; cessazione della convivenza tra genitore affidatario e figli; allontanamento stabile dalla residenza familiare del coniuge assegnatario); a questo fine sarà necessario che propongano un'ordinaria azione di accertamento al fine di conseguire la declaratoria di inefficacia del titolo e la eventuale condanna dell'occupante al pagamento di una indennità di occupazione illegittima. (Indicazioni in tal senso si traggono da Cass. n. 1744/2018).

Rispetto alle questioni sin qui richiamate si pone l'ulteriore problema del conflitto con il creditore pignorante che abbia iscritto ipoteca prima della trascrizione del provvedimento di assegnazione. In un primo momento si discuteva sull'argomento interrogandosi sulla applicabilità o meno dell'art. 2812 c.c. a seconda che si considerasse l'assegnazione della casa coniugale un diritto reale (dunque soggiacente alla disciplina di questa norma) o personale.

In argomento deve registrarsi la pronuncia resa da Cass. n. 7776/2016, la quale ha affermato che «In materia di assegnazione della casa familiare, l'art. 155-quater c.c. (applicabile ratione temporis), laddove prevede che «il provvedimento di assegnazione e quello di revoca sono trascrivibili e opponibili a terzi ai sensi dell'art. 2643 c.c.», va interpretato nel senso che entrambi non hanno effetto riguardo al creditore ipotecario che abbia acquistato il suo diritto sull'immobile in base ad un atto iscritto anteriormente alla trascrizione del provvedimento di assegnazione, il quale perciò può far vendere coattivamente l'immobile come libero».

Il pignoramento dei beni donativi

Il pignoramento dei beni pervenuti al debitore per atto di liberalità pone alcuni problemi di stabilità della vendita, i quali inevitabilmente si riverberano sul valore economico del cespite quale conseguenza della minore appetibilità dello stesso in ragione dei rischi cui il trasferimento della proprietà in favore dell'aggiudicatario si espone.

In argomento, occorre muovere dalla considerazione per cui in materia successoria il legislatore ha inteso tutelare talune categorie di eredi, riservando loro una quota dell'asse ereditario, a prescindere dalle determinazioni volitive del de cuius. Si tratta dei legittimari, che l'art. 536 c.p.c. individua nei discendenti e nel coniuge, nonché negli ascendenti qualora i discendenti manchino.

La protezione di cui questi soggetti godono non opera solo nell'ambito dei trasferimenti mortis causa, ma spiega i suoi effetti anche nei negozi a titolo donativo (Capozzi, 385).

Il precipitato di questa tutela, nello spiegare i suoi effetti non sono nei confronti dell'avente causa del donatario ma anche nei confronti dei successivi acquirenti (nei termini e nei limiti che si si appresta ad esplicitare) pone il mai del tutto sopito tema della circolazione dei beni immobili di provenienza donativa, terreno di confronto e scontro di due contrapposti principi dell'ordinamento: quello della tutela dei legittimari, da un lato, e quello della sicurezza dei traffici giuridici, dall'altro.

Il primo dei rimedi che l'ordinamento appresta all'erede legittimario è l'azione di riduzione, disciplinata agli artt. 553 e ss. c.c.

L'azione di riduzione è un'azione di accertamento costitutivo volta ad ottenere la pronuncia di una sentenza dichiarativa della inefficacia delle disposizioni testamentarie o delle donazioni che contengano disposizioni lesive della quota di legittima. Oggetto dell'azione di riduzione sono, nell'ordine le disposizioni testamentare e le donazioni, salvo che le disposizioni testamentarie abbiano avuto ad oggetto la quota disponibile. A loro volta, le donazioni sono colpite partendo dalla più recente alla più anteriori.

Legata all'azione di riduzione è quella di restituzione, in forza della quale il legittimario leso ottiene la concreta restituzione del bene donato. Il carattere reale di questa azione si ricava plasticamente dall'art. 561, a mente del quale «gli immobili restituiti in conseguenza della riduzione solo liberi da ogni peso o ipoteca di cui il ... donatario può averli gravati».

La portata di questo istituto, proprio in omaggio ad una esigenza di maggiore sicurezza delle vicende circolatorie che interessano questi beni, è stata mitigata dal d.l. n. 35/2005, convertito in l. n. 80/2005.

In forza di questo intervento normativo, il novellato art. 561 c.c. dispone che se l'azione di riduzione viene esperita decorsi venti anni dalla trascrizione della donazione, i vincoli eventualmente iscritti medio tempore sul bene conservano la loro efficacia, aggiungendosi che qualora la trascrizione della domanda di riduzione avvenga dopo dieci anni dall'apertura della successione, la sentenza che l'accoglie non pregiudica l'acquisto compiuto dal terzo in forza di un atto trascritto anteriormente alla domanda.

Ergo, l'eventuale pignoramento o ipoteca iscritti dopo la trascrizione della donazione non potranno essere opposti al legittimario se costui procede alla trascrizione della domanda di riduzione prima del decorso dei dieci anni dall'apertura della successione. Se vi provvede dopo (e comunque nell'arco del ventennio dall'apertura della successione) il pignoramento e l'ipoteca gli potranno essere opposti solo se precedono la trascrizione della domanda di riduzione.

Regole solo in parte diverse disciplinano il caso della opponibilità dell'azione di riduzione al terzo avente causa del donatario.

In questa ipotesi occorre muovere dalla previsione di cui all'art. 563 c.p.c., a mente del quale se i donatari contro i quali è stata esperita l'azione di riduzione di cui all'art. 559 c.c. da parte dei legittimari hanno alienato a terzi gli immobili donati e non sono trascorsi venti anni dalla trascrizione della donazione, il legittimario che ha agito con l'azione di riduzione, se rimane insoddisfatto dopo l'escussione dei beni del donatario, può chiedere ai successivi acquirenti la restituzione degli immobili donati (salvi gli effetti del possesso di buona fede con riferimento ai beni mobili).

Il terzo acquirente può liberarsi dall'obbligo di restituire in natura le cose donate pagando l'equivalente in danaro.

La norma specifica che questo termine è sospeso nei confronti del coniuge e dei parenti in linea retta del donante che abbiano notificato e trascritto, nei confronti del donatario e dei suoi aventi causa un atto stragiudiziale di opposizione alla donazione.

In ogni caso, ai sensi dell'art. 2652, n. 8 c.c. la domanda di riduzione di cui si è appena detto deve essere trascritta, e se è trascritta dopo 10 anni dalla morte del donante non pregiudica i terzi che hanno acquistato a titolo oneroso diritti in base a un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione della domanda.

Ed allora, al fine di verificare i possibili rischi connessi all'acquisto di un bene pervenuto al debitore esecutato in forza di una donazione occorre verificare:

– se il donante sia deceduto o meno;

– se siano trascorsi o meno i termini di cui si è sin qui detto;

– se sono state trascritte o meno domande di riduzione della donazione;

– se gli eredi legittimi hanno o meno rinunciato all'eredità.

Chiarito il quadro normativo di riferimento, va comunque osservato che sebbene un risalente orientamento della giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 3896/1968) abbia affermato che nel caso in cui il bene donato sia stato pignorato i coeredi legittimari potrebbero chiedere la riduzione della liberalità e la reintegrazione della quota di riserva col mezzo dell'opposizione di terzo all'esecuzione, facendola valere nei confronti creditore procedente e quindi anche nei confronti dell'aggiudicatario, altra dottrina afferma che l'art. 563 c.c., circoscriverebbe la esperibilità del rimedio della riduzione nei soli confronti di coloro ai quali il bene sia stato alienato dal donatario, e tale non sarebbe l'aggiudicatario, il quale diviene proprietario del bene in forza di un trasferimento coattivo dell'immobile, e non negoziale.

Infine, a proposito del coordinamento tra il termine ventennale dalla trascrizione della donazione e la clausola che fa salvo l'art. 2652, n. 8, c.c., è da ritenersi che se la successione si apre dopo oltre venti anni dalla trascrizione della donazione, il rimedio sarà definitivamente precluso; viceversa se la successione si apre prima, e fermo restando il limite dei venti anni, la domanda di riduzione deve essere comunque trascritta nel termine di dieci anni dall'apertura della successione.

In relazione ad esso Cass. n. 4357/2024 ha precisato che «l'obbligazione, assunta col contratto di donazione dal donatario di un immobile, di concedere ai donanti il godimento del cespite donato per tutta la durata della loro vita naturale non è opponibile ai creditori del donatario, né all'aggiudicatario del bene, poiché non si tratta di un'obbligazione propter rem, bensì dell'attribuzione di un diritto personale atipico di godimento, ricollegato al modus della donazione, e la trascrizione della donazione modale non fa acquisire all'onere carattere reale, stante il principio di tipicità dei diritti reali e la riconduzione della donazione modale nell'ambito dei rapporti obbligatori».

Il pignoramento di beni appartenenti alla società cancellata dal registro delle imprese

Può accadere che il pignoramento abbia ad oggetto beni immobili appartenenti ad una società che tuttavia al momento del pignoramento risulta estinta per intervenuta cancellazione dal registro delle imprese, i quali non siano stati precedentemente liquidati, e dunque risultano ancora formalmente intestati ad essa nei registri immobiliari.

Ai sensi dell'art. 2487, allorquando si verifica una causa di scioglimento della società, occorre procedere alla nomina dei liquidatori. Quest'organo procede, tra l'altro, alla «alla cessione dell'azienda sociale, di rami di essa, ovvero anche di singoli beni o diritti, o blocchi di essi». La deliberazione della messa in liquidazione deve essere resa nota mediante iscrizione nel registro delle imprese, e la denominazione sociale deve essere modificata con l'aggiunta che la società è «in liquidazione», per cui, ad esempio, la «tizio s.r.l.» diviene «tizio s.r.l. in liquidazione» (così l'art. 2487-bis c.c.).

A norma dell'art. 2495 c.c., «approvato il bilancio finale di liquidazione, i liquidatori devono chiedere la cancellazione della società dal registro delle imprese, avvenuta la quale i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi. La domanda, se proposta entro un anno dalla cancellazione, può essere notificata presso l'ultima sede della società».

Occupandosi del caso in cui non tutte le posizioni attive e passive siano state definite, e ciononostante la società sia stata cancellata (Cass. n. 6070/2013), ha affermato che «qualora all'estinzione della società, di persone o di capitali, conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale: a) l'obbligazione della società non si estingue, ciò che sacrificherebbe ingiustamente il diritto del creditore sociale, ma si trasferisce ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che, pendente societate, fossero limitatamente o illimitatamente responsabili per i debiti sociali; b) i diritti e i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta si trasferiscono ai soci, in regime di contitolarità o comunione indivisa, con esclusione delle mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, e dei crediti ancora incerti o illiquidi, la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un'attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale), il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato, a favore di una più rapida conclusione del procedimento estintivo».

Dunque, dopo l'estinzione della società, i beni sono pignorabili in capo ai soci, poiché proprietari degli stessi in forza del fenomeno successorio appena descritto.

Resta il problema ulteriore di stabilire se, preliminarmente, sia necessario che l'acquisto di costoro risulti o meno da i pubblici registri immobiliari.

In argomento non si registrano, ad oggi, unanimità di consensi, ne constano precedenti di legittimità.

Secondo alcuni (Boggiali, Ruotolo, 954 ss.) poiché il fenomeno successorio sarebbe necessario ed automatico, non occorrerebbe questa trascrizione, bastando le risultanze del Registro delle imprese, che consentirebbero di superare il problema della continuità delle trascrizioni; segnatamente sarebbe sufficiente il certificato rilasciato dal Conservatore del Registro delle imprese attestante l'avvenuta cancellazione della società e la composizione della compagine sociale (Ballerini, 222).

A fronte di questa opinione si registra la più rigorosa presa di posizione di coloro i quali, per esigenze di certezza giuridica, avvertono l'esigenza di un accertamento di portata ricognitiva, in grado di formalizzare la situazione proprietaria, anche in vista di successivi trasferimenti (Tassani, Lupetti, 1341).

Ove si ritenga necessaria la trascrizione, si pone evidentemente l'ulteriore questione di individuare il titolo in forza del quale procedervi. In proposito, è certamente ipotizzabile la stipula di un atto ricognitivo tra i soci, ovvero un provvedimento giudiziale avente analogo contenuto. Altra soluzione proposta in dottrina è quella di procedere alla trascrizione di un atto integrativo del bilancio finale di liquidazione contro la società estinta ed in favore di tutti i soci (Iacciarino, 263; Ruotolo, 1508), anche se ad essa si è obiettato che il bilancio finale di liquidazione, non menzionando espressamente i beni sopravvissuti, non vale a consentire la trascrizione su di essi (D'alessandro, 895).

Così ricostruito il panorama normativo e dottrinario è da condividere la soluzione più garantista che predica la necessità di procedere alla trascrizione del titolo di acquisto in capo ai soci.

Va ricordato a questo proposito che la Corte di cassazione (Cass. n. 11638/2014) in riferimento al pignoramento di beni ereditari in relazione ai quali mancasse la trascrizione dell'accettazione dell'eredità ha ritenuto necessaria la trascrizione, osservando che «la trascrizione dell'acquisto mortis causa in capo all'esecutato assolve nell'espropriazione immobiliare alla funzione principale di tutelare l'acquisto dell'aggiudicatario, garantendone la stabilità in caso di conflitto con gli aventi causa dall'erede apparente (nel caso in cui l'esecutato sia il vero erede) o dall'erede vero (nel caso in cui l'esecutato sia erede apparente)», osservando che «se in astratto, ciò che rileva perché il processo esecutivo si concluda con una vendita coattiva valida ed efficace è che il soggetto esecutato abbia, accettando l'eredità, acquisito la titolarità del diritto reale sul bene pignorato, sicché si potrebbe prescindere dalla trascrizione dell'accettazione; per assicurare, in concreto, la stabilità della vendita coattiva è necessario che sia rispettata la continuità delle trascrizioni».

Ora, è ben vero che il fenomeno successorio che si verifica in occasione dello scioglimento della società non è sovrapponibile a quello determinato dalla morte del decuius, poiché non si pone un potenziale problema di conflitti tra il vero erede e l'erede apparente, ma è pur vero che l'autonomia del sistema della pubblicità immobiliare deve consentire di avere certezza in merito agli acquisti compiuti a favore o contro un soggetto senza la necessità di andare alla ricerca di dati ulteriori rispetto o quelli risultanti dai pubblici registri immobiliari, e che al giudice dell'esecuzione compete, anche d'ufficio, la verifica della titolarità del bene in capo all'esecutato sulla base di quanto risulta dalla (sola) documentazione di cui all'art. 567 c.p.c.

Le pertinenze

Ai sensi dell'art 2912 c.c. il pignoramento si estende agli accessori, alle pertinenze ed ai frutti della cosa pignorata, sebbene non menzionate nell'atto di pignoramento.

La Cass. n. 4378/2012, ha avuto modo di precisare, a proposito di questa norma, che affinché operi l'estensione ex lege del vincolo imposto con il pignoramento sulla cosa principale alla pertinenza è necessario «non solo che sussista in concreto una relazione di asservimento così qualificabile nel rispetto dell'art. 817 c.c., ma che questa risulti con caratteri di assolutezza ovvero di indispensabilità o di inequivocità del rapporto pertinenziale, in modo che si possa così sopperire alla lacuna riscontrabile nella trascrizione del pignoramento riguardante soltanto la cosa principale, a fini di tutela dei terzi (cfr. Cass. n. 2278/1990). Inoltre, va precisato che il principio stabilito dall'art. 2912 c.c., non opera tutte le volte in cui la descrizione del bene riportata nel decreto di trasferimento contenga elementi tali da far ritenere che si sia inteso escludere l'applicazione dell'estensione».

In senso parzialmente difforme all'arresto appena richiamato sembra porsi Cass. n. 11272/2014, la quale ha affermato che ove il bene, che possa in astratto configurarsi come una pertinenza, sia dotato di per sé solo di univoci ed esclusivi dati identificativi catastali (tali cioè da identificare quello e soltanto quello) ed a meno che nel pignoramento e nella nota [di trascrizione] non si riesca a far menzione del medesimo con idonei ed altrettanto univoci riferimenti al primo (come, a mero titolo di esempio, con espressioni descrittive nel quadro D od altri dati negli altri quadri), non sia indicato con tali suoi propri dati nel pignoramento e nella nota, riferiti essendo questi ultimi in modo espresso soltanto ad altri beni compiutamente identificati con loro propri ed altrettanto esclusivi dati catastali (dalle planimetrie allegate ai quali o dai quali presupposte non risulti, poi, il bene che si pretenda essere una pertinenza), correttamente non va ritenuto esteso ai primi il pignoramento dei secondi: e tanto proprio perché tale situazione comporta un'obiettiva diversa risultanza dell'atto di pignoramento e soprattutto della sua nota di trascrizione, idonea a rendere inoperante la presunzione dell'art. 2912 c.c.

Ai sensi dell'art. 817 c.c. sono pertinenze le cose destinate in modo durevole al servizio o all'ornamento di un'altra. Affinché una cosa possa dirsi pertinenza di un bene principale occorrono, sulla scorta di quanto stabilito dalla citata norma, due requisiti: un elemento soggettivo (appartenenza al medesimo soggetto, e volontà di imporre il vincolo da parte del proprietario o titolare di altro diritto reale) ed uno oggettivo, dato dalla contiguità, anche solo di servizio, e non occasionalità della destinazione, per cui il bene accessorio deve arrecare una «utilità» al bene principale, e non al proprietario di esso. Va ancora aggiunto che il vincolo pertinenziale tra la cosa accessoria e la cosa principale cessa quando viene oggettivamente meno la destinazione funzionale tra i due beni o quando l'avente diritto, con atto volontario, dispone separatamente della pertinenza.

In applicazione di questi postulati ermeneutici Cass. II, n. 5002/1993 e Cass., sez. lav., n. 14863/2000 hanno ritenuto che, ad esempio, anche il terreno latistante o circondante un edificio pignorato, ancorché non esplicitamente indicato nell'atto di pignoramento e nella nota di trascrizione, in concrete circostanze può essere considerato come un'unica unità immobiliare assieme al bene pignorato, similmente alle costruzioni che siano in rapporto di accessorietà o di pertinenza con il bene principale sottoposto ad esecuzione.

Viceversa, secondo Cass. I, n. 9760/1993 in tema di pignoramento immobiliare avente ad oggetto un bene aziendale, il rapporto che lega i vari beni organizzati in azienda è, in linea di principio, di assoluta parità, nel senso che, per definizione, nessuno di essi assume la funzione di bene principale; conseguentemente, resta a carico di chi intende giovarsi del particolare regime collegato alla pertinenzialità l'onere di provare la sussistenza di tale vincolo, mancando il quale il pignoramento eseguito sull'immobile aziendale (nella specie si trattava di un'azienda alberghiera) non si estende automaticamente ai beni mobili che l'arredano. Per sottoporre ad esecuzione forzata anche detti beni, stante la loro autonomia funzionale, è necessario eseguire separati pignoramenti per gli immobili e per i mobili, salvo il ricorso all'art. 556 c.p.c. con l'avvertenza che, anche in caso di esecuzione congiunta, il creditore assistito da una causa di prelazione relativa solo al bene immobile, non può pretendere di essere soddisfatto con prelazione anche sul ricavato imputabile all'esecuzione forzata mobiliare.

L'indagine circa la natura pertinenziale o meno di un bene è di assoluta rilevanza, e spesso non si presenta di facile soluzione.

Un caso problematico di frequente verificazione attiene all'accertamento relativo alla natura pertinenziale del sottotetto rispetto all'appartamento sottostate. Normalmente l'esperto nominato per la stima di un appartamento valuta anche il sottotetto, poiché nel titolo di provenienza del bene questo sottotetto viene indicato come pertinenza. Sennonché è ben possibile che il debitore esecutato proponga opposizione affermando che il vincolo pertinenziale sia venuto meno in quanto quel sottotetto era stato destinato ad appartamento. Il creditore magari si oppone a questa obiezione sostenendo che in realtà, ad esempio, è stata presentata solo una domanda di condono, senza che sia stato rilasciato permesso di costruire in sanatoria in quanto il sottotetto non poteva essere destinato ad abitazione.

Dinanzi ad una situazione di tal fatta l'opposizione del debitore è fondata proprio sulla scorta dell'analisi degli elementi costitutivi della pertinenza, e di cui sopra si è fatta menzione, dovendosi osservare che proprio la domanda di permesso di costruire in sanatoria, a prescindere dalla sua accoglibilità, testimonia il sopravvenuto venir meno di uno degli elementi costitutivi del vincolo pertinenziale, vale a dire quello soggettivo, poiché il debitore ha manifestato la volontà di destinare quella porzione di edificio ad autonoma unità abitativa.

Le aree destinate a parcheggio

Una questione di particolare rilievo, ed oggetto in passato di numerosi interventi giurisprudenziali, riguarda il carattere pertinenziale delle aree destinate a parcheggio (Scarpa; Domenici, 73 ss.; Ivea, 268).

Le conclusioni che in argomento devono trarsi dal percorso normativo e giurisprudenziale che si andrà a svolgere, ed alle quali il professionista delegato dovrà porre attenzione nell'individuare l'oggetto della vendita, possono schematizzarsi nei termini che seguono: se i parcheggi sono stati costruiti prima dell'entrata in vigore della l. n. 246/2005 (16 dicembre 2005) essi devono essere considerati ex lege pertinenza dell'unità immobiliare, con la conseguenza che l'atto di pignoramento avente ad oggetto quest'ultima dovrà ritenersi esteso anche al relativo posto auto.

Viceversa, i parcheggi costruiti in epoca successiva a tale data dovranno ritenersi sottoposti ad esecuzione forzata soltanto se, in applicazione delle comuni regole circa la nozione di pertinenza, questo vincolo potrà ritenersi sussistente nel singolo caso di specie.

Al fine di comprendere il perché di questa distinzione occorre muovere dai contenuti della l. n. 246/2005, recante «Semplificazione e riassetto normativo per l'anno 2005» la quale con l'art. 12, comma 9, ha escluso in materia di parcheggi obbligatori la sussistenza di vincoli pertinenziali fra i posti auto realizzati ai sensi dell'art. 18 della l. n. 765/1967 (c.d. Legge Ponte), e le relative unità abitative.

Questa norma si inserisce nel solco di un annoso dibattito che per lungo tempo ha visto contrapposte la dottrina e la giurisprudenza, registrando anche l'intervento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, e che è stato innescato dalla l. n. 765/1967 il cui art. 18 prescriveva che «nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse, debbono essere riservati appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni venti metri cubi [successivamente ridotti a dieci dall'art. 2, comma 2, della l. n. 122/1989] di costruzione».

Se era quindi chiaro che la norma rendeva obbligatoria la realizzazione dei parcheggi e conseguentemente legittimava la pubblica amministrazione a negare il permesso di costruire in caso di sua inosservanza (Cass. n. 10883/1996), oggetto di contrasto era invece l'individuazione della tipologia di vincolo che veniva a crearsi tra le aree e le unità abitative.

La dottrina escludeva che la norma creasse un vincolo pertinenziale, ritenendo che essa avesse un carattere eminentemente pubblicistico e si limitasse ad intervenire nella disciplina degli standards urbanistici dettando prescrizioni in ordine alle modalità con cui doveva essere realizzato l'intervento edilizio (Matassa, 710; Salis, 245). L'imposizione dell'obbligo pertanto, rilevante nei rapporti tra p.a. e richiedente il permesso di costruire, era del tutto neutra rispetto ai rapporti tra privati, e quindi del tutto insuscettibile di produrre effetti nei negozi giuridici di diritto comune. Precipitato immediato di siffatta impostazione era che la circolazione giuridica degli appartamenti e quella dei posti auto avveniva in modo del tutto autonoma ed indipendente.

Di diverso ed opposto avviso si era mostrata invece la giurisprudenza, la quale riteneva che i parcheggi fossero destinati all'uso esclusivo delle persone che stabilmente occupano la costruzione.

In particolare, secondo Cass. II, n. 483/1982 «l'art. 41-sexies della legge urbanistican. 1150/1942 – come introdotto dall'art. 18 della l. n. 765/1967 – che dispone l'obbligatoria «riserva», a servizio delle nuove costruzioni, di «spazi per parcheggi» – ha, per la finalità perseguita (ordinato assetto urbanistico), carattere imperativo ed opera non solo come norma di azione, nel rapporto pubblicistico tra la P.A. e chi domanda la licenza edilizia, bensì anche come norma di relazione, nei rapporti privatistici concernenti detti parcheggi, in quanto pone un limite all'autonomia privata, sanzionando di nullità, ai sensi degli artt. 1418 e 1419 c.c., ogni convenzione che, per privato interesse del costruttore o del rivenditore degli immobili od anche dei condomini stessi, sottragga gli spazi suindicati alla funzione loro assegnata dalla legge. Ne deriva che va dichiarata nulla, per contrarietà alla disposizione imperativa in questione, sia la clausola con cui il costruttore od altri, nel vendere i singoli appartamenti, escludano dalla vendita la comproprietà dei locali di parcheggio, come parte di natura condominiale (art. 1117 c.c.), o, comunque, il godimento del servizio di parcheggio a titolo di servitù, sia l'atto con cui l'acquirente di un appartamento rinuncia al servizio medesimo, con il conseguente diritto di quest'ultimo di fruire del servizio e dell'alienante di esigere il relativo corrispettivo pecuniario». Da questa impostazione si faceva derivare la conseguenza che i negozi traslativi dello spazio a parcheggio non ne potessero alterare il vincolo di servizio, trattandosi di un vincolo legale alla proprietà privata.

Gli unici dubbi interpretativi sollevati dalla giurisprudenza riguardavano la qualificazione giuridica del rapporto fabbricato-posto auto, tanto da necessitare l'intervento delle S.U. (Cass. n. 6600/1984) secondo le quali si trattava di un vincolo di indisponibilità con conseguente nullità delle clausole contrattuali che escludessero dal trasferimento del fabbricato i diritti relativi all'area di parcheggio.

Un primo rimedio al contrasto interpretativo venne posto dalla l. n. 47/1985, la quale precisò all'art 26, che «gli spazi di cui all'art. 18 della l. n. 765/1967, costituiscono pertinenze delle costruzioni, ai sensi e per gli effetti degli artt. 817,818,819 codice civile».

Sennonché, anche rispetto a questa disposizione, si accese un vivace dibattito.

Da un lato la dottrina ribadiva che l'art. 18 della l. n. 765/1967 (e l'art. 26 della l. n. 47/1985 ne rappresentava la conferma) consentiva la negoziazione del posto auto indipendentemente dall'appartamento (Luminoso, 583).

La giurisprudenza invece, anche con il conforto della legislazione successiva, che prevedeva espressamente la nullità degli atti di cessione dei posti auto (art. 9, comma 5, l. n. 122/1989), non rinunciava alle sue argomentazioni e continuava a ritenere esistente un divieto di cessione separata degli spazi di parcheggio dalle unità immobiliari di cui costituivano pertinenze.

Secondo la Cass. II, n. 13827/2000, infatti, «la violazione o l'elusione, in un contratto di vendita immobiliare, del vincolo pubblicistico di destinazione a parcheggio degli spazi da utilizzare per tale scopo, di cui all'art. 41-sexies l. n. 1150/1942 e art. 9, l. n. 122/1989, rende nulle le clausole che hanno tale effetto, ma non anche l'intero negozio, sicché il trasferimento del bene resta valido ed efficace, ma all'acquirente compete il diritto di ottenere il trasferimento anche della relativa pertinenza, verso il pagamento di un ulteriore specifico compenso».

Su questo assetto è intervenuto l'art. 12, comma 9, della l. n. 246/2005 il quale aggiungendo un comma 2 all'art. 41-sexies della l. n. 1150/1942 ha stabilito che «gli spazi per parcheggi realizzati in forza del comma 1 non sono gravati da vincoli pertinenziali di sorta né da diritti d'uso a favore dei proprietari di altre unità immobiliari e sono trasferibili autonomamente da esse».

Come si vede, la norma sembra muoversi in una direzione opposta a quella percorsa dalla giurisprudenza della Cassazione, quasi a voler rievocare quell'orientamento dottrinario, sopra richiamato, che attribuiva alla legge ponte il solo fine di imporre ai costruttori di unità immobiliari l'obbligo di realizzare adeguati spazi di parcheggio: essa in primo luogo esclude il vincolo reale tra le aree a parcheggio e gli immobili; in secondo luogo ne afferma la libera alienabilità.

Restava solo il problema relativo al regime giuridico dei parcheggi già realizzati, ed a questo proposito è intervenuta la Cassazione con la sent. n. 4264/2006, la quale dopo aver escluso il carattere interpretativo della norma all'art. 12, comma 9, della l. n. 246/2005, ha affermato che «la nuova disposizione è destinata ad operare solo per il futuro, e cioè per le costruzioni non ancora realizzate e per quelle realizzate, ma per le quali non siano iniziate le vendite delle singole unità immobiliari».

Un discorso diverso deve essere compiuto con riferimento ai così detti «Parcheggi Tognoli», che devono il loro nome al promotore della l. n. 122/1989, che li ha previsti.

Questo intervento normativo ha, tra l'altro, previsto nuovi tipi di parcheggio, diversi da quelli realizzati contemporaneamente all'edificazione del fabbricato cui si riferiscono, poiché edificati successivamente ad essi, sia per dotare di parcheggi gli edifici costruiti anteriormente al primo settembre 1967, per i quali la legge ponte non prevede l'obbligo di dotazione di aree a parcheggio, sia per incrementare i parcheggi ritenuti non più sufficienti.

La legge Tognoli disciplina, in particolare, due tipi di parcheggi:

– quelli disciplinati dall'art. 9, comma 4, che riconosce al comune la possibilità di cedere in diritto di superficie aree comunali da destinare a parcheggi di pertinenza di immobili privati;

– quelli disciplinati dall'art. 9, comma 1, che consente ai proprietari di immobili di realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terra dei fabbricati, parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti.

Il comma 5 di detta disposizione detta il regime circolatorio di entrambe le tipologie di parcheggi, prevedendo (in forza delle modifiche introdotte con il d.l. n. 5/2012, convertito dalla l. n. 35/2012) per i parcheggi realizzati su area privata «l'immodificabilità dell'esclusiva destinazione a parcheggio». I parcheggi realizzati su aree pubbliche, sono inalienabili a meno che vi sia una espressa previsione in tal senso contenuta nella convenzione stipulata con il comune per la cessione del diritto di superficie ovvero nel caso l'ente locale abbia autorizzato il singolo trasferimento. I parcheggi realizzati su aree private sono invece liberamente cedibili a condizione che nell'atto del trasferimento vengano contestualmente destinati a pertinenza di altro immobile sito nello stesso comune.

Gli accessori

Come detto, ai sensi dell'art. 2912 c.c. il pignoramento si estende, oltre che alle pertinenze ed ai frutti, anche agli «accessori».

Di essi manca una definizione all'interno del codice, ed in dottrina si ritiene, generalmente, che tali possono essere sia le così dette «pertinenze improprie» (cioè le cose destinate a servizio od ornamento della cosa principale anche in modo non duraturo, ovvero da chi non ne ha la proprietà) sia le accessioni in senso tecnico, vale a dire gli incrementi fluviali, (alluvione e avulsione), i casi di unione e commistione, le accessioni al suolo come le piantagioni o le costruzioni (Verde, 798; Busnelli, 271).

La Cass., sez. pen., n. 23754/2007 occupandosi del caso in cui un soggetto aveva asportato dall'immobile pignorato gli infissi, i termosifoni, i pavimenti, la porta blindata, la caldaia, i pannelli in cartongesso di tamponamento, una pergola pompeiana ed una vasca idromassaggio, ha ritenuto che questi beni, in forza della previsione di cui all'art. 2912 c.c., dovevano ritenersi ricompresi nel pignoramento, indentificando nelle pertinenze ed accessori «tutto ciò che concorre a definire il valore economico del bene esecutato», identificando, in particolare, negli accessori «sia le accessioni in senso tecnico, caratterizzate da una unione materiale con la cosa principale (piantagioni, costruzioni), sia quei beni che, pur conservando la loro individualità, sono collegati a quello principale da un rapporto tanto di natura soggettiva, determinato dalla volontà del titolare del bene, quanto di natura oggettiva conseguente alla destinazione funzionale che li caratterizza e che ne fa strumento a servizio del bene cui accedono».

Sempre secondo la Corte di Cassazione (n. 4378/2012) non costituiscono invece pertinenze le suppellettili, gli arredi ed i mobili che riguardano esclusivamente la persona del titolare, a meno che non siano destinati in modo durevole all'ornamento dell'immobile.

I frutti naturali

A norma dell'art. 2912 c.c. il pignoramento si estende ai frutti naturali e civili del bene pignorato. Su di essi quindi si produce automaticamente il vincolo di indisponibilità.

Ai sensi dell'art. 820 c.c. sono frutti naturali quelli che provengono direttamente dalla cosa, vi concorra o no l'opera dell'uomo, come i prodotti agricoli, la legna, i parti degli animali, i prodotti delle miniere, cave e torbiere. Finché non avviene la separazione, i frutti formano parte della cosa, salva la possibilità di disporne come di cosa mobile futura.

La discussione intorno alla nozione di frutti naturali è antica, ed i suoi albori risalgono addirittura alla elaborazione romanistica. Originariamente nella nozione di frutti rientravano i prodotti organici (come ad esempio i prodotti agricoli), cui il progresso e l'evoluzione economico sociale ha affiancato anche i prodotti inorganici (si pensi ai minerali). Infine, le fonti reputarono in loco fructuum il reddito della cosa, introducendosi così la nozione di frutti civili.

Questo primigenio concetto di frutti è stato successivamente contaminato dalle elaborazioni germaniche, che hanno cominciato a dare rilevanza al lavoro dell'uomo, dandosi così compiuto ingresso alla distinzione tra frutti naturali e frutti industriali, solo abbozzata dalla tradizione romanistica ed accolta dall'art. 563 del codice francese.

La pandettistica tedesca ha portato alla elaborazione di teorie spesso contrastanti tra di loro, ai cui estremi si trovano da un lato la teoria naturalistica della produzione organica, elaborata da Göppert, e dall'altro quella di Petrazycki, che identificava il frutto con il reddito, prescindendo dunque del tutto dall'elemento naturalistico.

In tale dibattito si inserisce la dottrina italiana, per la quale il frutto è una parte staccata della cosa, che negli usi sociali si considera come il reddito della medesima (è questo il pensiero di Scialoja nella sua Teoria della proprietà nel diritto romano, del 1933) e che prescinde dalla considerazione che a quella produzione abbia concorso o meno l'opera dell'uomo.

Questa nozione è accolta dal codice del 1865 e dal codice attuale, che all'art. 820 considera «frutti naturali quelli che provengono direttamente dalla cosa, vi concorra o no l'opera dell'uomo come i prodotti agricoli, la legna, i parti degli animali, i prodotti delle miniere, cave e torbiere».

Sono quindi frutti i prodotti agricoli, i parti degli animali, le parti stesse della cosa, come la legna del bosco, ed infine i prodotti inorganici, come i minerali.

I frutti civili. In particolare, i canoni di locazione

I frutti civili sono quelli che si ritraggono dalla cosa come corrispettivo del godimento che altri ne abbia. Tali sono gli interessi dei capitali, i canoni enfiteutici, le rendite vitalizie e ogni altra rendita, il corrispettivo delle locazioni. Essi pertanto costituiscono l'oggetto di diritti di credito in capo al debitore esecutato, e si ritengono anch'essi sottoposti all'ambito di applicazione dell'art. 2912 c.c.

Nell'ambito di questa categoria, una particolare menzione meritano i canoni di locazione. Con specifico riferimento ad essi, Cass. III, n. 1193/1996 ha ritenuto che dopo il pignoramento, il proprietario-locatore del bene pignorato, il quale non può più continuare a riscuotere il corrispettivo della locazione del bene stesso in virtù del disposto di cui agli artt. 2912 c.c., 65 e 560 c.p.c., è legittimato ad agire per conseguire il credito costituito dai canoni rimasti in tutto o in parte non pagati fino alla data del pignoramento. Infatti, a tali canoni – che, ancorché afferenti al bene, non costituiscono frutti del bene, bensì crediti del locatore pignorato – non può applicarsi il disposto dell'art. 2912 c.c. sull'estensione del pignoramento.

Non tutti i canoni di locazione si intendono automaticamente ricompresi nel pignoramento che abbia ad oggetto l'immobile che li produce.

Ai sensi dell'art. 2740 c.c. il debitore risponde delle proprie obbligazioni con tutti i suoi beni, presenti e futuri. Si tratta della così detta garanzia patrimoniale generica, per far valere la quale il creditore può sottoporre a pignoramento beni di questi (art. 2910, comma 1 c.c.), pignoramento che si estende, per effetto della previsione di cui all'art. 2912 c.c., agli accessori, alle pertinenze ed ai frutti della cosa pignorata. Tra questi ultimi rientrano senza dubbio i canoni di locazione, per espressa previsione dell'art. 820, ultimo comma, c.c.

Tuttavia, per comprendere il perimetro applicativo dell'art. 2912 lo si deve leggere in combinato disposto con l'art. 821 il quale a proposito dell'acquisto dei frutti, precisa che (solo) i frutti naturali appartengono al proprietario della cosa che li produce (comma 1) mentre a proposito dei frutti civili si prevede genericamente che essi si acquistano giorno per giorno (comma 3). La ratio di questo distinguo si rinviene nella distinzione, operata dal precedente art. 820, tra frutti naturali e frutti civili. Infatti, mentre i primi sono quelli provenienti direttamente dalla cosa, i secondi rappresentano il «corrispettivo del godimento che altri ne abbia», sicché il loro titolare va individuato nel soggetto attivo del rapporto sinallagmatico in forza del quale essi sono dovuti, con la conseguenza che su di essi cade il vincolo pignoratizio di cui all'art. 2912 a condizione che appartengano al proprietario della cosa principale, così ricadendo nella garanzia patrimoniale generica di cui si è detto.

I precipitati del dato normativo così ricostruito consentono allora di affermare che il pignoramento si estende ai canoni di locazione a condizione che il proprietario della cosa pignorata sia anche il locatore, e quindi titolare dei frutti civili così prodotti.

L'importanza dei canoni di locazione quali corrispettivi del godimento dell'immobile spiega perché il legislatore abbia inteso disciplinare espressamente il regime di opponibilità dei pagamenti anticipati.

Ed infatti, il pagamento anticipato dei canoni o la loro cessione costituisce un elemento che incide fortemente sulla appetibilità del bene sul mercato, atteso che priva il futuro aggiudicatario della disponibilità dello stesso per tutta la durata del contratto, senza consentirgli di percepire il corrispettivo del canone.

A questa situazione il codice dedica gli artt. 1605,2812,2918,2924 c.c. (il primo dei quali dedicato alla opponibilità delle cessioni di canoni o dei pagamenti anticipati all'acquirente, in caso di vendita dell'immobile). Dette disposizioni parlano, genericamente, di «liberazione» così ricomprendendo tutte le ipotesi di estinzione del debito relativo ai canoni per effetto di atto volontario del conduttore.

I pagamenti anticipati disciplinati da queste norme nei loro rapporti con il pignoramento (e prim'ancora con l'ipoteca) non solo quelli «giuridici» (cioè i pagamenti eseguiti prima della scadenza pattuita) ma anche quelli «economici», cioè eseguiti prima del correlativo godimento in forza della previsione contrattuale (si pensi, ad esempio, ad un contratto di locazione in cui sia previsto che tutto il canone relativo all'intera durata del contratto sia versato dal conduttore al momento della stipula), salvo che siano eseguiti conformemente agli usi locali (si pensi al pagamento del anticipato del mese o del bimestre intero, o dell'intera annata agraria secondo gli usi invalsi negli affitti di fondo rustico).

Venendo alla regolazione del regime di opponibilità, il tessuto normativo di riferimento consente di ricostruirlo nei termini che seguono.

I pagamenti anticipati che coprono un periodo non eccedente i tre anni sono opponibili, ma nei limiti di un anno, se hanno data certa anteriore al pignoramento.

I pagamenti anticipati che coprono un periodo eccedente il triennio sono opponibili alla procedura se sono trascritti prima della trascrizione del pignoramento o dell'ipoteca, mentre se non sono trascritti saranno opponibili, nei limiti di un anno, solo se hanno data certa anteriore al pignoramento. Lo stesso vale per i pagamenti di durata non eccedente i tre anni che hanno data certa successiva all'ipoteca ma precedente al pignoramento.

Infine, i pagamenti trascritti dopo l'iscrizione ipotecaria sono opponibili nei limiti di un anno.

Con riferimento alla trascrizione del pagamento, osserviamo infine che non è sufficiente che di esso si faccia riferimento all'interno del contratto di locazione, occorrendo la trascrizione di un autonomo atto (che per essere trascritto dovrà necessariamente rivestire la forma dell'atto pubblico o della scrittura privata autenticata); ciò in ossequio all'ormai consolidato orientamento della giurisprudenza, secondo il quale per stabilire se e in quali limiti un determinato atto trascritto sia opponibile ai terzi deve aversi riguardo esclusivamente al contenuto della nota di trascrizione, dovendo le indicazioni riportate nella nota stessa consentire di individuare, senza possibilità di equivoci e di incertezze, gli estremi essenziali del negozio ed i beni ai quali esso si riferisce, senza necessità di esaminare anche il contenuto del titolo, che insieme con la nota, viene depositato presso la conservatoria dei registri immobiliari (Cass n. 18892/2009).

Non costituiscono invece frutti della cosa pignorata i canoni versati dal subconduttore, trattandosi di soggetto del tutto estraneo alla procedura, che non ha alcun rapporto con il debitore esecutato, avendo stipulato il contratto con il conduttore.

In questi termini si è indirettamente espressa la Corte di Cassazione ha espresso con la sent. n. 11830/2013, nella quale si è osservato che il sublocatore è legittimato a promuove azione di sfatto per morosità nei confronti del suo subconduttore, il quale non può eccepire di non essere più tenuto al pagamento dei canoni di locazione in forza dell'intervenuto pignoramento.

In generale, si è poi affermato, con riferimento al contratto di locazione stipulato dal terzo detentore (prima o dopo il pignoramento) che questo contratto «è opponibile al creditore pignorante, ai creditori intervenuti, al custode giudiziario e all'aggiudicatario negli stessi limiti in cui è loro opponibile il titolo della detenzione vantata dal medesimo terzo; pertanto, fermo restando il diritto del terzo alla percezione dei canoni derivanti dal suddetto contratto, egli è in ogni caso obbligato, dal momento del pignoramento, a versare al custode giudiziario una somma periodica per il godimento del bene, a titolo di canone di locazione (ove, a sua volta, detenga il bene in forza di contratto stipulato con il proprietario debitore esecutato) ovvero di indennità per l'occupazione sine titulo (ove non vanti alcun titolo opponibile), trattandosi di frutti civili del bene, come tali rientranti nell'oggetto del pignoramento ex art. 2912 c.c.» (Cass. n. 8998/2023) prodotti inorganici, come i minerali.

L'atto di pignoramento immobiliare

L'atto di pignoramento segna l'inizio dell'espropriazione immobiliare e determina la pendenza della procedura esecutiva, conformemente a quanto previsto dall'art. 491 c.p.c.

Segnatamente, l'art. 555 c.p.c. prevede che il pignoramento immobiliare si «esegue mediante notificazione al debitore e successiva trascrizione» di un atto scritto che contiene l'indicazione dei beni che si intendono sottoporre ad esecuzione e l'ingiunzione al debitore medesimo di non disporre dei detti beni. È evidente dunque che l'art. 555 costruisce il pignoramento immobiliare quale fattispecie a formazione progressiva, rispetto alla quale entrambi gli adempimenti, notificazione dell'atto e trascrizione, costituiscono elementi costitutivi.

In dottrina si ritiene che, in particolare, l'ingiunzione a non disporre dei beni pignorati rappresenta il proprium del pignoramento immobiliare, in quanto l'obbligo di astenersi da ogni atto pregiudizievole sancito dalla stessa norma acquista inequivoca certezza e piena rilevanza giuridica soltanto attraverso la predetta ingiunzione (Così Arieta, De Santis, 1047).

In passato la giurisprudenza ha affermato che «qualora l'ingiunzione manchi, tale deficienza è rilevabile in ogni stato e grado del procedimento esecutivo e la sua deducibilità sopravvive al termine indicato dall'art. 617 c.p.c. per l'opposizione agli atti esecutivi ferma restando la salvezza della disposizione dell'art. 2929 c.c. sull'inopponibilità della nullità degli atti del processo esecutivo all'acquirente o all'assegnatario ed ai creditori diversi da quello procedente» (Cass. n. 2082/1999). Nella specie, il pignoramento era stato eseguito con notificazione ex art. 140 c.p.c. che i giudici hanno ritenuto nulla perché la raccomandata non era stata mai spedita dall'ufficio postale di partenza presso il quale l'ufficiale giudiziario l'aveva consegnata. La Corte, pur ritenendo che la successiva costituzione nel processo esecutivo da parte del debitore avesse sanato la nullità della notifica del pignoramento ha tuttavia osservato che, stante l'omessa notifica dell'atto di pignoramento, comprensivo dell'intimazione ex art. 492 c.p.c., si dovesse considerare mancata l'intimazione stessa, rilevabile anche d'ufficio e quindi oltre il termine di cui all'art. 617 c.p.c.

Questa conclusione tuttavia è stata superata da più recenti arresti del giudice nomofilattico, essendosi osservato che il vizio di notificazione dell'atto di pignoramento è, di regola, sanato dalla mera proposizione dell'opposizione, a meno che l'opponente non deduca contestualmente un concreto pregiudizio al diritto di difesa verificatosi prima che egli abbia avuto conoscenza dell'espropriazione forzata, oppure che la notificazione sia radicalmente inesistente, in quanto del tutto mancante o priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto qualificabile come notificazione; diversamente, il vizio di notificazione dell'atto di precetto non è sanato dalla semplice proposizione dell'opposizione se, prima che l'intimato ne abbia avuto conoscenza, il creditore abbia eseguito comunque il pignoramento (Cass. n. 11290/2020).

Va considerato che l'improcedibilità del processo di espropriazione forzata in conseguenza dell'omessa o tardiva trascrizione del pignoramento o dell'omesso o tardivo deposito del documento che la dimostra configura una ipotesi di estinzione “atipica”; pertanto, il provvedimento che dispone la predetta chiusura anticipata o che la nega (anche omettendo di provvedere sulla questione) non può essere impugnato con il reclamo ex art. 630 c.p.c., mezzo che riguarda soltanto le ipotesi di estinzione tipica dell'esecuzione, ma esclusivamente con l'opposizione agli atti esecutivi (Cass. III, n. 6873/2024).

Sottoscrizione e procura del difensore

L'individuazione del bene da pignorare viene compiuta dal creditore procedente. Per questa ragione l'art. 170 disp. att. c.p.c. prescrive che l'atto di pignoramento immobiliare debba essere da costui sottoscritto a norma dell'art. 125 c.p.c., in modo che sia abbia una chiara assunzione di responsabilità in ordine all'oggetto del pignoramento.

Sennonché, il richiamo dell'art. 170 all'art. 125 ha suscitato in dottrina perplessità che hanno indotto taluni a ritenere necessaria la sottoscrizione dell'atto di pignoramento da parte di un difensore munito di procura ad litem conferitagli dal creditore pignorante (Calvosa, 93; Travi, 904; Satta, 346; La China, 232 e 276; Corsaro, Bozzi, 320). Di opposto avviso l'opinione di coloro i quali, partendo dall'assunto per cui l'atto di pignoramento non attuerebbe una vocatio in jus, hanno tratto il precipitato per cui esso non richiederebbe la necessaria sottoscrizione del difensore (Bucolo, 751).

Il nodo è stato sciolto dalla giurisprudenza, la quale ha ritenuto necessaria la sottoscrizione del difensore ed ha interpretato il combinato disposto degli artt. 125 c.p.c. e 170 disp. att. c.p.c. nel senso che la sottoscrizione del difensore può mancare solo quando il creditore, in applicazione dell'art. 86 c.p.c., possa stare in giudizio personalmente (Cass. n. 5368/2003; Cass. n. 134/1984; Cass. 2069/1982).

Ne consegue, peraltro, che è valido anche l'atto di pignoramento immobiliare sottoscritto dal difensore, al quale la procura sia stata conferita dal creditore procedente nell'atto di precetto (La China, 261; Bongiorno, 38; Redenti, Vellani, 340; Cass. n. 1687/2012; contra Calvosa, 99).

Così ricostruita la cornice della disciplina della sottoscrizione del pignoramento, si è posto il conseguenziale problema di stabilire quali fossero le conseguenze processuali della relativa mancanza.

A tenore di un risalente e rigoroso orientamento, la mancata sottoscrizione dell'atto di pignoramento ne determinava l'inesistenza giuridica, e provocava la conseguente invalidità di tutti gli atti esecutivi successivi e collegati. Essa, si aggiungeva, poteva essere eccepita dalla parte, a norma dell'art. 617 c.p.c., anche oltre i cinque giorni dal pignoramento viziato, ed essere altresì rilevata di ufficio dal giudice nel corso del processo esecutivo. Il rigore di questa impostazione veniva tuttavia mitigato dall'affermazione per cui la fase esecutiva del procedimento di espropriazione costituiva pur sempre la sede esclusiva per l'operatività invalidante del vizio in parola il quale, conseguentemente, non avrebbe potuto essere fatto valere con rimedi diversi dall'apposizione agli atti esecutivi, né avrebbe potuto essere rilevato di ufficio dal giudice della cognizione chiamato a pronunziarsi su una opposizione ex art. 615 c.p.c. (Cass. n. 2069/1982).

La tesi, tuttavia è stata rimeditata dalla successiva giurisprudenza di legittimità, la quale ha osservato che la mancata sottoscrizione da parte del difensore si traduce in un vizio di nullità dell'atto, che comporta la sì l'invalidità dell'ordinanza di vendita, in quanto atto collegato al pignoramento, ma resta sanata, senza propagarsi alle successive fasi del processo di esecuzione, se non rilevata d'ufficio, ovvero non fatta valere col rimedio dell'opposizione agli atti esecutivi, prima della pronuncia dell'ordinanza di vendita, ovvero entro venti giorni dalla conoscenza legale che di tale ordinanza abbia avuto il debitore (Cass. n. 6264/2012).

Non è infine mancata in dottrina l'affermazione per cui il difetto di sottoscrizione importerebbe la mera irregolarità dell'atto (Satta, 347; La China, 485), superabile quante volte la paternità dello stesso fosse ricavabile aliunde (Bucolo, 753)

Contenuto della nota di trascrizione

Il comma 2 dell'art. 555 prevede che immediatamente dopo la notificazione l'ufficiale giudiziario consegna copia autentica dell'atto, con le note di trascrizione, al competente conservatore dei registri immobiliari (e cioè a quello del luogo nella cui circoscrizione il bene si trova), che trascrive l'atto e gli restituisce una delle note, aggiungendosi al comma 3 che a questi adempimenti può provvedere direttamente il creditore al quale, se richiestogli, l'ufficiale giudiziario restituisce la copia dell'atto di pignoramento.

Questa trascrizione si compie, a norma dell'art. 2658 c.c., presentando al conservatore dei registri immobiliari copia autentica dell'atto di pignoramento notificato.

La nota di trascrizione è elemento centrale del pignoramento, poiché essa serve a rendere opponibile il vincolo pignoratizio agli aventi causa del debitore esecutato che acquistino diritti sul bene staggìto in data successiva ad essa.

Ai sensi dell'art. 2659 c.c. la nota di trascrizione contiene: il cognome ed il nome, il luogo, la data di nascita e il numero di codice fiscale delle parti, nonché il regime patrimoniale delle stesse, se coniugate, secondo quanto risulta da loro dichiarazione resa nel titolo o dal certificato dell'ufficiale di stato civile.

La denominazione o la ragione sociale, la sede e il numero di codice fiscale delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni non riconosciute, con l'indicazione, per queste ultime e per le società semplici, anche delle generalità delle persone che le rappresentano secondo l'atto costitutivo; il titolo di cui si chiede la trascrizione (e quindi, in questo caso, si tratterà del verbale di pignoramento) e la data del medesimo (indicandosi in questo caso la data di notifica); il cognome e il nome del pubblico ufficiale che ha ricevuto l'atto o autenticato le firme, o l'autorità giudiziaria che ha pronunciato la sentenza (nel caso di pignoramento si indicherà il Tribunale presso il quale si trova l'Unep che ha provveduto alla notifica); la natura e la situazione dei beni a cui si riferisce il titolo, con le indicazioni richieste dall'art. 2826 c.c. (quindi, dovrà indicarsi la natura – terreno o fabbricato – del bene, il comune in cui si trova, con i relativi dati di identificazione catastale, con l'avvertenza che per i fabbricati in corso di costruzione devono essere indicati i dati di identificazione catastale del terreno su cui insistono, la superficie e la quota espressa in millesimi).

Ricevuta la copia autentica dell'atto di pignoramento e la relativa nota, il conservatore deve procedere senza indugio alla registrazione della richiesta nel registro generale d'ordine, indicandovi il numero di presentazione, la persona che ha esibito la documentazione e la persona per cui la richiesta è fatta, il titolo presentato con la nota, l'oggetto della richiesta e le persone riguardo alle quali la trascrizione deve eseguirsi. A tale annotazione segue la trascrizione dell'atto nel registro particolare delle trascrizioni. Quest'ultima, a norma dell'art. 2664, comma 1, c.c., determina gli effetti della trascrizione, che tuttavia retroagiscono al (coincidente) giorno di presentazione della richiesta ed al numero d'ordine ad essa assegnato (Pellegrino, 75).

Infine, se il conservatore si avvede che al momento della trascrizione sugli stessi beni è stato trascritto un precedente pignoramento.

La durata dell'efficacia della trascrizione del pignoramento e gli effetti della mancata rinnovazione

Nell'intervenire sull'efficacia della trascrizione della domanda giudiziale, del pignoramento immobiliare e del sequestro conservativo di immobili, l'art. 62 della l. n. 69/2009 ha introdotto, tra l'altro, due nuove norme nel c.c., e cioè gli artt. 2668-bis e 2668-ter.

L'art. 2668-bis c.c., rubricato «Durata dell'efficacia della trascrizione della domanda giudiziale», dispone che la trascrizione della domanda giudiziale conserva il suo effetto per venti anni dalla sua data e che l'effetto cessa se la trascrizione non è rinnovata prima che scada detto termine.

L'art. 2668-ter c.c., rubricato «Durata dell'efficacia del pignoramento immobiliare e del sequestro conservativo sugli immobili», si limita a prevedere che: «le disposizioni di cui all'art. 2668-bis si applicano anche nel caso di trascrizione del pignoramento immobiliare e del sequestro conservativo sugli immobili».

Per effetto di queste previsioni la durata dell'efficacia della trascrizione della domanda giudiziale, del pignoramento immobiliare e del sequestro conservativo sugli immobili, si allinea a quella dell'efficacia dell'iscrizione ipotecaria (artt. 2847 c.c.), della trascrizione dell'atto di opposizione alla donazione (art. 563, ultimo comma, c.c.), nonché al termine – pur sempre ventennale – di prescrizione dei diritti reali su cosa altrui (artt. 954, ultimo comma, 970, 1014, n. 1, 1073, comma 1 c.c.), di prescrizione dell'ipoteca sui beni acquistati da terzi (art. 2880 c.c.), necessario per usucapire (art. 1158 c.c.).

All'indomani della entrata in vigore di queste norme, dottrina e giurisprudenza si sono poste il problema di verificare quali effetti producesse la mancata rinnovazione della trascrizione del pignoramento sulle procedure esecutive.

Sul punto, mentre taluni ritenevano che la mancata rinnovazione della trascrizione del pignoramento avesse comportato l'estinzione della procedura, altri osservavano che il processo avrebbe potuto comunque proseguire, ponendosi al più un problema di opponibilità ai terzi dell'acquisto; altri ancora ritenevano che, rilevato il decorso del ventennio, il Giudice avesse potuto assegnare un termine per la rinnovazione della trascrizione, non osservato il quale la procedura non avrebbe potuto proseguire il suo corso.

Con sent. (Cass. n. 4751/2016) la Corte di Cassazione è intervenuta sulla questione ritenendo che la mancata rinnovazione della trascrizione comporta l'estinzione del giudizio, argomentando nel senso che la mancata rinnovazione della trascrizione del pignoramento nel termine ventennale – rilevabile anche d'ufficio dal giudice – determina la caducazione del processo esecutivo, ivi compreso il pignoramento, restando preclusa la possibilità per l'interessato di procedere ad una rinnovazione tardiva, di sua iniziativa o su termine concesso dal giudice dell'esecuzione, ancorata all'originario pignoramento, sebbene divenuto sensibile ad atti di disposizione medio tempore posti in essere da parte del debitore pignorato.

In motivazione, la Corte ha osservato che la fattispecie della mancata rinnovazione della trascrizione in quanto determinativa dell'impedimento alla prosecuzione del processo dà luogo ad un fenomeno estintivo che, pur normativamente giustificato, il legislatore non ha inteso collocare sotto l'àmbito dell'art. 630 c.p.c. Il potere officioso del giudice si deve allora estrinsecare certamente, sempre che non consti già ex actis la mancata rinnovazione, nell'invito a documentare se si è eseguita la rinnovazione ed eventualmente nell'assegnazione di un termine per documentare la rinnovazione (tempestiva), decorso il quale egli deve dichiarare che il processo esecutivo non può proseguire, perché è venuto meno l'effetto dell'originaria trascrizione del pignoramento ed esso stesso. Se si vuole, il contenuto potrà essere una formale dichiarazione di estinzione del processo esecutivo, ma senza parametrazione all'art. 630 c.p.c. Con la conseguenza che il provvedimento del giudice dell'esecuzione, com'è accaduto nella specie, sarà suscettibile di controllo con il normale rimedio previsto contro i provvedimenti del giudice, cioè l'opposizione agli atti ex art. 617 c.p.c. (e la stessa cosa dicasi per il provvedimento negativo).

La soluzione sopra indicata è stata poi confermata da Cass. III, n. 15764/2016.

Resta da chiedersi quale effetto produca la caducazione del pignoramento per decorso del termine ventennale sulle aggiudicazioni medio tempore intervenute. È opinione condivisa che questo effetto debba essere coordinato con la previsione di cui all'art. 632 c.p.c., a mente del quale «Se l'estinzione del processo esecutivo si verifica prima dell'aggiudicazione o dell'assegnazione essa rende inefficaci gli atti compiuti, se avviene dopo l'aggiudicazione o l'assegnazione la somma ricavata è consegnata al debitore» e dell'art. 187-bis disp att. c.p.c., il quale prevede che «in ogni caso di estinzione o chiusura anticipata del processo esecutivo avvenuta dopo l'aggiudicazione, anche provvisoria, o l'assegnazione, restano fermi nei confronti degli aggiudicatari o assegnatari, in forza dell'art. 632, comma 2, del codice, gli effetti di tali atti».

Orbene, in applicazione dell'art. 632 c.p.c., dal cui tenore letterale si ricava il dato per cui lo spartiacque non va ricercato nella declaratoria di estinzione, che come affermato dalla giurisprudenza ha efficacia meramente ricognitiva (Cass. n. 27545/2017), quanto piuttosto nel momento in cui la causa estintiva si è verificata, l'aggiudicazione resta salva ove sia intervenuta nel ventennio di efficacia della trascrizione del pignoramento. Questa lettura, del resto, è conforme alla ratio della norma, la cui esigenza è proprio quella di salvaguardare l'acquisto dell'aggiudicatario il quale, essendo in condizione di verificare la trascrizione del pignoramento, ha diritto di vedersi trasferito il bene se al momento dell'aggiudicazione il processo non poteva dirsi estinto essendo il pignoramento ancora valido.

Viceversa, ove l'aggiudicazione sia avvenuta dopo lo spirare del ventennio, essa dovrà essere travolta dalla declaratoria di estinzione della procedura.

Rimane da dire in ordine alla sorte del prezzo versato dall'aggiudicatario il cui acquisto sia rimasto salvo in applicazione dell'art. 632 c.p.c. e dell'art. 187-bis disp. att. c.p.c.

Secondo una prima opzione ricostruttiva detto ricavato dovrebbe essere restituito al debitore, in applicazione del comma 2 della disposizione codicistica di cui sopra si è detto. In questi termini si è pronunciato il Trib. Palermo, ord. 20 dicembre 2017.

Si tratta tuttavia di una soluzione che non sembra a perfetta tenuta. Invero, la previsione di cui all'art. 632 c.p.c. nasce quale disciplina degli effetti dell'estinzione tipica della procedura (per rinuncia, inattività delle parti e mancata comparizione delle stesse all'udienza) sicché la sua operatività nei casi di estinzione «atipica», non può sottrarsi ad un vaglio di compatibilità, tanto più che l'art. 187-bis disp. att. c.p.c., nell'estendere gli la portata dell'art. 632 ai casi di estinzione atipica, non afferma tout court l'applicabilità di questa norma alle ipotesi di estinzione atipica, ma compie una operazione di ritaglio, limitandosi ad affermare la stabilità dell'aggiudicazione o dell'assegnazione.

Con riferimento all'estinzione per caducazione degli effetti del pignoramento va allora osservato che se essa è intervenuta dopo l'aggiudicazione, ciò vuol dire che la fase liquidatoria ha raggiunto il suo scopo, per cui non v'è ragione di escludere che la procedura possa procedere oltre con la distribuzione del ricavato. L'applicazione dell'art. 632 nella parte in cui prevede la restituzione in capo al debitore del ricavato dalla vendita si tradurrebbe in un inutile sacrificio delle ragioni creditorie, agganciandola ad un requisito (la trascrizione del pignoramento) che è funzionale alla vendita, non già alla distribuzione del ricavato.

L'identificazione del bene pignorato

Per la esatta individuazione del cespite sottoposto ad esecuzione l'art. 555 c.p.c. rinvia alle norme del codice civile dettate ai fini della identificazione degli immobili nelle note di iscrizione ipotecaria. Pertanto, a seguito della meccanizzazione delle Conservatorie dei Registri immobiliari e della modifica dell'art. 2826 c.c., operata con la l. n. 52/1985 il bene deve essere individuato mediante l'indicazione della natura (terreno o fabbricato), del comune, di almeno tre confini, dei dati di identificazione catastale. L'indicazione dei confini non è espressamente richiesta dall'art. 2826 c.c., cui il 555, come appena detto, rinvia, ma è prescritta dall'art. 29 della citata l. n. 52/1985, secondo il quale «Negli atti con cui si concede l'ipoteca o di cui si chiede la trascrizione, l'immobile deve essere designato anche con l'indicazione di almeno tre dei suoi confini» (va precisato che l'opinione secondo la quale la nota di trascrizione debba sempre indicare i confini non è pacifica.

Secondo Gazzoni, 53, il legislatore avrebbe compiuto una scelta di campo diffidando di una nota di trascrizione eccessivamente larga, in ossequio ad una esigenza di chiarezza e celerità del traffico giuridico, con la conseguenza che i confini dovrebbero essere necessariamente indicati solo in caso di assenza dei dati catastali. Ritiene invece necessaria l'indicazione dei dati catastali Cass. III, n. 368/2005, secondo cui i dati catastali, che hanno natura tecnica e sono preordinati essenzialmente all'assolvimento di funzioni tributarie e spesso sfuggono alla diretta percepibilità da parte dei contraenti, infatti, hanno soltanto carattere sussidiario, essendo ammesso unicamente nell'ipotesi di indicazioni inadeguate o imprecise in ordine ai confini).

Il rinvio ai dati di identificazione catastale impone, per lo meno con riferimento ai fabbricati, un richiamo alla normativa catastale onde comprendere le condizioni al ricorrere delle quali un immobile possa essere oggetto di autonoma identificazione al catasto, attraverso l'attribuzione di un numero di particella.

Deve ricordarsi a questo fine che secondo l'art. 4 del r.d.l. n. 652/1939 «Si considerano come immobili urbani i fabbricati e le costruzioni stabili di qualunque materiale costituite, diversi dai fabbricati rurali. Sono considerati come costruzioni stabili anche gli edifici sospesi o galleggianti, stabilmente assicurati al suolo». Il successivo art. 5 dello stesso r.d.l. definisce il concetto di unità immobiliare urbana prevedendo che «si considera unità immobiliare urbana, ogni parte di immobile che, nello stato in cui si trova, è di per sé stessa utile ed atta a produrre un reddito proprio». Inoltre, l'art. 40 del d.P.R. n. 1142/1949 specifica che costituisce una distinta unità immobiliare urbana «ogni fabbricato, o porzione di fabbricato od insieme di fabbricati che appartenga allo stesso proprietario e che, nello stato in cui si trova, rappresenta, secondo l'uso locale, un cespite indipendente».

Problemi di individuazione degli immobili pignorati

La necessità che il bene sottoposto ad esecuzione sia individuato tanto nell'atto di pignoramento quanto nella relativa nota di trascrizione pone non pochi problemi di coordinamento.

Le possibili anomalie che derivano dall'individuazione del bene nel titolo e nella nota possono essere così di seguito schematizzate (Astuni, 605): difformità tra il titolo e la nota; il titolo e la nota sono conformi tra loro, ma ad essi non corrisponde il bene esistente a Catasto: ad esempio c'è un errore nell'individuazione del foglio di mappa o della particella; indicazione di un mappale non più esistente per frazionamento o accorpamento; accatastamento al Catasto Fabbricati dell'edificio realizzato sul terreno; soppressione per accorpamento del mappale pignorato ad altro non pignorato.

La disciplina di queste anomalie, come appena si vedrà, deve essere risolta sulla scorta del principio enunciato dall'art. 2665 c.c., ai sensi del quale l'omissione o l'inesattezza delle indicazioni richieste nelle note menzionate negli artt. 2659 e 2660 (che individuano gli atti da presentare al conservatore per la trascrizione degli atti tra vivi o mortis causa) non nuoce alla validità della trascrizione, a meno che determini incertezza sulle persone, sul bene o sul rapporto giuridico a cui si riferisce l'atto o, rispettivamente, la sentenza o la domanda.

Il principio è stato ribadito più volte dalla giurisprudenza, dove si è affermato che a norma dell'art. 2665 c.c., non ogni omissione od inesattezza nella nota di trascrizione determina l'invalidità della trascrizione stessa, ma solo quelle che ingenerano incertezze sulle persone, sul bene e sulla natura giuridica dell'atto; e l'accertamento dell'esistenza dello stato d'incertezza, soprattutto ove incentrato sulla ritenuta idoneità dell'univocità del riferimento ritraibile dal codice fiscale, costituisce giudizio di fatto insindacabile in Cassazione, se immune da vizi logici e giuridici e sorretto da congrua motivazione (Cass. n. 13543/2018. Con riferimento alla inesatta indicazione della particella catastale nell'atto di pignoramento cfr. Cass. n. 19123/2020, e giurisprudenza ivi richiamata).

La situazione di difformità tra il titolo e la nota ricorre allorquando il dato catastale del titolo non corrisponde a quello della nota di trascrizione. In tal caso può parlarsi certamente di nullità della trascrizione poiché: il dato catastale indicato nel titolo non è trascritto, ergo non è opponibile ai terzi; la difformità non consente di individuare con certezza il bene, in quanto titolo e nota si riferiscono a cespiti diversi. In direzione parzialmente diversa si è pronunciata Cass. III, n. 19123/2020, la quale ha confermato la sentenza di merito la quale aveva ritenuto che la erronea indicazione, nell'atto di pignoramento, degli elementi identificativi dell'immobile staggito (individuato con la particella catastale frazionata 206/b, anziché, come sarebbe stato corretto, 206/a) non determinava incertezza in quanto negli atti successivi (nota di trascrizione, perizia di stima e avviso di vendita) il cespite era stato correttamente indicato.

Potrebbe ancora accadere che il titolo e la nota sono conformi tra loro, ma ad essi non corrisponde il bene esistente a Catasto.

È il caso in cui, ad esempio, il foglio di mappa o la particella sono stati erroneamente individuati. In questa evenienza, pur in presenza di una trascrizione valida, ci si chiede quale effetto essa può avere, visto che il bene, nei termini indicati nella nota, non esiste. In argomento può richiamarsi il precedente della Cass. n. 5002/2005, la quale nel dirimere il conflitto tra due pignoramenti, il primo dei quali era stato fatto e trascritto su un foglio di mappa sbagliato, ha concluso per l'inefficacia della prima trascrizione.

Anche qui, comunque, occorre ragionare in termini di certezza o incertezza nella individuazione del bene pignorato sulla base della regola di diritto cristallizzata nell'art. 2665. Così, ad esempio, se titolo e nota riportano un sub che in realtà non è mai esistito, il pignoramento è valido, e può procedersi alla mera rettifica dello stesso.

A proposito della «rettifica» del pignoramento deve essere registrata la pronuncia resa da Cass. III, n. 5780/2017, la quale ha affermato che «In tema di esecuzione immobiliare, ove all'erronea indicazione, nell'atto di pignoramento e nella nota di trascrizione, dei dati identificativi dell'immobile staggito consegua un nuovo pignoramento, compiuto asseritamente «in rettifica» del precedente, il vincolo in tal guisa apposto al bene non è opponibile al terzo acquirente in forza di titolo trascritto anteriormente alla trascrizione del secondo pignoramento, il solo idoneo a produrre gli effetti anche sostanziali del pignoramento, con conseguente salvezza dei diritti medio tempore validamente acquisiti dai terzi».

Altra ipotesi di non rara verificazione ricorre allorquando il pignoramento colpisce una particella (o un subalterno) soppressa, perché ad esempio oggetto di una denuncia di variazione per frazionamento o accorpamento ad altro mappale, oppure perché l'Agenzia del territorio ha disposto d'ufficio il riallineamento di tutte le mappe del Catasto urbano e quindi ha assegnato nuovi numeri di foglio e di particella alle unità immobiliari. Si verifica ad esempio che titolare di un credito assistito da garanzia ipotecaria concessa dal debitore a suo tempo (con indicazione nella la nota di iscrizione ipotecaria degli originari dati catastali) esegue il pignoramento indicando il dato catastale corrispondente a quello dell'ipoteca ma non più esistente al tempo del pignoramento. Occorre allora verificare se il dato catastale riportato nella nota, sebbene soppresso, generi o meno quella condizione di «obiettiva incertezza» cui l'art. 2655 c.c. subordina la inefficacia della trascrizione.

In una situazione del genere si possono registrare due diverse due ipotesi.

La prima è che il creditore nella nota di trascrizione meccanizzata abbia indicato nella sezione «B» oltre al dato catastale attuale anche il dato precedente: se questo avviene, l'immobile può ritenersi individuato al di là di ogni margine di dubbio.

La seconda è che il creditore non si sia avvalso di tale facoltà. Se così è, occorrerà tenere presente che dalla lettura del certificato storico catastale (che deve essere prodotto dal creditore ex art. 567, comma 2, c.p.c.) è possibile risalire dalla particella «soppressa» ai dati catastali risultanti dalla soppressione, e che è possibile acquisire la planimetria dell'unità immobiliare. Il combinato esame di questi documenti consente di risalire in maniera certa al dato catastale attuale e quindi non v'è incertezza assoluta (così Astuni, 607).

Può ancora accadere che venga accatastato al catasto fabbricati l'edificio realizzato sul terreno co ipoteca iscritta su questo a garanzia del finanziamento concesso al costruttore per la realizzazione di un fabbricato, con indicazione nella relativa nota del dato catastale riferito al terreno, come espressamente previsto dall'art. 2826 c.c.

Accade che successivamente all'iscrizione di ipoteca, e prima della trascrizione del pignoramento, il fabbricato viene realizzato e quindi denunciato al N.C.E.U. con una sua autonoma identità catastale, mentre il terreno su cui esso insiste, non esprimendo più un'autonoma capacità patrimoniale (art. 5 r.d.l. n. 652/1939) viene, inserito nella così detta partita 1 del C.T. («aree di enti urbani»), senza reddito.

Il punto è qui di stabilire se possa ritenersi legittimo il pignoramento compiuto indicando nella nota di trascrizione la particella risultante al catasto terreni e non il dato del catasto fabbricati.

Si ritiene generalmente in questi casi che il pignoramento possa ritenersi legittimo (anche ove nella sezione «D» della nota di trascrizione non fosse inserita la precisazione secondo cui il pignoramento si estende ad eventuali accessioni e fabbricati) tenendo presenti due norme. L'art. 2826 c.c. da cui si ricava che l'ipoteca iscritta sul terreno è (e non può non essere) opponibile a chi acquista diritti sul fabbricato, e l'art. 2812 c.c. secondo il quale l'ipoteca iscritta sul terreno si estende per accessione al fabbricato (Astuni, 608).

Anche la giurisprudenza esprime questa opinione. Si è infatti osservato il principio per cui in materia di esecuzione forzata, i beni trasferiti a conclusione di un'espropriazione immobiliare sono quelli di cui alle indicazioni del decreto di trasferimento emesso ex art. 586 c.p.c., cui vanno aggiunti quei beni ai quali gli effetti del pignoramento si estendono automaticamente, ai sensi dell'art. 2912 c.c., come accessori, pertinenze, frutti, miglioramenti ed addizioni, e quei beni che, pur non espressamente menzionati nel predetto decreto, siano uniti fisicamente alla cosa principale, sì da costituirne parte integrante, come le accessioni propriamente dette; sicché, il trasferimento di un terreno all'esito di procedura esecutiva comporta, in difetto di espressa previsione contraria, il trasferimento del fabbricato insistente su di esso, ancorché abusivo. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva rigettato la domanda di convalida di sfratto, risoluzione del contratto di locazione, rilascio dell'immobile e pagamento dei canoni, proposta dall'esecutato nei confronti dell'avente causa dell'aggiudicatario del terreno in forza di procedura esecutiva, in quanto l'acquisto del terreno aveva comportato, per accessione, anche il trasferimento del capannone abusivo non sanabile su di esso costruito, non rilevando l'omessa menzione dell'immobile tanto nel bando di vendita quanto nel decreto di trasferimento del terreno. Cass. n. 17041/2018).

Ancora, meno recentemente, si è detto che in materia di esecuzione forzata, i motivi di invalidazione della vendita forzata a causa del mancato rispetto di norme del processo di espropriazione devono essere fatti valere come opposizione agli atti esecutivi nell'ambito di quel processo; in mancanza, non possono essere utilizzati per sostenere un'opposizione all'esecuzione per rilascio intrapresa sulla base del titolo esecutivo formatosi a conclusione dell'espropriazione, giacché solo i vizi che determinano una nullità non sanabile possono esser azionati in ogni tempo, mentre tutti gli altri vizi di nullità di un provvedimento giurisdizionale vanno fatti valere secondo lo specifico mezzo di impugnazione previsto dalla legge, come si desume dal disposto dell'art. 161 c.p.c.. Pertanto, qualora nell'ordinanza di vendita di un terreno non si faccia menzione di una costruzione abusiva insistente su di esso, è ammissibile la proposizione, nei termini di legge, di un'opposizione agli atti esecutivi, ma non, in prosieguo, la contestazione del diritto dell'aggiudicatario a procedere ad esecuzione forzata, atteso che il pignoramento di un terreno successivamente contemplato nel decreto di trasferimento si estende, in difetto di espressa previsione contraria, al fabbricato che insiste sul terreno medesimo (Cass. n. 7922/2004).

Infine, potrebbe aversi la soppressione per accorpamento del mappale pignorato ad altro non pignorato. È il caso in cui, ad esempio, il debitore riunisce i sub 3-4 nella nuova unità immobiliare sub 5 ed il pignoramento colpisce il solo sub 3.

Il criterio di fondo da tenere presente in questa circostanza è che la liquidazione forzata concerne tutto quello e solo quello che ha formato oggetto di pignoramento. Quindi non è possibile mettere in vendita il mappale di nuova costituzione (nell'esempio fatto il sub 5) perché in parte non è stato pignorato.

A questo punto bisogna distinguere due ipotesi: se l'accorpamento è solo sulla carta, nel senso che le due particelle comunque rimangono fisicamente distinte come autonome unità immobiliari. In questo caso per poter «vendere bene» è sufficiente eliminare gli effetti pratici della variazione catastale con una denuncia «di segno contrario», ossia frazionare l'unità attribuendo alla porzione pignorata un autonomo identificativo; se invece l'accorpamento è stato reale, nel senso che le due originarie particelle costituiscono oggi una unità immobiliare unica. In questo caso la vendita non sarà possibile perché il pignoramento non può avere ad oggetto una porzione di una unità immobiliare.

Ne consegue che ove il creditore volesse agire in executivis dovrà sottoporre ad espropriazione l'intero cespite risultane dalla fusione delle particelle, con l'ulteriore precisazione che ove le due particelle appartengano a due proprietari diversi sarà necessario procedere secondo le regole della espropriazione dei beni indivisi.

L'individuazione del debitore e l'indicazione delle sue esatte generalità

Un tema apparentemente secondario, ma di assai rilevante profilo, è quello relativo alla esatta individuazione delle generalità del debitore esecutato ed alle conseguenze derivanti dalla erronea indicazione, nella nota di trascrizione del pignoramento, dei dati anagrafici del medesimo.

La questione va affrontata partendo da taluni punti fermi, più volte affermati dalla Cassazione, secondo cui: la funzione essenziale della trascrizione è quella di rendere pubblici determinati eventi giuridici in modo da consentire agli interessati, in base alle opportune ricerche ed alla lettura dei registri immobiliari, di conoscere l'appartenenza dei beni immobili e dei pesi e vincoli di natura reale gravanti sugli stessi; questa pubblicità si attua attraverso la nota di trascrizione, la quale si sostanzia, secondo le prescrizioni del codice, in una rappresentazione per riassunto dell'atto da trascrivere; il sistema della pubblicità immobiliare è a base personale, nel senso che l'indagine sull'esistenza di precedenti trascrizioni pregiudizievoli va fatta a mezzo della «rubrica dei cognomi» che fa riferimento alla «tavola alfabetica» nella quale sono indicati i nominativi delle persone a favore o a carico delle quali si operano le trascrizioni con tutti i dati risultanti dalle note (Cass. n. 3477/1997); una volta redatta la nota ed avvenuta la trascrizione di un atto sulla sua base, il contenuto della pubblicità – notizia è solo quello da essa desumibile, e su chi della notizia si avvale non incombe alcun onere di controllo ulteriore (Cass. n. 5002/2005; Cass. n. 5028/2007; Cass. n. 18892/2009).

In definitiva, la trascrizione ha carattere formale, per cui per stabilire se e in quali limiti un determinato atto sia opponibile ai terzi deve aversi riguardo esclusivamente al contenuto della nota di trascrizione, dovendo le indicazioni riportate nella nota stessa consentire di individuare, senza possibilità di equivoci e incertezze, gli estremi essenziali del negozio ed i beni ai quali si riferisce, senza necessità di esaminare anche il contenuto del titolo che, insieme con la nota, viene depositato presso la Conservatoria dei registri immobiliari. (Va detto che secondo taluna dottrina sul valore di questo principio, occorre però intendersi, nel senso che la prevalenza di quanto risulta dalla nota rispetto al titolo vale (solo) nel senso di escludere che possa essere opponibile ai terzi qualcosa che risulti dal titolo e non (anche) dalla nota, ma non anche nel senso che ai terzi sia opponibile un qualcosa che, pur risultando dalla nota, non sia conforme al titolo che ne rappresenta l'imprescindibile termine di riferimento. Così Fabiani, 20544).

Sulla scorta di queste direttrici il problema della erronea individuazione, nella nota di trascrizione, delle generalità del soggetto contro il quale un atto viene trascritto deve essere risolto nel senso che se quel soggetto, poiché erroneamente identificato, non risulta nella nota di trascrizione, l'atto che lo ha riguardato dovrà considerarsi sconosciuto ai terzi.

In questa direzione è stato così affermato da Cass. n. 10774/1991, che è inopponibile al creditore pignorante la trascrizione di una vendita compiuta dal venditore prima della trascrizione del pignoramento, in cui il venditore era stato indicato con cognome errato, osservandosi che la conoscenza, da parte del terzo, delle eventuali trascrizioni a carico della persona con la quale vuole contrattare, può essere acquisita, oltre che con l'effettuare l'ispezione dei registri, con il richiedere al Conservatore copia delle trascrizioni e delle relative annotazioni, o il certificato che non ve ne è alcuna; ne consegue che il terzo, il quale dal documento rilasciatogli dal Conservatore non rilevi l'esistenza di una trascrizione, non è tenuto a compiere indagini sue proprie.

Questi principi sono stati ulteriormente ribaditi dalla Corte di Cassazione con la sent. n. 3075/2013.

Il caso sottoposto all'esame dei giudici di legittimità era il seguente. Trascritto il pignoramento in danno del debitore esecutato, proponevano opposizione i di lui figli, deducendo che in data antecedente alla trascrizione del pignoramento avevano acquistato e trascritto i beni sottoposti ad esecuzione, osservando peraltro che la nota di trascrizione del pignoramento era errata poiché il loro genitore era stato individuato con una data di nascita inesatta. Il creditore, dal suo canto, osservava che in realtà l'erronea indicazione della data di nascita era già contenuta nell'atto con il quale il debitore aveva acquistato i beni.

In primo grado il Tribunale accoglieva l'opposizione dichiarando l'inefficacia del pignoramento; la pronuncia veniva poi confermata dalla Corte di Appello, la quale aveva osservato che:

– gli atti di acquisto degli opponenti figli (pacificamente trascritti in data anteriore al pignoramento) recavano l'esatta indicazione della data di nascita della venditrice;

– il pignoramento sarebbe travolto dalla mancanza di un valido atto di trascrizione in favore dell'alienante, per mancanza di trascrizione dell'atto di provenienza;

– che l'errore sulle generalità della persona contro la quale è costituito «il pregiudizio» – e cioè il pignoramento – lo rende non conoscibile dai terzi che eseguono la visura con le generalità esatte ed effettive, adeguatamente conseguite.

La Corte di Cassazione, nel disattendere le conclusioni cui erano pervenuti i giudici di secondo grado, dopo aver ribadito che il sistema di pubblicità immobiliare ha natura formale e che il contenuto della pubblicità – notizia è solo quello che risulta dalla nota di trascrizione, senza alcun onere di controllo ulteriore, per cui per stabilire se e in quali limiti un determinato atto sia opponibile ai terzi deve aversi riguardo esclusivamente al contenuto della predetta nota, ha aggiunto che «la tutela delle ragioni del terzo incolpevole esige che a lui non siano di norma opponibili gli errori esistenti ab origine nell'atto, come nel caso di quelli sull'identificazione della persona di uno dei contraenti: e tanto in ragione della non immediata percepibilità né dell'identità delle due persone, né quindi dell'erroneità della identificazione, nell'atto di provenienza, del titolare del diritto aggredito, come accade allorché, come nella fattispecie, le generalità del debitore corrispondono a quelle indicate nell'atto di provenienza».

Il principio di diritto che allora la sentenza ha coniato è quello per cui «non è opponibile al terzo, che ha provveduto a trascrivere un pignoramento immobiliare in danno di un soggetto indicato con la stessa data di nascita risultante dall'atto con cui questi risulta avere acquistato i beni staggiti, l'eventuale erroneità in quest'ultimo e nel pignoramento della data di nascita del debitore stesso, riportata pure nelle note di trascrizione, né, pertanto, l'atto di acquisto da parte di terzi trascritto, quand'anche in tempo anteriore al pignoramento, nei confronti del debitore con generalità che, sebbene corrispondenti a quelle reali, siano però diverse da quelle risultanti dal detto atto di provenienza».

Bibliografia

Astuni, Vincoli opponibili nelle procedure esecutive: la locazione di immobili, innotariato.it., 2011; Astuni, Oggetto del pignoramento, in Riv. esecuz. forzata, 2009, 617 ss.; Arieta, De Santis, l'esecuzione forzata, cit., 1047; Ballerini, Società di capitali cancellata dal registro delle imprese e pubblicità immobiliare, in Riv. Not., 2014, 222; Boggiali, Ruotolo, La cancellazione dal registro delle imprese produce l'effetto dell'estinzione della società e la «successione» dei soci nelle sopravvenienze attive, in Riv. Not., 2013, 954 ss.; Bongiorno, Espropriazione immobiliare, in Dig. Civ., VIII, 1992 38; Bonsignori, Gli effetti del pignoramento, in Comm. S., 2000; Bonsignori, Effetti della vendita forzata e dell'assegnazione, in Il codice civile commentato, diretto da P. Schlesinger, 1988; Bucolo, Il processo esecutivo ordinario, Padova, 1994; Busnelli, in Bigliazzi Geri, Busnelli, Ferrucci, Della tutela giurisdizionale dei diritti, in Comm. c.c., VI, 4, Torino, 1980; Calvosa, Struttura del pignoramento e del sequestro conservativo, Milano, 1953; Capozzi, in Ferrucci, Ferrentino (a cura di) Successioni e donazioni, Milano, 2009, 385; Cardino, in Cardino, Romeo (a cura di), Processo di esecuzione, Padova, 2018, 1089; Cardino, Comunione dei beni ed espropriazione forzata, Torino, 2011; Carnacini, Contributo alla teoria del pignoramento, Padova, 1936, 56; Chinale, L'ipoteca, Tornio, 2017, 412 ss.; Corsaro, Bozzi, Manuale dell'esecuzione forzata, Milano, 1996; D'Alonzo, Il pignoamento e la locazione, in Quad. Inexecutivis, 2020; D'Alonzo, La legittimazione dei pubblici ufficiali ad offrire nei procedimenti di vendita giudiziale e fallimentare tra esigenze di trasparenza ed autonomia negoziale, in Il diritto fallimentare e delle società commerciali, 2, 2020, 379 ss.; D'Alonzo, Manuale del professionista delegato nelle esecuzioni immobiliari, Bari, 2019; D'Alessandro, Cancellazione della società e sopravvenienze attive: opportunità e legittimità della riapertura della liquidazione, in Soc., 2008, 895; Domenici, La circolazione degli spazi a parcheggio alla luce delle recenti modifiche legislative, in Not. 2013, 1, 73 ss.; Fabiani, Trascrizione erronea, apparenza del diritto, pignoramento e conflitto tra più pretendenti in relazione al medesimo bene immobile, in Riv. dir. civ., 2005, 5; Fontana, Vigorito, Le procedure esecutive dopo la riforma: le vendite immobiliari, Milano, 2007; Gazzoni, Trattato della trascrizione, III, Formalità e procedimento, 2014; Gentile, Le ipoteche, Roma, 1961; Ghedini, Mazzagardi, Il custode e il delegato alla vendita nella nuova esecuzione immobiliare, Padova, 2013; Gorla, Zanelli Del pegno. Delle ipoteche, in Comm. S.B., 1992; Iacciarino, Interpretazione della valenza innovativa dell'art. 2495 c.c. ad opera della Cassazione dal 2008 al 2013, in Not., 2013; Irti, in Aa.Vv., Note introduttive, in La legge 27 luglio 1978, n. 392. Disciplina delle locazioni di immobili urbani, in Nuove leggi civ. comm., 1978, 920 ss.; Ivea, La nuova disciplina dei parcheggi pertinenziali, in Urbanistica e appalti, 2013, 3, 268; La China, L'esecuzione forzata e le disposizioni generali del c.p.c., Milano, 1970; Luminoso, Spazi destinati a parcheggio, regime delle pertinenze e disciplina del condominio, in Riv. not., 1990, 583; Lupetti, La possibile reviviscenza delle società dopo la loro cancellazione dal Registro delle imprese, in Soc., 2014, 1341; Lupoi, Istituzioni del diritto dei trust e degli affidamenti fiduciari, Padova, 2010; Lupoi, Azione revocatoria e trust familiare, in Trusts e Attività Fiduciarie, 2009; Lupoi, Trusts, Milano, 1997; Maiorca Ipoteca (diritto civile), in Noviss. Dig. it., IX, Torino, 1963; Malaguti, Il trust, in Galgano (a cura di), Atlante di diritto privato comparato, Bologna, 1992, 183; Matassa, Circolazione «vincolata» delle aree a parcheggio, in Foro it., 1985, I, 710; Monteleone, Diritto processuale civile, 3a ed., Padova, 2004; Pellegrino, Il processo di esecuzione immobiliare, Milano, 2001; Redenti, Vellani, Diritto processuale civile, III, Milano, 1999; Rubino, L'ipoteca immobiliare e mobiliare, in Tratt. Cicu-Messineo, Milano, 1956; Ruotolo, Società cancellata dal Registro delle imprese e sopravvenienze attive, in Consiglio nazionale del notariato. Studi e materiali, Milano, 2006, 1508; Salis, Il «posto macchina» nel condominio, in Riv. giur. edil., 1985, II, 245; Satta, Commentario al codice di procedura civile, III, Milano, rist. 1966; Scarpa, La disciplina dei parcheggi obbligatori: nuove riforme e vecchie dispute, in jussit.it.; Tamburrino, Le ipoteche, in Commentario del codice civile, Torino, 1976; Tassani, Profili fiscali della cancellazione delle società dal registro delle imprese in presenza di beni immobili non liquidati, Studio n. 550-2014 Cons. Naz. Notariato; Travi, Espropriazione immobiliare, in NDI, VI, Torino, 1960; Vaccarella, Postilla (a proposito dei rapporti tra art. 2923 c.c. e legge n. 431 del 1998), in Riv. es. for., 2000, 488; Vanz, L'espropriazione dell'immobile locato, Milano, 1997; Verde, Pignoramento in generale, in Enc. dir., XXXIII, Milano, 1983, 796.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario