Codice di Procedura Civile art. 629 - Rinuncia.

Alessandro Auletta

Rinuncia.

[I]. Il processo si estingue se, prima dell'aggiudicazione [503, 537 1, 574, 581 3] o dell'assegnazione [505, 530 2, 590 2], il creditore pignorante e quelli intervenuti [499] muniti di titolo esecutivo [474] rinunciano agli atti.

[II]. Dopo la vendita il processo si estingue se rinunciano agli atti tutti i creditori concorrenti.

[III]. In quanto possibile, si applicano le disposizioni dell'articolo 306.

Inquadramento

Le situazioni che provocano la estinzione del processo esecutivo sono analoghe a quelle previste dagli artt. 306 e 307 c.p.c. con riferimento al processo di cognizione: rinuncia ed inattività.

La dettatura di una disciplina dell'estinzione del processo esecutivo (che costituisce una novità rispetto al Codice del 1865) è tesa a soddisfare anche in tale sede le esigenze proprie dei procedimenti retti dal principio dispositivo (Satta, 1007).

Le norme contenute negli artt. 629 e ss. hanno portata generale.

Essendo dettate con precipuo riferimento al processo esecutivo di tipo espropriativo, la loro applicazione ad altre tipologie di processo esecutivo (ad es. esecuzione di obblighi di fare; o ancora espropriazione di navi ed aeromobili: artt. 672 e 1073 del Codice della navigazione) richiede una attività di adattamento da parte dell'interprete, sempre che il legislatore non abbia introdotto una disciplina specifica, come accaduto con riferimento alla esecuzione per consegna o rilascio con l'introduzione dell'art. 608-bis c.p.c., ovvero con riferimento alla esecuzione esattoriale (artt. 53,61 e 85, d.P.R. n. 602/1973, riguardanti, rispettivamente, la cessazione dell'efficacia del pignoramento e la cancellazione della trascrizione; l'estinzione del procedimento per pagamento del debito; l'estinzione per mancato pagamento del conguaglio da parte dello Stato laddove il Concessionario, dopo il terzo incanto negativo, abbia richiesto l'assegnazione dell'immobile e non vi sia stata la richiesta di esperire un ulteriore tentativo di vendita), ovvero ancora (ma v. quanto notato infra) con riferimento alla esecuzione nei confronti degli enti assoggettati alla disciplina del TUEL (ove viene in rilievo l'art. 248, che disciplina le conseguenze della dichiarazione di dissesto di un ente locale).

Il legislatore, nel 1992, attraverso la modifica dell'art. 567 c.p.c. ha introdotto una nuova ipotesi di estinzione del processo esecutivo (con funzione acceleratoria).

Le caratteristiche essenziali della estinzione sono così sintetizzabili:

a) la causa estintiva è successiva alla instaurazione del processo esecutivo;

b) la dichiarazione di estinzione ha efficacia ex tunc, onde è ripristinato tra le parti il rapporto giuridico preesistente alla introduzione del processo esecutivo;

c) le fattispecie estintive possono ripresentarsi in un nuovo processo tra le parti, senza che il precedente provvedimento di estinzione rilevi di per sé.

Non si riscontra nel processo esecutivo la nota distinzione dottrinale tra le fattispecie di estinzione su rinuncia del giudizio di cognizione coordinate alla mancata sanatoria di una nullità e quelle legate ad una «pura» inattività.

Come è stato notato, «la diversa strutturazione dell'esecuzione fa sì che il problema si risolva per i vizi che rientrano nella categoria delle c.d. nullità sanabili, con la mancata proposizione dell'opposizione agli atti esecutivi, mentre per quei vizi considerati insanabili con il potere di rilievo officioso del g.e. (in alcuni casi assoggettato alla preclusione dell'udienza ex art. 530 e 569)» (Iannicelli, sub art. 629, 1733; Saletti, Processo esecutivo e prescrizione, 237, in nota 169).

Evoluzione storica della disciplina sull'estinzione del processo esecutivo

Come si è anticipato, il Codice di rito, attraverso la disciplina in esame, ha innovato rispetto al Codice del 1865, che per l'esecuzione non conteneva specifiche disposizioni relativamente a perenzione e rinuncia.

In sede di redazione del Codice in vigore furono scartate altre proposte (che fondavano sull'idea di un processo esecutivo che progrediva d'ufficio e che quindi poteva estinguersi solo per adempimento, remissione e mancanza di attivo), laddove il regime poi prescelto rispecchia l'intendimento del processo esecutivo come (anch'esso) retto dal principio dispositivo.

La novellazione del processo di cognizione del 1950 era stata seguita da quella della disciplina della estinzione del processo esecutivo (art. 12, r.d. n. 857/1950).

Diverse sono state le ulteriori proposte di modifica di tale disciplina, succedutesi a partire dagli anni Settanta.

Le proposte emerse dal lavoro della Commissione ministeriale presieduta da Liebman vertevano sui seguenti punti: rilevabilità d'ufficio del fatto estintivo; introduzione dell'ordinanza come provvedimento con cui viene dichiarata l'estinzione e sua impugnabilità con il rimedio dell'opposizione agli atti; onere per il creditore di richiedere l'assegnazione del bene dopo un doppio incanto andato deserto, a pena di estinzione (su tali profili v. Verde, La disciplina dell'esecuzione forzata, 88).

Tali spunti furono raccolti dalla Commissione Tarzia la quale perseguì il disegno di una complessiva riscrittura dei punti nodali del processo esecutivo e prevedeva l'estinzione in concomitanza alla diserzione degli incanti, con l'effetto di trasformare il credito del pignorante e degli intervenuti in una garanzia ipotecaria.

Dopo il 1992 (anno in cui fu introdotta una ulteriore causa di estinzione: v. art. 567 c.p.c.), vanno segnalate le incisive proposte di riforma elaborate dalla Commissione Vaccarella: si ipotizzavano meccanismi di estinzione del processo esecutivo in relazione al caso di incanti risultati infruttuosi; si prevedeva la distinzione tra inattività «pura» e inattività «qualificata», prevedendosi, con riferimento a quest'ultima, il potere di rilievo officioso del fatto estintivo da parte del g.e.

Gli interventi del biennio 2005-2006 hanno inciso, invece, come noto: sull'art. 624, comma 3 c.p.c., sull'art. 630, comma 3 c.p.c., sull'art. 619, comma 1 c.p.c.; ed hanno introdotto le disposizioni degli artt. 608-bis e 187-bis disp. att. c.p.c.

La riforma del 2009 ha nuovamente inciso sull'art. 624, comma 3 c.p.c., previsto una nuova figura di estinzione in relazione alla mancata integrazione del pignoramento immobiliare e, soprattutto, ha introdotto in via generale il potere di rilievo officioso in capo al g.e. (art. 630, comma 2, c.p.c.), evidentemente sull'assunto che il rispetto dei tempi e del «ritmo» del processo esecutivo toccano interessi di natura pubblicistica.

Distinzione tra estinzione «tipica» ed «atipica» (rectius: chiusura anticipata) del processo esecutivo

Al di là delle ipotesi «tipiche» disciplinate dagli artt. 629 e ss., sia nel dibattito dottrinale che nel formante giurisprudenziale si è fatto frequentemente ricorso alla categoria della «estinzione atipica» o «innominata» (categoria talora utilizzata anche per ricomprendere le ipotesi in cui il processo esecutivo sia estinto per l'accertamento della sua «inidoneità» al raggiungimento dello scopo di una «efficiente» continuazione dell'azione esecutiva), ponendosi la questione della individuazione della disciplina applicabile, specie con riferimento alla rilevabilità d'ufficio ed alla scelta del mezzo di tutela offerto dall'ordinamento per contestare il provvedimento di chiusura anticipata del processo esecutivo (opposizione agli atti esecutivi o reclamo ex art. 630 c.p.c.).

La dottrina (Iannicelli, Note sull'estinzione del processo esecutivo, 78; Id., subartt. 629-632 c.p.c., in Codice commentato delle esecuzioni civili, a cura di Arieta, De Santis, Didone, Torino, 2016, 1738 e ss.) ha negato la configurabilità di fattispecie atipiche di estinzione del processo assoggettabili tout court alla disciplina di cui agli artt. 630 e 632 c.p.c.

In senso conforme, si esprime anche la giurisprudenza (Cass. n. 6391/2004; ma v. quanto notato infra).

La questione è resa ancora più complessa dalla individuazione di ipotesi normative (codicistiche o extra-codicistiche) o pretorie di «chiusura anticipata del processo esecutivo» (v. ancora Iannicelli, loc. ult. cit.) o che tale chiusura anticipata presuppongono.

Malgrado la ricordata posizione, che fonda sull'intendimento del catalogo delle ipotesi di estinzione del processo esecutivo come un numerus clausus, la categoria della «estinzione atipica» o, meglio, della chiusura anticipata del processo esecutivo trova esplicito riconoscimento non solo a livello giurisprudenziale ma anche a livello normativo.

In questo senso, appaiono illuminanti le considerazioni svolte da Cass. n. 9501/2016, laddove si osserva che «le ipotesi di estinzione c.d. atipica, più correntemente definite di chiusura anticipata (nella prassi definite anche, forse con una certa imprecisione terminologica, però di grande efficacia descrittiva, come improseguibilità o improcedibilità), non solo costituiscono oggetto ormai di disposizioni positive del codice di rito, che quest'ultimo istituto in modo espresso presuppongono (basti pensare all'art. 187-bis disp. att. c.p.c., introdotto fin dalla Riforma del 2006, nonché – ormai e comunque con la Riforma del 2014 – all'art. 164-bis delle stesse disp. att., che codifica espressamente una di tali ipotesi), ma ineriscono necessariamente alla struttura stessa del processo esecutivo, al di là delle espresse previsioni di estinzione, accomunando tutti i casi in cui questo non può proseguire o raggiungere alcuno dei suoi fini istituzionali: ora per difetto di presupposti processuali, ora per mancanza di condizioni dell'azione esecutiva, ora perfino per qualsiasi fatto sopravvenuto che rende impossibile l'ulteriore sviluppo del processo».

Difatti, prosegue la S.C., «è frequente (...) il caso del sopravvenuto venir meno del titolo esecutivo (ad esempio, se giudiziale, per lo sviluppo normale dei gradi di giudizio e la sua riforma); ma si pensi pure, a mero titolo esemplificativo: a quando viene riconosciuta mancante la giurisdizione dell'ufficio giudiziario adito, o la rappresentanza legale o sostanziale del creditore procedente, o lo stesso oggetto del processo (se è espropriato per pubblica utilità o confiscato in sede penale o di misure di prevenzione c.d. antimafia o a titolo di sanzione amministrativa per abusivismo edilizio o urbanistico), o sue caratteristiche immancabili per la stessa commerciabilità futura e quindi la validità della vendita in sede giudiziaria, come l'appartenenza del bene al debitore (che va sempre, invece, pure di ufficio riscontrata dal g.e.: Cass. n. 11638/2014), oppure se si scopre o sopravviene ogni altro caso di inalienabilità o di vincoli».

Nell'affermare quanto sopra la S.C. ha ritenuto legittimo il provvedimento con il quale il g.e. – a seguito della disposta «chiusura anticipata» del processo esecutivo – aveva ordinato la cancellazione della trascrizione del pignoramento.

Ciò in quanto, si tratti di estinzione «tipica» o «atipica», «è inevitabile che, proprio perché il processo esecutivo non è in grado di raggiungere alcun risultato, si impartisca anche l'ordine di cancellazione: visto che idoneo complemento del pignoramento – finalizzata com'è alla circolazione del bene espropriato e da porre in vendita – è appunto la formalità pubblicitaria suddetta, è coessenziale al venir meno dell'efficacia del primo che venga meno l'efficacia della seconda, con idoneo provvedimento che ne disponga la cancellazione (...)».

In definitiva, a fronte di una serie di ipotesi in cui il processo esecutivo non è in grado di realizzare il proprio scopo (difetto di presupposti processuali, mancanza di condizioni dell'azione esecutiva, qualsiasi fatto sopravvenuto che rende impossibile l'ulteriore sviluppo del processo) deve procedersi alla declaratoria della sua improcedibilità.

Di queste ipotesi di chiusura anticipata del processo è ormai costellata tanto la disciplina codicistica, quanto quella extra-codicistica.

Ma non mancano anche ipotesi che, allo stato, trovano riscontro nel solo formante giurisprudenziale.

Si fornisce di seguito un loro catalogo.

Ipotesi «codicistiche» che prevedono o presuppongono la «chiusura anticipata» del processo esecutivo

Per quanto attiene alle ipotesi «codicistiche», vengono in rilievo i seguenti casi.

In primo luogo, rileva la disposizione contenuta nell'art. 187-bis disp. att. c.p.c.

Secondo tale disposizione, per quanto qui rileva, «in ogni caso di estinzione o di chiusura anticipate del processo esecutivo avvenuta dopo l'aggiudicazione, anche provvisoria, o l'assegnazione, restano fermi nei confronti dei terzi aggiudicatari o assegnatari, in forza dell'art. 632, comma 2, del codice gli effetti di tali atti (...)».

Si tratta di una norma che tutela l'affidamento riposto dall'aggiudicatario nella stabilità degli effetti della vendita giudiziaria, quantunque il procedimento in cui tale vendita si colloca sia destinato, per qualsivoglia ragione, ad estinguersi o comunque a consumarsi anticipatamente.

A ben vedere, le Sezioni Unite della Corte di cassazione avevano già affermato un principio similare, con riferimento all'ipotesi in cui, dopo l'aggiudicazione, fosse intervenuta la caducazione del titolo esecutivo del procedente.

Secondo la S.C., in specie, «il sopravvenuto accertamento dell'inesistenza di un titolo idoneo a giustificare l'esercizio dell'azione esecutiva non fa venir meno l'acquisto dell'immobile pignorato, che sia stato compiuto dal terzo nel corso della procedura espropriativa in conformità alle regole che disciplinano lo svolgimento di tale procedura, salvo che sia dimostrata la collusione del terzo col creditore procedente. In tal caso, tuttavia, resta salvo il diritto dell'esecutato di far proprio il ricavato della vendita e di agire per il risarcimento dell'eventuale danno nei confronti di chi, agendo senza la normale prudenza, abbia dato corso al procedimento esecutivo in difetto di un titolo idoneo» (Cass. S.U., n. 21110/2012).

Più di recente, relativamente ad una ipotesi peculiare, ma utilizzando argomenti di ampio respiro (argomenti quindi valevoli anche al di fuori dell'ambito specifico cui afferiva la controversia esaminata), la stessa S.C. ha chiarito che la tutela dell'affidamento dell'aggiudicatario è principio di ordine pubblicistico, la cui realizzazione, dunque, trascende gli interessi specifici delle parti o dei soggetti coinvolti a vario titolo nel processo esecutivo.

In particolare, «una delle componenti che concorre in modo significativo all'efficienza delle vendite giudiziarie è rappresentata dalla tutela dell'aggiudicatario. Infatti, la partecipazione ad un'asta giudiziaria sarà tanto più ‘appetibile', quanto minori siano le incertezze in ordine alla stabilità degli effetti dell'aggiudicazione. La prospettiva di un acquisto stabile e sicuro attira un più elevato numero di partecipanti all'asta e determina una più animata competitività nella gara, e quindi, si traduce, in ultima analisi, in un maggior ricavo in minor tempo. Sebbene l'aggiudicatario non vanti sul bene espropriato un diritto soggettivo pieno, quanto piuttosto un'aspettativa, questa non è di mero fatto, bensì di diritto. Infatti, in capo all'aggiudicatario deve essere ravvisato un affidamento qualificato sulla stabilità della vendita giudiziaria, come si ricava dall'art. 187-bis disp. att. c.p.c. e dalla l.fall., art. 18 (v. Cass. S.U., n. 21110/2012). Persino dopo l'estinzione o la chiusura anticipata del processo esecutivo, l'aggiudicatario ha diritto al decreto di trasferimento. Per tali ragioni questa Corte ha ravvisato in capo all'aggiudicatario uno speciale ius ad rem (condizionato al versamento del prezzo), rispetto al quale è configurabile un obbligo di diligenza e di buona fede a carico dei soggetti tenuti alla custodia e conservazione del bene aggiudicato (Cass. n. 14765/2014).

Il favor legis di cui gode l'aggiudicatario, anche provvisorio, non trova la propria giustificazione nell'esigenza di tutela di una posizione giuridica individuale, bensì nell'interesse generale – di matrice pubblicistica – alla stabilità degli effetti delle vendite giudiziarie, quale momento essenziale per non disincentivare la partecipazione alle aste e quindi per garantire la fruttuosità delle stesse, in ossequio del principio costituzionale di ragionevole durata del processo (...)» (Cass. n. 3709/2019).

Il principio in esame, a ben vedere, trova riscontro anche in altri luoghi del Codice di rito: si pensi, ad esempio, al combinato disposto di cui agli artt. 624-bis e 161-bis d.a. c.p.c.: l'istanza di sospensione «concordata» non può essere presentata, laddove sia già stata disposta la vendita, oltre il termine di venti giorni prima della data fissata per la udienza di delibazione delle offerte (che di norma si svolge innanzi al professionista delegato); l'art. 161-bis d.a. c.p.c. consente, in questo caso, il differimento dell'udienza di vendita, ma deve esservi il consenso degli offerenti.

Come si intuisce, quindi, se tale consenso mancasse, il procedimento liquidatorio dovrebbe avere ulteriore seguito (anche se le parti – creditore e debitore – concordano sulla necessità della sua sospensione ex art. 624-bis) per tutelare l'affidamento risposto dal pubblico degli interessati nella circostanza che il bene offerto «al mercato» effettivamente costituirà oggetto di vendita forzata.

L'art. 540 -bis c.p.c. Secondo tale disposizione (al cui commento analitico si rinvia) «quando le cose pignorate risultano invendute a seguito del secondo o successivo esperimento ovvero quanto la somma assegnata, ai sensi degli articoli 510, 541 e 542, non è sufficiente a soddisfare le ragioni dei creditori, il giudice, su istanza di uno di questi, provvede a norma dell'ultimo comma dell'art. 518. Se sono pignorate nuove cose il giudice ne dispone la vendita senza che vi sia necessità di una nuova istanza. In caso contrario, dichiara l'estinzione del procedimento, salvo che non siano da completare le operazioni di vendita».

Come è stato notato, la ratio di questa disposizione va rinvenuta, da un lato, nella esigenza di evitare, in ossequio ai principi della ragionevole durata del processo e di economia processuale, una inutile proliferazione di procedimenti di espropriazione mobiliare e, dall'altro, di evitare l'indefinita pendenza di processi esecutivi relativi a beni che «il mercato» ha ritenuto non appetibili (poiché sono rimasti invenduti a seguito di plurimi esperimenti di vendita) [Lombardi, 2079; Longo, 318].

In definitiva, l'effetto auspicato è quello di consentire il reperimento di ulteriori beni (utilmente liquidabili) o, in subordine, di pervenire alla chiusura anticipata dell'esecuzione infruttuosa.

La previsione dell'estinzione del procedimento pone alcuni problemi applicativi.

Per evitare risultati paradossali – come, per esempio, quello di determinare l'applicazione dell'art. 2945, comma 3, c.c. – vi è chi ritiene si tratti di una ipotesi «atipica» di estinzione (Saletti, sub Art. 540-bis, spec. 191), il che conduce a ritenere che il provvedimento adottato ex art. 540-bis (di «estinzione» della procedura) non sia soggetto al rimedio del reclamo ex art. 630, comma 3, c.p.c., ma a quello dell'opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c.

Tale lettura ha trovato conferma nella successiva evoluzione dell'ordinamento.

Difatti, in virtù dell'art. 532, comma 2, ult. alinea, c.p.c. (come modificato dal d.l. n. 83/2015) – al cui commento si rinvia – l'art. 540-bis c.p.c. trova applicazione anche laddove la vendita mobiliare abbia luogo a mezzo commissionario.

In altre parole, una volta «restituiti gli atti», il g.e. non è tenuto a valutare se procedere o meno all'incanto dei beni pignorati ma deve verificare semplicemente l'esistenza di eventuali istanze di integrazione ex art. 540-bis; in mancanza di che il g.e. dichiara la chiusura anticipata del processo esecutivo anche quando non sussistono i presupposti di cui all'art. 164-bis d.a c.p.c.

In questo peculiare caso, che non differisce – quanto alla ratio – da quello «generale», il legislatore definisce espressamente tale fattispecie come «chiusura anticipata del processo esecutivo»; il che sembra confermare che l'espressione «estinzione» che campeggia nella norma richiamata (cioè nell'art. 540-bis) sia utilizzata in senso spurio (sul punto v. Vincre, 427, la quale arriva a considerare l'art. 540-bis c.p.c. implicitamente abrogato nella parte in cui si pone in contrasto con il nuovo comma 2 dell'art. 532 c.p.c.).

L'art. 164 -bis disp. att. c.p.c. Secondo tale disposizione – inserita con la riforma del 2014 (d.l. n. 132/2014, conv. in l. n. 162/2014) – «quando risulta che non è più possibile conseguire un ragionevole soddisfacimento delle pretese dei creditori, anche tenuto conto dei costi necessari per la prosecuzione della procedura, delle probabilità di liquidazione del bene e del presumibile valore di realizzo, è disposta la chiusura anticipata del processo esecutivo».

Dalla lettura della relazione di accompagnamento del decreto legge che ha introdotto la norma è possibile escludere che si tratti di uno strumento a tutela dell'interesse del debitore a non vedere svenduto il proprio immobile, in deroga alla regola generale dell'art. 2740 c.c.; piuttosto l'istituto è posto a tutela dell'interesse dell'amministrazione della giustizia ad evitare, con inutile dispendio di risorse processuali comunque limitate e da utilizzare invece in modo da far conseguire un'utilità effettiva al creditore, la prosecuzione sine die di procedure esecutive inidonee a consentire il soddisfacimento degli interessi dei creditori: tale ratio, oltre a corrispondere all'intenzione del legislatore, è coerente con la ricostruzione del sistema dell'esecuzione forzata.

In questo senso si è di recente espressa la Corte di cassazione (Cass. n. 11116/2020), secondo cui «con la codificazione di questa peculiare fattispecie di chiusura anticipata ben può dirsi che la necessaria economicità – in termini di proporzione tra vantaggi e svantaggi delle stesse parti, oltre che dell'ordinamento nel suo complesso in relazione all'impiego di risorse apprestate al fine di fare conseguire al creditore quanto spettantegli – della procedura trova finalmente un suo riconoscimento legislativo ed avvicina l'ordinamento italiano a quello di altri Paesi Europei, nei quali è preclusa, o per norma espressa o per comune e condiviso buon senso, la stessa attivazione di una procedura che non lasci presagire un'apprezzabile probabilità di esito anche solo in parte fruttuoso (ed avendo questa Corte applicato analoghi concetti per escludere la tutela esecutiva di crediti irrisori: Cass. n. 4228/2015, seguita da Cass. n. 25224/2015)».

In particolare, «ai fini dell'applicazione della norma in esame il giudice dell'esecuzione è allora chiamato a compiere una valutazione sul punto, evitando che proseguano (con sempre più probabili pregiudizi erariali anche a seguito di azioni risarcitorie per i danni da irragionevole durata del processo) procedimenti di esecuzione forzata manifestamente inidonei a produrre un ragionevole od apprezzabile soddisfacimento dell'interesse dei creditori, siccome con evidenza generatori di costi processuali più elevati del concreto valore di realizzo dei cespiti patrimoniali pignorati, o, comunque, idonei soltanto a generare altri e nuovi costi, soprattutto se insuscettibili di recupero».

In sostanza, «non può, a meno di una non consentita Heterogonie des Zwecke o eterogenesi dei fini, ridursi il fine del procedimento esecutivo a quello di generare soltanto altri costi, aumentando il carico della debitoria preesistente che aveva invece lo scopo istituzionale di soddisfare».

Più in dettaglio, «se nell'espropriazione mobiliare opera il meccanismo dell'art. 540-bis c.p.c. con sostanziale prefissazione di un numero massimo di tentativi di vendita al cui esito – ed in difetto di peculiari iniziative o condotte del creditore, legalmente tipizzate – disporre la chiusura anticipata in modo pressoché automatico, non altrettanto può allora dirsi in tema di espropriazione immobiliare».

Difatti, «in questa è proprio la finalità della norma in esame ad esigere che, prima di applicarla, il giudice sperimenti fattivamente tutte le potenzialità offerte dalla disciplina, tra cui l'ordine di liberazione (nei limiti in cui è ancora possibile, attesone il depotenziamento derivante dalle severe limitazioni arrecate dalla novella del 2019, non del tutto congrue rispetto al fine del processo esecutivo) e la custodia attiva o le modalità di vendita o di pubblicità aggiuntive ed ulteriori, per conseguire il risultato fisiologico della procedura, che resta pur sempre la liquidazione del cespite del debitore in tempi contenuti, con indiretto beneficio per il debitore, atteso il correlato contenimento del carico degli accessori».

D'altro canto «poiché il processo esecutivo deve comunque tendere al soddisfacimento del diritto del creditore, la valutazione di infruttuosità può aver luogo quando, in relazione all'entità del prezzo base dell'ultimo tentativo, ove nemmeno sia utile o possibile rivederlo in base ad una rinnovazione della stima od alla considerazione di fattori nuovi e imprevisti e non sia utile nemmeno l'amministrazione giudiziaria, l'eventuale aggiudicazione possa presumersi: – perfino implausibile, per essersi rivelato l'immobile fuori mercato e quindi in concreto invendibile, oppure – tale da coprire esclusivamente i costi della rifissazione a disporsi o gli oneri futuri della procedura, oppure – tale da determinare una somma netta irrisoria da destinare ad accessori e sorta capitale del procedente e degli interventori, tenuto conto delle rispettive cause legittime di prelazione».

In definitiva, «tale valutazione non dovrà, beninteso, aver luogo in modo espresso prima di ogni rifissazione, soprattutto ove il numero ne sia stato stabilito con l'ordinanza di vendita o altro provvedimento, tanto equivalendo ad una sorta di anticipazione del relativo giudizio in via generale ed astratta secondo l'id quod plerumque accidit nel contesto delle vendite giudiziarie del singolo ufficio; ma una motivazione espressa sarà necessaria – nella forma dell'ordinanza, suscettibile di opposizione agli atti esecutivi e mai impugnabile con ricorso diretto per cassazione (Cass. ord., n. 7754/2018) – in caso di esplicita istanza di uno dei soggetti del processo, oppure quando si verifichino o considerino fatti nuovi, soprattutto in relazione alle previsioni dell'ordinanza ai sensi dell'art. 569 c.p.c.».

Altrimenti detto, «una simile valutazione di infruttuosità potrà adeguatamente fondarsi sul rilievo che il bene offerto in vendita è risultato per oggettive caratteristiche – non solo sopravvenute, ma pure preesistenti ma diversamente valutate – con ogni probabilità non vendibile, oppure vendibile a condizioni talmente rovinose da lasciare prefigurare un soddisfacimento irrisorio di sorta e accessori già maturati o, a maggior ragione, delle sole successive spese del processo esecutivo. Al contrario, questo sarà allora – anche solo per implicito e cioè direttamente con la rifissazione della vendita – valutato meritevole di prosecuzione finché appaia ancora idoneo a fare conseguire, in esito alle attività di liquidazione ancora a disporsi ed in base alla fruttuosità delle stesse quale desumibile anche dalla pregressa storia del processo e dall'inanità incolpevole dei precedenti tentativi, una somma ricavata significativa, cioè tale da consentire il soddisfacimento non irrisorio di alcuno tra i crediti azionati, ad iniziare da quelli assistiti da cause di prelazione e, a parità di esse, da quelli di maggiore importo».

Il principio affermato è quindi il seguente: «in tema di espropriazione immobiliare, la peculiare ipotesi di chiusura anticipata della procedura ai sensi dell'art. 164-bis disp. att. c.p.c. ricorre e va disposta ove, invano applicati o tentati ovvero motivatamente esclusi tutti gli istituti processuali tesi alla massima possibile fruttuosità della vendita del bene pignorato, risulti, in base ad un giudizio prognostico basato su dati obiettivi anche come raccolti nell'andamento pregresso del processo, che il bene sia in concreto invendibile o che la somma ricavabile nei successivi sviluppi della procedura possa dar luogo ad un soddisfacimento soltanto irrisorio dei crediti azionati ed a maggior ragione se possa consentire soltanto la copertura dei successivi costi di esecuzione».

L'art. 545, ultimo comma, c.p.c. Secondo tale disposizione (come novellato dal medesimo d.l. n. 83/2015) «il pignoramento eseguito sulle somme di cui al presente articolo in violazione dei divieti e oltre i limiti previsti dallo stesso e dalle speciali disposizioni di legge è parzialmente inefficace. L'inefficacia è rilevata dal giudice anche d'ufficio».

In altre parole, laddove siano violati i limiti di pignorabilità di cui alla predetta disposizione si prevede la inefficacia del pignoramento (per la parte «in eccedenza» rispetto al limite consentito), la cui declaratoria può avvenire d'ufficio da parte del g.e.

Per quanto una parte della dottrina tradizionale avesse ritenuto che l'impignorabilità dei crediti fosse sempre rilevabile d'ufficio, la questione non era pacifica nel dibattito.

La giurisprudenza meno recente, dal canto suo, aveva costantemente affermato che la impignorabilità dei crediti andasse dedotta in sede di opposizione all'esecuzione dalla parte interessata e cioè dal debitore (Cass. S.U., n. 4136/1988; Cass. n. 3932/1987; Cass. n. 3432/1978), onde si escludeva che il g.e. fosse titolare del potere di rilievo officioso dell'impignorabilità del bene.

Successivamente si è affermato l'orientamento opposto.

In specie, Cass. n. 6548/2011 ha affermato che «l'impignorabilità parziale di trattamenti pensionistici, è posta a tutela dell'interesse di natura pubblicistica consistente nel garantire al pensionato i mezzi adeguati alle proprie esigenze di vita (art. 38 cost.) e tale finalità è ancora più marcata dopo l'entrata in vigore della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, efficace dal 1 dicembre 2009 (data in cui è entrato in vigore il trattato di Lisbona), che, all'art 34, comma 3, garantisce il riconoscimento del diritto all'assistenza sociale al fine di assicurare un'esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti. Ne consegue che il pignoramento della pensione eseguito oltre i limiti consentiti è radicalmente nullo per violazione di norme imperative e la nullità è rilevabile d'ufficio senza necessità di un'eccezione o di un'opposizione da parte del debitore esecutato».

Su questa scia si colloca Cass. n. 1328/2011 (in senso conforme v. già Cass. 21074/2010), che con riferimento ad un peculiare profilo, si è espressa nel senso che: «nel giudizio di opposizione all'esecuzione ex art. 615 c.p.c., l'opponente ha veste sostanziale e processuale di attore; pertanto, le eventuali «eccezioni» da lui sollevate per contrastare il diritto del creditore a procedere ad esecuzione forzata costituiscono causa petendi della domanda proposta con il ricorso in opposizione e sono soggette al regime sostanziale e processuale della domanda. Ne consegue che l'opponente non può mutare la domanda modificando le eccezioni che ne costituiscono il fondamento, né il giudice può accogliere l'opposizione per motivi che costituiscono un mutamento di quelli espressi nel ricorso introduttivo, ancorché si tratti di eccezioni rilevabili d'ufficio».

Nel caso concreto, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva considerato tardiva l'eccezione di impignorabilità dei beni formulata dall'opponente in comparsa conclusionale, mentre la norma di legge che sanciva tale impignorabilità era già entrata in vigore al momento della proposizione dell'opposizione.

Al di là del profilo afferente alla rilevabilità d'ufficio di tale «inefficacia», sotto il profilo effettuale, si ritiene: a) che il provvedimento del giudice abbia natura dichiarativa; b) che il pignoramento compiuto su somme in tutto o in parte impignorabili non è idoneo a spiegare alcun effetto e, in dettaglio, non è in grado di privare il debitore della disponibilità delle somme pignorate «in eccesso», sulle quali, quindi, non sorgerebbe alcun obbligo di custodia da parte del terzo pignorato (Finocchiaro, sub art. 545, 1057).

L'inefficacia per omessa notifica dell'avviso di iscrizione a ruolo (art. 543, comma 5, c.p.c.)

Nella versione originaria il quinto comma dell'art. 543 c.p.c. (al cui commento analitico in ogni caso si rinvia) prevedeva che «[i] creditore, entro la data dell'udienza di comparizione indicata nell'atto di pignoramento, notifica al debitore e al terzo l'avviso di avvenuta iscrizione a ruolo con indicazione del numero di ruolo della procedura e deposita l'avviso notificato nel fascicolo dell'esecuzione. La mancata notifica dell'avviso o il suo mancato deposito nel fascicolo dell'esecuzione determina l'inefficacia del pignoramento».

La disposizione sopra riportata è stata introdotta dall'art. 1, comma 32, l. n. 206/2021 e si applica ai procedimenti iniziati dal 22 giugno 2022: si tratta, cioè, di una disposizione «immediatamente operativa» contenuta nella legge-delega su cui fonda la c.d. Riforma Cartabia, di cui al d.lgs. n. 149/2022 (un'altra di rilievo ha riguardo, sempre in materia di presso terzi, alla competenza laddove il debitore sia una pubblica amministrazione).

Come si apprende dalla lettura della Relazione illustrativa, la funzione della disposizione va ricercata nella esigenza di «consentire al terzo pignorato l'immediato svincolo delle somme pignorate in caso di mancata iscrizione a ruolo o mancata notifica».

La ratio della disposizione va individuata, come emerge anche dalla Relazione illustrativa, nella esigenza direndere concretamente operativo il meccanismo previsto dall'art. 164-ter disp. att. c.p.c. secondo cui «il creditore entro cinque giorni dalla scadenza del termine [previsto per il deposito a pena di inefficacia del pignoramento della nota di iscrizione a ruolo, n.d.s.] ne fa dichiarazione al debitore e all'eventuale terzo mediante atto notificato»; per quanto, difatti, si prevedesse (e si prevede tuttora) che «in ogni caso ogni obbligo del debitore cessa quando la nota di iscrizione a ruolo non è depositata nei termini», la disposizione attuativa non contempla alcuna «sanzione» in capo al creditore che non comunichi la mancata iscrizione a ruolo; pertanto, in caso di mancato espletamento del suddetto incombente, il terzo pignorato, dopo aver ricevuto la notifica del primo atto dell'esecuzione, poteva rimanere ignaro della intervenuta perdita di efficacia dello stesso e continuare a tenere vincolate le cose o le somme di cui fosse debitore nei confronti dell'esecutato.

Per effetto della novella in commento, invece, la (positiva) circostanza che il pignoramento sia stato concretamente iscritto a ruolo va comunicata al debitore e (soprattutto) al terzo, il quale quindi, implicitamente, è messo nella condizione di valutare se, alla data indicata nell'atto di citazione, persistano o meno i suoi obblighi di custodia.

Il correttivo (d.lgs. n. 164/2024) è intervenuto su tale disposizione lungo due linee direttrici: da un lato, viene espunto il riferimento alle parole «al debitore e»; dall'altro lato,

la disposizione contenuta nel comma 6 (contestualmente sostituito) è stata «accorpata» a quella contenuta nel comma 5, con l'intento di «concentrare» la disciplina dell'istituto in esame in un'unica disposizione.

La prima modifica, assai rilevante, circoscrive – rispetto all'originario testo della disposizione – la necessità dell'adempimento in questione (e quindi, in caso di mancato espletamento dello stesso, delle conseguenze in termini di inefficacia del pignoramento) al solo terzo pignorato.

Come vedremo, uno dei nodi interpretativi più spinosi suscitato dalla disposizione riguardava la equiparazione, quoad effectum, della posizione del debitore e del terzo con riferimento alla notifica ed al deposito dell'avviso di iscrizione a ruolo; inoltre, era discusso se l'avviso potesse essere notificato al debitore in Cancelleria, laddove questi, dopo il pignoramento, non avesse eletto domicilio «costituendosi» nel processo esecutivo (e la tesi prevalente era nel senso di ritenere che la notifica potesse essere validamente compiuta in Cancelleria).

È indubbio, comunque, che la novella in commento sia utile a «riallineare» il testo della disposizione alla proclamata ratio della stessa (consentire la liberazione delle somme), tenuto conto del fatto che, rispetto alla medesima, la notifica dell'avviso di iscrizione a ruolo al debitore appariva sostanzialmente un adempimento ultroneo.

Relativamente alla seconda modifica, come si apprende dalla Relazione di accompagnamento, la modifica è diretta a risolvere un dubbio interpretativo: si legge che «al quinto e sesto comma la norma prevede infatti che il creditore debba notificare al debitore e al terzo pignorato l'avviso di avvenuta iscrizione a ruolo, a pena di inefficacia del pignoramento stesso» ragion per cui «la suddivisione delle disposizioni in due diversi commi e la previsione, contenuta nel sesto comma, della liberazione delle somme per il caso in cui non sia stata effettuata la notifica dell'avviso ‘di cui al presente comma' può indurre a pensare che tale effetto si verifichi solo qualora il pignoramento sia eseguito nei confronti di più terzi, e non anche quando è eseguito nei confronti di un solo soggetto», laddove «la liberazione delle somme avviene, invece, in entrambi i casi (...)».

Entrambe le disposizioni si applicano, in forza di quanto previsto dall'art. 7, d.lgs. n. 164/2024, alle procedure iniziate dopo il 28 febbraio 2023; si tratta di una disciplina intertemporale che porrà problemi applicativi di difficile soluzione. Per la relativa analisi si rinvia al commento all'art. 543 c.p.c.

Le questioni poste dalla disposizione (e che continueranno a porsi pur dopo il correttivo) sono varie.

Innanzitutto, si pongono questioni relativa al termine per la notifica dell'avviso in esame, così sintetizzabili:

a) se nella nozione di «data dell'udienza di comparizione indicata nell'atto di pignoramento» possa ricomprendersi anche l'udienza, diversa da indicata nella citazione a comparire, individuata tenuto conto del calendario di udienza e delle esigenze del ruolo del magistrato designato, udienza, quest'ultima, che potrebbe collocarsi anche a distanza di diversi mesi dalla prima;

b) se, ai fini della disposizione, è sufficiente che il creditore dia prova di aver consegnato, entro la data suddetta, l'atto all'Ufficiale giudiziario per l'avvio del procedimento notificatorio (dovendo ipotizzarsi, in questo caso, un rinvio dell'udienza per verificare l'effettivo perfezionamento del procedimento medesimo).

La tesi del tutto prevalente, quanto alla prima questione, è nel senso che si debba avere riguardo alla data indicata nell'atto di pignoramento, senza che rilevi l'eventuale differimento dell'udienza di comparizione delle parti Trib. Ferrara 20 dicembre 2022; Trib. Caltanissetta 7 gennaio 2023; Trib. Barcellona Pozzo di Gotto 1° febbraio 2023).

Meno nette sono invece le posizioni emerse con riferimento alla questione se, ai fini della disposizione in esame, debba operare o meno il principio della scissione degli effetti della notifica.

Secondo una impostazione, che sembra preferibile, se la finalità della disposizione in esame è quella di rendere il debitore e soprattutto il terzo avvertiti della circostanza che si sia in concreto provveduto alla iscrizione a ruolo, perché, in caso contrario, essendo il pignoramento inefficace, vengono meno gli obblighi di custodia, è necessario che entro «la data dell'udienza di comparizione» la notifica sia, come si suol dire, andata a buon fine.

Una ulteriore conferma della bontà di tale interpretazione può trarsi dalla circostanza che il legislatore prevede che «entro la data dell'udienza di comparizione indicata nell'atto di pignoramento» il creditore debba non solo procedere alla notifica dell'avviso di iscrizione a ruolo ma anche al relativo deposito nel fascicolo dell'esecuzione: sembra evidente che intanto il creditore potrà assolvere all'onere di depositare l'avviso in questione in quanto lo abbia preventivamente (ed effettivamente) notificato (al debitore e) al terzo.

Per compendiare: a) il terzo è vincolato dagli obblighi di custodia a partire dalla notifica dell'atto di pignoramento; b) tali obblighi persistono, senza se e senza ma, fino alla data dell'udienza di comparizione indicata nell'atto di pignoramento; c) gli stessi continuano a persistere se, entro tale data, sia giunta a buon fine la notifica dell'avviso di iscrizione a ruolo; d) diversamente, e cioè se entro tale data non sia giunta la notifica dell'avviso ex art. 543, comma 5, c.p.c., il terzo dovrà ritenere che i suoi obblighi di custodia siano cessati automaticamente (sulla circostanza che se la declaratoria della inefficacia del pignoramento ex art. 543, comma 5, ultima parte, c.p.c. integri un provvedimento meramente ricognitivo di un effetto precostituito dalla legge – che quindi si produce a prescindere dal provvedimento stesso – si tornerà infra).

D'altro canto, anche la modifica introdotta dal Correttivo sembra confermare la tesi qui proposta, siccome, nell'(ora) unico comma dedicato all'avviso di iscrizione a ruolo, l'inciso finale si apre con l'espressione «in ogni caso», in quanto è appunto generale la previsione della cessazione degli obblighi di custodia in capo al terzo (o in capo ad uno dei terzi) laddove, entro l'udienza indicata nell'atto di pignoramento, non sia stato notificato l'avviso di cui si tratta.

Altre questioni si pongono con riferimento alle conseguenze dell'omesso deposito dell'avviso (pur in ipotesi tempestivamente notificato) nel termine indicato nella disposizione (inteso nel senso sopra chiarito).

Dal punto di vista testuale, la disposizione ricollega le medesime conseguenze all'omesso espletamento tanto dell'una (la notifica) quanto dell'altra (il deposito) attività.

Vi è chi dubita della razionalità di tale equiparazione ed effettivamente, avuto riguardo alla ratio della disposizione, così come sopra individuata, appare evidente che il solo adempimento che in concreto rileva per il conseguimento dello scopo della disposizione è quello della notifica dell'avviso (in giurisprudenza v. Trib. Catania 28 aprile 2023); è però anche vero che il dato testuale non lascia spazio ad equivoci e che quindi sia difficile praticare una interpretazione «costituzionalmente orientata» dell'art. 545, comma 5, c.p.c. che porti a circoscrivere l'operatività della «sanzione» della inefficacia al solo caso della mancata notifica (e quindi ad ammettere un deposito «tardivo» dell'avviso notificato, purché la notifica sia andata a buon fine nel termine di legge).

Altrimenti detto, non si tratta di enucleare dai vari significati possibili della disposizione quello conforme al testo costituzionale, ma di operare – in nome di una pur riscontrabile esigenza di razionalità – una sorta di disapplicazione in parte qua della disposizione medesima.

Pertanto, al limite, si tratterebbe di sollevare una questione di costituzionalità per violazione dell'art. 3, Cost.

A nostro parere, peraltro, sotto questo specifico profilo la ratio della disposizione va colta non tanto in quella sottesa alla notifica dell'atto, quanto piuttosto nell'addossare al creditore un onere di produzione documentale entro un termine da qualificarsi (anche per tale profilo) come perentorio.

Rilevante, poi, specie ai fini dell'analisi qui condotta, è lo studio delle conseguenze connesse alla produzione dell'inefficacia nonché quello dei rimedi esperibili.

Dato il tenore della disposizione può affermarsi che la inefficacia del pignoramento operi ipso iure dalla data dell'udienza di comparizione, dovendosi convenire con la dottrina che ritiene che l'intento del legislatore risulti essere stato, in definitiva, quello di «costruire l'udienza di comparizione indicata nell'atto di pignoramento come una sorta di barriera alla quale tendenzialmente si collega – in via di mero automatismo – la cessazione degli effetti del pignoramento medesimo: la data di quell'udienza rappresenta cioè il termine decorso il quale potenzialmente viene meno l'obbligo di custodia a carico del terzo».

Un simile modo di argomentare, peraltro, è conforme all'esatto apprezzamento della ratio della disposizione che, come più volte osservato, è quella di evitare che gli obblighi di custodia del terzo si protraggano a tempo indefinito ove non vi sia stata, nel termine previsto, l'iscrizione a ruolo del pignoramento (sulla quale – come si ricorderà – il legislatore era già intervenuto in passato riscrivendo l'art. 543, comma 4, c.p.c.); se invece si stimasse come necessario un provvedimento del g.e. si dovrebbe immaginare un'attività espletata dalla parte interessata in luogo del creditore (semmai ex art. 159-ter d.a. c.p.c.) al solo fine di investire il g.e. dell'istanza a tanto diretta.

In altre parole, l'eventualità che il g.e. debba pronunciare un simile provvedimento dovrebbe essere del tutto remota, dato l'automatismo dell'effetto precostituito dal legislatore in corrispondenza all'inadempimento del creditore rispetto a quanto previsto dalla novellata disposizione.

Ciò nondimeno, occorre verificare quale sia la relativa natura giuridica ove se ne rendesse necessaria l'adozione.

In dottrina, sull'assunto che la notifica in questione: a) rappresenta un adempimento necessario per la prosecuzione del processo esecutivo, trattandosi della condizione per la concreta operatività dell'obbligo di custodia da parte del terzo; b) rappresenta un adempimento conseguente a quello di cui al precedente comma 4, pure previsto a pena di inefficacia, si ritiene condivisibilmente che: 1) l'inefficacia possa essere rilevata d'ufficio (cioè anche senza una eccezione di parte), ma senza il limite temporale di cui all'art. 630, comma 2, c.p.c. (data la natura meramente ricognitiva dell'attività del g.e.); 2) che il provvedimento del g.e. sia reclamabile ex art. 630 c.p.c. (per una simile conclusione, quanto al provvedimento dichiarativo dell'inefficacia del pignoramento per omesso espletamento delle attività di cui all'art. 543, comma 4, c.p.c.: v. Trib. Milano n. 9446/2016, conf. da App. Milano n. 146/2017).

Laddove invece l'inefficacia del pignoramento non sia eccepita dal debitore o rilevata dal g.e., deve ritenersi che il terzo possa impugnare gli atti esecutivi compiuti nell'ambito del procedimento illegittimamente proseguito ai sensi dell'art. 617, comma 2, c.p.c.

3.3. L'inefficacia del pignoramento ex art. 557, comma 3, c.p.c.

La disposizione in esame prevede(va) la inefficacia del pignoramento quando la nota di iscrizione a ruolo e le copie dell'atto di pignoramento, del titolo esecutivo e del precetto sono depositate oltre il termine di quindici giorni dalla consegna al creditore.

La ratio ispiratrice della riforma – che assegna al creditore procedente l'incombente di iscrivere a ruolo il pignoramento entro un termine previsto a pena di inefficacia del pignoramento stesso – è ricavabile dai lavori preparatori del d.l. n. 132/2014 che ha modificato, per quanto qui di interesse, l'art. 557 c.p.c.

Vi si legge che «la formazione dei fascicoli esecutivi, sia mobiliari che immobiliari, costituisce da sempre il primo rilevante ‘collo di bottiglia' nell'attività dei tribunali. Le cancellerie a ciò deputate devono infatti far fronte ad un numero rilevantissimo di esecuzioni provvedendo autonomamente alla iscrizione a ruolo della procedura [...]», laddove «il personale di cancelleria adibito alle esecuzioni individuali è, però, minore di quello destinato alle sezioni civili»; peraltro, «avviene di frequente [...] che, per i motivi più disparati (pagamento satisfattivo o accordo per la rateizzazione, intervenuto successivamente al pignoramento), il creditore decida di non dare corso all'esecuzione, non depositando l'istanza di vendita, con conseguente estinzione del processo esecutivo».

In altre parole, accadeva spesso che alla formazione del fascicolo dell'esecuzione non facesse seguito, in concreto, alcuna attività esecutiva.

La soluzione a questo non trascurabile problema pratico era stata fornita, come anticipato: a) estendendo al processo esecutivo l'istituto della nota di iscrizione a ruolo (art. 159-bis d.a. c.p.c.), da trasmettere telematicamente ai sensi dell'art. 16-bis, d.l. n. 179/2012 (che prevede, a decorrere dal 30 giugno 2014, l'obbligo del deposito telematico per tutti gli atti endoprocessuali, e quindi anche per la nota di iscrizione a ruolo); b) assegnando al creditore procedente un termine (diverso a seconda della tipologia di bene pignorato) per dare impulso all'iscrizione a ruolo del processo esecutivo a pena di inefficacia dell'atto di pignoramento.

Per quanto qui di interesse, rileva evidenziare che secondo la giurisprudenza di merito, siccome «la previsione di cui all'art. 557, comma 3, c.p.c. sanziona sostanzialmente un'inattività della parte che determina l'estinzione del processo, il rimedio a disposizione del creditore non può che essere individuato nel reclamo al Collegio a norma dell'art. 630 comma 3 c.p.c.».

Controversa è invece la questione se l'inefficacia di cui al comma 3 in esame rientri anche il mancato deposito della nota di trascrizione del pignoramento (sul tema, per un esame dei vari orientamenti sul campo, si v. Auletta, Trascrizione del pignoramento; quanto alla giurisprudenza è imprescindibile il riferimento a Cass. n. 4751/2016 e, in termini divergenti, alla recente Cass. n. 6873/2024).

Sulla questione certamente incide anche il recente correttivo che ha rimediato al «disallineamento» tra il secondo e il terzo comma della disposizione, in quanto, come è noto, il secondo comma menzionava la nota di trascrizione ed il terzo (che comminava la «sanzione» dell'inefficacia) non vi faceva riferimento.

A seguito del d.lgs. n. 164/2024 «il creditore iscrive a ruolo il processo presso il tribunale competente per l'esecuzione depositando copie conformi del titolo esecutivo, del precetto, dell'atto di pignoramento e della nota di trascrizione entro quindici giorni dalla consegna dell'atto di pignoramento, a pena di inefficacia del pignoramento stesso».

Possono ipotizzarsi due letture: a) una più rigida, che, valorizzando il tenore letterale del primo alinea, giunga ad affermare che in ogni caso il mancato deposito della nota di trascrizione nei 15 gg. procura la inefficacia del pignoramento (che peraltro sarebbe una «tipica» causa di estinzione, la cui sussistenza potrebbe essere contestata solo nelle forme di cui all'art. 630 c.p.c.); b) una lettura che, valorizzando l'inciso finale del comma in questione, che continua a far salva l'ipotesi che la nota di trascrizione non sia nella immediata disponibilità del creditore procedente, laddove sia questi a curare l'adempimento della trascrizione, arrivi a ipotizzare una «deroga» alla inefficacia del pignoramento laddove la nota di trascrizione non sia depositata nei 15 gg. in quanto non consegnata unitamente all'atto di pignoramento, essendo possibile, quindi, il relativo deposito da parte del creditore non appena la stessa gli sia restituita dal conservatore dei RI e comunque non oltre (secondo quanto detto sopra) il termine per la produzione degli atti da allegare all'istanza di vendita (determinandosi, in questa prospettiva, nel caso di mancato o intempestivo deposito, una «mera» causa di improcedibilità, la cui sussistenza andrebbe contestata nelle forme di cui all'art. 617 c.p.c.).

Ipotesi «extra-codicistiche» di «chiusura anticipata» del processo esecutivo

Con riferimento alle ipotesi extra-codicistiche (senza pretesa di esaustività) vengono in rilievo i seguenti casi.

L'art. 150 del Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza (CCII), similmente a quanto prevedeva l'art. 51 l.fall., stabilisce che, salvo che per ipotesi specifiche (la principale delle quali è quella relativa all'esecuzione intrapresa dal creditore fondiario), dal giorno della dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale nessuna azione individuale esecutiva o cautelare anche per crediti maturati durante la liquidazione giudiziale, può essere iniziata o proseguita sui beni compresi nella procedura.

La disposizione in esame, come quella previgente, è diretta ad assicurare il principio del concorso dei creditori, nel senso che, atteso il carattere «globale» della procedura di liquidazione, la individuazione e soddisfazione dei crediti deve avvenire in un medesimo contesto processuale, donde l'improseguibilità dell'azioni esecutive individuali ovvero il divieto di intraprenderle dopo l'apertura della liquidazione giudiziale.

Così come l'art. 107 l.fall., così l'art. 216CCII, al comma 10, prevede che «se alla data di apertura della liquidazione sono pendenti procedure esecutive, il curatore può subentrarvi; in tale caso si applicano le disposizioni del codice di procedura civile; altrimenti, su istanza del curatore, il giudice dell'esecuzione dichiara l'improcedibilità dell'esecuzione, fermi restando gli effetti conservativi sostanziali del pignoramento in favore dei creditori».

Il divieto di azioni esecutive – come anticipato – non trova applicazione a fronte di ipotesi specifiche.

Tra queste la più rilevante è quella riguardante l'azione esecutiva c.d. fondiaria, cioè, intrapresa da un creditore che sia tale sulla base di un mutuo fondiario exartt. 38 e ss. TUB.

Sulle regole che disciplinano il «concorso» tra la procedura esecutiva individuale intrapresa dal creditore munito di tale privilegio, che ha natura processuale (Cass. n. 23572/2004), e quella concorsuale, v. Cass. n. 23482/2018.

Tali regole possono essere così sintetizzate:

1) l'attribuzione al creditore fondiario del ricavato della vendita del bene avvenuta nell'ambito dell'esecuzione individuale ha carattere provvisorio (secondo quanto già ritenuto dalla giurisprudenza a partire da Cass. n. 23572/2044 e altre successive conformi, tra cui v.: Cass. n. 8609/2007; Cass. n. 11014/2007; Cass. n. 13663/2007; Cass. n. 17638/2012; Cass. n. 6738/2014; Cass. n. 6377/2015), poiché è la procedura fallimentare la sede naturale dell'accertamento, condotto alla luce delle regole del concorso formale e sostanziale, dei crediti nei confronti del fallito e del relativo grado.

Ne consegue che:

2) il g.e. non può prescindere dai predetti accertamenti ove già avvenuti in sede fallimentare.

Ciò in quanto:

3) l'attribuzione disposta dal g.e., pur provvisoria, deve riflettere «quello che già risulti stabilito in sede fallimentare (in via definitiva o anche provvisoria)», per modo che sia neutralizzato, o comunque ridotto al minimo, il rischio che gli organi della procedura concorsuale debbano esercitare azioni di natura recuperatoria nei riguardi del creditore fondiario che, in sede di esecuzione individuale e quantunque in via del tutto provvisoria, si sia visto assegnare più di quanto gli spetti (oppure si sia visto assegnare importi quantificati senza tener conto di crediti della massa meglio collocati nella graduazione effettuata in sede concorsuale – peraltro: è sorta così, come vedremo, la vicenda contenziosa che ha portato al pronunciamento della S.C.);

4) l'ammissione al passivo del creditore fondiario rappresenta fatto costitutivo del diritto di quest'ultimo di ottenere, in sede di esecuzione individuale, l'assegnazione provvisoria di quanto spetta, laddove l'esistenza di altri crediti della massa, meglio collocati, costituisce fatto impeditivo (ovvero modificativo o estintivo) di tale diritto, ragione per la quale

5) per ottenere l'attribuzione provvisoria del ricavato della vendita «il creditore fondiario dovrà documentare al giudice dell'esecuzione di aver sottoposto positivamente il proprio credito alla verifica del passivo in sede fallimentare, cioè di aver proposto l'istanza di ammissione al passivo del fallimento e di avere ottenuto un provvedimento favorevole dagli organi della procedura (anche se non ancora divenuto definitivo)»,

6) nel mentre, se il credito non sia stato ammesso al passivo (per negligenza del creditore o perché la relativa istanza sia respinta), l'intero ricavato della vendita sarà attribuito agli organi della procedura;

7) la deduzione di questioni afferenti alla graduazione dei crediti deve avvenire su iniziativa del curatore fallimentare (il Giudice dell'esecuzione non potendo rilevarle d'ufficio) e la relativa decisione deve fondare «sulla (...) ricognizione dell'esistenza o meno di provvedimenti degli organi della procedura fallimentare che effettivamente dispongano, in modo diretto o quanto meno indiretto ma inequivoco, la suddetta graduazione» (corsivi nostri);

8) proprio per tale ragione, laddove l'istanza di ammissione al passivo sia ancora sub iudice, il Giudice dell'esecuzione (cui compete comunque il potere di liquidare le spese della procedura esecutiva innanzi a sé pendente) dovrà esercitare i propri poteri di direzione del processo esecutivo «onde garantire che la distribuzione del ricavato dalla vendita avvenga in modo corretto, all'esito dei necessari accertamenti da parte degli organi competenti in ordine alla determinazione dei relativi crediti». Il fondamento normativo di tale potere va individuato nell'art. 487 c.p.c.

Questioni si sono poste con riferimento all'applicabilità del c.d. privilegio fondiario anche in ipotesi di liquidazione controllata: difatti, l'art. 270 c.c.i.i. (che disciplina gli effetti dell'apertura di tale procedura collettiva) fa rinvio, senza limitazioni, al suddetto art. 150.

Sono emerse due letture: una che ritiene che tale rinvio riguardi anche le eccezioni al principio posto dall'art. 150 cit. ed una secondo cui invece alla liquidazione controllata sarebbe applicabile il solo divieto di azioni esecutive e non anche la clausola di riserva (e quindi le norme da essa richiamate).

Nella giurisprudenza di merito sono emerse entrambe le tesi, tanto che la questione è stata rimessa al vaglio della S.C., ex art. 363-bis c.p.c., con ordinanza del Trib. Brescia (12 aprile 2023).

La S.C., con pronuncia del 19 agosto 2024 n. 22914, ha affermato la «opponibilità» del privilegio fondiario anche nell'ambito della liquidazione controllata.

La «estinzione» della procedura per intervento della confisca c.d. antimafia (e cenni alle confische diverse). Sul punto va evidenziato che il d.lgs. n. 159/2011 (c.d. Codice antimafia) sancisce la prevalenza del procedimento di prevenzione di natura patrimoniale su quello espropriativo pendente innanzi al Giudice dell'esecuzione civile per la realizzazione delle ragioni creditorie.

L'art. 55 di tale Codice prevede che:

– il sequestro determina il divieto di procedere in via esecutiva se l'esecuzione non è ancora iniziata;

– il sequestro determina il divieto di proseguire l'azione esecutiva se questa è già stata promossa;

– la confisca – che implica l'acquisizione del bene libero da oneri e pesi (cfr. art. 45, Codice antimafia) – determina la estinzione della procedura esecutiva pendente;

– viceversa, in caso di dissequestro, l'azione esecutiva, come detto, temporaneamente improseguibile nelle more del procedimento di prevenzione, va iniziata o proseguita entro un anno dal provvedimento in questione.

La disciplina appena sintetizzata (su cui v. Auletta, Interferenze tra misura penali reali e procedure espropriative immobiliari) si applica, a seguito della riforma attuata con l. n. 161/2017, anche ai sequestri ed alle confische ex art. 240-bis (olim art. 12-sexies, d.l. n. 306/1992, conv. conv. in l. n. 356/1992), pur nella diversità ontologica delle misure ivi disciplinate (che attengono ad un procedimento penale e non ad un procedimento di prevenzione); diversità ontologica che, prima della riforma, aveva portato la giurisprudenza a dividersi in relazione al se il citato art. 55, Codice antimafia, fosse applicabile o meno in via analogica.

Si segnala che prima della suddetta riforma la questione non era univocamente risolta dalla giurisprudenza di legittimità.

In senso affermativo, v. tra le altre Cass. sez. pen., n. 26527/2014; in senso negativo v. tra le altre Cass. sez. pen., n. 10471/2014.

Come meglio si dirà in appresso la titolarità del bene in capo all'esecutato (riscontrata sulla base della sussistenza di indici formali di appartenenza, il processo esecutivo non essendo volto all'accertamento della titolarità del diritto espropriato in capo all'esecutato) costituisce condizione di procedibilità dell'azione esecutiva, onde deve ritenersi che il suo venir meno determini la improcedibilità dell'esecuzione, vale a dire la sua chiusura anticipata.

Pertanto, ove sul bene penda un sequestro c.d. antimafia (o ad esso equiparato): a) la procedura non può essere iniziata; b) la procedura non può essere proseguita laddove il sequestro sopravvenga al pignoramento.

Se nelle more interviene la confisca il processo esecutivo diviene improseguibile, onde deve ritenersi – per quanto non vi siano allo stato precedenti sul punto – che l'art. 55, Codice antimafia parli impropriamente di estinzione.

Peraltro, se quanto detto è vero con riferimento alla c.d. confisca antimafia (o altro tipo di confisca ad essa equiparata quo ad effectum), atteso il carattere di acquisto a titolo originario che con la confisca medesima di compie, la questione diviene più complessa con riferimento al (sequestro e) alla confisca cui non si applica il Codice antimafia.

In generale, è da sempre disputata la questione se tale tipo di confisca integri un acquisto a titolo originario o a titolo derivativo.

La giurisprudenza risolve la questione in modo non univoco.

Nel senso che si tratta di acquisto a titolo originario v. Cass. n. 4174/1984.

Più di recente, nel medesimo senso, v. Cass. n. 20664/2010, dove si sottolinea che l'ipoteca si estingue solo per le cause indicate nell'art. 2828 c.c.; nell'ambito della giurisprudenza di merito v. Trib. Roma, n. 15768/2008; Trib. Lucca 6marzo 1992; Trib. Palermo 24 luglio 1985.

Nel senso che si tratta di acquisto a titolo derivativo v. Cass. n. 5988/1997, che giunge alla predetta qualificazione sul rilievo che l'acquisto «non prescinde dal rapporto già esistente fra quel bene ed il precedente titolare, ma anzi un tale rapporto presuppone ed è volto a far venir meno, per ragioni di prevenzione e/o di politica criminale, con l'attuare il trasferimento del diritto dal privato (condannato o indiziato di appartenenza ad associazioni mafiose) allo Stato.

Per altro verso, è dubbio – anche per le ragioni che saranno appresso meglio indicate – se le disposizioni che prendono espressamente partito riguardo alla natura della confisca (come l'art. 45, Codice antimafia) siano applicabili al di fuori del settore con riferimento al quale sono dettate.

Ad ogni modo, ai fini che qui interessano, l'adesione all'una o all'altra tesi rileva ai soli fini della opponibilità dell'acquisto compiuto con la confisca al creditore, poiché è chiaro che la stessa sarà destinata a prevalere in ogni caso solo laddove sia intesa come acquisto a titolo originario.

La questione involge anche il tema se sia proseguibile un procedimento in relazione al quale sia intervenuto un sequestro «semplice» – per tale intendendosi un sequestro non soggetto, in via diretta o in forza di un rinvio, all'art. 55, Codice antimafia.

Nel recente passato la giurisprudenza è apparsa divisa.

Secondo un primo orientamento (che pare presupporre, pur senza affermarlo esplicitamente, il carattere a titolo originario dell'acquisto che si compie con la confisca), le esigenze di carattere penale sono destinate a prevalere in ogni caso su quelle dei creditori (Cass. n. 30990/2018; più di recente, nel senso che la confisca penale come misura di sicurezza – cioè, non di prevenzione – costituisce un acquisto a titolo originario v. Cass. n. 6068/2021).

Per altro orientamento, al di fuori del campo di applicazione del Codice antimafia, «in tema di rapporto tra sequestro e confisca in sede penale e procedimento immobiliare in sede civile con riferimento alla posizione dei terzi acquirenti, difettando specifiche disposizioni di legge che lo disciplinino, deve ritenersi che il legislatore abbia considerato ed ammesso la possibilità di una contemporanea pendenza di due procedimenti, cui consegue la possibilità di rinvenire un punto di coordinamento nel principio secondo il quale la confisca diretta del profitto, che nel caso di specie è individuato negli immobili, non può attingere beni appartenenti a persone estranee al reato». Peraltro, «tenuto anche conto del disposto dell'art. 2915 c.c., (...) l'opponibilità del vincolo penale al terzo acquirente dipende dalla trascrizione del sequestro (ex art. 104, disp. att. c.p.p.), che deve essere antecedente al pignoramento immobiliare venendo così a rappresentare il presupposto per la confisca anche successivamente all'acquisto» (Cass. sez. pen. n. 51043/2019).

Tale ultimo orientamento – seguito anche dalla giurisprudenza di merito (Trib. Matera 27 marzo 2019, che ha confermato in sede di reclamo il provvedimento adottato dal g.e.; Trib. Napoli Nord 2 giugno 2019) – ha di recente trovato conferma in una pronuncia della Cassazione civile (mentre in precedenza lo stesso orientamento era seguito dalla sola Cassazione penale).

Secondo Cass. n. 28242/2020: a) la disciplina dettata dal Codice antimafia ha carattere speciale (e quindi non è espressiva di un principio generale di prevalenza delle esigenze pubblicistiche sottese ai conferenti istituti); b) per le misure penali non riguardate, né recta via né in forza di un richiamo quoad effectum, dal predetto Codice, «si applica il principio generale della successione delle formalità pregiudizievoli nei pubblici registri».

Per quanto nel caso specifico sulla doglianza relativa all'intervenuto acquisto del bene libero da oneri e pesi, in forza del sopraggiunto provvedimento di confisca, si fosse formato il giudicato, la Corte ha incidentalmente osservato che «la statuizione [di reiezione, n.d.s.] del giudice di merito di primo grado sul punto corrisponde alla corretta applicazione dei principi della materia, se rettamente intesi».

La questione risulta – con riferimento ai sequestri ed alle confische «ordinari» – ancora irrisolta in quanto, nel recente passato, mentre la giurisprudenza civile (Cass. n. 9231/2022) ha ribadito la validità della regola dell'ordo temporalis (salva l'applicazione dell'art. 104-bis d.a. c.p.p.), la giurisprudenza penale (Cass. n. 39201/2021) ha valorizzato il riferimento contenuto nell'ultimo comma della disposizione attuativa del codice di procedura penale e del rinvio ivi contenuto all'art. 578-bis del medesimo codice che, in quanto norma di carattere generale (cioè applicantesi a tutti i tipi di sequestro e confisca), consentirebbe di estendere l'applicazione dell'art. 104-bis, comma 1-quater, d.a. c.p.p. (e quindi delle norme del Codice antimafia ivi richiamate) anche a casi non espressamente menzionati da tale disposizione.

In sostanza, il procedimento che porta all'affermazione della soggezione di questa ampia gamma di fattispecie al Codice antimafia si snoda attraverso i seguenti passaggi:

a) natura generale dell'art. 578-bis c.p.c. (così come stentoreamente affermata dalle Sezioni Unite della Cassazione);

b) richiamo al comma 1-quater da parte del comma 1-sexies (che a sua volta richiama l'art. 578-bis c.p.c., esprimendo in ciò una precisa scelta normativa in senso estensivo);

c) soggezione di tutte le misure penali alla disciplina richiamata dal comma 1-quater (ossia gli artt. 52 e ss., Codice antimafia).

Inoltre, al fine di corroborare il proprio ragionamento, si osserva che «una diversa interpretazione (...) renderebbe del tutto superfluo il comma 1-sexies dell'art. 104-bis cit., posto che già il comma 1-quater del medesimo articolo fa espresso riferimento all'art. 240-bis c.p. e alle altre disposizioni di legge che ad esso rinviano».

In conclusione, anche i sequestri e le confische «ordinarie» sarebbero riguardati in via indiretta (sebbene non attraverso un richiamo «secco», come quello contenuto nel comma 1-quater, ma, per così dire, «doppio», frutto di una tecnica normativa obiettivamente foriera di equivoci) dal Codice antimafia.

L'orientamento in questione ha portato una parte della giurisprudenza di merito a rivedere il proprio pregresso orientamento (imperniato sull'applicazione della regola dell'ordo temporalis) con riguardo ai sequestri ed alle confische «semplici» (Trib. Napoli Nord 22 novembre 2021).

In senso contrario, si v. Trib. Napoli 26 aprile 2022.

Sui nodi ancora irrisolti, si v. Auletta, Ancora oscillazioni giurisprudenziali sui rapporti tra procedure esecutive individuali e misure penali reali.

La regola della prevalenza delle misure penali reali sulle procedure esecutive (quanto meno collettive) è ora posta in termini generali dagli artt. 317 e ss. CCI.

Sul punto, benché relativa ad una vicenda ratione temporis non soggetta al vigore del CCI, appare rilevante il contributo dato da Cass. S.U., n. 40797/2023, ove si è chiarito che, quantunque le nuove disposizioni non trovino applicazione rispetto alle fattispecie pregresse, le stesse appaiono espressive di una chiara linea di tendenza nel senso sopra indicato.

Inefficacia del pignoramento presso terzi nei confronti di enti previdenziali quando dal compimento del primo atto dell'esecuzione sia trascorso un anno senza che sia intervenuta l'assegnazione. Rileva l'esame dell'art. 14, comma 1-bis, d.l. n. 669/1996.

Si rinvia al commento della menzionata disposizione.

Divieto di esecutive contro le ASL in tempo di COVID.

Si rinvia al commento dell'art. 117, comma 4, d.l. n. 34/2020.

Improcedibilità dell'esecuzione esattoriale per carenza delle condizioni previste dall'art. 76, d.P.R. n. 602/1973. L'art. 76 dètta le condizioni di procedibilità dell'azione esecutiva immobiliare.

La norma è stata oggetto, nel tempo, di numerosi rimaneggiamenti.

In particolare, dapprima è stata interamente riscritta per effetto del d.lgs. n. 46/1999; di poi il comma 1 è stato successivamente modificato dal d.lgs. 193/2001, dal d.l. n. 203/2005 (convertito in l. n. 248/2005), dal d.l. n. 70/2011 (convertito in l. n. 106/2011), dal d.l. n. 16/2012 (convertito in l. n. 44/2012) e, infine, interamente riscritto per effetto del d.l. n. 69/2013 (c.d. decreto del fare); analoga (cioè altrettanto intricata) evoluzione ha riguardato il comma 2 (modificato dal d.l. n. 70/2011, dal d.l.n. 16/2012 e infine dal d.l. n. 69/2013) e il comma 3 (modificato dal d.l. n. 70/2011 e, infine, dal d.l. n. 50/2017) della disposizione in commento.

Allo stato attuale, l'art. 76, cit. pone le seguenti condizioni di procedibilità dell'azione esecutiva:

i) non può essere pignorata la c.d. prima casa (sempreché non si tratti di abitazione «di lusso»);

ii) non può procedersi a esecuzione forzata immobiliare per il recupero di crediti di importo inferiore o uguale ai centoventimila euro;

iii) è necessario che sul bene sia iscritta ipoteca da almeno sei mesi (ma questo non implica che l'ipoteca, che potrebbe non essere seguita dal pignoramento, debba essere preceduta dall'avviso di mora, non trattandosi di un atto del procedimento esecutivo).

iv) non può procedersi a esecuzione forzata immobiliare quando il valore dei beni da pignorare (dedotte le passività relative alle iscrizioni ipotecarie di grado poziore) sia inferiore ai centoventimila euro.

v) È rimasta per ora non operativa la causa di impignorabilità prevista dalla lett. a-bis) dell'art. 76, comma 1: non è stato adottato il decreto ministeriale diretto alla individuazione dei «beni essenziali».

Per ogni approfondimento si rinvia al commento alla disposizione in esame.

Ipotesi di chiusura anticipata elaborate in via pretoria

Per quanto attiene al formante giurisprudenziale, vanno citate le seguenti ipotesi.

Perimento o inesistenza giuridica del bene pignorato. L'esecuzione va dichiarata improcedibile per perimento o inesistenza originaria del bene pignorato (v. Trib. Salerno 19 dicembre 2002) sia per eventi naturalistici o fattispecie giuridiche ablative (si pensi alla acquisizione al patrimonio comunale ex art. 31, Testo unico dell'edilizia).

Riguardo a tale ipotesi, va osservato che, di massima, si esclude che il bene (anche completamente) abusivo sia impignorabile.

Ciò rappresenta una conseguenza della diversificazione – sotto il profilo del regime giuridico – delle c.d. nullità urbanistiche quanto alle vendite inter privatos rispetto a quelle forzate (arg. ex art. 46, ultimo comma, d.P.R. n. 380/2001) [in dottrina, sul punto sia consentito rinviare ad Auletta A., L'evoluzione giurisprudenziale sulle nullità urbanistiche (...), laddove si richiama anche la recente tendenza giurisprudenziale a considerare sostanziale e non solo formale la nullità comminata ai sensi del primo comma dell'art. 46, cit., che, come detto, non si applica alle vendite forzate].

Il carattere abusivo dell'opera incide sulla determinazione del valore da porre a base d'asta.

Laddove sia invece intervenuto il provvedimento di acquisizione, è largamente diffuso (e trova corrispondenza anche in un precedente della giurisprudenza di legittimità: Cass. n. 1693/2006) l'orientamento dei Tribunali secondo cui l'esecuzione diventa improcedibile, data la sopravvenuta indisponibilità del bene che ne rappresenta l'oggetto.

In particolar modo, l'acquisto compiuto dal Comune è da qualificare come acquisto a titolo originario, onde – anche a prescindere dalla data di trascrizione del relativo provvedimento, che ha pur sempre efficacia solo dichiarativa e non costitutiva, secondo le regole generali – l'esecuzione va dichiarata, in tutto o in parte, improcedibile (tra le tante v. Trib. Napoli 23 gennaio 2016; Trib. Napoli Nord 24 gennaio 2018/o.).

Invero, secondo un recente orientamento della giurisprudenza amministrativa, «l'ingiustificata inottemperanza all'ordine di demolizione comporta la automatica acquisizione gratuita al patrimonio disponibile del Comune (...)», mentre «l'accertamento di tale inottemperanza è necessario unicamente per provvedere all'iscrizione nei registri immobiliari ed all'immissione in possesso, per cui il relativo atto ricognitivo è normativamente configurato come un atto avente natura meramente dichiarativa, finalizzato al limitato scopo di eternare e formalizzare l'acquisto a titolo ordinario della proprietà in capo all'amministrazione, che si è già prodotto con il mero decorso del tempo», così come accertato nel medesimo verbale di inottemperanza (Cons. St. IV, n. 398/2019; Cons. St. IV, n. 1884/2015).

Questo sembrerebbe implicare come conseguenza che anche a fronte della mera inottemperanza all'ordine di demolizione (debitamente verbalizzata) si sia già verificato l'effetto acquisitivo, con conseguente improcedibilità dell'esecuzione.

Rileva segnalare un orientamento minoritario – gli argomenti a fondamento del quale sono però meritevoli di considerazione – secondo cui l'acquisizione gratuita al patrimonio del Comune non determina senz'altro l'improseguibilità dell'azione esecutiva (Trib. Napoli 3 aprile 2016/o.).

Mentre prendeva piede l'opinione secondo cui l'intervenuta acquisizione ex art. 31 d.P.R. n. 380/2001 implicasse l'improcedibilità dell'esecuzione in ogni caso (il provvedimento determinando un acquisto a titolo originario del bene), la Corte costituzionale, intervenuta a seguito della rimessione da parte delle Sezioni Unite, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 31, comma 3, primo e secondo periodo, del d.P.R. n. 380 del 2001, nella parte in cui non fa salvo il diritto di ipoteca iscritto a favore del creditore, non responsabile dell'abuso edilizio, in data anteriore alla trascrizione nei registri immobiliari dell'atto di accertamento dell'inottemperanza alla ingiunzione a demolire (Corte cost. n. 160/2024).

Constatazione dell'assenza di titolarità in capo al debitore esecutato del bene assoggettato a pignoramento. Sul punto è necessario fare alcune precisazioni.

La giurisprudenza, in primo luogo, si è occupata dell'ipotesi in cui l'azione esecutiva sia intentata contro il «trust in persona del trustee, quale terzo proprietario».

Il Tribunale di Reggio Emilia (Trib. Reggio Emilia 25 marzo 2013), investito della questione, ha ritenuto che:

a) l'azione esecutiva proposta e coltivata contro il trust attinge un «soggetto inesistente», la qual cosa è rilevabile d'ufficio dal Giudice dell'esecuzione;

b) l'esecuzione è quindi improcedibile;

c) va ordinata la cancellazione della trascrizione del pignoramento effettuata «contro» il trust.

In specie, siccome la dottrina è unanime nell'escludere che il trust abbia una propria personalità giuridica e che il trustee sia una sorta di organo di tale (inesistente) persona giuridica, per il Tribunale di Reggio Emilia, nel caso che interessa, non viene in rilievo «un errore meramente terminologico, ma concettuale»; errore che determina «un problema circa la corretta instaurazione del rapporto processuale nella procedura espropriativa, questione che attiene alla legittimazione (passiva) dell'esecutato (ed è ovvio che l'avvio di un processo contro un esecutato inesistente possa proseguire)».

D'altro canto, in tale occasione si è osservato che il g.e. ha osservato che «la mancanza di una valida trascrizione del pignoramento determina l'estinzione (atipica) del processo esecutivo», in quanto – come rilevato da Cass. n. 17637/2011 – «la trascrizione è l'elemento necessario per consentire al pignoramento immobiliare di esplicare tutti i suoi effetti per cui non si può dare seguito ad una istanza di vendita proposta rispetto ad un bene per il quale sia venuto meno il requisito della trascrizione del pignoramento».

La Corte di cassazione (Cass. n. 2043/2017) ha confermato il provvedimento gravato e, quindi, ha condiviso la traiettoria argomentativa del g.e. emiliano.

Rilevanti le considerazioni che, dal punto di vista sistematico, puntellano la ratio decidendi.

Quanto alla rilevabilità d'ufficio della improcedibilità di una esecuzione che origini da un pignoramento integrante una fattispecie giuridicamente impossibile e quindi insanabilmente nulla «per impossibilità di identificare un soggetto esecutato giuridicamente possibile», la Cassazione:

– chiaramente ricollega il potere/dovere del g.e. di valutare la sussistenza delle «imprescindibili condizioni dell'azione esecutiva e presupposti del processo esecutivo, quelli cioè in mancanza – anche sopravvenuta – dei quali quest'ultimo non può con ogni evidenza proseguire o raggiungere alcuno dei suoi fini istituzionali e va chiuso anticipatamente» al «superiore interesse della regolarità delle operazioni dell'ufficio giurisdizionale, dal quale gli estranei sollecitati a coinvolgersi nel processo – come i potenziali aggiudicatari (...) – devono potersi attendere affidabilità ed attendibilità»;

– conclude nel senso che «la vendita per la quale si insta sarebbe ab origine caduca, tale da riversare sul potenziale incolpevole aggiudicatario un'interminabile serie di problemi particolarmente complessi, per fare fronte ai quali è obiettivamente aleatoria la garanzia per evizione pure incombente al creditore, sicché si vanificherebbe l'esigenza dei tutela dell'affidamento sulla ritualità del trasferimento, che una vendita comunque proposta e gestita da un ufficio pubblico particolarmente qualificato, quale il giudice delle esecuzioni, normalmente susciterebbe».

In sintesi, l'assicurazione della stabilità della vendita forzata viene assunta a finalità essenziale ed imprescindibile del processo esecutivo per espropriazione, per modo che un evento – anche sopravvenuto – che possa inficiare la vendita, rendendola caduca o riversando sull'aggiudicatario problemi non prevedibili e di difficile soluzione, giustifica la chiusura anticipata del processo.

Quanto alla ritenuta nullità (anche) della trascrizione del pignoramento (per incertezza del soggetto passivo dell'esecuzione), la S.C. evidenzia che «le esigenze di rigore formale che permeano il regime di pubblicità immobiliare non consentono di interpretare il pignoramento e la relativa nota di trascrizione come riferiti, anziché al trust in persona del trustee, a quest'ultimo di persona, ma in detta specifica qualità».

In specie, la continuità delle trascrizioni «presuppone l'esistenza dei soggetto (e dei beni) cui esse si riferiscono, tanto che, in difetto di corrette generalità identificative, non si producono effetti nei confronti dei terzi ed a favore di chi la formalità esegue».

Al contrario, non compete «alla sede del processo di esecuzione o a quella della successiva opposizione agli atti esecutivi la cognizione della relativa controversia in via principale, solo spettando ai giudici dell'uno o dell'altra una delibazione della non correttezza per il rilievo dell'inesistenza del soggetto che in base alla primitiva formalità sarebbe divenuto titolare dei diritti poi pignorati: ciò a cui almeno il primo si è correttamente limitato».

Sulle implicazioni di tale tesi sul tema della trascrizione del pignoramento v. Auletta A., Trascrizione del pignoramento ed ivi altri riferimenti.

Il tema si collega, evidentemente, all'ipotesi in cui non siano stati acquisiti, agli atti del procedimento, sufficienti indici di appartenenza del bene pignorato al debitore (altrimenti detto in questo caso la questione riguarda l'oggetto dell'azione esecutiva e non il soggetto, come nel caso esaminato sopra).

Una recente pronuncia della Corte di cassazione è intervenuta a chiarire la portata e la natura di tale «accertamento», compiuta dal G.E. sulla scorta della documentazione allegata all'istanza di vendita ex art. 567, comma 2, c.p.c. (Cass. n. 15597/2019).

In particolare, si è osservato che «la verifica della titolarità dei beni è formale, per indici documentali, e non sostanziale, essendo autoevidente che l'accertamento giudiziale dell'appartenenza del bene all'esecutato non costituisce presupposto dell'espropriazione forzata in parola, e il decreto di trasferimento a valle non contiene quell'accertamento».

Ora, la disposizione di cui all'art. 567, comma 2, c.p.c. richiede che dalla documentazione ipocatastale o, più verosimilmente dalla certificazione notarile sostitutiva, emergano le iscrizioni e le trascrizioni relative all'immobile pignorato nei vent'anni anteriori alla trascrizione del pignoramento.

La questione che si pone è se ciò sia sufficiente o se sia invece necessario che da tale documentazione emerga il primo atto anteventennale utile a saldare la continuità delle trascrizioni.

Si tratta di un problema di non poco momento, atteso che, sul punto, le prassi dei Tribunali erano (e in parte sono ancora) diversificate.

Secondo una lettura «efficientista», anche se manca la indicazione di tale atto ultraventennale si può procedere alla vendita del bene.

Per altra lettura, è invece assicurare la continuità delle trascrizioni.

La Cassazione ha avallato tale ultima lettura, con importanti ricadute applicative quanto al regime della estinzione (in senso lato) pronunciata dal g.e. ove il creditore procedente non abbia ottemperato alla richiesta di integrare la documentazione attraverso la indicazione del primo atto anteventennale, ai fini suddetti.

In linea di premessa, la S.C. rileva che «affinché la vendita giudiziaria sia fruttuosa e la relativa istanza possa essere accolta, i beni oggetto dell'espropriazione devono potersi ragionevolmente rilevare come appartenenti al debitore ovvero al terzo nei confronti del quale, eccezionalmente, può essere intrapresa la procedura (Cass. n. 11638/2014, pagg. 6-7), come può evincersi dall'art. 2910 c.c., che contempla i poteri espropriativi del creditore in relazione alla responsabilità sussistente in capo al debitore con i suoi beni ex art. 2740 c.c.».

Tale principio, peraltro, «può desumersi anche dalla disciplina del conflitto tra il terzo proprietario e l'aggiudicatario di bene non appartenente all'esecutato. Questo conflitto andrà risolto a favore del terzo proprietario, come dimostra proprio il regime dell'evizione nella vendita forzata (art. 2921 c.c.): il terzo proprietario può rivendicare il bene nei confronti dell'aggiudicatario anche dopo la chiusura del processo esecutivo, senza che possa operare la «sanatoria» prevista dall'art. 2929 c.c.».

Pertanto, «lo scopo attribuibile alla norma non può quindi essere che quello di garantire, con un grado di ragionevole probabilità, che l'espropriazione sia condotta su beni dell'esecutato, correttamente individuati quanto ai diritti spettanti sui medesimi all'esecutato stesso, e quanto ai relativi pesi, quali tipicamente le ipoteche, su tali beni (ovvero diritti)».

Di conseguenza, ad avviso della S.C.: 1) è necessario considerare cioè «che, in carenza di prova che l'ultimo atto antecedente al ventennio fosse idoneamente ovvero prioritariamente trascritto a favore dell'esecutato, i certificati delle iscrizioni e trascrizioni contro la sua persona non avrebbero concludenza: le risultanze della sola documentazione prodotta nel senso della mancanza di ipoteche e pignoramenti o sequestri contro l'esecutato non sarebbero idonee ad escludere che sul bene pignorato insistano ipoteche o altri pignoramenti o sequestri formalizzati contro la persona che aveva a sua volta trascritto il proprio acquisto prima dell'esecutato»; 2) similmente «se, pur essendo l'atto di acquisto anteriore al ventennio idoneamente trascritto a favore dell'esecutato, questi avesse prima del ventennio, in tutto o in parte, disposto del diritto con idonea trascrizione della disposizione anch'essa anteriore al ventennio, si avrebbe che per i certificati relativi al solo ventennio l'esecutato risulterebbe ancora titolare dell'intero diritto pignorato»; 3) inoltre, «all'ultimo acquisto anteriore al ventennio è necessario risalire [...] quando la trascrizione a favore dell'esecutato, o, come nella fattispecie in scrutinio, di un suo dante causa, ricada nel ventennio. Ciò, da un lato, per verificare se vi sia continuità delle trascrizioni e dunque, possibilità di presumere operanti – nella limitata prospettiva della ragionevole affidabilità della vendita – le regole in tema di prescrizione acquisitiva in favore dell'esecutato o di quella estintiva in relazione ad eventuali iscrizioni pregiudizievoli; dall'altra, poiché i nomi dei danti causa dell'esecutato sono necessari in quanto è anche contro di essi che occorrerà verificare se siano trascritte formalità pregiudizievoli ovvero iscritte ipoteche».

Sulla scorta di tali premesse, la S.C. ritiene di non condividere «l'opinione ai termini della quale, a seguito delle riforme sopra più volte ricordate, la lettera della legge, per come modificata con il richiamo ai certificati delle iscrizioni e trascrizioni effettuate nei venti anni anteriori, sarebbe tale da indurre a ritenere sufficiente la certificazione ventennale, quale mero presupposto processuale di per sè solo idoneo a consentire di mettere in vendita i beni oggetto di pignoramento».

In definitiva, «risalire all'ultimo acquisto, idoneamente trascritto, anteriore al ventennio, a favore dell'esecutato o dei suoi danti causa, è la necessaria premessa per dare un grado di conducente attendibilità alle risultanze infraventennali cui, per sintesi legislativa, si è riferito il legislatore».

La finalità di tale indagine è, come anticipato, duplice: a) verificare che non vi sono trascrizioni opponibili contro il soggetto che, chiudendo l'anello sovrastante della catena, risulta aver acquistato il bene poi da lui trasferito, in ipotesi, senza relative trascrizioni contro in catena, fino al soggetto esecutato; b) rilevare quali siano, nel periodo di almeno venti anni in parola, le iscrizioni contro gli stessi soggetti via via succedutisi, relativamente al medesimo bene.

Secondo la Cassazione, «sarà possibile raggiungere la conclusione in parola solo chiudendo la catena con l'individuazione dell'anello iniziale che permetta di offrire un attendibile indizio documentale riferito a un periodo di almeno venti anni, in tal senso dovendo qualificarsi l'esigenza imposta dalla legge».

Siccome la necessità di acquisire documentazione che consenta di risalire all'atto di acquisto anteriore al ventennio, va rapportata ai consueti poteri ordinatori del g.e. in ordine alle verifiche preliminari propedeutiche all'accoglimento dell'istanza di vendita (secondo quanto già ritenuto da Cass. n. 2043/2017), laddove il creditore procedente non abbia ottemperato all'orine impartito dall'Ufficio a tale scopo, non si darà luogo alle conseguenze di cui all'art. 567 c.p.c.

Piuttosto, la mancata produzione del primo titolo di acquisto ultraventennale cui deve risalire la certificazione, va ricondotta all'ambito applicativo degli artt. 484 e 175 c.p.c.

Pertanto, il regime del relativo termine fissato per l'acquisizione documentale indicata sarà quindi quello ordinatorio di cui agli artt. 152 e 154 c.p.c. (Cass. n. 2044/2017) e il creditore potrà creditore procedente, in applicazione dei generali principi in tema di rimessione in termini in ipotesi di causa non imputabile, dimostrare l'impossibilità incolpevole della produzione della documentazione sub b), specie nella prospettiva quando le ricerche dell'atto ultraventennale siano rese particolarmente complesse dal carattere risalente dello stesso.

Se il termine non viene osservato, il g.e., potrà nell'esercizio del potere di cui all'art. 484 c.p.c., disporre la chiusura anticipata del processo.

È quindi chiaro che la chiusura anticipata del processo esecutivo, non essendo possibile porre in vendita il bene, sarà pronunciata non in base all'art. 567 c.p.c. (estinzione c.d. tipica) quanto piuttosto in base alle norme appena menzionate, dandosi luogo ad una estinzione c.d. atipica o, più correttamente, ad una chiusura anticipata del processo, contestabile nelle forme di cui all'art. 617 c.p.c. anziché in quelle del reclamo ex art. 630 c.p.c. (rimedio tipico riguardo ai provvedimenti dichiarativi dell'estinzione del processo esecutivo propriamente detti).

È importante chiarire che dell'attività di produzione documentale sopra indicata è onerato il procedente, il che dovrebbe condurre ad escludere che della ricerca e della produzione di tali atti debba essere onerato l'esperto stimatore (come previsto in via di prassi da molti Tribunali).

Accertamento della insussistenza del diritto di procedere in executivis. In questo senso, va segnala la giurisprudenza – di merito e di legittimità – riguardante la «sorte» dell'esecuzione forzata in caso di caducazione del titolo o di accoglimento dell'opposizione all'esecuzione.

Nell'ambito della giurisprudenza di merito, Trib. Salerno 26 settembre 2002 ha ritenuto che l'accoglimento dell'opposizione a decreto ingiuntivo, stante la natura non meramente dichiarativa della pronuncia in questione, determini la «caducazione» degli atti esecutivi compiuti sulla scorta del d.i. provvisoriamente esecutivo.

Sul punto si osserva che «se non bastasse un'interpretazione sistematica dell'istituto, può essere utile un'interpretazione a contrario dell'art. 653 cpv. c.p.c., norma che, appunto, fa salvi gli atti esecutivi già compiuti, nei limiti in cui sia riconosciuto il diritto. Di conseguenza, essendo – con l'accoglimento totale dell'opposizione – tale diritto riconosciuto in misura nulla, la validità di quelli va ammessa del pari in misura nulla: dovendo persistere la validità e l'efficacia del titolo sino al momento del compimento dell'esecuzione (...)».

Tanto comporta – ripetesi, producendosi già con la sentenza di primo grado che accoglie l'opposizione l'effetto del venir meno del titolo e quindi (a maggior ragione) del titolo esecutivo – che l'intera esecuzione, fondata sul detto titolo esecutivo, ormai caducato, deve qualificarsi illegittima.

Nell'ambito della giurisprudenza di legittimità, si segnala l'orientamento tradizionale secondo cui l'accoglimento dell'opposizione all'esecuzione determina l'estinzione del processo esecutivo (se non vi sono altri creditori che intendano proseguirlo e ciò determina la cessazione della materia del contendere con riferimento alle opposizione agli atti esecutivi eventualmente proposte atteso che il relativo scopo è quello di ottenere una sentenza destinata a produrre effetti solo sul corso del processo medesimo, nel cui ambito l'insorto incidente cognitivo è d'uopo rimuovere affinché la esecuzione possa ritualmente proseguire: Cass. n. 4492/2003).

Nondimeno, un limite a tale meccanismo è stato individuato nell'esigenza di tutelare l'aggiudicatario.

Sul punto si segnala la pronuncia delle Sezioni Unite (già ricordata prima) secondo cui «il sopravvenuto accertamento dell'inesistenza di un titolo idoneo a giustificare l'esercizio dell'azione esecutiva non fa venir meno l'acquisto dell'immobile pignorato, che sia stato compiuto dal terzo nel corso della procedura espropriativa in conformità alle regole che disciplinano lo svolgimento di tale procedura, salvo che sia dimostrata la collusione del terzo col creditore procedente. In tal caso, tuttavia, resta salvo il diritto dell'esecutato di far proprio il ricavato della vendita e di agire per il risarcimento dell'eventuale danno nei confronti di chi, agendo senza la normale prudenza, abbia dato corso al procedimento esecutivo in difetto di un titolo idoneo» (Cass. S.U., n. 21110/2012).

In dettaglio, la S.C. ha affrontato la questione se l'inesistenza del titolo esecutivo, accertata all'esito di un giudizio di opposizione all'esecuzione, travolga o meno l'acquisto dell'immobile pignorato compiuto dal terzo di buona fede nel corso della procedura espropriativa.

Osserva la Corte che «ci si trova qui in presenza di un conflitto tra due posizioni giuridiche, quella di chi ha subito un procedimento di esecuzione forzata, che non avrebbe dovuto aver luogo, e quella di chi, in buona fede, ha acquistato l'immobile in base ad una procedura svoltasi secondo canoni legali apparentemente ineccepibili: posizioni entrambe in astratto meritevoli di tutela e, tuttavia, tra loro inconciliabili. Occorre perciò indagare sul come il legislatore ha inteso dirimere tale contrasto, cioè su quale dei due interessi contrapposti egli ha reputato meritevole di maggior tutela, verificando se e quali elementi siano a tal fine individuabili nella trama dell'ordinamento giuridico».

In primo luogo, viene in rilievo l'art. 2929 c.c. he, salvo il caso di collusione tra il creditore procedente e l'acquirente o l'assegnatario del bene pignorato, fa espressamente salvo il diritto di quest'ultimo pure se sussistano cause di nullità che abbiano colpito gli atti esecutivi precedenti la vendita o l'assegnazione.

La S.C. evidenzia che l'interpretazione di questa norma non è pacifica.

Difatti, l'impostazione un tempo prevalente era nel senso «che quella norma trovi applicazione quando sia venuto in discussione il quomodo dell'esecuzione, a seguito di un'opposizione agli atti esecutivi riconducibile al paradigma dell'art. 617 c.p.c., e non invece quando sia emersa l'inesistenza del diritto stesso del creditore procedente ad agire in executivis, come avviene nel caso dell'opposizione all'esecuzione disciplinata dall'art. 615 c.p.c. (si veda già, in tal senso, l'esplicita affermazione contenuta nella motivazione di Cass. n. 1768/1967, e tra le altre, più di recente, Cass. n. 21439/2004, e Cass. n. 3531/2009)», mentre per altro verso «si esclude che la menzionata disposizione dell'art. 2929 possa entrare in gioco quando la nullità riguardi proprio la vendita o l'assegnazione, sia che si tratti di vizi che direttamente la concernono, sia che si tratti di vizi che rappresentano il riflesso della tempestiva e fondata impugnazione di atti del procedimento esecutivo anteriori ma necessariamente prodromici (si veda, ex multis, Cass. n. 13824/2010)».

Peraltro – proseguono le S.U. – «non sono però mancate (...) pronunce che, pur confermando la convinzione secondo cui il citato art. 2929 si riferirebbe unicamente all'ipotesi di vizi formali degli atti esecutivi precedenti l'aggiudicazione o l'assegnazione del bene pignorato, hanno ritenuto che ciò non impedisca di postulare la salvezza dei diritti dell'aggiudicatario o del terzo assegnatario di buona fede anche in caso di vizi afferenti al titolo esecutivo: sia in virtù di un generale principio di tutela dell'affidamento incolpevole, inerente all'ordinamento, sia in considerazione dell'esigenza di non scoraggiare preventivamente i potenziali concorrenti all'acquisto dei beni posti in vendita nell'ambito delle procedure di esecuzione forzata».

Il Collegio, dopo aver richiamato alcuni precedenti in termini e alcune riforme ispirate dal medesimo obiettivo di tutela (dell'affidamento dell'aggiudicatario incolpevole: su tutte quella relativa alla introduzione dell'art. 187-bis d.a. c.p.c., al cui commento si rinvia, supra), propende per il secondo dei descritti orientamenti.

Ad avviso della S.C. «il difetto di un idoneo titolo esecutivo – che lo si accerti all'esito di un giudizio di opposizione all'esecuzione o che si ammetta la possibilità di rilevarlo d'ufficio nell'ambito stesso del processo esecutivo – non si traduce in un vizio del procedimento, bensì nella mancanza del diritto del preteso creditore ad agire in executivis. Coloro che amano porre in parallelo il processo di cognizione e quello di esecuzione, adoperando anche per quest'ultimo gli apparati concettuali e la terminologia tipici del primo, configurano l'esistenza di un valido titolo esecutivo come una condizione dell'azione esecutiva, e ne deducono che essa deve permanere per l'intera durata di detta azione, destinata altrimenti a divenire improcedibile. Ma, come nel processo di cognizione la mancanza del diritto fatto valere dall'attore non si confonde certo con i possibili vizi di nullità del procedimento azionato per l'accertamento e la tutela di quel diritto, così nel processo esecutivo il difetto di un idoneo titolo vale ad escludere il diritto di agire esecutivamente ma, in quanto tale, non si lascia definire in termini di nullità degli atti in cui il procedimento consiste».

Da tanto si trae la seguente conseguenza: se è vero che «la nullità degli atti esecutivi cui allude il citato art. 2929 non può confondersi con l'accertata mancanza di un idoneo titolo esecutivo, non pare corretto farne discendere la conclusione che, in quest'ultima situazione, il diritto del terzo acquirente o aggiudicatario debba restare necessariamente travolto».

Ed infatti «la mancanza del diritto ad agire condiziona l'esito del procedimento ma non rende nulli gli atti attraverso i quali esso si è esplicato. Ciò significa che il terzo acquirente o assegnatario del bene pignorato, il quale è estraneo al rapporto intercorrente tra il preteso creditore e l'esecutato, deriva il suo diritto da un atto – o meglio, da una sequela di atti culminanti nel decreto di trasferimento – la cui validità non è qui in discussione. La vendita forzata produce un trasferimento per atto tra vivi, operante sul piano del diritto sostanziale, sotto molti aspetti (pur con le note differenze di regime) assimilabile alla compravendita negoziale (art. 2919 c.c.). Quando essa si sia perfezionata, nell'ambito del procedimento giudiziale che la prevede ed in conformità alle regole di quel procedimento, i suoi effetti non sono retrattabili, a meno d'individuare vizi propri dell'atto di trasferimento o della sequenza di atti che necessariamente lo precedono e che ad esso ineriscono (ed è a questo riguardo, come s'è visto, che opera la speciale disciplina delineata dall'art. 2929 c.c.). Al di fuori di tale ipotesi, il terzo acquista bene, perché l'atto dal quale egli deriva il suo diritto, nel momento in cui interviene, si configura come un atto perfettamente legittimo e regolare».

La Corte peraltro opera due precisazioni:

1) la salvezza dei diritti acquisiti dal terzo aggiudicatario o assegnatario, pur se fondata sull'autonomia dell'acquisto, rispetto agli ulteriori sviluppi ed all'esito finale del processo esecutivo nel cui ambito esso è intervenuto, non può realizzarsi ove ricorra una dimostrata situazione di collusione del terzo e del creditore procedente in danno dell'esecutato (o in qualsiasi altro caso di uso illecito da parte dell'acquirente del subprocedimento di vendita coattiva);

2) la tutela che l'ordinamento assicura alla posizione del terzo aggiudicatario o assegnatario, pur quando la vendita coatta abbia avuto luogo nell'ambito di una procedura esecutiva che risulti poi essere stata promossa in difetto di titolo idoneo, non comporta che resti priva di difese e del tutto sacrificata la contrapposta posizione del debitore esecutato.

A parte la possibilità di evitare la vendita chiedendo tempestivamente al giudice di sospendere l'esecuzione, è ovvio che, quando la sospensione non sia stata possibile o comunque non sia stata concessa, all'esecutato vittorioso nel giudizio di opposizione non soltanto compererà il ricavato della vendita ma si offrirà anche la possibilità di agire per il risarcimento degli eventuali danni nei confronti del creditore che colposamente – ossia senza la normale prudenza richiamata dal comma 2 dell'art. 96 c.p.c. – abbia agito in executivis non avendone titolo.

È importante notare che, secondo ormai costante giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 11241/2022 e prima di essa Cass. n. 15605/2017): a) laddove il g.e., nell'esercizio dei propri poteri officiosi, dichiari l'improcedibilità dell'esecuzione, la relativa decisione va impugnata con l'opposizione agli atti esecutivi e non con il reclamo ex art. 617 c.p.c.; b) laddove il rilievo della improcedibilità sia «occasionato» dalla proposizione di una opposizione all'esecuzione (con annessa domanda di sospensione), il g.e. – parimenti – deve disporre la chiusura anticipata del processo (e disporre la liberazione dei beni pignorati), risultando assorbito l'interesse alla decisione della sospensiva, ed assegnare i termini per l'introduzione del giudizio di merito: anche questo provvedimento sarà impugnabile esclusivamente con l'opposizione agli atti esecutivi e non con il reclamo; c) va escluso che l'improponibilità del reclamo sia suscettibile di sanatoria mediante «conversione» in opposizione agli atti esecutivi e ciò per la dirimente considerazione che il rimedio offerto dall'art. 617 c.p.c. va introdotto con ricorso al g.e., il quale «deve essere necessariamente (oltre che tempestivamente) investito dell'atto di opposizione».

Accertamento dell'avvenuta soddisfazione del creditore procedente e dei creditori intervenuti. È dubbio che in questo caso venga in rilievo una ipotesi di «chiusura anticipata del processo esecutivo», espressione che, secondo la dottrina, ricomprende «icasticamente ogni possibile ipotesi in cui il processo esecutivo, con qualunque formula o per qualunque causa, non giunga al suo compimento» (De Stefano, spec. in nota 88).

In un primo momento la Cassazione (Cass. S.U., n. 413/1983) ha affermato che il rimedio esperibile avverso il provvedimento che dichiari la «estinzione» del processo per avvenuto pagamento dei creditori è l'opposizione agli atti esecutivi e non il reclamo ex art. 630 c.p.c.

Più di recente, tuttavia, si v. Cass. n. 6837/2015, secondo cui «l'adempimento del credito per cui il creditore agisce in sede esecutiva, infatti, comporta l'estinzione della relativa obbligazione e quindi il venir meno del diritto di credito per il quale l'esecuzione è stata iniziata, ma di certo non comporta l'estinzione del processo esecutivo. L'attività esecutiva che prosegua malgrado il detto adempimento è, in sè, ingiusta e può tutt'al più comportare la responsabilità del creditore procedente ai sensi dell'art. 96 c.p.c., comma 2, ma non comporta l'invalidità degli atti esecutivi compiuti, fintantoché il creditore procedente non rinunci formalmente al processo esecutivo determinandone l'estinzione ovvero il debitore esecutato non faccia valere la sopravvenuta estinzione del diritto di credito posto a fondamento dell'azione esecutiva proponendo un'opposizione all'esecuzione ai sensi dell'art. 615 c.p.c., comma 2».

Altrimenti detto, l'intervenuta integrale soddisfazione del creditore onera quest'ultimo a rinunciare alla prosecuzione del processo esecutivo ma non ha, di per sé, l'effetto di determinare la chiusura anticipata dello stesso; in caso di prosecuzione del processo esecutivo malgrado l'incasso del dovuto il creditore potrà essere chiamato a rispondere dei danni causati al debitore.

Riscontro della «non economicità» del processo esecutivo. Sul punto, prima ancora della introduzione dell'art. 164-bis d.a. c.p.c. – che peraltro, come detto, presuppone che sia stata sperimentata la vendita del bene, senza esito fruttuoso –, la giurisprudenza di merito aveva ritenuto che debba essere chiusa anticipatamente l'esecuzione che si riveli, già prima dell'autorizzazione della vendita, del tutto infruttuosa od antieconomica.

Si nota che lo scopo prefissato dal legislatore sarebbe frustrato dalla prosecuzione di un processo esecutivo che si manifesta palesemente infruttuoso, vanamente costoso e totalmente antieconomico, in considerazione di quanto sopra evidenziato circa la insussistenza di un valore economico da espropriare e vendere (v. Trib. Reggio Emilia, in proc. 145/1998, che richiama anche le seguenti norme della legge fallimentare: artt. 42, comma 3, 102 e 104-ter).

La Corte di cassazione si è dapprima espressa nel senso che sarebbe esclusa la legittimità di un provvedimento che dichiari la improcedibilità «per stallo» del processo esecutivo (Cass. n. 27148/2006).

In specie, si osserva che, muovendo dal principio di «tassatività» delle cause di estinzione previste dalla legge (artt. 629 e ss. c.p.c.), che «un provvedimento di improseguibilità per ‘stallo' nelle procedure di vendita forzata per inutilità o non economicità sopravvenuta del processo esecutivo (...) non può essere considerato legittimo alla luce della vigente normativa».

Difatti «il fondamento della estinzione atipica è ravvisato dal Giudice della esecuzione in una serie di considerazioni, fondate sul principio costituzionale della ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.) e sulle responsabilità che derivano alla giurisdizione dalla gestione di processi eccessivamente lunghi, con ricadute anche economiche sull'erario e in definitiva sulla collettività».

Ebbene, a giudizio della S.C., se è vero che «gli argomenti esposti nella ordinanza impugnata hanno il loro pregio e potrebbero essere condivisi «de iure condendo» in un quadro generale della giurisdizione e nella prospettiva della ricerca di strumenti, anche endoprocessuali, di sollecitazione e speditezza dei procedimenti», non è meno vero che «deve (...) escludersi che il rimedio possa essere ravvisato nella pronuncia de qua, la quale costituisce – tra l'altro – il risultato di una atipica procedura nella quale è stato dato una sorta di preavviso della futura estinzione (pagg. 11-12 sentenza) e che, parallelamente, si fonda sulla affermazione della impossibilità di accedere all'amministrazione giudiziaria, a norma dell'art. 591 c.p.c., per mancanza di una domanda espressa in tal senso dei creditori procedenti: un obbligo o un onere che, in realtà, non trova fondamento alcuna nella disposizione di legge (che perciò è stata violata) e che è fatto derivare da una empirica constatazione di plurimi esiti negativi degli incanti, senza che sia dato ravvisare una fonte normativa di tale prescrizione e un criterio che possa definire le ipotesi in cui un onere di tal genere debba trovare applicazione».

La Corte precisa, infatti, che «l'art. 591 c.p.c., pone l'alternativa tra l'incanto successivo (in ribasso) e amministrazione giudiziaria come alternativa decisoria interamente affidata al Giudice dell'esecuzione; e l'appiattimento o assimilazione delle due alternative è oltretutto improprio sul piano sistematico, poiché mentre il successivo incanto a prezzo ribassato è chiaramente finalizzato alla ricerca di una liquidazione il più rapida possibile, l'amministrazione giudiziaria exartt. 592 c.p.c. e segg., è finalizzata, normalmente, a «congelare» la procedura in attesa di tempi migliori di mercato, e con la possibilità fra l'altro – non considerata dal Giudice dell'esecuzione – di affidamento a taluno dei creditori procedenti (art. 592 c.p.c.). L'amministrazione giudiziaria dei beni (Cass. n. 4656/2006) non costituisce una forma autonoma di esecuzione, ma costituisce una fase incidentale del procedimento di espropriazione, come tale meramente eventuale e sussidiaria, che ha la funzione di sospenderlo in presenza di una contingenza negativa in attesa di tempi in cui il mercato sia più favorevole. Ne consegue che il suo scopo è proprio quello di mantenere inalterato il valore stimato dei beni e di evitare la diminuzione che il ricorso ad un nuovo incanto comporterebbe. Se già con tale rilievo cade uno dei presupposti della argomentazione data dal Giudice, deve poi più in generale dirsi che la ricerca del Giudice dell'esecuzione di uno «sbocco» alla situazione di inutile prolungamento della procedura è stata svolta nella direzione sbagliata, addossando ai creditori l'intero effetto negativo della staticità del processo, con un risultato di vanificazione processuale che, se da un lato implica anche gravi conseguenze di favor per il debitore che attende la liberazione del vincolo, dall'altro invece trascura di esplorare e di applicare nella massima estensione possibile non un istituto estintivo ma altri e più duttili strumenti procedurali, in vista di un risultato conforme alla finalità» propria del processo esecutivo: che è quello di realizzare la pretesa dei creditori ed è finalizzata ad ottenere il maggiore prezzo possibile dalla vendita dei beni colpiti in modo da garantire il soddisfacimento dei creditori e l'eliminazione della posizione di sofferenza dei debitori».

In definitiva, «si può dire che, anche a voler ammettere, quale ipotesi – limite di una persistente impossibilità di realizzo che, all'estremo, sia data la facoltà di un provvedimento di «improseguibilità» per mancanza di utilità (ipotesi nella quale verosimilmente si concretizza un accordo tra i soggetti del processo) ove questo consenso non vi sia (cfr. per qualche spunto Cass. n. 3786/1987) il Giudice sia tenuto a mettere in opera tutti gli strumenti utili che la legge gli affidi per la realizzazione dello scopo dell'esecuzione forzata, con l'applicazione delle norme che appaiono rivolte a tal fine, e non già con l'applicazione ‘analogica' dell'estinzione per il solo decorso del tempo».

Più di recente, in senso opposto v. Cass. n. 9501/2016 – già richiamata – ove si osserva che «le ipotesi di estinzione c.d. atipica, più correntemente definite di chiusura anticipata (nella prassi definite anche, forse con una certa imprecisione terminologica, però di grande efficacia descrittiva, come improseguibilità o improcedibilità), non solo costituiscono oggetto ormai di disposizioni positive del codice di rito, che quest'ultimo istituto in modo espresso presuppongono (basti pensare all'art. 187-bis disp. att. c.p.c., introdotto fin dalla Riforma del 2006, nonché – ormai e comunque con la Riforma del 2014 – all'art. 164-bis delle stesse disp. att., che codifica espressamente una di tali ipotesi), ma ineriscono necessariamente alla struttura stessa del processo esecutivo, al di là delle espresse previsioni di estinzione, accomunando tutti i casi in cui questo non può proseguire o raggiungere alcuno dei suoi fini istituzionali: ora per difetto di presupposti processuali, ora per mancanza di condizioni dell'azione esecutiva, ora perfino per qualsiasi fatto sopravvenuto che rende impossibile l'ulteriore sviluppo del processo».

Difatti, «è frequente (...) il caso del sopravvenuto venir meno del titolo esecutivo (ad esempio, se giudiziale, per lo sviluppo normale dei gradi di giudizio e la sua riforma); ma si pensi pure, a mero titolo esemplificativo: a quando viene riconosciuta mancante la giurisdizione dell'ufficio giudiziario adito, o la rappresentanza legale o sostanziale del creditore procedente, o lo stesso oggetto del processo (se è espropriato per pubblica utilità o confiscato in sede penale o di misure di prevenzione c.d. antimafia o a titolo di sanzione amministrativa per abusivismo edilizio o urbanistico), o sue caratteristiche immancabili per la stessa commerciabilità futura e quindi la validità della vendita in sede giudiziaria, come l'appartenenza del bene al debitore (che va sempre, invece, pure di ufficio riscontrata dal g.e.: Cass. n. 11638/2014), oppure se si scopre o sopravviene ogni altro caso di inalienabilità o di vincoli».

Tornando al caso della esecuzione «antieconomica» (rectius: ritenuta tale prima che sia autorizzata la vendita del bene), si ricordano le applicazioni giurisprudenziali relative al caso in cui i costi stimati di «bonifica» del bene (rimozione di eternit o di rifiuti pericolosi trovati in loco) sopravanzano quelli del probabile valore di realizzo del bene (v. ad es. Trib. Napoli Nord 11 giugno 2019);

Esecuzione promossa per il recupero di crediti di entità irrisoria. Infine, vanno ricordati i casi in cui l'esecuzione sia promossa per il conseguimento di crediti, di natura esclusivamente patrimoniale, di entità irrisoria.

In un caso di esecuzione promossa per il recupero degli interessi maturati tra la notifica dell'atto di precetto ed il pignoramento, a fronte dell'intervenuto pagamento del dovuto come liquidato nell'atto di precetto medesimo, e cioè per la somma di circa 12,00 Euro, la S.C. ha affermato il seguente principio di diritto: «in tema di procedimento esecutivo, qualora il credito, di natura esclusivamente patrimoniale, sia di entità economica oggettivamente minima, difetta, ex art. 100 c.p.c., l'interesse a promuovere l'espropriazione forzata, dovendosi escludere che ne derivi la violazione dell'art. 24 cost. in quanto la tutela del diritto di azione va contemperata, per esplicita od anche implicita disposizione di legge, con le regole di correttezza e buona fede, nonché con i principi del giusto processo e della durata ragionevole dei giudizi ex art. 111 Cost. e 6CEDU» (Cass. n. 4228/2015).

Militano nel senso di cui sopra diversi argomenti:

1) l'interesse a proporre l'azione esecutiva quando abbia ad oggetto un credito di natura esclusivamente patrimoniale, nemmeno indirettamente connesso ad interessi giuridicamente protetti di natura non economica, non diversamente dall'interesse che deve sorreggere l'azione di cognizione, non può ricevere tutela giuridica se l'entità del valore economico è oggettivamente minima e quindi tale da giustificare il giudizio di irrilevanza giuridica dell'interesse stesso. Per tale ragione neppure appare fondato il sospetto che la lettura dell'art. 100 c.p.c. che la Corte ritiene di condividere si ponga in violazione dell'art. 24 Cost., che, tutelando il diritto di azione non esclude certamente che la legge possa richiedere, nelle controversie meramente patrimoniali, che per giustificare l'accesso al giudice il valore economico della pretesa debba superare una soglia minima di rilevanza, innanzi tutto economica e, quindi, anche giuridica;

2) siccome la giurisdizione è «una (...) risorsa statuale limitata ben può la legge, esplicitamente o implicitamente, limitare il ricorso al giudice per far valere pretese di natura meramente patrimoniale, tenendo anche conto che il numero delle azioni giudiziarie non può non influire, stante la limitatezza delle risorse disponibili, sulla durata ragionevole dei giudizi, che è bene protetto dall'art. 111 Cost. e dall'art. 6 della CEDU (come interpretato dalla Corte di Strasburgo e quindi comprensivo non solo della fase del giudizio di cognizione ma anche i connessi procedimenti esecutivi, dovendo la ragionevolezza valutarsi con riferimento all'intero periodo intercorrente dalla data di proposizione del giudizio di cognizione a quella dell'effettivo soddisfacimento della pretesa)»;

3) sussiste, anche per il processo (e nel caso specifico anche per il processo esecutivo) il divieto di abuso del diritto, ricollegabile ai doveri inderogabili di solidarietà sociale di cui all'art. 2 Cost.

Ciò che ha condotto, come è noto, la giurisprudenza a escludere la legittimità del «frazionamento del credito», ossia la proposizione di numerose azioni giudiziarie per il recupero di un credito unitario.

Tale comportamento – osserva la Corte – «costituisce un abuso del processo, idoneo a gravare sia lo Stato che le parti dell'aumento degli oneri processuali, avuto riguardo all'allungamento dei tempi processuali derivanti dalla proliferazione non necessaria dei procedimenti e all'eventuale lievitazione dei costi a carico della parte soccombente e alle stesse conclusioni si è pervenuti nel caso in cui (sent. n. 6664/2013) ottenuto con un primo precetto il pagamento spontaneo della somma intimata, accettata senza riserve, venga effettuata la notifica di un nuovo precetto per il pagamento di una ulteriore somma, calcolata sulla base del medesimo titolo giudiziale posto a fondamento del precedente».

Il principio sopra ricordato è stato ribadito più di recente da Cass. n. 25224/2015 e Cass. n. 24691/2020.

Per altro verso, sempre in tema di abuso del processo esecutivo, si è affermato che «non viola gli obblighi di correttezza e buona fede e non contravviene al divieto di abuso degli strumenti processuali il creditore di due o più debitori solidali che, in forza del medesimo titolo, intraprenda un'azione esecutiva nei confronti di uno di essi dopo aver ottenuto, nei confronti di un altro condebitore, un'ordinanza di assegnazione ex art. 553 c.p.c., fintanto che quest'ultima non sia adempiuta dal terzo pignorato sino all'integrale concorrenza del credito azionato, fermo restando il divieto – la cui inosservanza va dedotta con opposizione esecutiva – di conseguire importi superiori all'ammontare del credito stesso» (Cass. n. 8151/2020).

Alla base di tale affermazione sta l'intendimento dell'ordinanza di assegnazione come provvedimento pronunciato «salvo esazione», per cui «l'estinzione del diritto del creditore ha luogo solo con l'effettivo integrale pagamento, da parte del terzo, di tutte le somme assegnate. Nel caso particolare del pignoramento di quota del trattamento pensionistico, tale evento estintivo non è immediato, perfezionandosi solo all'esito dell'accantonamento, mese dopo mese, di tutte le somme effettivamente necessarie per la soddisfazione delle ragioni del creditore».

Di qui la possibilità per il creditore di due o più debitori solidali «di instaurare una pluralità di procedure ‘parallele' a carico di ciascuno dei condebitori, fintanto che non abbia ottenuta l'integrale soddisfazione del credito».

Mancata anticipazione delle spese previste per la pubblicità.

Sul punto si segnalano due recenti pronunce della giurisprudenza di legittimità.

Secondo Cass. n. 21549/2021, relativa alla pubblicità «facoltativa» prevista nell'ordinanza di vendita, l'omesso versamento, entro il termine – che, per quanto ab origine ordinatorio, non è più prorogabile una volta invano elasso – fissato dal giudice dell'esecuzione implica una situazione di impossibilità di raggiungimento dello scopo del processo esecutivo (oltretutto imputabile allo stesso creditore) che determina la sua improcedibilità; peraltro, si è chiarito che il giudice che ha fissato quel termine non ha facoltà di intervenire ulteriormente ex post poiché le disposizioni che egli impartisce vincolano non soltanto le parti, ma, a garanzia della serietà e dell'affidabilità dei suoi stessi provvedimenti, in primo luogo il medesimo giudice che le impone.

Più in dettaglio, la S.C. ha chiarito che «l'inottemperanza al termine fissato dal giudice dell'espropriazione immobiliare per il versamento di un fondo spese al professionista, cui siano state delegate le operazioni di vendita, impedisce al processo esecutivo di raggiungere il suo scopo e ne legittima la chiusura anticipata, ove il creditore non abbia tempestivamente e preventivamente instato, allegando e provando i relativi presupposti, per la rimessione in termini, neppure potendo giovargli l'invocazione successiva di dubbi o incertezze non sottoposti al giudice dell'esecuzione prima della scadenza di quelli».

La pronuncia richiama la precedente Cass. n. 12877/2016, ove si chiarì che le spese necessarie «alla conservazione dell'immobile pignorato, cioè indissolubilmente finalizzate al mantenimento dello stesso in fisica e giuridica esistenza e non meramente conservative della sua integrità (quali quelle per la manutenzione ordinaria o straordinaria ovvero per la gestione condominiale), sono strumentali alla procedura di espropriazione forzata, perché intese ad evitarne la chiusura anticipata» ne consegue la relativa incluione tra le spese per gli atti necessari al processo, suscettibili, ai sensi del d.P.R. n. 115/2002, art. 8, di essere poste in via di anticipazione a carico del creditore procedente e, quindi, rimborsabili come spese privilegiate ex art. 2770 c.c. a favore del creditore che le abbia anticipate.

E ancora, si rammenta che «l'omesso versamento entro il termine (...) fissato dal giudice dell'esecuzione implica quindi una situazione di impossibilità di raggiungimento dello scopo del processo esecutivo (...) riguardo alla quale lo stesso giudice che ha fissato quel termine non ha facoltà di intervenire ulteriormente ex post, poiché le disposizioni che egli impartisce vincolano non soltanto le parti, ma, a garanzia della serietà e dell'affidabilità dei suoi stessi provvedimenti, in primo luogo il medesimo giudice che le impone».

Tale principio è stato esteso da Cass. n. 8113/2022 anche al mancato versamento del fondo spese per procedere alla pubblicazione dell'avviso di vendita sul PVP (sul punto si rinvia al commento sub art. 631-bis c.p.c.).

Caratteri comuni alle varie ipotesi e distinzione rispetto alla «estinzione tipica»

All'esito di questa carrellata, occorre comprendere se la nozione di estinzione in senso tecnico ricomprenda o meno quella di «chiusura anticipata del processo» esecutivo.

L'opinione prevalente è, come detto, nel senso della tassatività delle fattispecie di estinzione (in dottrina v. Boccagna, Estinzione del processo esecutivo, spec. 1252; segue una impostazione «svalutativa» della distinzione Verde, Diritto processuale civile, 158; in giurisprudenza v. Cass. n. 2674/2011; Cass. n. 7346/2009; Cass. n. 3276/2008; ma non mancano pronunce ove il confine tra l'istituto della estinzione strictu sensu e quella della chiusura anticipata del processo esecutivo tende ad assottigliarsi: v. Cass. n. 27525/2014) e quindi della non assimilabilità alle stesse delle ipotesi di «chiusura anticipata» (Iannicelli, sub art. 629).

Si osserva che, prima della riforma del 2009, la previsione della tempestiva eccezione di parte escludeva ab imis la presunta identità di ratio (e quindi di disciplina) tra le ipotesi di estinzione in senso stretto e gli altri tipi di «arresto» del processo esecutivo.

Pur dopo la riforma dell'art. 630, comma 2, c.p.c., secondo cui l'estinzione può essere rilevata d'ufficio, si continua a negare l'assimilabilità tra l'estinzione e le altre ipotesi di chiusura anticipata, in quanto:

– in alcune ipotesi di chiusura anticipata l'impedimento precede l'instaurazione del processo esecutivo mentre nelle fattispecie di cui agli artt. 629 e ss. c.p.c. la causa di estinzione è senz'altro sopravvenuta;

– in altre ipotesi di chiusura anticipata del processo la riproposizione dell'azione esecutiva (pur ammissibile in astratto) è subordinata (in concreto) alla rimozione della situazione impediente (Iannicelli, L'estinzione, cit.).

La più cospicua distinzione – come più volte accennato – afferisce alla individuazione del rimedio di tutela: reclamo ex art. 630 c.p.c. nel caso di estinzione «tipica» e opposizione agli atti esecutivi negli altri casi (di c.d. chiusura anticipata).

Estinzione per rinuncia del creditore: caratteri generali

Il processo esecutivo si estingue:

– se, prima dell'aggiudicazione o dell'assegnazione, il creditore procedente e quelli intervenuti muniti di titolo esecutivo rinunciano agli atti;

– se, dopo la vendita, rinunciano agli atti tutti i creditori concorrenti. Nell'esecuzione presso terzi invece non è ammissibile la rinuncia del creditore dopo l'assegnazione del credito pignorato, stante l'immediato effetto satisfattivo di detta ordinanza (Cass. n. 5890/1993).

Per giurisprudenza costante, non è rilevante se l'intervento sia tempestivo o tardivo (v. già Cass. n. 31/1963; da ultimo cfr. Cass. n. 26088/2005).

La rinuncia deve essere formulata dalle parti o da loro procuratori speciali; può avvenire sia con atto scritto che con dichiarazione resa oralmente in udienza.

Nel primo caso non è richiesta la notifica della rinuncia al debitore esecutato, che non ha interesse ad opporsi all'estinzione: ciò caratterizza in modo peculiare la rinuncia di cui si tratta rispetto a quella disciplinata dall'art. 306 c.p.c.

Non è ammessa una rinuncia formale od implicita (Cass. n. 1040/1969), né condizionata (ad esempio al rimborso delle spese): in questo caso, quindi, la rinuncia non comporta la produzione dell'effetto suo proprio ed il rinunciante può compiere ulteriori atti di impulso della procedura (Cass. n. 2050/1997).

La giurisprudenza è ormai pacifica nel ritenere che «l'estinzione del processo esecutivo si verifica per effetto della sola rinuncia dell'unico creditore, avendo il relativo provvedimento del giudice dell'esecuzione natura meramente dichiarativa, con la conseguenza che, dopo il deposito dell'atto di rinuncia, non è più ammesso l'intervento di altri creditori» (Cass. n. 5921/2023 e prima ancora Cass. n. 27545/2017).

Riguardo alla ipotesi in cui vi siano più creditori in grado di dare impulso alla procedura la rinuncia fatta dal procedente non impedisce al creditore intervenuto munito di titolo di propiziare la prosecuzione del processo esecutivo.

Sul punto, è rilevante quanto affermato dalla Corte di cassazione a Sezioni Unite riguardo alla «sorte» del processo esecutivo laddove il titolo del procedente sia caducato o ne sia sospesa l'efficacia esecutiva.

Le Sezioni Unite, componendo un contrasto di giurisprudenza emerso sul punto, hanno ritenuto che «nel processo di esecuzione forzata, al quale partecipino più creditori concorrenti, le vicende relative al titolo esecutivo del creditore procedente (sospensione, sopravvenuta inefficacia, caducazione, estinzione) non possono ostacolare la prosecuzione dell'esecuzione sull'impulso del creditore intervenuto il cui titolo abbia conservato la sua forza esecutiva».

Peraltro, proseguono le S.U., occorre distinguere: a) se l'azione esecutiva si sia arrestata prima o dopo l'intervento, poiché nel primo caso, non esistendo un valido pignoramento al quale gli interventi possano ricollegarsi, il processo esecutivo è improseguibile; b) se il difetto del titolo posto a fondamento dell'azione esecutiva del creditore procedente sia originario o sopravvenuto, posto che solo il primo impedisce che l'azione esecutiva prosegua anche da parte degli interventori titolati, mentre il secondo consente l'estensione in loro favore di tutti gli atti compiuti finché il titolo del creditore procedente ha conservato validità.

La S.C. giunge alle predette conclusioni argomentando dalla novellata disciplina degli artt. 499 e 500 c.p.c., la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che l'intervento titolato è da equiparare al pignoramento, onde l'eventuale caducazione del titolo del procedente (o la sospensione della sua efficacia) non preclude all'interventore di proseguire il processo esecutivo e stimolarne l'ulteriore corso.

Appare perspicuo il passaggio motivazionale ove si giunge alla predetta conclusione.

«Con quanto sinora detto le S.U. non intendono rinnegare la tradizionale regola secondo cui nulla executio sine titulo, piuttosto intendono affermare il principio secondo cui nel processo d'esecuzione, la regola secondo cui il titolo esecutivo deve esistere dall'inizio alla fine della procedura va intesa nel senso che essa presuppone non necessariamente la costante sopravvivenza del titolo del creditore procedente, bensì la costante presenza di almeno un valido titolo esecutivo (sia pure dell'interventore) che giustifichi la perdurante efficacia dell'originario pignoramento. Ne consegue che, qualora, dopo l'intervento di un creditore munito di titolo esecutivo, sopravviene la caducazione del titolo esecutivo comportante l'illegittimità dell'azione esecutiva dal pignorante esercitata, il pignoramento, se originariamente valido (secondo quanto si preciserà in seguito), non è caducato, bensì resta quale primo atto dell'iter espropriativo riferibile anche al creditore titolato intervenuto, che prima ne era partecipe accanto al creditore pignorante.

In altri termini, una volta iniziato il processo in base ad un titolo esecutivo esistente all'epoca, il processo stesso può legittimamente proseguire, a prescindere dalle sorti del titolo originario, se vi siano intervenuti creditori a loro volta muniti di valido titolo esecutivo.

Dell'atto iniziale del processo (il pignoramento) si avvarranno, peraltro, non solo il creditore intervenuto in forza di valido titolo esecutivo, ma anche gli altri creditori, pur se intervenuti successivamente alla sopravvenuta illegittimità dell'azione esecutiva esercitata dal creditore pignorante.

La regola secondo cui l'esecuzione forzata debba sempre essere sorretta da un titolo esecutivo, benché questo, oggettivamente, possa cambiare, senza perciò determinare interruzioni nell'esercizio dell'azione esecutiva, trova un corrispondente codicistico che concerne proprio titoli esecutivi di creditori diversi: si tratta della successione o trasformazione soggettiva regolata dall'art. 629 c.p.c., in ragione del quale se, prima della vendita, il procedente rinunzia all'esecuzione, il creditore intervenuto munito di titolo può scegliere di continuarla per la sola sua soddisfazione. Qui, insomma, l'esecuzione è iniziata da un creditore e viene continuata da altro creditore, con un fenomeno successorio interno al processo esecutivo.

È proprio l'indiscutibile pariteticità di posizioni tra creditore pignorante e creditore titolato interveniente, nonché quella che potremmo definire la interscambiabilità degli atti, nel quadro di completezza dell'azione esecutiva (con tutte le conseguenze delle quali s'è detto), che pone in dubbio la tesi sostenuta dall'arresto del 2009. Tesi (come s'è visto) fondata sul principio di autonomia dei singoli pignoramenti (sancito dall'art. 493 c.p.c.), il quale condurrebbe «alla speculare conclusione che il pignoramento iniziale del creditore procedente, se non integrato da pignoramenti successivi, travolge ogni intervento, titolato o meno, nell'ipotesi di sua successiva caducazione».

Infatti, che, ai sensi dell'art. 493 c.p.c., ciascun pignoramento, tra quelli che hanno colpito il medesimo bene, abbia «effetto indipendente» rispetto agli altri, e, quindi, pur nell'unità del processo, conservi la propria individualità ed autonomia, è principio indiscusso in dottrina ed in giurisprudenza (per tutte, cfr. Cass. n. 548/73, la quale ne fa conseguire che, nell'ipotesi di pluralità di pignoramenti eseguiti prima dell'udienza fissata per l'autorizzazione della vendita, le vicende di uno di essi non toccano gli altri, cosicché il processo di espropriazione – ben potendo essere sorretto anche da uno solo dei pignoramenti, per il connotato di fungibilità che ne caratterizza il rapporto – continua a svolgersi validamente fino a che non vengano meno tutti i pignoramenti).

Ciononostante, questo principio non consente di farvi conseguire una sorta di subordinazione del creditore titolato interveniente rispetto a quello procedente e che, soprattutto, il primo sia tenuto ad effettuare (invece che l'intervento) un proprio, autonomo pignoramento, al fine di non essere travolto dell'eventuale, infausta sorte del titolo del procedente. In altri termini, la circostanza che il legislatore abbia voluto esplicitamente sancire l'autonomia di ciascun pignoramento caduto sul medesimo bene (così da impedire che le sorti processuali dell'uno non ricadessero sull'altro) non esclude che dalla congerie degli elementi sopra esaminati non possa dedursi anche il principio di autonomia di ciascun intervento titolato rispetto alla sorte del titolo posto a base dell'azione proposta dal creditore procedente.

Per altro verso, non pare peregrina l'osservazione contenuta nell'ordinanza di rimessione, secondo cui l'imporre il pignoramento a qualunque creditore titolato, per evitare il rischio dell'estensione del travolgimento del titolo del procedente, non tiene in adeguata considerazione che proprio tale autonomia dei pignoramenti riuniti, se rende immuni i pignoramenti ulteriori dalla vicenda della caducazione del titolo del pignorante principale, li dovrebbe poi lasciare insensibili anche all'effetto positivo della riunione, ossia all'estensione delle favorevoli conseguenze delle attività che quello ha invalidamente posto in essere, se non compiute e ripetute, stavolta validamente, anche da loro stessi (visto che non è dimostrata la tesi che la riunione giova ma non nuoce ai soggetti dei processi riuniti).

Neppure convince l'affermazione (anch'essa contenuta nella sentenza in commento) secondo cui la disposizione dell'art. 629 c.p.c. (che, ai fini dell'estinzione del processo esecutivo, chiede la rinuncia tanto del procedente, quanto degli intervenienti titolati) costituirebbe una norma derogatoria al principio d'autonomia dei pignoramenti sancito dall'art. 493 c.p.c. Piuttosto che derogare al sistema, la prima delle menzionate disposizioni sembra integrare con coerenza l'altra disposizione di cui all'art. 500 c.p.c. (e tutte quelle che nelle singole espropriazioni disciplinano gli autonomi poteri di impulso dei creditori concorrenti), per configurare un meccanismo processuale in base al quale i creditori titolati intervenuti possono compiere gli atti dell'esecuzione, in luogo del procedente, e proseguire il procedimento anche se quest'ultimo rinunzi agli atti.

Le S.U. si mostrano consapevoli del fatto che le conclusioni sopra indicate pongono in crisi quell'autorevole parte della dottrina che ha da sempre attribuito carattere soggettivo agli atti compiuti nel corso del procedimento esecutivo e, in questo ordine di idee, ha negato l'interscambiabilità degli atti alla quale in precedenza s'è fatto riferimento. Dottrina che, dunque, è pervenuta alle conclusioni che l'azione esecutiva di un creditore titolato, se spiegata in via di intervento, non è in grado di sopravvivere all'interno di una procedura esecutiva nell'ipotesi del venir meno del titolo del procedente, con l'ulteriore assunto per cui il pignoramento successivo tutela incondizionatamente il creditore nell'ipotesi di caducazione del primo pignoramento, facendo salva la procedura esecutiva avviata.

Tuttavia, siffatta teoria deve necessariamente essere posta a confronto con un contesto legislativo e processuale profondamente mutato in questi ultimi anni; contesto che vede, per un verso, la progressiva espansione del processo esecutivo rispetto a quello di cognizione (anche in ragione dell'ampliamento del catalogo dei titoli esecutivi con la modifica dell'art. 474 c.p.c.), e, per altro verso, la tendenza legislativa all'anticipazione della qualifica esecutiva del titolo di formazione giudiziale, il quale, a sua volta, è perciò sempre meno dotato del requisito della stabilità.

Tutto questo porta a dubitare che l'aggressione esecutiva statale, legittimata dall'azione esecutiva del creditore procedente, debba svolgersi entro i soli confini tracciati dal titolo esecutivo di quest'ultimo. Sembra, piuttosto, corretto supporre (come fa altra dottrina) che il titolo esecutivo del procedente sia bensì fatto costitutivo di questo potere di aggressione esecutiva che si concreta nel pignoramento, ma non anche unico limite che segna interamente ed inderogabilmente i confini dell'esercizio dello stesso, essendo possibile concepire che, con l'avvio processualmente legittimo di una tale aggressione da parte del procedente, si radichi una compressione della sfera patrimoniale del debitore non delimitata dal credito dell'istante e della quale possono beneficiare tutti gli intervenienti, anche in assenza di aggressione esecutiva autonoma.

D'altro canto, istituti quali la conversione (art. 495 c.p.c.) e la riduzione del pignoramento (art. 496 c.p.c.) dimostrano che, una volta avviata una procedura esecutiva, occorre tener conto di tutti i crediti nella stessa azionati a prescindere dalla portata dell'azione esecutiva del procedente, sì da far risultare la compressione della sfera patrimoniale del debitore modulata in funzione anche dell'interesse degli eventuali intervenienti.

Ed allora, ove venga meno il titolo del procedente (titolo che olim ha legittimato l'atto di pignoramento), sembra ragionevole ritenere che il vincolo espropriativo non venga a sua volta caducato a fronte della presenza di altri creditori intervenuti titolati, il cui titolo esecutivo è in grado di legittimare il permanere della compressione della sfera patrimoniale del debitore. Non da ultimo considerando che la riduzione del pignoramento consentirebbe l'adattamento della misura dell'esecuzione in corso al nuovo panorama soggettivo-oggettivo emerso a seguito dell'estromissione del procedente.

Ne consegue che «questo permanere della procedura esecutiva a vantaggio dei creditori titolati, a seguito della sopravvenuta caducazione del titolo dell'istante, risulta poi funzionalmente congruo allo stesso art. 2913 c.c., che consente di ravvisare nel pignoramento un fenomeno in grado di produrre effetti della cui utilità possono usufruire anche altri creditori che intervengono nella procedura esecutiva (c.d. vincolo a porta aperta), senza tuttavia specificare se gli effetti in parola dipendono strettamente dal permanere dell'efficacia e dalla validità del titolo esecutivo del creditore procedente (titolo in forza del quale il pignoramento è stato originariamente posto in essere, ovvero siano in grado di manifestarsi a prescindere dalle sue sorti)».

Peraltro, come accennato in precedenza, il principio di diritto pronunciato dalle S.U. non trova applicazione con riferimento all'ipotesi in cui il vizio del titolo del procedente sia originario.

Sul punto le S.U. affermano che «si tratta di situazione che, per un verso, si presta a specificazioni che danno luogo ad una vasta casistica (la quale non può certo essere esaminata in questa sede), ma che, per altro verso, merita le precisazioni che seguono.

Fermando l'attenzione sulle ipotesi più frequenti, essa comporta l'inapplicabilità del principio sopra espresso nel caso in cui il titolo esecutivo giudiziale sia inficiato da un vizio genetico che lo renda inesistente o nel caso in cui l'atto posto a fondamento dell'azione esecutiva non sia riconducibile ab origine al novero dei titoli esecutivi di cui all'art. 474 c.p.c., anche quanto ai caratteri del credito imposti dal primo comma, quali risultanti dal titolo stesso». Non è assimilabile alla situazione di mancanza ab origine di titolo esecutivo la situazione che viene a determinarsi quando il titolo esecutivo di formazione giudiziale, che sia astrattamente riconducibile alla previsione dell'art. 474 c.p.c., comma 2, n. 1, «venga meno» in ragione delle vicende del processo nel quale si è formato, cioè, sia caducato per fatto sopravvenuto. Si intende dire che, in tale ultima eventualità, ai fini dell'applicazione del principio di «conservazione» del processo esecutivo in cui siano presenti creditori titolati, non rileva – né occorre verificare, in sede esecutiva e/o oppositiva – se il titolo esecutivo di formazione giudiziale sia venuto meno con efficacia ex tunc ovvero ex nunc, in ragione degli effetti del rimedio esperito nella sede cognitiva. Così, esemplificando, ad infausta sorte sono destinati gli interventi titolati nel caso in cui il creditore procedente abbia azionato un provvedimento non idoneo, nemmeno in astratto, a fondare l'azione esecutiva (quali, ad esempio, la sentenza inesistente o di condanna generica o il decreto ingiuntivo privo di efficacia esecutiva), non anche quando il provvedimento, costituente titolo esecutivo al momento di esercizio dell'azione esecutiva, sia venuto meno per le vicende del processo nel quale si è venuto a formare. In particolare, quanto a tale ultima eventualità, è indifferente se, in caso di sentenza, si sia trattato di impugnazione ordinaria o straordinaria, ovvero, in caso di decreto ingiuntivo, si sia trattato di revoca per difetto dei presupposti ex art. 633 c.p.c., ovvero per accoglimento nel merito dell'opposizione, o, in caso di ordinanza di condanna provvisoriamente esecutiva, si sia trattato di revoca o di modifica per ragioni di rito o di merito, etc. In tutte queste ipotesi, il processo esecutivo iniziato in forza di titolo esecutivo, all'epoca valido, non è travolto in presenza di creditori intervenuti con titolo esecutivo tuttora valido. In conclusione, rileva che l'esecuzione forzata risulti formalmente legittima, anche se, per ipotesi, sia sostanzialmente ingiusta, essendo perciò sufficiente – affinché il creditore intervenuto con titolo non subisca gli effetti del venir meno dell'azione esecutiva del creditore procedente – che esista un titolo esecutivo in favore di quest'ultimo, non anche che sia esistente il diritto di credito in esso rappresentato».

Si è posta la questione se la rinuncia del creditore procedente importi l'estinzione dell'esecuzione laddove vi sia un intervento di Agenzia delle entrate riscossione per il recupero di un credito inferiore alla soglia di euro 120.000,00.

Secondo l'art. 76, d.P.R. n. 60/1973 la circostanza che il credito abbia un valore superiore a tale soglia costituisce, per l'Agente della riscossione, una condizione di procedibilità dell'azione esecutiva nelle speciali forme di cui al d.P.R. n. 602/1973.

Ci si chiede se tale circostanza porti a considerare l'intervento «sotto-soglia» come un intervento inidoneo a dare impulso alla procedura (con le conseguenze prevedibili in tema di estinzione).

Partendo dal presupposto che quelle indicate dall'art. 76, d.P.R. n. 602/1973 sono condizioni di procedibilità dell'azione esecutiva esattoriale (Cass. n. 19270/2014), si reputa che, in caso di mancata integrazione di tali condizioni, l'Agente della riscossione è sfornito (atteso il carattere «inautonomo» del suo intervento) del potere di dare impulso alla procedura e che, quindi, non possa evitare l'estinzione, in caso di rinuncia del procedente, o la sospensione ex art. 624-bis c.p.c. (cfr. Trib. Napoli Nord 6 giugno 2017/o.).

Va segnalata la tesi contraria secondo cui, dato il carattere speciale dell'art. 76, cit., le condizioni di procedibilità ivi previste non interesserebbero il caso in cui l'azione esecutiva sia svolta, sia pure nella forma equipollente dell'intervento, nell'ambito di un procedimento ordinario.

Rinuncia e intervento tardivo. Tornando al caso che qui interessa, deve ritenersi che la rinuncia debba provenire da tutti i creditori titolati intervenuti, senza che abbia rilievo la distinzione tra tempestivi e tardivi.

In questo senso si v. Cass. n. 18227/2014, secondo cui «dall'art. 629 c.p.c., che prevede l'estinzione del processo esecutivo nel caso di rinunzia agli atti esecutivi da parte del creditore pignorante o dei creditori intervenuti muniti di titolo esecutivo, si desume che anche questi ultimi, ancorché siano intervenuti tardivamente, hanno la facoltà di provocare i singoli atti di esecuzione, in quanto non sarebbe in alcun modo giustificabile il permanere della procedura esecutiva per la mancata rinunzia del creditore intervenuto tardivamente se questi non avesse il potere di promuovere il completamento della procedura stessa. Resterebbe altrimenti frustrata la ratio della norma di impedire – per ragioni di economia processuale e di effettività della tutela – che il processo si estingua quando vi sono creditori intervenuti che hanno interesse alla sua prosecuzione, senza che sussistano motivi per distinguere la posizione dei creditori intervenuti tardivamente rispetto a quelli intervenuti tempestivamente».

In definitiva, il riconoscimento del potere di impulso anche ai creditori intervenuti titolati comporta che il processo esecutivo non possa essere dichiarato estinto prima della vendita e della assegnazione senza che siano acquisite le rinunce di questi ultimi, tempestivi o tardivi che siano.

Va dato atto della circostanza che, a fronte di una giurisprudenza consolidata nel senso suddetto, la dottrina appare divisa.

Da parte di taluno, si rileva che gli artt. 526, 528, 564, 565 e 566 non attribuiscono agli intervenuti tardivi il potere di provocare atti di espropriazione il che rende irragionevole richiederne la partecipazione alla rinuncia nella fase liquidativa, nel mentre si ritiene che tali creditori non sarebbero in grado neppure di evitare una estinzione per inattività (Saletti, Estinzione, 16).

Anche sposando quest'ordine di idee, sembra corretto ritenere che, se vi sia già stata la vendita, e quindi si versi nella fase distributiva, la rinuncia del creditore tardivo sarebbe comunque necessaria.

Profili temporali ed effetti della rinuncia. Perché la rinuncia abbia il suo effetto tipico, è necessario che il processo esecutivo sia iniziato (con l'atto di pignoramento).

Ne consegue che la c.d. rinuncia all'atto di precetto ha valenza extraprocessuale (atteso che trattasi di atto solo propedeutico all'inizio dell'esecuzione).

La volontà abdicativa del creditore deve essere portata a conoscenza del debitore in forma idonea al raggiungimento dello scopo.

La dottrina ha sottolineato che la rilevanza di questo atto è non solo sostanziale, ma anche processuale.

Sarebbe infatti illegittima la richiesta di pignoramento effettuata dopo la rinuncia al precetto, e tuttavia va esclusa l'applicabilità in via analogica dell'art. 629 c.p.c. (Bucolo, 1192 e ss.).

In giurisprudenza, in questo senso, v. Cass. n. 1985/1990.

Ne discende che non trova applicazione, in questo caso, l'art. 632 c.p.c. (al cui commento si rinvia).

Per gli stessi motivi evidenziati sopra (la rinuncia agli atti esecutivi presuppone la pendenza di un processo esecutivo) si esclude che rientri nell'ambito di applicazione dell'art. 629 c.p.c. la rinuncia alla richiesta di pignoramento non ancora eseguito o notificato.

Quanto al momento finale, la rinuncia può intervenire fin quando vi siano delle attività esecutive da compiere: va quindi esclusa la validità di una rinuncia che pervenga quanto il processo si è chiuso fisiologicamente (ad esempio a seguito di approvazione del progetto di distribuzione) o quando ha subito una chiusura anticipata.

Analogamente nell'esecuzione presso terzi non ha effetti la rinuncia formulata dopo l'assegnazione del credito, trattandosi di atto che «definisce» il procedimento (da ultimo v. Cass. n. 26185/2011).

La rinuncia non deve essere accettata dal debitore.

Il rinvio che l'art. 629 c.p.c. opera all'art. 306 c.p.c. è nei limiti di compatibilità.

È quindi assolutamente consolidata l'opinione secondo cui non trova applicazione l'art. 306 c.p.c. nella parte in cui, rispetto alla rinuncia agli atti del giudizio di cognizione, si richiede l'accettazione della controparte.

D'altro canto, il debitore di massima non è parte costituita nel processo esecutivo e quindi, ove pure si voglia ritenere applicabile integralmente la disciplina dell'art. 306 c.p.c. (previa svalutazione della clausola di compatibilità prima richiamata), quanto meno in questo caso non sarebbe richiesta l'accettazione del debitore.

In dottrina, in questo senso v. ancora, tra i tanti, Bucolo, loc. ult. cit..

In giurisprudenza, v. Cass. n. 6837/2015, laddove si precisa che «si deve escludere che la rinuncia agli atti del processo esecutivo debba essere notificata o accettata dal debitore esecutato poiché questi non ha interesse alla prosecuzione del processo. Deve, sul punto, intendersi superato il riferimento fatto alla necessità della notificazione della rinuncia nel precedente di questa Corte n. 1040/1969. Va invece qui ribadito il principio di diritto dallo stesso precedente affermato per il quale «così la rinunzia agli atti del giudizio, come la rinunzia agli atti del processo esecutivo, hanno carattere di atto processuale formale. Non è quindi ammessa una rinunzia non formale ed implicita». L'estinzione del processo esecutivo per la rinuncia agli atti è pronunciata dal giudice dell'esecuzione, previa verifica della regolarità dal punto di vista formale della rinuncia come atto, senza che sia necessaria la fissazione di apposita udienza (così già Cass. n. 1826/1993). Rientra nei compiti del giudice dell'esecuzione verificare, prima di procedere alla vendita del bene pignorato o di altro atto dell'esecuzione, che il processo esecutivo non si sia estinto, perché i creditori di cui è detto nell'art. 629 c.p.c., hanno presentato formale rinuncia agli atti, e dichiarare d'ufficio la relativa estinzione se le rinunce siano in atti e siano formalmente regolari ai sensi dell'art. 306 c.p.c., senza necessità di accettazione da parte del debitore esecutato».

In dottrina si è notato che «il discorso meriterebbe ulteriori approfondimenti alla luce dell'interesse effettivo del debitore ad un determinato svolgimento della tutela esecutiva in suo danno e della sua adozione prima della pronuncia di estinzione (...). Ad es. si assume che nell'espropriazione contro il terzo proprietario l'estinzione è subordinata all'accettazione della rinuncia da parte del debitore, in considerazione del fatto che questi può avere interesse a che l'esecuzione si compia su quel bene» (Iannicelli, sub art. 629, 1756, ed ivi ulteriori richiami).

La estinzione a seguito di rinuncia è pronunciata dal G.E. fuori udienza (l'art. 629 c.p.c. richiama, in quanto compatibili, le disposizioni contenute nell'art. 306 c.p.c.).

In questo senso si v. Cass. n. 1826/1993 e, più di recente, Cass. n. 6837/2015.

Nella prima delle menzionate pronunce, oltre a chiarirsi che «funzione dell'estinzione del processo esecutivo è quella di evitare la prosecuzione dell'attività processuale che tutte le parti ritengono formalmente o sostanzialmente inutile», si legge che «il procedimento per la dichiarazione di estinzione del processo esecutivo a seguito di rinuncia, disciplinato dall'art. 629 c.p.c., trova la sua regolamentazione anche nella disposizione dell'art. 306 dello stesso codice, espressamente richiamato (sent. n. 413/1983) e da considerarsi disposizione di carattere generale» e che «dal combinato disposto di queste due norme si deve ricavare che la dichiarazione di estinzione è pronunciata dal giudice dopo la verifica della regolarità della rinuncia come atto, senza che sia necessaria la fissazione di apposita udienza».

Una diversa idea sembra essere alla base di Cass. n. 24355/2015, secondo cui «nel processo esecutivo non vi è necessità di decisione immediata sulla istanza di estinzione, ai sensi dell'art. 630 c.p.c., restando altresì esclusa, ove il giudice adotti un provvedimento interlocutorio di sospensione dell'esecuzione, la reclamabilità al collegio, ex art. 630, comma 3, c.p.c., perché tale ordinanza non costituisce un provvedimento implicito di rigetto dell'eccezione di estinzione, ma è interpretabile come atto interlocutorio prodromico all'accoglimento dell'istanza medesima».

A stemperare l'importanza pratica della questione sta il rilievo che, nell'esecuzione immobiliare, si deve procedere alla cancellazione della trascrizione del pignoramento, ed è necessario disporre la convocazione delle parti, considerato che l'art. 172 disp. att. c.p.c. impone al Giudice di provvedere «sentite le parti».

È quindi usuale che la declaratoria di estinzione del processo e l'ordine (rivolto al Conservatore dei R.I.) di procedere alla cancellazione della trascrizione siano contenuti nel medesimo provvedimento, adottato all'esito dell'udienza appositamente fissata.

Una recente pronuncia della Corte di cassazione ha confermato che il provvedimento del g.e. ha natura meramente dichiarativa.

La questione veniva in rilievo, nell'occasione in esame, nell'ambito di una controversia risarcitoria intentata dal debitore poiché, una volta pagato per intero il proprio debito, il creditore aveva ritardato nel deposito della rinuncia, con ciò precludendo la liberazione del bene dai gravami pregiudizievoli e, quindi, la possibilità di alienarlo (secondo quanto convenuto tra il debitore ed un terzo con apposito preliminare).

A fronte della reiezione della domanda di primo grado (sul rilievo che: la banca non fosse obbligata a provvedere immediatamente alla rinuncia; il bene non fosse commerciabile fin quando vi fosse la trascrizione di un pignoramento; non vi era prova del nesso causale tra la mancata cancellazione della trascrizione e il minor valore ricavato dalla vendita dell'immobile) e dell'appello veniva proposto ricorso per cassazione.

Alcuni motivi di ricorso muovevano dalla ritenuta necessità, da parte del procedente soddisfatto, di depositare immediatamente la rinuncia agli atti.

Ciò sulla base di una interpretazione «in analogia» tra quanto previsto dall'art. 1200 c.c. (secondo cui il creditore che ha ricevuto il pagamento deve consentire la liberazione dei beni dalle garanzie reali date per il credito e da ogni altro vincolo che comunque ne limiti la disponibilità) e quanto previsto – con riferimento al diverso caso della cancellazione della trascrizione del pignoramento – dagli artt. 629 e ss. c.p.c., in comb. disp. con l'art. 172 d.a. c.p.c.

Al riguardo la S.C. osserva che «l'art. 1200 c.c. costituisce norma dettata a tutela del debitore, il quale – una volta che ha adempiuto al proprio debito – ha diritto a riavere i propri beni liberi da vincoli pregiudizievoli, oramai non più giustificati. Difatti, con particolare riferimento all'ipoteca, si è osservato che la garanzia, quale fattispecie accessoria al credito, risulta già estinta ex art. 2878 c.c., n. 3, nel momento in cui l'obbligazione stessa non è più esistente; tuttavia, il permanere dell'iscrizione ipotecaria risulta pregiudizievole per la circolazione del bene stesso, potendo i terzi ignorare la vera situazione del rapporto obbligatorio ed essendo, anzi, generalmente inclini a dare rilevanza all'apparenza del vincolo (Cass. I, sent., n. 6958/1994, Rv. 487526-01; Cass. III, sent., n. 3938/1975, Rv. 378209-01). La giurisprudenza prevalente ha attribuito natura contrattuale all'obbligazione (ex art. 1200 c.c.) del creditore di prestare il proprio consenso alla cancellazione delle ipoteche, una volta che il debito sia stato estinto (Cass. III, sent., n. 15435/2013, Rv. 626877-01; Cass. I, sent., n. 1144/1975, Rv. 374574-01; Cass. sent., n. 897/1962; contra, Cass. I, sent., n. 6958/1994, in motivazione); tale qualificazione è congrua se si considera che l'inadempimento è classificabile più che sotto l'aspetto dell'infrazione dell'obbligo generico di neminem laedere, sotto quello dell'infrazione dell'obbligo di adempiere diligentemente alle proprie obbligazioni e, segnatamente, a una specifica obbligazione preesistente sancita dalla legge.

La dottrina ha elaborato diverse soluzioni ermeneutiche riguardo al concreto contenuto dell'obbligazione incombente sul creditore ipotecario ex art. 1200 c.c.: a) secondo una prima ricostruzione il creditore sarebbe liberato solo dopo aver prestato il suo assenso alla cancellazione e dopo avere provveduto materialmente alla cancellazione stessa, presentando la relativa nota al Conservatore dei Registri Immobiliari (in giurisprudenza, Cass. I, sent., n. 1144/1975, Rv. 374574-01, rimasta isolata); b) in base ad una diversa ricostruzione il creditore sarebbe liberato dalla sua obbligazione semplicemente prestando – a seguito di apposita richiesta avanzata dal debitore – il suo assenso alla cancellazione nelle dovute forme previste dagli art. 2821,2835 e 2837 c.c., non sussistendo alcun altro obbligo a lui imposto dalla legge; c) infine, secondo un'ultima tesi, il creditore sarebbe liberato dalla sua obbligazione soltanto quando, dopo aver prestato nelle forme prescritte dalla legge il suo consenso, costui abbia fatto pervenire nelle disponibilità del debitore l'assenso stesso, nei modi più adeguati alle circostanze.

In proposito, la giurisprudenza di legittimità ha statuito che: a favore del debitore sussiste un diritto all'assenso alla cancellazione (non già il diritto alla cancellazione, esercitabile nei confronti del Conservatore) e, cioè, ad ottenere dal creditore ipotecario (anche in caso di cessione del credito non annotata ex art. 2843 c.c., secondo Cass. III, sent., n. 4419/1980, Rv. 408295-01) un negozio autorizzativo col quale si acconsenta a che l'iscrizione presa possa essere rimossa (Cass. III, sent., n. 10893/1999, Rv. 530411-01; Cass. I, sent., n. 6958/1994, Rv. 487527-01); dato che le spese del pagamento sono a carico del debitore a norma dell'art. 1196 c.c., i costi relativi alla cancellazione del vincolo reale di garanzia (per la formazione dell'atto di assenso e il pagamento delle imposte) competono al debitore stesso (Cass. III, sent., n. 3938/1975, Rv. 378209-01); fino a quando il debitore non ha offerto il rimborso delle spese, il mancato consenso del creditore alla cancellazione delle garanzie reali non può essere qualificato come inadempimento (Cass., sent., n. 2974/1973; Cass., sent., n. 3073/1960); l'esatto adempimento del creditore ipotecario consiste nel porre il debitore in condizione di ottenere la cancellazione con la presentazione del proprio consenso nelle forme prescritte e ciò implica che tale assenso pervenga «nei modi più adeguati alle circostanze» al debitore (Cass. III, sent., n. 15435/2013, Rv. 626876-01; Cass. III, sent., n. 10893/1999, Rv. 530411-01; Cass. III, sent., n. 1012/1978, Rv. 390348-01); la presentazione della richiesta di cancellazione al Conservatore è un onere gravante su chiunque abbia interesse ad eliminare il vincolo (Cass. I, sent., n. 10682/1998, Rv. 520129-01; Cass. III, sent., n. 3335/1973, Rv. 367231-01) e non è un obbligo nascente dalla legge a carico del creditore soddisfatto (Cass. III, sent., n. 15435/2013, Rv. 626876-01; Cass. III, sent., n. 10893/1999, Rv. 530411-01); in difetto di un atto di consenso da parte del creditore (che per tale ragione può essere chiamato a rispondere dei danni in favore del proprietario del bene), qualunque interessato ha facoltà di promuovere la cancellazione giudiziale dell'ipoteca ai sensi dell'art. 2884 c.c. (Cass. III, sent., n. 10893/1999, in motivazione)».

Chiarito quanto sopra rispetto alla interpretazione dell'art. 1200 c.c. la Corte evidenzia che «dal punto di vista oggettivo, l'art. 1200 c.c. si riferisce non solo alle garanzie reali (pegno e ipoteca), ma più in generale ad ‘ogni vincolo che comunque limiti la disponibilità' dei beni del debitore e, quindi, anche al pignoramento immobiliare dal quale derivano gli effetti degli artt. 2913 ss. c.c. e art. 560 c.p.c.»; ne consegue che «il creditore che ha ricevuto il pagamento deve consentire la liberazione dal pignoramento, ma le modalità con cui questa si realizza e i suoi presupposti sono profondamente diversi da quelli sopra descritti con riguardo all'ipoteca» (...).

Difatti, a parere della Corte:

– mentre il pagamento del debito estingue immediatamente anche la garanzia ipotecaria a quello accessoria ex art. 2878 c.c., n. 3, (e la cancellazione ha natura, dunque, di pubblicità-notizia), l'estinzione dell'obbligazione del debitore nei confronti del creditore non ripercuote automaticamente i suoi effetti sul pignoramento trascritto o sul processo di espropriazione forzata pendente, per la cui chiusura occorre necessariamente l'intervento giudiziale (Cass., n. 5796/1993, che espressamente esclude che la cancellazione del pignoramento immobiliare possa essere «consentita dalle parti»);

– anche in caso di pignoramento l'esatto adempimento del creditore pignorante consiste nel porre il debitore in condizione di ottenere l'eliminazione della formalità: tuttavia, mentre la cancellazione dell'iscrizione ipotecaria trova fondamento in un atto negoziale del creditore, quella della trascrizione del pignoramento si basa su un provvedimento giurisdizionale di estinzione del processo esecutivo (fermo restando che l'effettiva rimozione – con effetti di pubblicità-notizia – dipende comunque dall'attività del Conservatore);

– nell'espropriazione forzata, quindi, il consenso ex art. 1200 c.c. del creditore prende la forma dell'atto processuale codificato dall'art. 629 c.p.c. e, cioè, della rinunzia agli atti esecutivi;

– per il principio di libertà delle forme processuali non occorre che la rinuncia agli atti esecutivi sia espressa con atto pubblico o scrittura privata autenticata e, dunque, non ci sono costi inerenti alla formazione dell'atto, il quale non sconta nemmeno (come la consequenziale estinzione del processo) tributi ulteriori rispetto al contributo unificato (versato al momento della presentazione dell'istanza di vendita);

– L'unica spesa che può ipotizzarsi è quella relativa al compenso spettante al difensore del pignorante per la presentazione della rinunzia, ma tale emolumento (indicato dalla tariffa professionale al d.m. Giustizia 10 marzo 2014, n. 55, art. 4, comma 5, lett. e) ed f)) è logicamente già incluso nel pagamento satisfattivo delle ragioni creditorie, in quanto un pagamento parziale – non comprensivo delle spese di esecuzione – non integrerebbe la fattispecie ex art. 1200 c.c. e, anzi, legittimerebbe il procedente a dare ulteriore impulso all'espropriazione (...);

– in ogni caso, il dovere di collaborazione del creditore comprende – anche in caso di consenso ex art. 2882 c.c. – il compimento di attività minime il cui costo, insignificante sotto il profilo economico (...), non può ragionevolmente addossarsi al debitore (diversamente opinando, nel caso dell'assenso alla cancellazione dell'iscrizione ipotecaria, si dovrebbe paradossalmente riconoscere al creditore persino il diritto a una remunerazione economica del tempo dedicato alla redazione dell'atto pubblico o all'autentica della sottoscrizione nella scrittura privata);

– proprio perché il creditore non sostiene spese per rinunciare agli atti esecutivi, il debitore non è tenuto ad anticipare alcunché, né ad offrire alcun rimborso al fine di conseguire la rinunzia;

– la richiesta di cancellazione può essere rivolta al Conservatore da qualunque interessato ad eliminare il vincolo;

– in difetto di un atto di rinuncia da parte del creditore l'esecutato può proporre opposizione all'esecuzione ai sensi dell'art. 615 c.p.c., entro i termini stabiliti dalla citata disposizione e, comunque, senza pregiudizio per l'eventuale aggiudicazione nelle more intervenuta (...);

– il creditore che abbia ingiustificatamente rifiutato il proprio consenso (nelle forme della rinuncia agli atti esecutivi) soggiace a responsabilità risarcitoria, eventualmente anche ex art. 96 c.p.c., comma 2.

In definitiva, osserva conclusivamente la Corte, «il consenso del creditore alla liberazione degli immobili dal pignoramento è – per natura, modalità ed effetti – profondamente diverso dall'assenso alla cancellazione dell'iscrizione ipotecaria: quindi, deve ritenersi errata l'operazione ermeneutica effettuata dalla Corte territoriale che ha applicato analogicamente (simmetricamente, si può dire) le stesse regole a fattispecie differenti».

Ciò detto, «rispetto all'attività volta alla rimozione della garanzia ipotecaria, l'obbligazione del creditore di consentire la liberazione dal pignoramento ha un contenuto diverso.

In primis, diversa è la natura della prestazione in cui si concretizza l'assenso, il quale è atto negoziale in caso di eliminazione della garanzia reale, mentre riveste la forma di atto processuale in caso di cancellazione della trascrizione del pignoramento.

In secondo luogo, l'iniziativa per la cancellazione del pignoramento spetta al creditore che ha ricevuto il pagamento e non già al debitore, il quale – soddisfacendo integralmente la pretesa creditoria – ha diritto a che sia innescato il procedimento che, attraverso l'ordinanza del giudice dell'esecuzione di estinzione del processo esecutivo, conduce alla rimozione della trascrizione pregiudizievole.

L'attività che compete al creditore consiste nel deposito della rinuncia agli atti esecutivi prevista dall'art. 629 c.p.c.»

Ebbene, «poiché la legge non fissa un termine per la presentazione della rinunzia al giudice dell'esecuzione, in mancanza di specifiche pattuizioni tra le parti (che potrebbero disciplinare le modalità e i tempi dell'obbligazione ex art. 1200 c.c.), lo stesso deve essere individuato in base al combinato disposto dell'art. 1183 c.c., comma 1, («Se non è determinato il tempo in cui la prestazione deve essere eseguita, il creditore può esigerla immediatamente»), art. 1175 c.c. («Il debitore e il creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza») e art. 88 c.p.c. («Le parti e i loro difensori hanno il dovere di comportarsi in giudizio con lealtà e probità»). I principi di correttezza e buona fede impongono al creditore di salvaguardare il diritto del debitore che ha pagato il debito di conseguire in tempi ragionevolmente contenuti la liberazione dagli effetti pregiudizievoli del pignoramento (oltre all'indisponibilità giuridica del cespite exartt. 2913 ss. c.c., occorre considerare anche l'impossibilità di continuare ad abitare l'immobile senza l'autorizzazione del giudice dell'esecuzione e il divieto di concedere l'immobile in godimento o di percepire i canoni di locazione/affitto ex art. 560 c.p.c.). A tutela del predetto diritto, il creditore è tenuto ad agire tempestivamente, considerando le circostanze concrete e, in particolare, lo stato del processo esecutivo pendente. Infatti, si deve assolutamente evitare che dalla prosecuzione della procedura (la quale, come detto, non si arresta automaticamente per effetto del sopravvenuto pagamento) possa derivare un irreparabile nocumento all'esecutato: ad esempio, se è prossimo lo svolgimento di una gara, la rinuncia deve essere presentata in tempo utile ad impedire l'aggiudicazione del cespite, dato che, altrimenti, l'atto abdicativo sarebbe inidoneo a scalfire lo ius ad rem dell'aggiudicatario ex art. 187-bis disp. att. c.p.c.».

La Corte evidenzia altresì (ed è di particolare interesse ai fini del discorso che si va qui svolgendo) che «l'esigenza di procedere celermente alla rinuncia agli atti esecutivi trova ulteriore giustificazione nella salvaguardia dell'interesse dell'esecutato ad evitare che nella procedura – ancora pendente nonostante il pagamento – possano intervenire altri creditori abilitati a darvi impulso. Difatti, una volta effettuato il deposito dell'atto ex art. 629 c.p.c. da parte dell'unico creditore, il provvedimento di estinzione del giudice dell'esecuzione ha natura meramente dichiarativa dell'effetto estintivo (istantaneo) che si è già prodotto nel momento in cui il processo esecutivo non è stato più sorretto da un creditore munito di titolo esecutivo; al contrario, un intervento anteriore alla rinuncia impedirebbe l'estinzione della procedura e determinerebbe la sua prosecuzione in danno dell'esecutato (...)».

In definitiva, l'intervento effettuato tra la rinuncia del procedente e il provvedimento del G.E, quantunque munito di titolo, sarebbe inidoneo a «sorreggere» la procedura, atteso il carattere istantaneo dell'effetto conseguente ad essa rinuncia.

Rinuncia parziale. La rinuncia può anche essere parziale.

Tale eventualità si può presentare in una serie di casi:

– il creditore acclara che uno dei beni non è di proprietà del debitore e, quindi, rinuncia all'esecuzione limitatamente a tale bene;

– il creditore non riesce ad ottenere, con riferimento ad un bene, la documentazione di cui all'art. 567, comma 2, c.p.c.;

– in caso di procedimenti riuniti, laddove i pignoramenti da cui gli stessi conseguono riguardino diversi beni, la rinuncia di ciascun creditore vale solo con riferimento al pignoramento da questi compiuto (sul punto v. Longo, Sui rapporti tra estinzione del processo esecutivo per rinuncia agli atti e connessione per identità del soggetto passivo, 1559).

Al riguardo pare necessario precisare che il presupposto della riunione di procedure esecutive va – di massima – rinvenuto nella medesimezza del bene colpito dai vari pignoramenti (e conseguentemente del debitore che, di tale bene, è proprietario).

È meno ortodossa, a parere di chi scrive, l'ipotesi di riunione fondata sul solo presupposto della medesimezza del debitore, laddove i vari pignoramento colpiscano distinti beni nella titolarità di questi.

Ciò nondimeno, la prassi conosce casi di «riunione propter opportunitatem»: si pensi all'ipotesi in cui due beni, giuridicamente e catastalmente autonomi, siano posti in una relazione funzionale tale per cui la vendita dell'intero, pur non essendo la sola soluzione astrattamente possibile, si mostra quella economicamente più proficua.

Altri effetti dell'estinzione per rinuncia: rinvio all'art. 632 c.p.c. Con la ordinanza di estinzione il g.e. deve provvedere alla liquidazione delle spese sostenute dalle parti – se richiesto – e alla liquidazione dei compensi al professionista eventualmente delegato al compimento delle operazioni di vendita: nel provvedimento di fissazione dell'udienza è buona norma invitare gli ausiliari a depositare entro un termine perentorio che scada prima di tale udienza le istanza di liquidazione dei compensi, posto che – a rigore – una volta estinta la procedura il g.e. ha «consumato» il proprio potere in ordine alla stessa e, quindi, anche il potere di provvedere in relazione a tali istanze, se «tardivamente» proposte.

Sul regime delle spese si tornerà funditus in sede di esame dell'art. 632 c.p.c.

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