1. Su istanza di ogni parte interessata, il riconoscimento
di una decisione è negato:
a) se il riconoscimento è manifestamente contrario all'ordine
pubblico (ordre public) nello Stato membro richiesto;
b) se la decisione è stata resa in contumacia, qualora
la domanda giudiziale o un atto equivalente non siano stati notificati o comunicati
al convenuto in tempo utile e in modo tale da poter presentare le proprie
difese eccetto qualora, pur avendone avuto la possibilità, questi non abbia
impugnato la decisione;
c) se la decisione è incompatibile con una decisione emessa
tra le medesime parti nello Stato membro richiesto;
d) se la decisione è incompatibile con una decisione emessa
precedentemente tra le medesime parti in un altro Stato membro o in un paese
terzo, in una controversia avente il medesimo oggetto e il medesimo titolo,
sempre che tale decisione soddisfi le condizioni necessarie per essere riconosciuta
nello Stato membro richiesto; o
e) se la decisione è in contrasto con:
i) le disposizioni del capo II, sezioni 3, 4 e 5 nella
misura in cui il contraente dell'assicurazione, l'assicurato, il
beneficiario di un contratto di assicurazione, la parte lesa, il consumatore
o il lavoratore sia il convenuto; o
ii) le disposizioni del capo II, sezione 6.
2. Nell'accertamento delle ipotesi di cui al paragrafo
1, lettera e), l'autorità giurisdizionale cui sia stata presentata l'istanza
è vincolata dall'accertamento dei fatti sul quale l'autorità giurisdizionale
d'origine ha fondato la propria competenza.
3. Fatto salvo quanto previsto dal paragrafo 1, lettera
e), la competenza dell'autorità giurisdizionale d'origine non può
essere oggetto di riesame. I motivi di ordine pubblico di cui al paragrafo
1, lettera a) non si applicano alle norme in materia di competenza.
4. La domanda di diniego del riconoscimento è presentata
in conformità delle procedure di cui alla sottosezione 2 e, se del caso, della
sezione 4.
Inquadramento
Nonostante il tentativo di superamento compiuto in sede di lavori preparatori, il regolamento n. 1215/2012 elenca, all'art. 45, ipotesi in presenza delle quali – su iniziativa della parte interessata – è possibile conseguire il diniego del riconoscimento della decisione straniera. Si è tentato in questo modo di trovare un punto di equilibrio tra le opposte esigenze di semplificazione della circolazione delle decisioni da un lato e protezione del diritto di difesa dall'altro.
I medesimi motivi elencati all'art. 45 possono altresì precludere l'esecuzione della decisione pronunciata in un altro Stato membro (art. 46). Si tratta di ipotesi in massima parte ricalcanti quelle già previste dal regolamento Bruxelles I e che, stante la generalità del principio di libera circolazione delle decisioni devono essere interpretate restrittivamente.
Di seguito si procederà ad esaminare singolarmente le cause ostative del riconoscimento, mentre si rinvierà, così come fa lo stesso legislatore europeo (art. 45.4), alla trattazione del diniego dell'esecuzione per quanto riguarda i profili procedurali.
Il contrasto con l'ordine pubblico
Il primo motivo di mancato riconoscimento della decisione straniera contemplato dall'art. 45 è la contrarietà della decisione all'ordine pubblico dello Stato richiesto.
La dottrina si è a lungo interrogata sulla portata della clausola dell'ordine pubblico, distinguendo innanzitutto l'ordine pubblico c.d. «internazionale», costituente limite – eccezionale – all'applicazione del diritto straniero ed alla circolazione delle decisioni straniere, dall'ordine pubblico c.d. «interno», inteso quale limite all'autonomia privata derivante dalle norme imperative interne (per il dibattito sulla correttezza e sulla rilevanza di tale distinzione si rinvia a Feraci, 27 ss.). In linea generale, l'ordine pubblico (internazionale, ove si voglia continuare ad utilizzare un dato lessicale in massima parte superato) ricomprende i principi fondamentali che caratterizzano una comunità nazionale in un determinato momento storico; in quanto tale, esso vale a delineare una clausola generale che, senza dubbio, deve essere concretizzata dal giudice, chiamato a dare effettiva applicazione al limite in esame.
L'art. 45 fa riferimento all'ordine pubblico dello «Stato membro in cui è richiesto il riconoscimento». Nonostante il dato letterale, la nozione di ordine pubblico richiamata non è esclusivamente rimessa agli ordinamenti nazionali, ma presenta anche una connotazione europea. Il riferimento all'ordine pubblico nazionale ricomprende infatti anche limiti (alla circolazione delle decisioni) comunitari nella misura in cui gli strumenti di cooperazione giudiziaria si fondano sui principi di equivalenza delle giurisdizioni nazionali e di fiducia reciproca nella giustizia amministrata negli Stati membri dell'Unione (Feraci, 231). Del resto, a conferma degli effetti che il diritto dell'Unione produce negli ordinamenti degli Stati membri, si è anche osservato come vi sia ormai una nozione di ordine pubblico dell'Unione (non sempre nettamente distinguibile da quella di ordine pubblico dello Stato membro) che, lungi dallo svolgere la sola, tradizionale funzione negativa (di limite), assume sempre più anche una funzione propositiva. In particolare, nei confronti degli Stati membri, l'ordine pubblico dell'Unione europea svolgerebbe una funzione «sussidiaria», poiché imporrebbe indirettamente ai singoli Stati (attraverso il confronto con il contenuto dell'ordine pubblico dell'Unione, delle legge o delle decisioni dei giudici degli Stati membri) la tutela dei valori essenziali ed irrinunciabili dell'Unione; in definitiva, l'ordine pubblico dell'Unione imporrebbe agli Stati membri il rispetto di quegli imperativi uniformi che gli stessi non hanno osservato nell'elaborazione delle norme nazionali o nell'emanazione delle decisioni (Feraci, 342).
La funzione propositiva dell'ordine pubblico pare particolarmente evidente con riferimento al rapporto tra ordine pubblico e diritto all'equo processo (riconosciuto anche all'art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea ed all'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo). Peraltro, il profilo in esame impone particolare cautela, poiché non tutte le limitazioni del diritto di difesa comportano ex se violazione del diritto fondamentale ad un equo processo. Il diritto di difesa può essere infatti sottoposto a restrizioni nella misura in cui le stesse siano funzionali alla realizzazione di interessi generali e non risultino sproporzionate e tali da realizzare una compressione inaccettabile delle garanzie difensive. La disposizione in esame precisa che il limite al riconoscimento della decisione adottata nello Stato d'origine è destinato ad operare solo ove la decisione sia «manifestamente» contraria all'ordine pubblico dello Stato richiesto. La necessità di una contrarietà «manifesta» conferma l'eccezionalità del limite dell'ordine pubblico. Eccezionalità che, per un verso, discende dalla necessità di evitare che un ampio impiego dell'ordine pubblico possa, surrettiziamente, comportare un aggiramento del divieto di riesame nel merito della decisione (Salerno 2003, 247) e, per altro verso, è ben spiegabile alla luce dell'esistenza di valori comuni alla base dei singoli ordinamenti giuridici dell'Unione.
La giurisprudenza di legittimità ha, in passato, distinto l'ordine pubblico interno da quello internazionale. Secondo Cass. S.U., n. 189/1981, in particolare, l'ordine pubblico c.d. «interno» comprende il complesso dei principi fondamentali che, in un determinato momento storico, caratterizza la struttura etico-sociale della comunità nazionale; l'ordine pubblico c.d. «internazionale» comprende invece i principi di natura universale, comuni a molte nazioni di civiltà affine, volti a tutelare alcuni diritti fondamentali, sovente sanciti in dichiarazioni o convenzioni internazionali. Più recentemente la Suprema Corte ha precisato la nozione di ordine pubblico internazionale delineandola come il complesso dei principi fondamentali che connotano l'ordinamento interno in un determinato momento storico, fondato su esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell'uomo comuni ai diversi ordinamenti e desumibili, innanzi tutto, dai sistemi di tutela approntati a livello sovraordinato rispetto alla legislazione nazionale (Cass. III, n. 19405/2013; Cass. sez. lav., n. 4040/2006). Cass. I, n. 6723/2023, ribadito che i motivi di diniego individuati all'art. 45 del regolamento (UE) n. 1215/2012, in quanto idonei ad ostacolare la circolazione della sentenza straniera, sono soggetti ad interpretazione restrittiva, con onere della prova a carico della parte che li invoca, ha escluso la possibilità di negare il riconoscimento di una sentenza straniera ai sensi dell'art. 45, comma 1, lett. a) del regolamento per il mancato rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, da parte del giudice straniero, su questioni interpretative attinenti strettamente al merito della controversia da lui decisa; questioni interpretative «istituzionalmente riservate al giudice a quo dello Stato membro di origine».
La medesima sentenza ha pure precisato che il parametro da valutare nel caso in cui sia richiesto al giudice italiano, ai sensi degli artt. 45 e 46 del regolamento UE n. 1215/2012, che sia negato il riconoscimento di una sentenza straniera per la sua manifesta contrarietà all'ordine pubblico nello Stato richiesto non è quello dell'ordine pubblico interno, ma quello dell'ordine pubblico internazionale (il quale, ricomprendendo le norme che rispondono all'esigenza di carattere universale di tutelare i diritti fondamentali dell'uomo o che informano l'intero ordinamento in modo tale che la relativa lesione si traduca in uno stravolgimento dei suoi valori fondanti, «svolge una funzione di sbarramento rispetto all'ingresso nell'ordinamento interno di valori incompatibili con i suoi princìpi ispiratori»). Pertanto, secondo la Suprema Corte, non è contraria all'ordine pubblico la condanna, da parte del giudice del lavoro danese, al pagamento di un «bod» la quale «non è assimilabile ad una condanna penale, ma è una misura composita, compensativa e sanzionatoria, avente ad oggetto una “pena pecuniaria” non incompatibile con l'ordine pubblico, in quanto soddisfa i requisiti della tipicità (essendo prevista dalla legislazione danese), della prevedibilità (essendo sufficientemente predeterminati i criteri di quantificazione) e della proporzionalità (essendo distintamente graduate la parte compensativa e la parte sanzionatoria della misura)».
La natura eccezionale del limite dell'ordine pubblico è stata ripetutamente affermata anche dalla Corte di giustizia. In tal senso, Corte giustizia UE, 25 maggio 2016, C-559/14, Rūdolfs Meroni, ha osservato che la nozione di ordine pubblico enunciata all'art. 34.1 del regolamento (CE) n. 44/2001 deve essere interpretata restrittivamente, in quanto vale ad individuare un ostacolo alla realizzazione di uno degli obiettivi fondamentali dello stesso regolamento. Ne discende che il limite dell'ordine pubblico deve applicarsi solo in casi eccezionali. La natura eccezionale dell'ordine pubblico è stata ribadita anche da Cass. I, n. 9978/2016 la quale ha, a tale fine, ripercorso le diverse disposizioni (artt. 34, regolamento CE n. 44/2001, 26, regolamento CE n. 864/2007, 22 e 23, regolamento CE n. 2201/2003, e art. 24, regolamento CE n. 4/2009) degli strumenti di cooperazione giudiziaria che prevedono come il riconoscimento (automatico) delle decisioni di altri Stati membri possa essere escluso solo in caso di «manifesta» contrarietà all'ordine pubblico.
La citata sentenza Corte giustizia UE, 25 maggio 2016, C-559/14, Rūdolfs Meroni, si segnala anche perché precisa che, pur essendo i singoli Stati membri liberi di determinare, sulla base della riserva contenuta all'art. 34.1 del regolamento Bruxelles I, le esigenze del proprio ordine pubblico conformemente alle rispettive concezioni nazionali, i confini dell'ordine pubblico rientrano nell'interpretazione del regolamento; ne discende che, pur non competendo alla Corte la definizione del contenuto dell'ordine pubblico di uno Stato membro, essa è tuttavia chiamata a controllare i limiti entro i quali il giudice di uno Stato membro può ricorrere a tale istituto per non riconoscere la decisione emessa dal giudice di altro Stato membro. Nel verificare tali limiti la Corte giunge quindi ad affermare che il ricorso all'ordine pubblico è conforme allo spirito del regolamento solo ove il riconoscimento o l'esecuzione della decisione emessa in un altro Stato contrasti «in modo inaccettabile» con l'ordinamento giuridico dello Stato membro richiesto, in quanto lesiva di un diritto fondamentale; in altri termini, è necessario rinvenire una «violazione manifesta» di una norma giuridica considerata essenziale nell'ordinamento dello Stato richiesto o di un diritto riconosciuto come fondamentale in tale ordinamento.
Del resto, anche la giurisprudenza nazionale (tra le altre, Cass. sez. lav., n. 10215/2007) ha chiarito che l'ordine pubblico (nel caso concreto, oggetto di scrutinio era l'ordine pubblico contemplato dall'art. 16, comma 1, l. n. 218/1995) deve essere garantito, in sede di controllo della legittimità dei provvedimenti giudiziari, con riferimento ai suoi effetti. L'ordine pubblico non si identifica con quello interno perché, altrimenti, le norme di conflitto sarebbero operanti solo ove conducano all'applicazione di disposizioni materiali aventi contenuto simile a quelle interne, cancellando le diversità esistenti tra i sistemi giuridici e rendendo sostanzialmente inutili le regole del diritto internazionale privato. Ancora, Cass. I, n. 5487/2012, ha osservato come il diniego di esecutività della sentenza straniera in materia civile e commerciale ha, nel sistema delineato dal regolamento (CE) n. 44/2001, carattere di straordinarietà ed è limitato alle ipotesi di violazione dei soli principi fondamentali dell'ordinamento dello Stato richiesto. Conseguentemente, la parte che si oppone alla dichiarazione di esecutività deve addurre una contrarietà all'ordine pubblico interno derivante dall'applicazione di una norma o di una giurisprudenza consolidata dello Stato straniero, non dalla valutazione di merito della fattispecie decisa.
In più occasioni la Corte di giustizia ha ritenuto applicabile la clausola dell'ordine pubblico prevista dall'art. 34.1 del regolamento (CE) n. 44/2001 per escludere la riconoscibilità di decisioni ottenute in altri Stati membri a fronte della violazione del diritto ad un equo processo il quale si ispira ai diritti fondamentali che fanno parte integrante dei principi generali del diritto comunitario; principi generali dei quali la Corte di giustizia garantisce l'osservanza ispirandosi alle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri ed alle indicazioni rese dalla CEDU (Corte giustizia CE, 25 gennaio 2007, C-411/04, Salzgitter Mannesmann GmbH). Si è così precisato (Corte giustizia CE, 28 marzo 2000, C-7/98, Dieter Krombach) che, fermo l'obiettivo di semplificazione delle formalità necessarie ai fini del reciproco riconoscimento e della reciproca esecuzione delle decisioni giudiziarie che anima la convenzione di Bruxelles del 1968, il ricorso all'ordine pubblico deve ritenersi possibile nei casi eccezionali in cui le garanzie previste dall'ordinamento dello Stato d'origine e dalla stessa convenzione non sono bastate a preservare il convenuto da una violazione manifesta del suo diritto a difendersi avanti al giudice d'origine, così come sancito dalla CEDU. Analogamente, Corte giustizia CE, 14 dicembre 2006, C-283/05, ASML Netherlands BV, premesso che l'obiettivo del regolamento (CE) n. 44/2001 è quello di garantire la libera circolazione delle decisioni emesse dagli Stati membri in materia civile e commerciale attraverso la semplificazione delle formalità di riconoscimento ed esecuzione, ha precisato (anche alla luce del considerando 18 del medesimo regolamento) che un simile obiettivo non può tuttavia esser raggiunto indebolendo, in qualsiasi modo, i diritti della difesa. I diritti fondamentali, infatti, fanno parte integrante dei principi generali del diritto dei quali la Corte garantisce l'osservanza ispirandosi alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri ed alle indicazioni fornite dai trattati internazionali concernenti la tutela dei diritti dell'uomo ai quali gli Stati membri hanno cooperato o aderito; tra di essi la convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali riveste un particolare significato. Ne discende, alla luce dell'art. 6 della CEDU come interpretata dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, che i diritti della difesa (i quali derivano dal diritto ad un processo equo sancito dall'art. 6 della medesima convenzione) presuppongono una tutela concreta ed effettiva, idonea a garantire l'esercizio effettivo dei diritti del convenuto. Nello stesso senso, ancora, Corte giustizia CE, 2 aprile 2009, C-394/07, Marco Gambazzi, ha ribadito come l'esercizio dei diritti di difesa ha un'importanza eminente nella prospettiva dello svolgimento di un processo equo e figura tra i diritti fondamentali che risultano dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e dai trattati internazionali in materia di tutela dei diritti dell'uomo, tra i quali particolare significato riveste la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. A conferma della portata non assoluta dei diritti fondamentali, la decisione da ultimo citata ribadisce altresì l'orientamento secondo il quale se è vero che tali diritti (e, tra essi, anche il diritto della difesa) non costituiscono prerogative assolute, potendo invece essere soggetti a limitazioni, le eventuali restrizioni che possono riguardarli devono tuttavia rispondere effettivamente ad obiettivi di interesse generale e non costituire, rispetto allo scopo perseguito, una violazione manifesta e smisurata degli stessi.
Corte giustizia UE, 6 settembre 2012, C-619/10, Trade Agency Ltd, ha chiarito che il diritto all'equo processo, risultante dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, è stato riaffermato all'art. 47.2 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea con previsione che corrisponde, come emerge dalle spiegazioni relative a tale disposizione (le quali, conformemente all'art. 6, n. 1, terzo comma TUE e all'art. 52, n. 7, della Carta, devono essere prese in considerazione per l'interpretazione di quest'ultima), all'art. 6 par. 1 della CEDU.
Anche la Corte europea dei diritti dell'uomo ha affermato che l'art. 6 della CEDU tutela il diritto fondamentale al riconoscimento ed all'esecuzione delle decisioni che siano divenute definitive ed obbligatorie per le parti (tra le altre, Corte EDU, 24 maggio 2007, Paudicio c. Italia e, con specifico riferimento all'esecuzione di decisione straniera, Corte EDU, 23 maggio 2016, Avotiņš c. Lettonia, Corte EDU, 20 luglio 2001, Pellegrini c. Italia). Essendo tuttavia anche il diritto fondamentale al riconoscimento delle decisioni suscettibile di bilanciamento con altri obiettivi di interesse generale, la Corte di Strasburgo ha ritenuto possibile che gli Stati contraenti, avvalendosi del margine di apprezzamento loro riservato, richiedano, quale condizione per la dichiarazione di esecutività, una procedura di exequatur, nell'ambito della quale gli organi dello Stato richiesto sono chiamati a verificare il rispetto delle garanzie dell'equo processo nello Stato d'origine (Corte EDU, 20 luglio 2001, Pellegrini c. Italia).
Anche la Suprema Corte italiana è stata chiamata a verificare la portata dell'ordine pubblico c.d. «processuale» quale limite al riconoscimento di decisioni straniere. In particolare, Cass. VI-III, n. 1239/2017, ha escluso la violazione dell'ordine pubblico in caso di decisione straniera resa in assenza di espressa motivazione sul rigetto di un'istanza istruttoria. La violazione dell'ordine pubblico processuale – afferma la Corte – è infatti ravvisabile solo in casi eccezionali di violazione dei principi fondamentali dello Stato richiesto; violazione da escludersi con riferimento al caso concreto atteso che, anzi, esiste un consolidato orientamento di legittimità in base al quale l'implicita esclusione della rilevanza del mezzo istruttorio del quale la parte ha chiesto l'ammissione può desumersi dalla stessa ratio decidendi in base alla quale è stata risolta, nel merito, la controversia.
La mancata notifica della domanda giudiziale al convenuto
La lett. b) dell'art. 45 esclude (sempre a fronte di una domanda di parte) la riconoscibilità della decisione straniera pronunciata nella contumacia della parte convenuta nel caso in cui la domanda giudiziale od un atto equivalente non siano stati notificati o comunicati al contumace in tempo utile ed in modo tale da consentirgli di svolgere le proprie difese, salvo che lo stesso convenuto, pur avendone avuto la possibilità, non abbia impugnato la decisione.
Non è agevole distinguere le ipotesi contemplate alle letterea) eb) dell'art. 45. Alla luce di quanto sopra osservato, infatti, il diritto di difesa (espressione del più ampio diritto all'equo processo) deve annoverarsi tra quei principi fondamentali che, comuni alle tradizioni costituzionali dei singoli Stati membri ed alla base dello stesso ordinamento giuridico dell'Unione europea, rientrano nell'ordine pubblico (pur essendo, come visto, a determinate condizioni comprimibili). Del resto, l'ipotesi contemplata alla lett. b) integra una violazione tanto intensa del diritto di difesa da ritenere arduo escluderne la riconduzione alla generale clausola dell'ordine pubblico (una riconduzione delle due ipotesi alla categoria dell'ordine pubblico processuale è prospettata da D'Alessandro, 2007, 174). Pare pertanto che la distinzione conservi una certa quale attualità nella sola misura in cui si ritenga che il legislatore abbia, per l'ipotesi contemplata alla lett. b), specificamente individuato quali sono le formalità da rispettare perché il contraddittorio possa ritenersi correttamente instaurato (D'Alessandro II, 174) e, pertanto, abbia tipizzato un'ipotesi di manifesta contrarietà all'ordine pubblico.
Tanto detto, in dottrina (Salerno, 2003, 240-241) si è rilevato come la Corte di giustizia non abbia elaborato una nozione autonoma di contumacia, attribuendo tuttavia rilievo decisivo alla notificazione della domanda (quale momento che consente al destinatario della stessa di svolgere le proprie difese), ed abbia escluso il rispetto del diritto di difesa nel caso in cui il procedimento si sia svolto nel contraddittorio con un avvocato al quale il convenuto non aveva mai conferito mandato.
Analogamente all'art. 34 n. 2 del regolamento n. 44/2001, anche il regolamento n. 1215 limita il controllo del giudice dello Stato richiesto alla sola congruità dei tempi di notifica e di impugnazione, non, anche (come invece faceva, l'art. 27, n. 2 della convenzione di Bruxelles del 1968), alla regolarità dell'originaria notifica. La differenza appare di non poco conto, atteso che, per effetto della crescente, reciproca fiducia alla base dello spazio giudiziario europeo, risultano ormai irrimediabilmente assorbite nella valutazione del giudice d'origine eventuali irregolarità formali sanate nell'ordinamento d'origine (Salerno, 2003, 242). Peraltro, ferma la mancanza di parametri alla stregua dei quali valutare la congruità del termine a comparire rispetto alla possibilità di esercitare in modo effettivo il diritto di difesa, si è ritenuto che il giudice dovrà inevitabilmente apprezzare le circostanze del caso concreto, avendo riguardo, ad esempio, a possibili difficoltà del destinatario nel comprendere la lingua dell'atto o all'obiettiva complessità della res litigiosa (Salerno, 2003, 244).
Ancora, alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia (v. infra), deve precisarsi come, all'ipotesi (espressamente contemplata) della mancata notifica o comunicazione della domanda giudiziale al convenuto contumace vada equiparata quella della mancata notificazione o comunicazione della decisione contumaciale; anche tale notifica o comunicazione, infatti, costituisce strumento fondamentale di tutela effettiva (innanzi al giudice dello Stato d'origine) del diritto di difesa del convenuto contumace.
Corte giustizia CE, 14 dicembre 2006, C-283/05, ASML Netherlands BV, ha esaminato il rinvio pregiudiziale relativo all'interpretazione dell'art. 34, n. 2 del regolamento (CE) n. 44/2001 nella parte in cui lo stesso individua quale preclusione al riconoscimento della decisione straniera la mancata notifica o comunicazione della domanda al convenuto contumace, salva la «possibilità», per questi, di impugnare la decisione. Il giudice nazionale, in particolare, chiedeva se tale «possibilità» di impugnazione fosse necessariamente conseguenza di una regolare notifica o comunicazione della sentenza al convenuto contumace o se fosse sufficiente che il convenuto contumace avesse avuto conoscenza della sentenza nella fase del procedimento di esecuzione nello Stato richiesto. La Corte (premesso che la lettera dell'art. 34, n. 2, facendo riferimento alla notifica o comunicazione della domanda e non, anche, alla notifica o comunicazione della sentenza contumaciale, non consente – ove autonomamente considerata – di risolvere la questione), ha osservato come la possibilità di proporre un ricorso efficace presuppone che il ricorrente possa prendere cognizione della decisione contumaciale, sì da poterla utilmente contestare. Ne discende che solo la notifica o la comunicazione della sentenza (e non anche la conoscenza della stessa acquisita a fronte della dichiarazione di esecutività nello Stato richiesto) consentono al convenuto contumace di impugnare la decisione secondo modalità conformi all'effettivo contenuto del diritto di difesa. Né potrebbe, sulla base dell'art. 34 n. 2, porsi a carico del convenuto l'onere di attivarsi oltre la misura dell'ordinaria diligenza ad esempio informandosi – nello Stato richiesto – del contenuto di una decisione adottata in un altro Stato membro.
Corte EDU, 23 maggio 2016, Avotiņš c. Lettonia ha inoltre precisato che la valutazione in ordine all'onere della prova circa la possibilità di impugnare la decisione emessa nello Stato d'origine deve essere compiuta nel corso di un procedimento in contraddittorio concluso con una decisione motivata.
L'incompatibilità con altra decisione.
Le letterec) ed) dell'art. 45 (speculari ai nn. 3 e 4 dell'art. 34 regolamento n. 44/2001) sono espressione della volontà del legislatore europeo di creare un sistema di riconoscimento automatico delle decisioni che sia in grado di evitare, con riferimento alle stesse parti ed allo stesso oggetto, una pluralità di decisioni di tenore contrastante e, tutte, suscettibili di libera circolazione. Tale obiettivo è, senza dubbio, perseguito in via principale attraverso lo strumento della litispendenza. Tuttavia, le lett. c) e d) qui esaminate individuano un meccanismo residuale (D'Alessandro, 2015, 343) destinato a salvaguardare l'armonia delle decisioni. La residualità del meccanismo in esame è apprezzabile non solo in una prospettiva temporale (le norme da ultimo citate sono infatti destinate ad operare solo ove la litispendenza – istituto da applicare prioritariamente – non abbia consentito la realizzazione dello scopo perseguito), ma, anche, in una dimensione «effettuale». Se, infatti, la litispendenza preclude (anche nell'ordinamento interno) l'adozione di una decisione in contrasto con quella adottata dal giudice previamente adito, il diniego del riconoscimento (o il diniego dell'esecuzione) precludono solo la circolazione della decisione contrastante nello Stato richiesto, ma non valgono ad escludere gli effetti, nello Stato d'origine, della decisione adottata in violazione delle regole sulla litispendenza.
Richiamando la giurisprudenza della Corte giustizia CE, 2 giugno 1994, C-414/92, Solo Kleinmotoren GmbH si è osservato che la nozione di decisione cui fanno riferimento le citate lettere c) e d) non è riferibile alle transazioni giudiziarie (comprensive anche dei verbali di conciliazione stragiudiziale omologati dal giudice), sì che la sussistenza nel foro di una transazione giudiziaria contrastante non vale ad ostacolare il riconoscimento e l'esecuzione di una decisione giudiziaria resa in un altro Stato (D'Alessandro, 2015, 345).
Tanto premesso con riferimento alla ratio della norma, deve rilevarsi come la disposizione in esame desti problemi di non poco conto; ciò è a dirsi, in particolare, con riferimento all'interpretazione del riferimento letterale alla incompatibilità delle decisioni.
La norma non precisa se la sentenza dello Stato richiesto debba essere anteriore alla sentenza della quale si chieda l'esecuzione o debba essere passata in giudicato.
Quanto al primo aspetto, la soluzione per la quale l'incompatibilità in esame prescinde dai tempi in cui le decisioni sono state adottate pare preferibile sotto il profilo tanto letterale, quanto teleologico. La formulazione della norma, innanzitutto, è tanto ampia da indurre a ritenere che il legislatore europeo abbia inteso prescindere del tutto dai tempi in cui le decisioni inconciliabili sono state adottate. In questo senso, del resto, depone anche la mancata riproduzione del riferimento alla «decisione anteriore» pronunciata in uno Stato membro o in un paese terzo contenuto invece all'art. 21 del regolamento (CE) n. 805/2004 (in termini, con riferimento alla speculare previsione dell'art. 34, n. 3 del regolamento CE n. 44/2001, D'Alessandro, 2007, 245). Sotto il profilo teleologico, inoltre, si è osservato che la soluzione qui accolta è l'unica in grado di salvaguardare il principio di uniforme interpretazione ed applicazione nelle norme dell'Unione nello spazio giudiziario europeo; ove si aderisse alla soluzione contraria, infatti, alcuni Stati membri potrebbero respingere le decisioni straniere contrastanti con una propria decisione successiva ed altri no a seconda che le norme processuali interne attribuiscano in generale al giudicato formatosi per secondo l'effetto di prevalere su quello precedente (D'Alessandro, 2007, 245-246; sulla medesima questione v. anche D'Alessandro I, 346).
Assai eterogenee sono le posizioni emerse in dottrina quanto alla necessità che la decisione interna incompatibile con quella straniera sia passata in giudicato.
La soluzione negativa è stata, con riferimento all'art. 34, n. 3 del regolamento (CE) n. 44/2001, argomentata alla luce dell'ampia formulazione della norma la quale non fa alcun riferimento alla necessità di un giudicato (Coscia, 270). In senso critico si è tuttavia osservato che, in tal modo, si consente, a fronte del mero mancato accoglimento da parte del giudice di primo grado dell'eccezione di giudicato straniero, di opporre (vittoriosamente) la sopravvenuta inefficacia della decisione straniera per effetto dell'art. 34, n. 3 del regolamento del 2001 allorquando la parte riproponga la medesima eccezione in sede di impugnazione della decisione interna; possibilità che risulta in contrasto con l'obiettivo di realizzare un'armonica circolazione delle decisioni nello spazio giudiziario europeo (D'Alessandro, 2007; 247; Merlin, 508). Altri ha ritenuto che sia necessario valutare se, per l'ordinamento dello Stato richiesto, la decisione interna sia o meno munita di effetti (pur non integranti il giudicato) più forti o, quanto meno, equivalenti rispetto a quelli che la sentenza straniera ha alla luce delle norme dello Stato d'origine; in un simile caso, infatti, dovrebbe prevalere la decisione interna con conseguente inefficacia di quella straniera. Tale soluzione presenta tuttavia (quanto meno) la difficoltà di individuare quale tipo di efficacia (e, in particolare, se sia necessaria o meno un'efficacia di accertamento extraprocessuale) delle due decisioni debba essere oggetto di comparazione (sul punto, amplius, D'Alessandro, 248 ss.). Da ultimo, si è osservato come l'art. 34, n. 3 del regolamento (CE) n. 44/2001 (nel senso della preferibilità di tale tesi anche alla luce del regolamento n. 1215, v. D'Alessandro, 2015, 349 ss.) non potrebbe operare sino a quando sia possibile, nell'ordinamento richiesto, risolvere il conflitto mediante l'impugnazione (anche straordinaria) della decisione nazionale (D'Alessandro, 2007, 250 ss.; Merlin, 512 ss.). Una simile conclusione, fondata sul principio generale per il quale i rimedi operanti sul piano dell'annullamento delle sentenze come atti hanno (quali modalità di composizione del conflitto) la precedenza rispetto ai rimedi operanti sull'efficacia delle decisioni (D'Alessandro, 2007, 251; Merlin, 513), risulterebbe inoltre preferibile anche alla luce dell'obiettivo di armonizzazione dello spazio giudiziario europeo perseguito dal legislatore dell'Unione.
Quanto alla nozione di incompatibilità rilevante ai fini del regolamento si è ritenuto di poter valorizzare il solo caso in cui gli effetti extraprocessuali di accertamento o di modificazione giuridica delle due decisioni sono in contrasto diretto. In una diversa prospettiva (che, come si vedrà, pare esser stata accolta anche dalla Corte di Lussemburgo) si è invece prospettata una nozione più ampia (e di portata sostanziale) di incompatibilità destinata a ricomprendere tutti i casi nei quali il riconoscimento del bene della vita oggetto della decisione interna sarebbe, sulla base della decisione straniera, del tutto annichilito in via diretta, perché la decisione straniera accerta l'inesistenza del bene della vita ritenuto invece esistente dalla pronuncia interna, o in via indiretta, perché la decisione straniera attribuisce in modo permanente, tra le stesse parti, un bene della vita diverso, ma incompatibile con quello riconosciuto dalla pronuncia interna (sulla nozione di contrasto accolta all'art. 34 del regolamento CE n. 44/2001 si rinvia a D'Alessandro, 2015, 258 ss.).
Da ultimo, con riferimento alla incompatibilità con una decisione emessa in uno Stato terzo che soddisfi i requisiti necessari al suo riconoscimento nello Stato membro dell'esecuzione occorre rilevare come i requisiti necessari al riconoscimento nello Stato membro dell'esecuzione dovranno essere individuati sulla base della disciplina internazionalprivatistica di diritto interno. Con riferimento al caso in cui lo Stato membro dell'esecuzione sia l'Italia, occorrerà, in particolare, avere riguardo alla disciplina dettata dall'art. 64 della l. n. 218/1995. Sarà pertanto necessario, tra l'altro, che la decisione straniera sia passata in giudicato secondo la legge del luogo in cui è stata pronunziata (art. 64, lett. d). Non sussiste quindi il problema (sopra indicato) relativo alla possibilità di rinvenire un ostacolo nell'esecuzione con riferimento ad una decisione che non sia ancora passata in giudicato.
Nei limiti in cui la sentenza dello Stato terzo sia passata in giudicato e (più in generale) rispetti tutti gli ulteriori requisiti contemplati all'art. 64 della legge di riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato prima dell'emanazione della decisione da parte del giudice di uno Stato membro, tale ultima decisione non potrà trovare esecuzione in Italia. Quando invece la decisione dello Stato terzo sia emessa prima di quella – incompatibile – adottata dal giudice di uno Stato membro, ma passi in giudicato solo successivamente alla pronuncia della seconda, potrà circolare la decisione dello Stato membro e non, invece, quella (non riconoscibile, pur se emessa prima) dello Stato terzo.
Corte giustizia UE, 26 settembre 2013, C-157/12, Salzgitter Mannesmann Handel GmbH, ha precisato che l'elenco dei motivi di non esecuzione contemplati all'art. 34 del regolamento (CE) n. 44/2001 è esaustivo; tali motivi devono quindi essere interpretati in termini restrittivi con la conseguenza che di essi non è possibile un'interpretazione analogica. La stessa decisione ha anche osservato che i motivi di non esecuzione contemplati all'art. 34 del regolamento (CE) n. 44/2001 svolgono una funzione precisamente circoscritta nella struttura del medesimo regolamento il quale pone un sistema globale destinato a disciplinare la competenza giurisdizionale internazionale, il riconoscimento e l'esecuzione delle decisioni. La portata dei motivi di non esecuzione, secondo la Corte, deve in particolare essere delineata avendo riguardo al nesso esistente tra gli stessi motivi e le disposizioni relative alla connessione poste dal medesimo regolamento (CE) n. 44/2001 che sono tese a ridurre al minimo la possibilità di pendenza di procedimenti paralleli e l'adozione, in due Stati membri, di decisioni tra loro incompatibili. Ne discende che il limite alla circolazione delle decisioni straniere non può essere invocato ove il contrasto sussista tra decisioni emesse entrambe nello stesso Stato membro. Una simile conclusione (non argomentabile alla luce della lettera dell'art. 34) sarebbe infatti in contrasto con il corretto funzionamento del sistema di cooperazione giudiziaria; sistema fondato sulla fiducia reciproca tra giudici degli Stati membri che preclude la possibilità per il giudice di uno Stato membro di riesaminare nel merito la decisione adottata dal giudice di altro Stato membro. In definitiva, secondo la Corte, il contrasto tra decisioni provenienti dal medesimo Stato membro deve essere composto in base alla legge processuale interna dello Stato d'origine.
Corte giustizia CE, 4 febbraio 1988, C-145/86, Horst Ludwig Martin Hoffmann ha esaminato (tra le altre) la questione relativa alla possibilità, per il giudice nazionale chiamato a dare esecuzione ad una decisione straniera contenente la condanna di un coniuge al pagamento, in favore dell'altro coniuge, degli alimenti sulla base di un obbligo di mantenimento derivante dal matrimonio, di ritenere incompatibile (ai sensi dell'art. 27 n. 3 della convenzione di Bruxelles) o comunque in contrasto con l'ordine pubblico (ai sensi dell'art. 27 n. 1 della medesima convenzione) tale decisione con una decisione nazionale che ha pronunciato il divorzio tra le medesime parti del rapporto alimentare. La Corte, esclusa la possibilità di invocare la clausola dell'ordine pubblico ogni volta che (come nel caso concreto) venga in rilievo una questione relativa alla compatibilità di una decisione interna con una decisione straniera, osserva che per stabilire se vi sia inconciliabilità, ai sensi dell'art. 27 n. 3 della convenzione, è necessario verificare se le decisioni controverse producano effetti giuridici che si escludono reciprocamente. Tanto premesso e rilevato che la decisione straniera è stata munita della formula esecutiva, che la decisione nazionale sul divorzio era passata in giudicato e che la controversia nella causa principale era relativa al periodo successivo al divorzio, il giudice di Lussemburgo ha concluso nel senso che le due decisioni producono effetti giuridici che si escludono reciprocamente, atteso che la decisione straniera (la quale presuppone necessariamente l'esistenza del matrimonio) dovrebbe essere eseguita nonostante sia ormai sciolto (sulla base di una decisione resa tra le medesime parti nello Stato richiesto) il rapporto che costituisce il presupposto dell'obbligazione alimentare.
Corte giustizia CE, 6 giugno 2002, C-80/00 Italian Leather SpA ha ritenuto che, ai fini dell'art. 27, n. 3 della convenzione di Bruxelles, non rileva che le decisioni in contrasto siano state pronunciate nell'ambito di procedimenti sommari o di procedimenti di merito, atteso che la convenzione utilizza il termine «decisioni» senza ulteriore precisazione. Ne deriva che anche le decisioni emesse all'esito di procedimenti sommari sono assoggettate alle regole poste dalla convenzione in materia di contrasto. Nello stesso senso, sostanzialmente, Cour de Cassation, 20 giugno 2006, n. 1024 (in Int'lis, 2006, 134 ss.), per la quale il requisito previsto dall'art. 27 n. 3 della convenzione di Bruxelles del 1968 (successivamente trasfuso nell'art. 34 n. 3 del regolamento CE n. 44/2001) impedisce il riconoscimento e l'esecuzione della sentenza straniera in conflitto con una qualsiasi decisione resa nello Stato richiesto, comprese le pronunce sommario-provvisorie emesse all'esito di un procedimento per référé, pur non essendo queste idonee ad acquisire l'autorità del giudicato.
Il contrasto con le disposizioni sui fori a tutela della parte debole
Il profilo maggiormente innovativo della disciplina recata dal regolamento n. 1215 con riferimento ai motivi ostativi attiene alla violazione delle norme sulla giurisdizione a tutela della parte debole.
In particolare, il regolamento in esame estende la previsione originariamente contenuta all'art. 35 del regolamento Bruxelles I anche alle norme uniformi in materia di giurisdizione relativamente alle controversie di lavoro. Risulta in questo modo colmata una lacuna della precedente disciplina che «in modo poco convincente» la Commissione aveva giustificato sull'assunto in base al quale il controllo della competenza indiretta in questo settore avrebbe pregiudicato necessariamente l'attore, cioè, nella massima parte dei casi, il lavoratore (Malatesta, Nisi, 148; Salerno I, 342). L'autore da ultimo citato ha anche sottolineato come il controllo nello Stato richiesto trovi fondamento nelle esigenze pubblicistiche e solidali alla base dei titoli di giurisdizione protettivi «per evitare che vengano eluse – nei fori protettivi – le condizioni di tutela differenziata a protezione di un contraente debole e – nei fori esclusivi – il carattere assolutamente inderogabile dei titoli di giurisdizione indicati nell'art. 24» (Salerno, 342).
Per altro verso, il controllo contemplato dal regolamento Bruxelles I bis risulta ridimensionato rispetto al regime precedente poiché la violazione delle norme sui fori protettivi risulta ormai invocabile solo nel caso in cui le parti deboli siano state convenute nel giudizio concluso con la decisione dello Stato d'origine.
La tassatività dei motivi ostativi (ed il generale principio di fiducia reciproca tra Stati membri) ha invece indotto a ritenere preclusa la possibilità di opporsi al riconoscimento (o all'esecuzione) in caso di mancato rispetto di un accordo di proroga della giurisdizione ai sensi dell'art. 25 del regolamento (Carbone, Tuo, 355).
Profili procedurali: rinvio
Quanto ai profili del procedimento relativo al diniego di riconoscimento, seguendo la scelta compiuta dallo stesso regolamento n. 1215 (art. 45.4) si rinvia alla trattazione relativa al diniego di esecuzione. È peraltro appena il caso di osservare come, nonostante la mancanza di una previsione espressa (contenuta, invece, nel regolamento n. 44 all'art. 48), si sia ritenuto che anche nel regime del regolamento n. 1215 il giudizio di accertamento dei motivi di diniego del riconoscimento (o dell'esecutività) possa concludersi con una dichiarazione di riconoscibilità o eseguibilità solo parziale della decisione straniera (Carbone, Tuo, 345). Tanto, secondo gli autori da ultimo citati, potrebbe ad esempio accadere allorquando la decisione straniera abbia pronunciato su più capi, alcuni dei quali, solo, riconducibili al campo di applicazione del regolamento Bruxelles I bis o quando i motivi di diniego effettivamente accertati ostino al riconoscimento di taluno solo dei capi della decisione.
Bibliografia
Carbone, Tuo, Il nuovo spazio giudiziario europeo in materia civile e commerciale. Il regolamento UE n. 1215/2012, Torino, 2016; Coscia, Conflitti e contrasti di giudicati nella Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, in Riv. dir. int. priv. e proc. 1995; D'Alessandro, Il riconoscimento delle sentenze straniere, Torino, 2007; D'Alessandro, Il titolo esecutivo europeo nel sistema del regolamento 1215/2012, in Besso, Frus, Rampazzi, Ronco, Trasformazioni del processo civile. Dalla l. 69/2009 al d.d.l. delega 10 febbraio 2015, Bologna, 2015; Feraci, L'ordine pubblico nel diritto dell'Unione europea, Milano, 2012; Malatesta, Nisi, Le novità in materia di riconoscimento ed esecuzione delle decisioni, in Malatesta (a cura di), La riforma del regolamento Bruxelles I. Il regolamento (UE) n. 1215/2012 sulla giurisdizione e l'efficacia delle decisioni in materia civile e commerciale, Milano, 2016; Merlin, Il conflitto di decisioni nello spazio giudiziario europeo, in Studi di diritto processuale civile in onore di Giuseppe Tarzia, I, Milano, 2005; Salerno, Giurisdizione ed efficacia delle decisioni straniere nel regolamento (CE) n. 44/2001 (La revisione della Convenzione di Bruxelles del 1968), Padova, 2003; Salerno, Giurisdizione ed efficacia delle decisioni straniere nel Regolamento (UE) n. 1215/2012 (rifusione), Padova, 2015.
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Sommario
Testo articolo
Inquadramento
Il contrasto con l'ordine pubblico
La mancata notifica della domanda giudiziale al convenuto
L'incompatibilità con altra decisione.
Il contrasto con le disposizioni sui fori a tutela della parte debole