Codice di Procedura Civile art. 474 - Titolo esecutivo1Titolo esecutivo1 [I]. L'esecuzione forzata [2910, 2930 ss. c.c.] non può avere luogo che in virtù di un titolo esecutivo per un diritto certo, liquido ed esigibile [1183 ss. c.c.]. [II]. Sono titoli esecutivi: 1) le sentenze [282, 283, 3371, 351, 373, 401, 407, 4311, 5, 4471], i provvedimenti e gli altri atti ai quali la legge attribuisce espressamente efficacia esecutiva [1793, 1853, 186-bis2, 186-ter2, 186-quater2, 1992, 2632, 2642, 3222, 4112-3, 4121, 4203, 4233, 5863, 6112, 6421-2, 6471, 6531, 6631, 6643, 6652, 669-septies3, 8143; 53, 1062, 109, 1542, 1772, 1891, 191, 1952 att.]; 2) le scritture private autenticate, relativamente alle obbligazioni di somme di denaro in esse contenute, le cambiali, nonché gli altri titoli di credito [1992 ss. c.c.] ai quali la legge attribuisce espressamente la stessa efficacia [16841, 17901, 17911 c.c.]; 3) gli atti ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato dalla legge a riceverli [2699 ss. c.c.]. [III]. L'esecuzione forzata per consegna o rilascio non può aver luogo che in virtù dei titoli esecutivi di cui ai numeri 1) e 3) del secondo comma. Il precetto deve contenere trascrizione integrale, ai sensi dell'articolo 480, secondo comma, delle scritture private autenticate di cui al numero 2) del secondo comma. [IV]. Il titolo è messo in esecuzione da tutti gli ufficiali giudiziari che ne siano richiesti e da chiunque spetti, con l'assistenza del pubblico ministero e il concorso di tutti gli ufficiali della forza pubblica, quando ne siano legalmente richiesti2.
[1] Articolo così sostituito, in sede di conversione, dall'art. 23 lett. e) n. 1d.l. 14 marzo 2005, n. 35, conv., con modif., in l. 14 maggio 2005, n. 80, come modificato dall'art. 13lett. a)l. 28 dicembre 2005, n. 263, con effetto dal 1° marzo 2006, ai sensi dell'art. 2 3-quater d.l. n. 35, cit., come sostituito dapprima dall'art. 8 d.l. 30 giugno 2005, n. 115, conv., con modif., in l. 17 agosto 2005, n. 168 e successivamente dall'art. 1 6 l. n. 263, cit., e da ultimo modificato dall'art. 39-quater d.l. 30 dicembre 2005, n. 273, conv., con modif., in l. 23 febbraio 2006, n. 51, introdotto in fase di conversione. Il testo precedente recitava: «L'esecuzione forzata non può avere luogo che in virtù di un titolo esecutivo per un diritto certo, liquido ed esigibile. - Sono titoli esecutivi: 1) le sentenze, e i provvedimenti ai quali la legge attribuisce espressamente efficacia esecutiva; 2) le cambiali, nonché gli altri titoli di credito e gli atti ai quali la legge attribuisce espressamente la stessa efficacia; 3) gli atti ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato dalla legge a riceverli, relativamente alle obbligazioni di somme di denaro in essi contenute». [2] Comma inserito dall'art. 3, comma 34, lett. a), del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149 (ai sensi dell'art. 52 d.lgs. n. 149 /2022 , il presente decreto legislativo entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale). Per la disciplina transitoria v. art. 35 d.lgs. n. 149/2022, come da ultimo modificato dall'art. 1, comma 380, lett. a), l. 29 dicembre 2022, n.197, che prevede che : "1. Le disposizioni del presente decreto, salvo che non sia diversamente disposto, hanno effetto a decorrere dal 28 febbraio 2023 e si applicano ai procedimenti instaurati successivamente a tale data. Ai procedimenti pendenti alla data del 28 febbraio 2023 si applicano le disposizioni anteriormente vigenti.". Ai sensi dell'art. 7, comma 4, d.lgs. 31 ottobre 2024, n. 164, le modifiche operate dal d.lgs. n. 149, cit., fermo quanto previsto dall'articolo 35, commi 1 e 8, del decreto citato, si applicano anche ai titoli esecutivi messi in esecuzione successivamente al 28 febbraio 2023 e agli atti di intervento nella procedura esecutiva depositati successivamente a tale data. Ai sensi dell'art. 7, comma 4, d.lgs. 31 ottobre 2024, n. 164, le modifiche operate dal d.lgs. n. 149, cit., fermo quanto previsto dall'articolo 35, commi 1 e 8, del decreto citato, si applicano anche ai titoli esecutivi messi in esecuzione successivamente al 28 febbraio 2023 e agli atti di intervento nella procedura esecutiva depositati successivamente a tale data. InquadramentoSalve le eccezioni previste in alcune forme di esecuzione speciale, nel nostro sistema processuale l'esistenza di un valido titolo esecutivo è condizione necessaria e sufficiente per dare corso all'esecuzione forzata. Ciò significa che il titolo deve essere preesistente alla procedura esecutiva e restare efficace sino alla conclusione della stessa. Il titolo esecutivo deve essere relativo ad un diritto certo (requisito che può valutarsi particolarmente nell'esecuzione in forma specifica), liquido (ossia determinato o determinabile in ordine alla quantificazione del diritto) ed esigibile, in quanto non sottoposto a termine o a condizione. I titoli esecutivi si distinguono in giudiziali e stragiudiziali. Questa differenza assume grande rilievo rispetto al novero dei motivi deducibili in sede di opposizione all'esecuzione che sono molto limitati nel primo caso in ragione del principio di conversione dei vizi del provvedimento in motivi di impugnazione dello stesso. I titoli stragiudiziali di natura cambiaria e le scritture private autenticate devono inoltre essere integralmente trascritti nell'atto di precetto. Portata del principio nulla executio sine tituloLa sussistenza di un valido titolo esecutivo costituisce condizione necessaria e sufficiente per procedere ad esecuzione forzata (per la deroga di tale principio in alcune forme di esecuzione speciale cfr. Vaccarella, 106). In particolare, la regola nulla executio sine titulo pone nel titolo il presupposto necessario e sufficiente dell'esecuzione forzata, globalmente intesa quale percorso procedimentale preordinato alla realizzazione coattiva del diritto del creditore e postula, quindi, che il diritto del creditore di conseguire quanto gli è dovuto sia consacrato nella «rappresentazione documentale tipica» offerta dal titolo (Andolina 2007, 1 ss.). Ne deriva che il creditore deve essere munito del titolo sin dall'inizio dell'esecuzione (e quindi una procedura esecutiva incardinata da un soggetto privo di titolo esecutivo non può essere sanata da una successiva acquisizione di tale titolo, dovendo questo preesistere all'inizio dell'esecuzione e non potendo a titoli esecutivi successivi attribuirsi efficacia retroattiva: v. già Cass. n. 1041/1973, in Giust. civ., 1974, I, 117), senza che assuma rilievo l'eventuale sopravvenienza dello stesso nel corso della procedura esecutiva (tale non può considerarsi in ogni caso la correzione dell'errore materiale del titolo posto a fondamento dell'esecuzione: Cass. n. 17349/2011). Peraltro, in virtù di un unico titolo esecutivo possono essere iniziate diverse procedure esecutive nei confronti del medesimo debitore, al fine di poter integralmente soddisfare la pretesa creditoria (cfr., ex multis, Cass. n. 4375/1992). Invero, il creditore, in forza del medesimo titolo esecutivo, può procedere a più pignoramenti dello stesso bene in tempi successivi, senza dover attendere che il processo di espropriazione aperto dal primo pignoramento si concluda, atteso che il diritto di agire in esecuzione forzata non si esaurisce che con la piena soddisfazione del credito portato dal titolo esecutivo (cfr. Cass. n. 23847/2008, in Riv. dir. proc. 2009, 1371, con nota di Dittrich, per la quale in tale ipotesi non si realizza una situazione di litispendenza nel senso previsto dall'art. 39 – la cui applicazione postula la pendenza di più cause, aventi in comune le parti, la causa petendi ed il petitum, incardinate dinanzi a distinte autorità giudiziarie e non davanti allo stesso giudice – ed alla pluralità di procedure così instaurate può ovviarsi con la loro riunione ex art. 493, senza che ciò comporti un pregiudizio per il debitore, poiché, in presenza di un pignoramento reiterato senza necessità, il giudice dell'esecuzione, applicando l'art. 92 può escludere come superflue le spese sostenute dal creditore procedente per reiterarlo ed il debitore può proporre opposizione contro una liquidazione delle spese che si estenda al secondo pignoramento). La mancanza di titolo esecutivo può essere denunciata in sede di opposizione all'esecuzione. È, invece, discussa la questione afferente la rilevabilità d'ufficio della mancanza di titolo esecutivo anche in sede di opposizione all'esecuzione, poiché essa è strettamente correlata a quella della qualificazione giuridica della relativa azione. In particolare, alcuni, dall'autonomia tra le opposizioni e la procedura di esecuzione forzata (Garbagnati, 1069), traggono l'assunto per il quale non può trasferirsi al giudice del processo cognitivo di opposizione all'esecuzione il potere di rilevare d'ufficio la carenza di titolo esecutivo, trattandosi di un potere del giudice dell'esecuzione (Majorano, 1 ss.). Per altri, i quali ricostruiscono l'opposizione all'esecuzione in termini di azione di accertamento negativo della pretesa del creditore (A.A. Romano, 136 ss.), sussistono di contro tali poteri di rilevazione officiosa del giudice dell'opposizione all'esecuzione. In giurisprudenza appare dominante quest'ultima impostazione interpretativa, per la quale in sede di opposizione all'esecuzione con la quale si contesta il diritto di procedere all'esecuzione forzata perché il credito di chi la minaccia o la inizia non è assistito da titolo esecutivo, l'accertamento dell'idoneità del titolo a legittimare l'azione esecutiva si pone come preliminare dal punto di vista logico per la decisione sui motivi di opposizione, anche se questi non investano direttamente la questione (Cass. n. 3977/2012); si ritiene, anzi, che detto rilievo officioso possa essere compiuto in ogni stato e grado del giudizio di opposizione all'esecuzione (Cass. n. 13249/2015; cfr. anche Cass. n. 21240/2019, secondo cui, una volta dichiarata cessata la materia del contendere per effetto del preliminare rilievo dell'avvenuta caducazione del titolo esecutivo nelle more del giudizio di opposizione, per qualunque motivo sia stata proposta, l'opposizione deve ritenersi fondata, e in tale situazione il giudice dell'opposizione non può, in violazione del principio di soccombenza, condannare l'opponente al pagamento delle spese processuali, sulla base della disamina dei motivi proposti, risultando detti motivi assorbiti dal rilievo dell'avvenuta caducazione del titolo con conseguente illegittimità ex tunc dell'esecuzione). Mediante ordinanza interlocutoria, la Sezione lavoro della Corte di cassazione aveva rimesso al Primo Presidente ai fini dell'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite la questione, ritenuta di massima di particolare importanza, concernente la censurabilità, o meno, in sede di legittimità – sotto il profilo della violazione di legge – dell'interpretazione del titolo esecutivo ad opera del giudice dell'esecuzione o delle opposizioni esecutive (Cass. sez. lav., n. 12944/2021, in Ilprocessocivile.it, con nota di Baroncini). Le Sezioni Unite della Corte di cassazione, rivedendo la giurisprudenza precedente, hanno affermato il principio secondo cui l'interpretazione del titolo esecutivo, consistente in una sentenza passata in giudicato, compiuta dal giudice dell'opposizione all'esecuzione o agli esecutivi, è sindacabile in sede di legittimità, sotto il profilo della violazione della norma di legge sul giudicato sostanziale (art. 2909 c.c.), risolvendosi in una questione di diritto, e non di fatto, allorquando il giudicato costituisca il parametro di legittimità dell'azione esecutiva intrapresa o dello stesso processo esecutivo, in quanto la fonte del diritto applicabile alla fattispecie, una volta intervenuto il giudicato, è l'accertamento in esso contenuto e non la legge generale ed astratta (Cass. S.U., n. 5633/2022, in Ilprocessocivile.it, con nota di M. Di Marzio). La caducazione del titolo prima della conclusione dell'esecuzione forzata ne determina l'inefficacia, con efficacia retroattiva e quindi caducazione degli atti già compiuti (Cass. n. 15363/2011). La giurisprudenza di legittimità più risalente – sull'assunto per il quale per la legittimità dell'esecuzione forzata non è sufficiente che il titolo esecutivo esista al momento in cui questa viene iniziata, ma è necessario che permanga durante tutto il corso della fase esecutiva – opinava in modo ancora più rigoroso nel senso che, anche ove l'esecuzione sia stata portata a termine prima dell'annullamento del titolo esecutivo, la sopravvenuta caducazione importa l'illegittimità dell'esecuzione con effetto ex tunc (Cass. n. 2558/1966, in Foro it., 1967, I, 1266, con riguardo alla revoca del decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo a seguito di opposizione). L'invalidazione degli atti compiuti nel corso della procedura esecutiva per il venir meno del titolo posto a fondamento di essa costituisce un vizio «derivato» dagli atti anteriori, in base ad un meccanismo esattamente contrario a quello di estensione di cui all'art. 159, comma 1, meccanismo che si fonda, almeno per i titoli giudiziali, sull'art. 336, comma 2 (cfr. Capponi, 686). Una precisazione rispetto alla portata generale e formale del principio nulla executio sine titulo può ritrovarsi nella giurisprudenza, anche di legittimità, che, valorizzando i principi del giusto processo, ha negli anni recenti precisato che nell'ipotesi in cui il credito, di natura esclusivamente patrimoniale, sia di entità economica oggettivamente minima, difetta, ex art. 100, l'interesse a promuovere l'espropriazione forzata, dovendosi escludere che ne derivi la violazione dell'art. 24 Cost. in quanto la tutela del diritto di azione va contemperata, per esplicita od anche implicita disposizione di legge, con le regole di correttezza e buona fede, nonché con i principi del giusto processo e della durata ragionevole dei giudizi exartt. 111 Cost. e 6CEDU (Cass. n. 4228/2015). «Vicende» del titolo Nel caso di sospensione dell'efficacia esecutiva del titolo nel giudizio di impugnazione restano fermi gli atti già compiuti e si realizza soltanto una sospensione della procedura esecutiva ex art. 623. Qualora il gravame sia stato deciso nel merito, al fine di verificare la permanente sussistenza del titolo esecutivo, la regola, almeno tendenziale, è la seguente: se il gravame è rigettato resta ferma l'efficacia esecutiva della decisione oggetto dello stesso che, invece, viene caducata nell'ipotesi di accoglimento. È stato ad esempio affermato che, qualora sia integralmente respinta l'opposizione avverso un decreto ingiuntivo non esecutivo, con sentenza che non pronunci sulla sua esecutività, il titolo fondante l'esecuzione non è quest'ultima, bensì, quanto a sorte capitale, accessori e spese da quello recati, il decreto stesso, la cui esecutorietà è collegata, appunto, alla sentenza, in forza della quale viene sancita indirettamente, con attitudine al giudicato successivo, la piena sussistenza del diritto azionato, nell'esatta misura e negli specifici modi in cui esso è stato posto in azione nel titolo, costituendo, invece, la sentenza titolo esecutivo solo per le eventuali, ulteriori voci di condanna in essa contenute (Cass. n. 19595/2013). La regola generale richiamata trova applicazione anche nell'ipotesi di appello avverso la decisione di primo grado, con la precisazione che l'effetto sostitutivo della sentenza d'appello, la quale confermi integralmente o riformi parzialmente la decisione di primo grado: ciò comporta, infatti, che, ove l'esecuzione non sia ancora iniziata, essa dovrà intraprendersi sulla base della pronuncia di secondo grado, mentre, se l'esecuzione sia già stata promossa in virtù del primo titolo esecutivo, la stessa proseguirà sulla base delle statuizioni ivi contenute che abbiano trovato conferma in sede di impugnazione (Cass. n. 29021/2018, in relazione ad una fattispecie nella quale a seguito di condanna per danno erariale pronunciata dalla Corte dei Conti e confermata in appello, la sentenza impugnata nel rigettare l'opposizione a precetto, aveva erroneamente affermato che il titolo esecutivo fosse costituito dalla sentenza di prime cure del giudice contabile, essendo quella di appello meramente confermativa; Cass. n. 9161/2013; secondo la giurisprudenza più risalente, nel caso di conferma della sentenza di primo grado, il titolo definitivo, e quindi anche esclusivo, nella pienezza del giudicato, e costituito dalla sentenza di appello, considerata non soltanto nella lettera del suo dispositivo, ma anche nel contenuto degli accertamenti dati dalla motivazione: Cass. n. 1187/1963). Naturalmente quando il processo esecutivo è iniziato o minacciato in forza di sentenza di primo grado provvisoriamente esecutiva, la sentenza di riforma resa in grado d'appello si sostituisce sin dalla pubblicazione alla pronuncia riformata, privando quest'ultima della idoneità a legittimare l'instaurazione o la prosecuzione della procedura esecutiva senza che sia necessario attenderne il suo passaggio in giudicato, come conferma la modifica apportata all'art. 336, comma 2, che ha eliminato il collegamento necessario tra l'effetto rescindente della sentenza di riforma e il suo passaggio in giudicato (Cass. n. 13249/2014). Peraltro, iniziata l'esecuzione in virtù di una sentenza di primo grado provvisoriamente esecutiva, ove sopravvenga una pronuncia di appello che riformi la precedente decisione in senso soltanto quantitativo, il processo esecutivo non resta caducato, ma prosegue senza soluzione di continuità, nei limiti fissati dal nuovo titolo (con persistente efficacia, entro gli stessi, degli atti anteriormente compiuti) ove si tratti di modifica in diminuzione, o nei limiti del titolo originario qualora la modifica sia in aumento (ipotesi, quest'ultima, nella quale il creditore, per ampliare l'oggetto della procedura già intrapresa, deve fare intervento, per la parte residuale, in base al nuovo titolo esecutivo costituito dalla sentenza di appello: Cass. n. 101/1985, in Giur. it., 1985, I, 1, 1497). Sul piano pratico ne deriva che per la prosecuzione dell'esecuzione sulla scorta del nuovo titolo non è necessario rinnovare la notifica della sentenza con l'apposizione di altra formula esecutiva, né intimare altro atto di precetto per l'adempimento della prestazione con riguardo a tale diversa ragione giustificativa dell'esecuzione (Cass. n. 6705/1987, in Foro it., 1988, I, 834). Diversamente, nel caso di azione esecutiva intrapresa in forza di un titolo giudiziale provvisoriamente esecutivo, la caducazione dello stesso in epoca successiva alla fruttuosa conclusione dell'esecuzione forzata legittima il debitore che l'abbia subita a promuovere nei confronti del creditore procedente un autonomo giudizio per la ripetizione dell'indebito, giudizio che, secondo quanto di recente precisato dalla S.C., avendo ad oggetto un credito fondato su prova scritta, può assumere le forme del procedimento d'ingiunzione (Cass. III, n. 14601/2020). Si registra invece un contrasto, nella giurisprudenza di legittimità più recente, in ordine alla possibile reviviscenza del titolo esecutivo costituito dalla sentenza di primo grado nell'ipotesi di cassazione con rinvio della decisione che in sede di appello aveva riformato tale sentenza. In particolare, in accordo con la tesi dominante, in tale situazione non si ha una reviviscenza della sentenza di primo grado, posto che la sentenza del giudice di rinvio non si sostituisce ad un'altra precedente pronuncia, riformandola o modificandola, ma statuisce direttamente sulle domande delle parti, con la conseguenza che non sarà mai più possibile procedere in executivis sulla base della sentenza di primo grado (riformata della sentenza d'appello cassata con rinvio), potendo una nuova esecuzione fondarsi soltanto, eventualmente, sulla sentenza del giudice di rinvio (Cass. n. 16934/2013; Cass. n. 6113/2013). In senso almeno in parte difforme opina, tuttavia, un'altra parte della giurisprudenza della S.C., per la quale la cassazione con rinvio della sentenza di appello confermativa di quella di primo grado costituente titolo esecutivo, ove l'esecuzione abbia avuto inizio sulla base della decisione del giudice di prime cure e sia proseguita con atti successivi alla pronuncia della sentenza di appello poi cassata, determina la caducazione soltanto di tali atti successivi, mentre restano fermi quelli pregressi, potendo riprendere l'esecuzione dall'ultimo di essi, salvo che, ai sensi dell'art. 283, il giudice del rinvio sospenda l'esecutività della sentenza di primo grado, delibando le ragioni della disposta cassazione (Cass. n. 3074/2013). In sostanza, come evidenziato già da parte di un più risalente orientamento, nel procedimento di esecuzione forzata, promosso in forza di una sentenza d'appello, il sopravvenuto annullamento di tale sentenza, da parte della Corte di Cassazione, determina la caducazione del titolo esecutivo, mentre resta preclusa al creditore d'invocare l'eventuale idoneità della sentenza di primo grado a costituire titolo, nella parte che si assuma non investita dal giudizio di gravame, ove un siffatto diverso titolo non sia stato posto a fondamento dell'intrapresa esecuzione (Cass. n. 4889/1986, in Giust. civ., 1987, I, 1, 114). Con più specifico riguardo al procedimento monitorio, è incontroverso che dall'accoglimento, anche parziale, dell'opposizione deriva la nullità ope legis dell'ingiunzione, alla quale si sostituisce la sentenza pronunciata sull'opposizione stessa (cfr. Cass. n. 1421/1994, per la quale, di conseguenza, non è consentito al giudice della opposizione confermare il decreto ingiuntivo entro i limiti in cui la statuizione in esso contenuta non sia stata modificata). Sulla questione, inoltre, si è evidenziato che l'accoglimento dell'opposizione a decreto ingiuntivo comporta la definitiva caducazione del provvedimento oggetto della stessa, sicché l'eventuale riforma della sentenza di primo grado da parte del giudice d'appello – anche ove impropriamente conclusa con un dispositivo con il quale si «conferma» lo stesso – non determina la «riviviscenza» del decreto ingiuntivo già revocato, che, pertanto, non può costituire titolo per iniziare o proseguire l'esecuzione forzata (Cass. n. 20868/2018, che si fonda sul più generale assunto sancito da Cass. S.U., n. 4071/2010). Nel senso che a seguito del fallimento del debitore opponente, il decreto ingiuntivo opposto non è colpito da inefficacia assoluta ma, anche se provvisoriamente esecutivo, diviene inopponibile nei confronti della massa fallimentare e resta un provvedimento che – in caso di interruzione del giudizio di opposizione non seguita da alcuna riassunzione – può acquisire definitiva forza esecutiva nei confronti del debitore in bonis v., poi, Cass. III, n. 8110/2022, in fattispecie nella quale la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva ritenuto l'idoneità di tale decreto ingiuntivo a consentire l'intervento nell'esecuzione forzata, intrapresa contro il debitore a seguito della chiusura del suo fallimento, ed a partecipare alla distribuzione del ricavato con la prelazione derivante dall'ipoteca precedentemente iscritta sugli immobili venduti. Ai sensi dell'art. 204-bis, comma 6, d.lgs. n. 285/1992, la sentenza con la quale viene rigettato il ricorso di cui all'art. 203 costituisce titolo esecutivo per la riscossione coatta delle somme inflitte dal giudice che superino l'importo della cauzione prestata all'atto del deposito del ricorso: pertanto, a seguito del rigetto dell'opposizione al verbale, il titolo esecutivo è costituito dalla sentenza di rigetto e non dal verbale di accertamento, e la pubblica amministrazione non può agire esecutivamente vantando un titolo costituito non dalla sentenza conclusiva del giudizio di opposizione ma dal verbale opposto e mai utilizzato esecutivamente in corso di causa (Cass. n. 20983/2014). È stato inoltre precisato che, qualora in una procedura esecutiva di espropriazione presso terzi si sia reso assegnatario il creditore procedente, il successivo accertamento dell'inefficacia del titolo esecutivo al momento del pignoramento, in ragione della violazione del termine di cui all'art. 14 d.l. n. 669/1996, conv., con modif., in l. n. 30/1997, determina la caducazione dell'assegnazione, in quanto l'assegnatario, identificandosi con lo stesso creditore procedente, non assume la posizione di terzo estraneo rispetto all'illegittimo svolgimento dell'azione esecutiva, ma è responsabile, sul piano oggettivo, della non azionabilità del titolo (Cass. n. 6535/2016). La revoca dell'ordinanza di condanna al pagamento di somme non contestate, emessa ai sensi dell'art. 186-bis c.p.c. – in corso di causa o con la sentenza, definitiva o meno, in rito e/o nel merito, che decide la controversia – determina il venir meno di tutti gli effetti del provvedimento; conseguentemente, l'eventuale esecuzione forzata che sia stata intrapresa in forza di detto titolo (e che non si sia ancora conclusa) diviene, per la caducazione sopravvenuta del medesimo titolo, illegittima ex tunc, in quanto l'esistenza di un valido titolo esecutivo costituisce presupposto dell'azione esecutiva stessa (Cass. n. 20789/2017). Caducazione del titolo del creditore procedente e persistente efficacia del titolo del creditore intervenuto La portata del generale principio nulla executio sine titulo deve peraltro essere considerata anche alla luce della possibilità che nel corso della procedura esecutiva intervengano creditori muniti di titolo esecutivo. Occorre interrogarsi sul se sia configurabile l'insensibilità del processo esecutivo individuale, cui partecipino più creditori concorrenti, alle vicende relative al titolo invocato dal procedente quando il titolo esecutivo azionato da almeno un altro di loro abbia mantenuto integra la sua efficacia (Cass. ord., n. 2240/2013, Foro it., 2013, n. 6, 1951, con nota di Majorano). Sulla questione si era formato un contrasto nella giurisprudenza di legittimità. Invero, un primo orientamento – sull'assunto per il quale i creditori muniti di titolo esecutivo hanno la facoltà di scelta tra l'intervento nel processo già instaurato per iniziativa di altro creditore e l'effettuazione di un nuovo pignoramento del medesimo bene, affermava che il pignoramento autonomamente eseguito aveva un effetto indipendente sia da quello che lo ha preceduto, sia da quello di un intervento nel processo iniziato con il primo pignoramento – riteneva che, in base al principio di autonomia dei singoli pignoramenti di cui all'art. 493, se, da un lato, il titolo esecutivo consente all'intervenuto di sopperire anche all'eventuale inerzia del creditore procedente, dall'altro lato, tuttavia, la caducazione del pignoramento iniziale del creditore procedente travolge ogni intervento, titolato o meno, qualora non sia stato «integrato» da pignoramenti successivi (Cass. n. 3531/2009, Giust. civ., 2010, n. 9, 2033, con nota di Farina). Nella giurisprudenza tradizionale della medesima S.C. si riteneva, invece, che, dovendosi attribuire rilevanza meramente oggettiva alle attività spiegate per l'impulso e lo sviluppo del processo esecutivo (con totale indifferenza, dunque, rispetto a quale dei creditori muniti di titolo esecutivo le abbia poste in essere), il processo esecutivo individuale, cui partecipino più creditori concorrenti, sarebbe insensibile alle vicende relative al titolo invocato dal procedente (anche in mancanza di pignoramento successivo o ulteriore poi riunito), purché il titolo esecutivo azionato da almeno un altro di loro abbia mantenuto integra la sua efficacia (Cass. n. 427/1978; Cass. n. 2347/1973). Il contrasto è stato risolto dalle Sezioni Unite in quest'ultimo senso, mediante l'affermazione del principio in omaggio al quale la regola secondo cui il titolo esecutivo deve esistere dall'inizio alla fine della procedura va intesa nel senso che essa non presuppone necessariamente la continuativa sopravvivenza del titolo del creditore procedente, bensì la costante presenza di almeno un valido titolo esecutivo, sia pure dell'interventore, che giustifichi la perdurante efficacia dell'originario pignoramento. Consegue ad un'impostazione siffatta che, qualora, dopo l'intervento di un creditore munito di titolo, sopravvenga la caducazione del titolo esecutivo comportante l'illegittimità dell'azione esecutiva intrapresa dal creditore procedente, il pignoramento, se originariamente valido, non sarà caducato, bensì costituirà il primo atto dell'iter espropriativo riferibile anche al creditore titolato intervenuto, che anteriormente ne era partecipe accanto al creditore pignorante (Cass. S.U., n. 61/2014). La Corte di legittimità ha tuttavia chiarito, sul punto, che nel procedimento per esecuzione forzata il creditore intervenuto in difetto di titolo esecutivo, poi formatosi nel corso della procedura, non ha il potere di chiedere che si proceda alla vendita del bene qualora, essendo venuto a mancare il creditore procedente, non abbia rappresentato al giudice dell'esecuzione il mutamento della propria condizione in quella di creditore munito di titolo, consentendo in questo modo di verificare la permanente immanenza di un titolo nella procedura (Cass. n. 19396/2016, la quale, in applicazione del principio, ha ritenuto legittima la decisione del giudice di merito di rigetto dell'istanza presentata dall'Amministrazione finanziaria che – intervenuta priva di titolo in una procedura esecutiva immobiliare, e senza successivamente rappresentare la sopravvenienza dello stesso, costituito da ruolo esattoriale – aveva chiesto, essendo venuto meno il creditore procedente, la fissazione della vendita, dopo aver proceduto ad iscrivere a ruolo il proprio credito). Certezza, liquidità ed esigibilità del diritto tutelatoLa norma in commento prevede che il diritto sostanziale contenuto nel titolo esecutivo deve essere certo, liquido ed esigibile. Il requisito della certezza può essere propriamente individuato nell'esecuzione in forma specifica dove tiene luogo di quello della liquidità proprio dell'espropriazione forzata: ad esempio, nell'esecuzione per rilascio la certezza attiene alla precisa individuazione dell'immobile oggetto della procedura (Luiso, 17). Altra tesi, minoritaria ma autorevolmente sostenuta, ritiene, peraltro, che la certezza possa riguardare anche l'espropriazione forzata in punto di individuazione dei soggetti, attivo e passivo, dell'esecuzione e della prestazione da effettuarsi, ove la stessa attenga alla scelta tra obbligazioni alternative, diritti subordinati a termine o correlati a controprestazioni (Satta, 47). In giurisprudenza è stato evidenziato, sul punto, che, ai fini dell'esecuzione, il diritto soggettivo è certo non soltanto quando il suo contenuto è precisamente determinato, ma anche quando esso sia facilmente determinabile alla stregua degli elementi indicati nella sentenza che lo accerta in modo definitivo e non vengano mosse contestazioni specifiche dall'obbligato (Cass. n. 6611/1997). La liquidità riguarda la quantificazione, in misura determinata, nel titolo del diritto del creditore. La portata di tale requisito era già stata temperata dalla giurisprudenza consolidata nel senso che lo stesso si riteneva integrato anche nell'ipotesi in cui l'entità della somma dovuta fosse determinabile attraverso un mero calcolo aritmetico compiuto sulla scorta dei dati risultanti dal titolo, i.e. dal dispositivo integrato dalla motivazione (v., tra le altre, Cass. n. 17537/2014, per la quale la sentenza di condanna del datore di lavoro al pagamento di un determinato numero di mensilità di retribuzione ovvero di quanto dovuto al lavoratore a seguito del riconoscimento dell'illegittimità del licenziamento costituisce valido titolo esecutivo per la realizzazione del credito anche quando, nonostante l'omessa indicazione del preciso ammontare complessivo della somma oggetto dell'obbligazione, la somma stessa sia quantificabile per mezzo di un mero calcolo matematico, sempreché, dovendo il titolo esecutivo essere determinato e delimitato, in relazione all'esigenza di certezza e liquidità del diritto che ne costituisce l'oggetto, i dati per acquisire tale necessaria certezza possano essere tratti dal contenuto del titolo medesimo e non da elementi esterni non desumibili da esso, ancorché presenti nel processo che ha condotto alla sentenza di condanna, in conformità con i principi che regolano il processo esecutivo; ne consegue che, se per la determinazione dell'importo sono necessari elementi estranei al giudizio concluso e non predeterminati per legge, il creditore può legittimamente fare ricorso al procedimento monitorio, nel cui ambito la sentenza è utilizzabile come atto scritto, dimostrativo dell'esistenza del credito fatto valere, il cui ammontare può essere provato con altri e diversi documenti, ma non può, invece, attivare l'esecuzione). Con peculiare riguardo al requisito della liquidità del diritto, il giudice dell'esecuzione non può, su tali basi rifare, per proprio conto, i conteggi eventualmente effettuati nella sentenza, ma è abilitato, sulla scorta della motivazione della sentenza stessa, a stabilire da quali elementi risulta formata la cifra complessiva in relazione alla quale sia stata pronunciata condanna nel dispositivo (Cass. n. 1405/1964, in Giust. civ., 1964, I, 1538). Tuttavia, in virtù dell'assunto per il quale il titolo esecutivo costituisce il necessario presupposto per conseguire dal debitore l'esatto adempimento della sua obbligazione e il diritto relativo deve essere, ai sensi della disposizione in esame, certo (cioè incontroverso nella sua esistenza), liquido (ossia di ammontare determinato) ed esigibile (in quanto non sussistano ostacoli, come la condizione o il termine, alla sua riscossione), sicché solo il concorso di tali requisiti rende il credito suscettibile di esecuzione forzata, e se anche la cosa dovuta – sia che si tratti di una somma di danaro o di un bene di natura fungibile – non deve essere necessariamente indicata nella sua entità quantitativa, potendo essere individuata anche mediante un mero calcolo automatico, è tuttavia necessario che il titolo contenga in sé tutti gli elementi idonei alla determinazione del quantum rendendo possibile il calcolo sulla base di dati certi e positivi che non devono essere attinti aliunde (cfr. già Cass. n. 516/1968, in Dir. fall., 1968, II, 671, la quale ha precisato che la liquidità del titolo non può essere tratta neppure da documenti emessi da pubblici ufficiali autorizzati dalla legge alla compilazione di appositi mercuriali in una fattispecie nella quale il titolo esecutivo consisteva in una pronuncia giudiziale di condanna, che aveva dichiarata il debitore tenuto a consegnare al creditore un determinato quantitativo di legname, di cui venivano specificate qualità e dimensioni, dietro restituzione di una certa somma o, in difetto, a corrispondere al predetto creditore il valore del legname al prezzo di mercato e, non avendo ottenuto la consegna del legname, il creditore aveva intimato precetto per il pagamento di una somma, indicata come pari al prezzo di mercato della merce, risultante dai listini della camera di commercio). In virtù di tale orientamento, si riteneva, pertanto, che il creditore che avesse ottenuto una pronuncia di condanna al pagamento di una somma non direttamente determinata nella sentenza e per la liquidazione della quale sono necessari elementi estranei al giudizio da questa concluso e non predeterminati per legge, potesse legittimamente far ricorso al procedimento monitorio, nel cui ambito la sentenza è utilizzabile come atto scritto, dimostrativo dell'esistenza del credito fatto valere, il cui ammontare può essere provato con altri e diversi documenti (v., ex ceteris, Cass. n. 1741/1996, secondo cui, nell'ipotesi di credito di lavoro o di credito previdenziale o assistenziale, non rileva in senso preclusivo rispetto all'ammissibilità del ricorso monitorio la provvisoria esecuzione delle sentenze prevista dagli artt. 431 e 447 la quale presuppone in ogni caso che il credito riconosciuto sia liquido o comunque determinabile alla stregua di elementi contenuti nella sentenza stessa; analogamente cfr. Cass. n. 9132/2003, per la quale la sentenza di condanna del datore di lavoro al pagamento di quanto dovuto al lavoratore a seguito del riconoscimento dell'illegittimità del licenziamento, ai sensi dell'art. 18, l. n. 300/1970, costituisce valido titolo esecutivo, che non richiede ulteriori interventi del giudice diretti all'esatta quantificazione del credito, solo se tale credito risulti da operazioni meramente aritmetiche eseguibili sulla base dei dati contenuti nella sentenza; se invece – come sovente accade, non essendo sempre possibile individuare sulla base degli atti le componenti della retribuzione globale di fatto – la sentenza di condanna non consenta di determinare le pretese economiche del lavoratore in base al contenuto del titolo stesso, con la conseguenza che per la determinazione dell'importo sono necessari elementi estranei al giudizio concluso e non predeterminati per legge, il creditore può legittimamente fare ricorso al procedimento monitorio, nel cui ambito la sentenza è utilizzabile come atto scritto, dimostrativo dell'esistenza del credito fatto valere, il cui ammontare può essere provato con altri e diversi documenti e nel cui ambito il creditore può dimostrare l'esigibilità del credito attraverso ulteriori prove attestanti, ex art. 634 c.p.c., la messa a disposizione della sua attività lavorativa a favore del datore di lavoro). Sempre in applicazione del principio tradizionale che negava la possibilità di fare riferimento, per la quantificazione della pretesa ad elementi estranei al titolo in senso documentale, la S.C. aveva affermato che la sentenza con la quale il giudice abbia dichiarato il diritto dell'assicurato ad ottenere la pensione di anzianità e abbia condannato l'ente previdenziale al pagamento dei relativi ratei «nei modi e nella misura di legge» oppure «con la decorrenza di legge», senza precisare in termini monetari l'ammontare del credito complessivo già scaduto o quello dei singoli ratei già maturati, deve essere definita generica e non costituisce valido titolo esecutivo qualora la misura della prestazione spettante all'interessato, non suscettibile di quantificazione mediante semplici operazioni aritmetiche eseguibili sulla base di elementi di fatto contenuti nella medesima sentenza, debba essere effettuata per mezzo dell'ulteriore intervento di un giudice diverso, che proceda, previa applicazione delle norme di legge che regolano la materia, all'acquisizione dei dati riguardanti sia la retribuzione percepita dall'assicurato, sia il periodo di contribuzione assicurativa (Cass. n. 16259/2003). Le stesse Sezioni Unite avevano enunciato il principio secondo cui la sentenza provvisoriamente eseguibile con la quale viene dichiarato il diritto dell'assicurato alla pensione d'invalidità da liquidarsi nei modi di legge, non è idonea per l'illiquidità ed inesigibilità del credito nella stessa riconosciuto, a valere come titolo esecutivo ai sensi e per gli effetti dell'art 474 (Cass. S.U. , n. 1825/1971, in Giust. civ., 1972, I, 402). Nel senso che il locatore il quale abbia ottenuto sentenza di determinazione d'equo canone legittimamente può sulla base della medesima chiedere ingiunzione di pagamento della differenza tra tale canone e quello convenuto o pagato, rimanendo riservata alla successiva ed eventuale fase d'opposizione ogni questione sulla debenza della somma ingiunta, v. Cass. n. 577/2005. Sulla ricorrente questione della sentenza di condanna del datore di lavoro al pagamento, in favore del lavoratore, di un certo numero di mensilità, la S.C. aveva tradizionalmente ritenuto, poi, in conformità con le tesi a lungo consolidate, che la stessa costituisce valido titolo esecutivo, che non richiede ulteriori interventi del giudice diretti all'esatta quantificazione del credito, solo se tale credito risulti da operazioni meramente aritmetiche eseguibili sulla base dei dati contenuti nella sentenza; se invece la sentenza di condanna non consenta di determinare le pretese economiche del lavoratore in base al contenuto del titolo stesso, in quanto per la determinazione esatta dell'importo sono necessari elementi estranei al giudizio concluso e non predeterminati per legge, o nel caso di sentenza di condanna generica, che rimandi ad un successivo giudizio la quantificazione del credito, la sentenza non costituisce idoneo titolo esecutivo ma è utilizzabile solo come idonea prova scritta per ottenere nei confronti del datore di lavoro un decreto ingiuntivo di pagamento per il credito fatto valere, il cui ammontare può essere provato con altri e diversi documenti. (v., tra le altre, Cass. n. 24649/2006, in Dir. e prat. lav., 2007, n. 27, 1733, con nota di Guariniello; Cass. n. 11677/2005). In senso analogo, è stato più volte ribadito, sempre in sede di legittimità, che la sentenza di condanna dell'INPS al pagamento, in favore del creditore, di una prestazione, quale le differenze spettanti a titolo di indennità di disoccupazione, costituisce valido titolo esecutivo, che non richiede ulteriori interventi del giudice diretti all'esatta quantificazione del credito, solo se tale credito risulti da operazioni meramente aritmetiche eseguibili sulla base dei dati contenuti nella sentenza; se, invece, dalla medesima sentenza di condanna non risulta il numero delle giornate non lavorate nelle quali sia maturata l'indennità giornaliera, così da rendersi necessari per la determinazione esatta dell'importo elementi estranei al giudizio concluso e non predeterminati per legge, la sentenza non costituisce idoneo titolo esecutivo ma è utilizzabile solo come idonea prova scritta per ottenerlo nei confronti del debitore in un successivo giudizio (Cass. n. 8067/2009). Per altro verso, in giurisprudenza si era precisato che la possibilità del lavoratore di procedere all'esecuzione sulla base della sola copia del dispositivo, ai sensi dell'art. 431, comma 2, in pendenza del termine per il deposito della sentenza presuppone il riconoscimento, ad opera del dispositivo predetto, di un credito che, oltre ad essere certo ed esigibile, sia anche liquido, cioè di ammontare determinato, o determinabile mediante un mero calcolo matematico alla stregua di elementi contenuti nello stesso titolo, e, pertanto, va esclusa nel caso di dispositivo di condanna al pagamento di differenze retributive correlate al riconoscimento di una qualifica superiore, la determinazione delle quali esiga l'acquisizione aliunde dei necessari elementi di calcolo e l'esperimento di una consulenza tecnica ai fini della determinazione del quantum (Cass. n. 541/1989). In alcune occasioni la S.C. aveva, inoltre, cercato di temperare la portata dell'assunto secondo cui la quantificazione della somma dovuta non può essere effettuata considerando elementi estranei al titolo esecutivo. Si era affermato, in particolare, che, nel caso di esecuzione forzata promossa sulla base di un titolo esecutivo costituito da una sentenza di condanna, la sussistenza del requisito della liquidità del credito richiamato dall'art. 474, va accertata procedendo all'interpretazione della sentenza, tenendo conto dei dati che, pure se non siano stati in essa puntualmente indicati, siano stati assunti dal giudice come certi e oggettivamente già determinati, in quanto presupposti dalle parti e non controversi, quindi acquisiti al processo, anche se per implicito (cfr. Cass. n. 6983/2003, la quale, sulla scorta del principio, ha annullato con rinvio la sentenza di merito, che aveva accolto l'opposizione all'esecuzione proposta dal Ministero del Tesoro, in quanto la sentenza fatta valere quale titolo esecutivo mancava dell'indicazione specifica delle somme dovute dal debitore, omettendo di considerare che la pronuncia conteneva un rinvio al ricorso amministrativo nel quale erano state dettagliatamente indicate le voci di credito). In senso ancora più estensivo rispetto alla possibilità di considerare documentazione «esterna» al titolo al fine di determinare l'entità della pretesa esecutiva, la S.C. aveva evidenziato, poi, che nel caso di esecuzione forzata promossa sulla base di un titolo esecutivo costituito da decreto ingiuntivo che riconosca gli interessi e la rivalutazione monetaria senza stabilirne la decorrenza o fissandola in modo impreciso, il giudice dell'opposizione deve verificare se essa possa essere stabilita in base ai documenti sui quali è fondato il decreto, potendo estendere l'indagine intesa a determinare il contenuto e la portata precettiva del titolo esecutivo ai documenti della fase monitoria, purché utilizzati ai fini dell'emanazione del provvedimento (Cass. n. 5683/2006). In una prospettiva ancora più estensiva si segnala Cass. n. 5656/1990, per la quale la sentenza con cui il giudice del merito, accertata l'illegittimità del licenziamento, condanni il datore di lavoro al pagamento di un determinato numero di mensilità di retribuzione (ex art. 8 l. n. 604/1966 o ex art. 18 st. lav.), costituisce titolo esecutivo, ove la giustificazione del credito del lavoratore risulti da operazioni meramente aritmetiche sulla base dei dati contenuti nelle buste paga, che – esibite in giudizio, ancorché non espressamente menzionate nella sentenza – abbiano costituito la premessa della liquidazione così operata. Sotto un distinto profilo, è stato anche precisato, in alcuni precedenti, che nel processo esecutivo, a differenza che nel processo di cognizione, il creditore procedente o intervenuto ha l'onere di produrre il titolo esecutivo, ma non anche di provare l'esatto ammontare degli accessori cui ha diritto sulle somme per cui si procede, spettando al giudice dell'esecuzione, in caso rilevi l'erroneità del calcolo predisposto dalla parte, individuare anche con l'ausilio di una consulenza tecnica il corretto ammontare delle somme da assegnare al creditore a titolo di interessi e rivalutazione (Cass. n. 20658/2007). Peraltro, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno in seguito significativamente attenuato la portata del requisito della liquidità del titolo, sancendo che il giudice dell'esecuzione, nel caso di incertezze derivanti dal dispositivo e dalla motivazione circa l'esatta estensione dell'obbligo configurato nella sentenza, può procedere all'integrazione extratestuale, purché i dati di riferimento siano stati acquisiti al processo in cui il titolo giudiziale si è formato (Cass. S.U. , n. 11066/2012, Foro it., 2012, n. 11, 3019, con nota di Gentile; Foro it., 2013, n. 4, 1282, con nota di Fabiani; Riv. it. dir. lav., 2013, n. 1, 143, con nota di Cattani; conf. Cass. n. 19641/2015; Cass. n. 23159/2014; Cass. n. 9161/2013 e, in sede applicativa, App. Aquila, l. n. 335/2013, per la quale il giudice dell'opposizione all'esecuzione non può dichiarare d'ufficio l'illiquidità del credito, portato dalla sentenza fatta valere come titolo esecutivo, senza invitare le parti a discutere la questione e ad integrare le difese, anche sul piano probatorio). Nella giurisprudenza di legittimità, in applicazione del principio espresso dalle Sezioni Unite, si è precisato che il titolo esecutivo giudiziale, ai sensi dell'art. 474, comma 2, n. 1, non si identifica, né si esaurisce, nel documento giudiziario in cui è consacrato l'obbligo da eseguire, essendo consentita l'interpretazione extra testuale del provvedimento, sulla base degli elementi ritualmente acquisiti nel processo in cui esso si è formato, sicché, ove sia in tal modo possibile pervenire alla quantificazione del dovuto, è inammissibile la procedura monitoria se l'esclusione dell'esecuzione diretta è avvenuta sulla base del solo esame del dispositivo della sentenza che ne costituiva il titolo (Cass. n. 26567/2016). Più di recente – ribadito che il comando contenuto nel titolo esecutivo giudiziale può essere integrato con gli atti del processo o anche ad esso estrinseci, purché presupposti nei primi o richiamati in modo idoneo, a condizione che l'integrazione abbia ad oggetto il risultato di un'attività di giudizio su questioni comunque esaminate e risolte, seppur non adeguatamente estrinsecate al momento della formazione del documento, e che il titolo non sia intrinsecamente contraddittorio, potendo essere completato in maniera sufficientemente univoca, senza richiedere attività cognitive suppletive da espletarsi ex novo – la S.C. in un'opposizione ex art. 617 c.p.c. promossa avverso un'ordinanza ex art. 612 c.p.c. per obblighi di fare conseguenti all'accertata violazione di distanze legali tra costruzioni, ha cassato con rinvio la sentenza impugnata, che aveva operato un'inammissibile ricostruzione tecnico-urbanistica ex post e alternativa a quella del titolo esecutivo azionato (Cass. III, n. 1619/2024). La richiamata decisione delle Sezioni Unite è stata criticata in dottrina per il contrasto con la concezione, generalmente riconosciuta, pur nella persistenza di differenti posizioni circa la ricostruzione teorica del titolo esecutivo, per la quale l'azione esecutiva è astratta, i.e. il principio nulla executio sine titulo significa non solo che non può esservi esecuzione ordinaria senza titolo esecutivo, ma anche che non possono legittimarsi atti esecutivi oltre l'obiettiva portata del titolo (Capponi 2012, 1167). In effetti, dall'impostazione delle Sezioni Unite sembra debba trarsi l'assunto per il quale il giudice dell'opposizione all'esecuzione non possa pronunciarne l'accoglimento neppure in presenza di un titolo esecutivo che abbia constatato essere carente dei requisiti di certezza e liquidità del credito, senza aver prima verificato la possibilità di una sua integrazione tenendo conto di atti e documenti di causa allegati e non contestati dalla controparte. In tale prospettiva viene attribuito al creditore il potere di individuare, anche attraverso l'integrazione extra testuale, nella redazione dell'atto di precetto, il contenuto del titolo esecutivo, rimettendo all'iniziativa del debitore con la proposizione di un'opposizione all'esecuzione (o, rectius, al precetto) la relativa contestazione che aprirà un complesso giudizio sull'accertamento e non già sulla portata documentale del titolo stesso. Tuttavia, nella più recente giurisprudenza di legittimità, si è puntualizzato che nell'opposizioneexart. 615 c.p.c. all'esecuzione promossa in base a titolo giudiziale, non è consentita un'integrazione, tanto meno extratestuale, del titolo esecutivo quando è univoca e certa la struttura del suo comando e quando gli ulteriori elementi potevano essere sottoposti nel giudizio in cui quel titolo si è formato al giudice della relativa cognizione e, se del caso, con l'idoneo gravame avverso il medesimo (Cass. n. 1942/2023). Sotto un distinto profilo, le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno precisato che se il titolo esecutivo giudiziale – nella sua portata precettiva individuata sulla base del dispositivo e della motivazione – dispone il pagamento di “interessi legali”, senza altra indicazione e in mancanza di uno specifico accertamento del giudice della cognizione sulla spettanza di interessi per il periodo successivo alla proposizione della domanda giudiziale, secondo il saggio previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali (ex art. 1284, comma 4, c.c.), la misura degli interessi maturati dopo la domanda corrisponde al saggio previsto dall'art. 1284, comma 1, c.c., stante il divieto per il giudice dell'esecuzione di integrare il titolo (Cass. S.U., n. 12449/2024). Il presupposto dell'esigibilità del diritto sussiste quando lo stesso non è assoggettato ad un termine o ad una condizione sospensiva, che può consistere anche in una controprestazione o altra attività da eseguirsi da parte del creditore o di un terzo (ad esempio, il pagamento dell'indennità per l'avviamento commerciale di cui all'art. 34 l. n. 392/1978, al conduttore al fine di eseguire il provvedimento di rilascio dell'immobile locato: Cass. n. 4443/2014). È rilevante che il diritto sia esigibile non al momento di formazione del titolo bensì quando lo stesso viene posto in esecuzione (Massari, 38): ciò comporta che può essere notificato l'atto di precetto anche se il termine o la condizione non si siano ancora verificati (Cass. n. 9293/1999). Qualora l'esecuzione sia iniziata prima del verificarsi del termine o della condizione l'esecutato potrà dedurre tale circostanza in sede di opposizione all'esecuzione (Cass. n. 6055/1998). Il «catalogo» dei titoli esecutiviLa disposizione in esame individua, nei tre numeri del comma 2, i titoli esecutivi. La distinzione fondamentale è quella tra titoli esecutivi giudiziali di cui al numero 1) e titoli esecutivi stragiudiziali, individuati nei numeri 2) e 3). Difatti, per i soli titoli giudiziali, in virtù della regola generale dettata dall'art. 161 di conversione dei vizi del provvedimento in motivi di impugnazione dello stesso, opera la preclusione a far valere in sede di opposizione eccezioni inerenti a fatti estintivi od impeditivi anteriori alla formazione del titolo (che vanno dedotti nell'ambito del giudizio di gravame: ex multis, Cass. n. 3277/2015). Per converso, nell'ipotesi in cui sia posto in esecuzione un titolo stragiudiziale, il debitore può contrastare la pretesa esecutiva del creditore con la stessa pienezza dei mezzi di difesa consentita nei confronti di una domanda di condanna o di accertamento del debito, e il giudice dell'opposizione può rilevare d'ufficio non solo l'inesistenza, ma anche la nullità del titolo esecutivo nel suo complesso o in singole sue parti, non vigendo in materia il principio processuale della conversione dei vizi della sentenza in mezzi di impugnazione (Cass. n. 21293/2011; Cass. n. 1724/1977). Il differente novero dei motivi deducibili nell'ambito dell'opposizione all'esecuzione in ragione della circostanza che il titolo sia di natura giudiziale o stragiudiziale, fa sussistere un concreto interesse del creditore che vanti già un titolo stragiudiziale, ad esempio una cambiale o un mutuo, ad agire per l'accertamento in sede cognitiva (di regola proponendo un ricorso per ingiunzione di pagamento) al fine di consacrare il diritto in un titolo giudiziale onde ottenere una tutela più piena in sede esecutiva (cfr. Trib. Milano n. 12378/2013). In sostanza, nel giudizio di opposizione all'esecuzione promossa in base ad un titolo esecutivo di formazione giudiziale, le ragioni di ingiustizia della decisione possono essere fatti valere, ove ancora possibile, solo nel corso del processo in cui il titolo è stato emesso, poiché la contestazione del diritto a procedere ad esecuzione forzata può essere fondata su vizi di formazione del provvedimento solo quando questi ne determinino l'inesistenza giuridica, atteso che gli altri vizi e la cognizione di ogni questione di merito sono devoluti al giudice naturale della causa in cui la controversia tra le parti ha avuto (o sta avendo) pieno sviluppo ed è stata (od è tuttora) in esame, anche in sede di impugnazione (Cass. n. 3277/2015). La violazione della predetta regola da parte dell'opponente costituisce infatti causa di inammissibilità, e non di infondatezza, dell'opposizione, e come tale è rilevabile d'ufficio dal giudice anche in grado d'appello (Cass. n. 26948/2014). In applicazione delle regole generali sopra enunciate si è, tra l'altro, affermato nella giurisprudenza di legittimità che: nel giudizio di opposizione all'esecuzione promossa in forza di decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo, il debitore esecutato non può contestare la correttezza o meno del titolo giudiziale negando il fondamento del diritto fatto valere nei suoi confronti per ragioni processuali o di merito che avrebbe dovuto far valere tempestivamente nel giudizio a opposizione a decreto ingiuntivo (Trib. Monza II, 27 novembre 2013); con l'opposizione al precetto relativo a crediti maturati per il mancato pagamento dell'assegno di mantenimento, determinato a favore del figlio in sede di separazione, possono essere dedotte soltanto questioni relative alla validità ed efficacia del titolo e non anche fatti sopravvenuti, da farsi valere col procedimento di modifica delle condizioni della separazione di cui all'art. 710 (Cass. n. 20303/2014); il potere decisorio del giudice dell'opposizione al precetto, in sede di attuazione coattiva di statuizioni di contenuto non economico involgenti la prole minorenne, contenute nella sentenza definitiva di divorzio, è limitato all'accertamento negativo della sussistenza del diritto del precettante di procedere all'esecuzione forzata in riferimento al momento in cui essa è iniziata, senza poteri di incisione o modifica sull'azionato titolo e senza che possano essere valutate circostanze di fatto sopravvenute a detto momento, che, peraltro, se impedienti il risultato prescritto dal titolo esecutivo giudiziale, quand'anche nel superiore interesse del minore, andranno verificate non in sede di opposizione al precetto ma dal giudice dell'esecuzione, cui è devoluto anche il compito di stabilire le modalità attuative del titolo in questione (Cass. n. 19344/2013). È stato poi affermato, sempre in sede di legittimità, che la condanna passata in giudicato del condividente ereditario al rilascio del bene goduto a favore di altro erede, assegnatario del cespite, preclude al primo di far valere, in sede di opposizione all'esecuzione avviata dal secondo, l'esistenza di un titolo autonomo di godimento iure locationis sul bene, trattandosi di questione allegabile solo nell'ambito del giudizio divisionale (Cass. n. 10850/2014). Sulla questione, non è altresì superfluo ricordare che, in accordo con un orientamento consolidato in giurisprudenza, nel caso di esecuzione forzata intrapresa in forza di un decreto ingiuntivo, occorre distinguere tra l'ipotesi di deduzione dell'inesistenza della notificazione del titolo, che si verifica ogniqualvolta essa viene effettuata in luogo o a mano di persona privi di ogni tipo di relazione con l'ingiunto, e che comporterebbe senz'altro la necessità del ricorso al rimedio dell'opposizione all'esecuzione ex art. 615, e quella invece in cui se ne deduca la nullità, per la quale è esperibile soltanto il rimedio dell'opposizione tardiva ai sensi dell'art. 650 entro il termine di cui al comma 3 (v., exceteris, Cass. n. 1219/2014; Trib. Torre Annunziata n. 1671/2014). I principi sinora richiamati operano anche per la compensazione, quale fatto estintivo dell'obbligazione, che, invero, può essere dedotta come motivo di opposizione all'esecuzione forzata fondata su titolo esecutivo giudiziale coperto dalla cosa giudicata qualora il credito fatto valere in compensazione, rispetto a quello per cui si procede, sia sorto successivamente alla formazione di quel titolo mentre in caso contrario resta preclusa dalla cosa giudicata che impedisce la proposizione di fatti estintivi o impeditivi ad essa contrari (Trib. Milano III, n. 2920/2013). Tuttavia, quando un'espropriazione forzata venga promossa per il soddisfacimento di un credito per spese giudiziali liquidate nella sentenza costituente titolo esecutivo, il debitore può, con opposizione all'esecuzione, eccepire in compensazione un suo credito, anche se sorto anteriormente alla formazione del giudicato, in quanto il credito relativo alle spese giudiziali non viene accertato in esito a un giudizio in cui la parte avrebbe potuto far valere la compensazione, ma deriva, come conseguenza automatica, dalla mera soccombenza (Cass. n. 7864/2011). Per converso possono essere fatte valere con l'opposizione all'esecuzione fondata su un titolo esecutivo giudiziale i vizi che non soggiacciono alla regola di cui all'art. 161 di conversione della nullità in motivi di gravame (Vaccarella 1990, 2). Può pertanto essere denunciata mediante opposizione all'esecuzione, oltre che l'inesistenza della sentenza (per un recente esempio v. Cass. n. 8129/2024), l'inidoneità della sentenza a fungere da titolo esecutivo, per l'assenza di carattere condannatorio, ovvero per essere la condanna solo generica (Cass. S.U. , n. 4723/1977), o emessa nei confronti di soggetto deceduto (Cass. n. 11153/2002). Sotto altro profilo, anche se l'esecuzione si basa su un titolo giudiziale, l'opponente può far valere tutti i fatti successivi alla formazione del titolo, come, ad esempio, il pagamento della somma richiesta in sede esecutiva o la stipula di una transazione novativa con il creditore. In detta prospettiva è stato ad esempio affermato che poiché l'ordinanza di assegnazione resa dal giudice dell'esecuzione all'esito di un procedimento di pignoramento presso terzi, anche se non idonea al giudicato costituisce titolo esecutivo di formazione giudiziale che, munito di formula esecutiva, può essere a sua volta portato in esecuzione dal creditore assegnatario nei confronti del terzo pignorato, sicché legittimamente quest'ultimo si avvale dell'opposizione all'esecuzione ove intenda opporre al creditore assegnatario fatti estintivi o impeditivi della sua pretesa sopravvenuti alla pronuncia del titolo esecutivo ovvero per contestare la pretesa azionata con il precetto (Cass. n. 11493/2015). Nonostante la particolare resistenza del titolo esecutivo giudiziale alle deduzioni fatte valere in sede di esecuzione forzata, il creditore, ancorché munito di un titolo esecutivo giudiziale, può procurarsene un secondo, non esistendo nell'ordinamento alcun divieto assoluto di duplicazione dei titoli, purché l'azione non si sia consumata, ovvero non venga violato il principio del ne bis in idem, sussista l'interesse ad agire ex art. 100 e, infine, non vi sia abuso del diritto o del processo (Cass. n. 21768/2019). Sotto un distinto profilo, è controversa l'individuazione dell'ultimo momento utile per far valere tali fatti in sede cognitiva, momento dopo il quale gli stessi potrebbero farsi valere con l'opposizione all'esecuzione. In particolare, per alcuni dovrebbe aversi riguardo alla deduzione dei fatti nel giudizio di primo grado, dopo il quale gli stessi potrebbero essere fatti valere nel giudizio ex art. 615 (Bucolo, 1 ss.). Per altri, invece, i fatti in questione dovrebbero essere dedotti comunque in sede di impugnazione e, quindi, solo quelli successivi anche al passaggio in giudicato della decisione potrebbero essere fatti valere con l'opposizione all'esecuzione (Cass. n. 3007/1992). In giurisprudenza appare prevalente la tesi che ammette la deducibilità del fatto sopravvenuto rispetto al momento nel quale lo stesso poteva essere fatto valere nel giudizio di primo grado sia in sede di impugnazione che di opposizione ex art. 615 (Cass. n. 3007/1992). Si è così ritenuto che la parte la quale, minacciata, con l'atto di precetto, di esecuzione forzata in base a decreto di ingiunzione provvisoriamente esecutivo, ha promosso giudizio di opposizione alla ingiunzione per sostenere che questa è stata emessa in carenza delle condizioni di ammissibilità previste dall'art. 633 non può proporre anche opposizione alla esecuzione per le medesime ragioni non solo perché tale opposizione non può avere per oggetto questioni attinenti ai vizi di formazione del titolo, a meno che non ne determinino l'inesistenza giuridica, o al merito della decisione che in esso è contenuta, ma anche perché manca di interesse alla predetta opposizione dato che l'opposizione alla ingiunzione, esaurendo ogni possibile accertamento della fondatezza o non delle ragioni dedotte anche in rapporto al diritto della parte istante di procedere alla esecuzione, è in grado di realizzare, anche attraverso la possibilità di ottenere la sospensione dell'esecuzione provvisoria, a norma dell'art. 649, la tutela del suo interesse ad evitare l'esecuzione forzata in forza di quel titolo (Cass. n. 11088/1992). Mentre con l'opposizione all'esecuzione forzata fondata su un titolo esecutivo giudiziale possono farsi valere soltanto i fatti posteriori alla formazione del provvedimento costituente titolo esecutivo, in quanto non è ammissibile un controllo a ritroso della legittimità e della fondatezza del provvedimento stesso fuori dell'impugnazione tipica e del procedimento che ad essa consegue, la medesima esigenza, invece, non si riscontra allorché l'esecuzione forzata sia basata su un titolo di natura contrattuale (Vaccarella 1993, 186). Pertanto, se l'esecuzione si fonda su un titolo stragiudiziale, il debitore può contrastare la pretesa esecutiva del creditore con la stessa pienezza dei mezzi di difesa consentita nei confronti di una domanda di condanna o di accertamento del debito, e il giudice dell'opposizione può rilevare d'ufficio non solo l'inesistenza, ma anche la nullità del titolo esecutivo nel suo complesso o in singole sue parti, non vigendo in materia il principio processuale della conversione dei vizi della sentenza in mezzi di impugnazione (Cass. n. 2123/2011). Nella giurisprudenza di legittimità è stato inoltre chiarito che il creditore munito di titolo esecutivo stragiudiziale il quale abbia iscritto ipoteca volontaria a garanzia del proprio diritto non perde l'interesse ad agire in via monitoria, sia perché l'ipoteca giudiziale iscritta a seguito dell'emissione del decreto ingiuntivo potrebbe riguardare anche ulteriori beni del debitore, diversi da quelli su cui è stata originariamente iscritta l'ipoteca volontari ed acquisiti successivamente, sia perché la stabilità tipica dell'accertamento giudiziale assicura alla successiva esecuzione coattiva basi più solide, restringendo i margini di errore e di possibile opposizione da parte del debitore (Cass. n. 23083/2013). La richiamata distinzione tra titolo esecutivo giudiziale e titolo esecutivo stragiudiziale rispetto alla «forza» del titolo nel corso della procedura esecutiva è stata di recente posta in crisi dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell'Unione europea a tutela del consumatore, cui si sono conformate, con un peculiare indirizzo interpretativo, le Sezioni Unite della Corte di cassazione con riferimento ai decreti ingiuntivi pronunciati nei confronti di consumatori senza che il giudice del procedimento monitorio avesse considerato le clausole abusive nell'ambito dei contratti con gli stessi. In particolare, la CGUE, Grande Sezione, 17 maggio 2022, cause riunite C 639/19, SPV Project 1503, e C-831/19, Banco di Desio e della Brianza e a. ha sancito il principio per cui «l'articolo 6, paragrafo 1, e l'articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13 devono essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale la quale prevede che, qualora un decreto ingiuntivo emesso da un giudice su domanda di un creditore non sia stato oggetto di opposizione proposta dal debitore, il giudice dell'esecuzione non possa – per il motivo che l'autorità di cosa giudicata di tale decreto ingiuntivo copre implicitamente la validità delle clausole del contratto che ne è alla base, escludendo qualsiasi esame della loro validità – successivamente controllare l'eventuale carattere abusivo di tali clausole. La circostanza che, alla data in cui il decreto ingiuntivo è divenuto definitivo, il debitore ignorava di poter essere qualificato come «consumatore» ai sensi di tale direttiva è irrilevante a tale riguardo». Sono dunque intervenute le Sezioni Unite della Corte di cassazione, con la sent. n. 9479/2023, sancendo che ai fini del rispetto del principio di effettività della tutela giurisdizionale dei diritti riconosciuti al consumatore dalla direttiva 93/13/CEE, concernente le clausole abusive dei contratti stipulati tra un professionista e un consumatore, e dalle sentenze della CGUE del 17 maggio 2022, il giudice del procedimento monitorio, nella fase “inaudita altera parte”, deve esaminare d'ufficio l'eventuale carattere abusivo delle clausole rilevanti rispetto all'oggetto della domanda – esercitando, a tal fine, i poteri istruttori di cui all'art. 640 c.p.c. (richiedendo la produzione di documenti o i chiarimenti necessari, anche in ordine alla qualifica di consumatore del debitore) – e motivare sinteticamente l'esito negativo di tale controllo nel decreto ingiuntivo, nonché, con lo stesso provvedimento, avvertire il debitore che, in assenza di opposizione, decadrà dalla possibilità di far valere l'eventuale carattere abusivo delle clausole del contratto e che il decreto non opposto diventerà irrevocabile; lo stesso giudice deve, invece, rigettare, in tutto o in parte, il ricorso, salva la riproponibilità della domanda, se il predetto controllo abbia esito positivo oppure se l'accertamento della vessatorietà imponga un'istruzione probatoria (quale quella tramite l'assunzione di testimonianze o l'espletamento di c.t.u.) incompatibile col procedimento monitorio. Diversamente, nel caso in cui il decreto ingiuntivo non opposto, su cui sia fondata l'esecuzione o l'intervento del creditore, non sia motivato in ordine al carattere non abusivo delle clausole del contratto fonte del credito oggetto d'ingiunzione, il giudice dell'esecuzione ha il dovere di controllare d'ufficio l'eventuale carattere abusivo delle clausole che incidono sulla sussistenza o sull'entità del credito azionato, nel contraddittorio e previa instaurazione di una sommaria istruttoria, a prescindere dalla proposizione di un'opposizione esecutiva (potendo, ove non adito prima dalle parti, dare atto, nel provvedimento di fissazione dell'udienza, della mancanza di motivazione del decreto ingiuntivo e invitare il creditore, procedente o intervenuto, a produrre il contratto); il giudice dell'esecuzione è altresì tenuto a informare le parti dell'esito del controllo svolto – avvertendo il consumatore che entro quaranta giorni da tale informazione ha facoltà di proporre opposizione al decreto ingiuntivo ai sensi dell'art. 650 c.p.c., esclusivamente per far accertare il carattere abusivo delle clausole incidenti sul credito oggetto di ingiunzione – e a soprassedere alla vendita o all'assegnazione del bene o del credito fino alla vana scadenza del predetto termine o alle determinazioni del giudice dell'opposizione sull'istanza ex art. 649 c.p.c.. Sentenze e provvedimenti. Sentenze di condanna Costituiscono, innanzitutto, titoli esecutivi le sentenze, anche di primo grado ex art. 282 c. p.c., che, peraltro, devono intendersi limitate alle sentenze di condanna ovvero contenenti almeno una statuizione condannatoria implicita (Mandrioli, 1342; Vaccarella, 156). La questione dei limiti oggettivi della provvisoria esecutività delle sentenze di primo grado ai sensi dell'art. 282 c.p.c., così come novellato ad opera della l. n. 353/1990, è stata ampiamente dibattuta. Invero, nel silenzio del legislatore circa il novero delle decisioni di primo grado che sono provvisoriamente esecutive ex art. 282 c.p.c., sono stati sostenuti anche in dottrina essenzialmente due orientamenti contrapposti (per una sintesi, Giorgetti, 1134). Più in particolare, in accordo con una prima impostazione volta ad ampliare la portata della regola in discussione, si è sostenuto che la stessa sarebbe applicabile ad ogni tipo di sentenza fatta eccezione per le pronunce strutturalmente insuscettibili di esecuzione forzata, ossia quelle di accertamento mero (v., tra gli altri, Ferri, 558; Impagnatiello, 751). Sul punto si è sottolineato che occorre distinguere tra l'immutabilità della situazione giuridica sostanziale che si determina solo a seguito del passaggio in giudicato della sentenza ex art. 2909 c.c. e l'efficacia esecutiva della stessa che potrebbe invece essere provvisoriamente anticipata ad un momento anteriore rispetto al predetto passaggio in giudicato. Sostanzialmente nell'ambito di questo orientamento si ritiene possa essere ricondotta anche quella teoria che prende le mosse da un'accezione di esecutorietà della sentenza più ampia rispetto a quella tradizionale che tende ad identificare le pronunce esecutive solo con quelle suscettibili di esecuzione forzata in senso stretto. In tale direzione è stato proposto di concepire latamente la valenza esecutiva di una decisione quale idoneità della stessa a produrre gli effetti modificativi che le sono propri, ponendosi come fonte di diritti ed obblighi ed aprendo le porte a tutte le attività attuative ed esecutive che la concretizzazione del comando giuridico richiede (cfr. Impagnatiello, 782). Allo scopo di suffragare la posizione volta ad interpretare estensivamente l'ambito applicativo dell'art. 282 è stato altresì sottolineato che, al di là dei dati letterali, lo stesso dovrebbe essere determinato alla luce della finalità perseguita sul punto dalla riforma del 1990, i.e. quella di porre al centro dell'accertamento dei fatti del processo il giudizio di primo grado con la correlativa ricostruzione dell'appello quale mera revisio prioris instantiae e non come nuovo giudizio (Ferri, 561). Entro questi limiti è provvisoriamente esecutiva la sentenza di primo grado ai sensi dell'art. 282, dovendo per le sentenze di mero accertamento e per quelle costitutive attendersi invece il passaggio in giudicato. È in sostanza discusso in quale misura le sentenze costitutive di primo grado possano essere assoggettate ad esecuzione provvisoria, rectius se alcuni capi di tali sentenze possano ritenersi immediatamente esecutivi (in generale Carpi, 1 ss.). Secondo una prima tesi, infatti, le sentenze costitutive sono provvisoriamente esecutive ex art. 282 poiché occorre distinguere tra l'immutabilità della situazione giuridica sostanziale che si determina solo a seguito del passaggio in giudicato della sentenza ex art. 2909 c.c. e l'efficacia esecutiva della stessa che potrebbe invece essere provvisoriamente anticipata ad un momento anteriore rispetto al predetto passaggio in giudicato (Impagnatiello, 751). È peraltro dominante, almeno in dottrina, l'opposta tesi restrittiva (Attardi, 117; Consolo (Luiso, Sassani), 263). Invero, in accordo con la giurisprudenza più recente, l'anticipazione in via provvisoria, ai fini esecutivi, degli effetti discendenti da statuizioni condannatorie contenute in sentenze costitutive, non è consentita, essendo necessario il passaggio in giudicato soltanto nei casi in cui la statuizione condannatoria è legata all'effetto costitutivo da un vero e proprio nesso sinallagmatico (come nel caso di condanna al pagamento del prezzo della compravendita nella sentenza sostitutiva del contratto definitivo non concluso: Cass. S.U., n. 4059/2010; conforme Cass. n. 25941/2023), mentre è ammessa quando la statuizione condannatoria è meramente dipendente dall'effetto costitutivo, essendo detta anticipazione compatibile con la produzione dell'effetto costitutivo nel momento temporale successivo del passaggio in giudicato (come nel caso di specie riguardante la condanna di un istituto di credito alla restituzione delle somme di denaro ricevute da un istituto di credito a seguito di atti solutori dichiarati inefficaci ai sensi dell'art. 67 r.d. n. 267/1942): Cass. n. 16737/2011. Nell'ambito di tale impostazione interpretativa, si è osservato che, qualora, pendente un giudizio concernente il pagamento di canoni locatizi rimasti inadempiuti, sopravvenga, all'esito di un diverso procedimento tra le stesse parti, una sentenza ex art. 2932 c.c., di trasferimento dell'immobile, oggetto del contratto di locazione, al conduttore, quest'ultimo resta obbligato a corrispondere alla controparte i canoni non versati fino alla data del passaggio in giudicato della decisione, la cui natura costitutiva la qualifica come produttiva di effetti ex nunc da tale data, senza essere connotata, in quanto tale, da provvisoria esecutività ex art. 282 se non limitatamente ai capi decisori che non si collochino in rapporto di stretta dipendenza con quelli costitutivi relativi alla modificazione giuridica sostanziale (Cass. n. 12236/2015). Da tale orientamento sembra essersi discostata in senso più restrittivo quanto al novero delle decisioni dotate di immediata efficacia esecutiva Cass. n. 2537/2019, per la quale, in tema di scioglimento della comunione mediante assegnazione ex art. 720 c.c. con determinazione di (o condanna al) conguaglio a carico dell'assegnatario, quest'ultimo capo di sentenza non è suscettibile di esecuzione provvisoria ex art. 282 e, quindi, di essere azionato come titolo esecutivo prima del passaggio in giudicato della statuizione sull'assegnazione, che ha natura costitutiva, in quanto ad essa legato da nesso di corrispettività ancorché non di stretta sinallagmaticità. In tema di revoca del provvedimento di assegnazione della casa familiare si segnala invece Cass. n. 1367/2012, Dir. fam., 2012, n. 4, 1484, con nota di Navarrini, per la quale, in materia di assegnazione della casa familiare, inizialmente disposta con ordinanza del presidente del tribunale e poi oggetto di revoca, da parte del tribunale, con la sentenza che definisce il processo di separazione personale tra i coniugi, la natura speciale del diritto di abitazione, ai sensi dell'art. 155-quater c.c., è tale per cui esso non sussiste senza allontanamento dalla casa familiare di chi non ne è titolare e, corrispondentemente, quando esso cessa di esistere per effetto della revoca, determina una situazione simmetrica in capo a chi lo ha perduto, con necessario allontanamento da parte di questi, sicché il provvedimento ovvero la sentenza rispettivamente attributivi o di revoca costituiscono titolo esecutivo, per entrambe le situazioni, anche quando l'ordine di rilascio non sia stato con essi esplicitamente pronunciato. Per altro verso, le cosiddette sentenze condizionali, cioè le sentenze nelle quali l'efficacia della pronunzia di condanna e subordinata al verificarsi di un evento determinato, ma futuro e incerto, o al sopravvenire di un termine o al preventivo adempimento di una controprestazione non pongono in essere una condanna da valere per il futuro, ma accertano l'esistenza attuale dell'obbligo di eseguire una determinata prestazione e il condizionamento parimenti attuale di tale obbligo al verificarsi di una circostanza, il cui avveramento, pur presentatosi differito e incerto, non richieda per il suo accertamento, altra indagine all'infuori di quella, da eseguirsi in sede esecutiva, diretta a stabilire se la detta circostanza si sia o non verificata. In conseguenza di tale impostazione, in sede di legittimità si è ritenuto che, verificatosi l'evento cui è subordinata la condanna, questa acquista l'efficacia di titolo esecutivo per un diritto certo, liquido ed esigibile, ai sensi dell'art 474 c.p.c. (Cass. n. 6239/1979, in Giust. civ., 1980, n. 1, 922, la quale ha ritenuto che costituisca titolo esecutivo la sentenza di condanna, la cui efficacia sia subordinata alla mera constatazione della omessa esecuzione di una costruzione nel termine stabilito). Segue. La provvisoria esecutività del capo della sentenza relativo alla condanna alle spese Sotto un distinto profilo è stata oggetto di ampio dibattito anche la questione avente ad oggetto la provvisoria esecutività (o meno) dei capi della decisione contenenti la condanna alle spese che accedono a pronunce costitutive o di accertamento (cfr. Impagnatiello, 751). Difatti, se alcuni sostengono che gli stessi sono provvisoriamente esecutivi esclusivamente se connessi ad una decisione di condanna, altri evidenziano che, poiché il capo della sentenza relativo alla liquidazione delle spese di lite una statuizione dalla valenza senza dubbio condannatoria, lo stesso può ritenersi immediatamente esecutivo, a prescindere dalla natura della statuizione principale cui accede (Consolo I, 291). Sulla questione qualche anno fa si è formato un contrasto, almeno apparente, tra i principi affermati dalla Corte di cassazione e dalla Corte costituzionale. Infatti, posto che, in accordo con il «diritto vivente» (cfr., tra tutte, Cass. n. 9236/2000, in Giust. civ., 2001, I, 198, con nota di Gatti, in Corr. giur., 2000, 1599, con nota di Consolo ed in Foro it., 2001, I, 159, con nota di Scarselli), si riteneva che la disciplina della provvisoria esecutività della sentenza di primo grado non potesse essere estesa alla statuizione relativa alla condanna alle spese insita in una pronuncia non avente natura condannatoria, era stata sollevata questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 282 e 474 in tal modo inteso, denunciando alla Corte Costituzionale un potenziale contrasto con gli artt. 3,24 e 111 Cost., nonché, in relazione all'art. 117, comma 1, Cost., con l'art. 6 della CEDU. La Corte costituzionale ha ritenuto non fondata la questione prospettata (C. cost. n. 232/2004, in Riv. dir. proc., 2005, 579, con nota di De Vita), rilevando che il giudice remittente era partito da un erroneo presupposto interpretativo, i.e. dall'applicabilità nella fattispecie delle regole che disciplinano i rapporti tra capi principali ed accessori delle decisioni. Le medesime non sarebbero invece applicabili nell'esame dei rapporti tra statuizione sulle spese e decisione della controversia, poiché il capo contenente la condanna alle spese è piuttosto corollario di una sentenza sul merito della quale segue le sorti, anche sotto il profilo dell'efficacia esecutiva. Di poco successivo alla pronuncia della Corte costituzionale è stato il revirement operato in materia dalla Corte di cassazione, per il quale la decisione sulle spese del processo poste a carico di una delle parti costituisce sempre pronuncia di condanna, anche ove acceda ad una sentenza costitutiva o di accertamento mero (Cass. n. 9363/2010; Cass. n. 4307/2008; Cass. n. 21367/2004; v. già, tra le altre, in sede di merito, Trib. Bologna 21 giugno 2004, in Gius 2004, 3952; Trib. Ivrea 5 febbraio 2004, in Giur. merito, 2005, I, 8; Trib. Torino 2 marzo 2004, ivi, 8; Giudice pace di Casoria, in Giur. napoletana, 2004, 113; Trib. Bergamo 20 ottobre 2003, in Giur. merito, 2004, 61 ed in Giur. it., 2004, 1420, con nota di Dominici; Trib. Torino 30 giugno 2003, in Foro padano, 2003, I, 641, con nota di Barberio; Trib. Udine 8 aprile 2002, in Giur. it., 2003, 1169; Trib. Lecco 31 ottobre 2002, in Nuova giur. civ. commentata, 2004, I, 190, con nota di Zamboni ed in Giur. milanese, 2003, 23; Trib. Napoli 4 novembre 2002, in Giur. merito, 2003, I, 433; Trib. Monza 6 agosto 2002, ivi, 2003, 1654; Trib. Foggia 3 maggio 2002, ivi, 2003, 1655). Sotto un distinto profilo, giova ricordare che la sentenza che condanna al pagamento delle spese del giudizio e ne fa liquidazione, costituisce titolo esecutivo non solo entro i limiti della somma liquidata, ma anche per le altre spese conseguenti e necessarie per la realizzazione della volontà espressa dalla sentenza di condanna. Tra tali spese devono comprendersi sia quelle della sentenza di condanna e della relativa registrazione, sia quelle delle sentenze pronunciate nei gradi e nelle fasi anteriori del giudizio e relative registrazioni sempre che il pagamento delle spese sia stato, anche per tali gradi e fasi, posto a carico della parte contro cui si procede esecutivamente (Cass. n. 1104/1966, in Foro it., 1966, I, 2961). Gli altri provvedimenti aventi efficacia esecutiva Il comma 2 n. 1 della disposizione in esame stabilisce inoltre che costituiscono titoli esecutivi i provvedimenti, diversi dalla sentenza, ai quali la legge attribuisce espressamente efficacia esecutiva. Tra questi possono ricordarsi, a titolo solo esemplificativo, le ordinanze anticipatorie di condanna ex artt. 186-bis, 186-ter, e 186-quater, i decreti ingiuntivi di pagamento nelle ipotesi in cui siano muniti della clausola di esecuzione provvisoria ai sensi degli artt. 642 e 648, nonché il decreto di ingiunzione pronunciato ex art. 611 nell'esecuzione per rilascio ed ai sensi dell'art. 614 nell'esecuzione forzata per gli obblighi di fare, l'ordinanza di convalida di licenza o sfratto e l'ordinanza provvisoria di rilascio, il decreto di liquidazione del compenso in favore del custode e degli altri ausiliari di giustizia come i consulenti tecnici ex artt. 65 e 52 ss. disp. att. Nella giurisprudenza di legittimità è stato chiarito che il provvedimento con il quale, in sede di separazione, si stabilisce che il genitore non affidatario paghi, sia pure pro quota, le spese mediche e scolastiche ordinarie relative ai figli costituisce idoneo titolo esecutivo e non richiede un ulteriore intervento del giudice in sede di cognizione, qualora il genitore creditore possa allegare e documentare l'effettiva sopravvenienza degli esborsi indicati nel titolo e la relativa entità, salvo il diritto dell'altro coniuge di contestare l'esistenza del credito per la non riconducibilità degli esborsi a spese necessarie o per violazione delle modalità d'individuazione dei bisogni del minore (Cass. n. 4182/2016). Peraltro, occorre considerare che, in tema di inadempimento agli obblighi derivanti dalla sentenza di separazione dei coniugi, con riguardo alle spese straordinarie, al fine di legittimare l'azione esecutiva in caso di inadempimento del coniuge onerato, non è sufficiente azionare la sentenza che contenga una condanna generica, indeterminata nel quantum. Infatti, in tale ipotesi è necessario intentare nuovo giudizio di cognizione che accerti la sussistenza delle ragioni di fatto che determinino l'effettiva esistenza (Trib. Vercelli 9 maggio 2016). Tuttavia, è comune opinione che efficacia esecutiva possa essere attribuita anche ad altri provvedimenti del giudice ai quali tale qualità non sia attribuita espressamente dalla legge: esempio tipico è l'ordinanza di assegnazione ex art. 553 che costituisce titolo esecutivo nei confronti del terzo pignorato (Cass. n. 19363/2007), dal momento in cui è portata a conoscenza del terzo assegnatario o da quello successivo a tale conoscenza che sia specificamente indicato nell'ordinanza di assegnazione (Cass. n. 9390/2016). Costituisce, poi, titolo esecutivo, il decreto di approvazione dell'attribuzione di quote nelle operazioni di divisione, emanato ai sensi dell'art. 195 disp. att. (detto titolo è eseguibile anche nei confronti del terzo detentore del bene, il quale è legittimato a proporre opposizione all'esecuzione forzata per rilascio solo a condizione della esistenza in suo favore di un titolo autonomo: Cass. n. 13316/2015). È, inoltre, titolo esecutivo la condanna al pagamento di una provvisionale pronunziata dal giudice penale: a tal fine, è sufficiente la notificazione del solo dispositivo, della quale tiene il posto anche la lettura in udienza se la parte è presente o deve considerarsi tale, non occorrendo invece attendere il deposito delle motivazioni né, tanto meno, procedere alla notificazione del provvedimento comprensivo delle ragioni della decisione (Cass. n. 6022/2017). I provvedimenti di ingiunzione Il procedimento per ingiunzione è un procedimento sommario alternativo al giudizio ordinario di cognizione che si svolge nella prima fase senza il contraddittorio del debitore, contraddittorio soltanto eventualmente provocato dall'ingiunto mediante la proposizione dell'opposizione: ne deriva che, di regola, il decreto è concesso privo di efficacia esecutiva. Peraltro nelle ipotesi indicate dall'art. 642 il decreto ingiuntivo può essere eccezionalmente concesso munito della clausola di esecuzione provvisoria (cfr. Garbagnati 1982, 579). Oltre a quelli documentali, presupposti per la concessione della provvisoria esecutività nella fase monitoria sono l'istanza di parte ed un espresso provvedimento di autorizzazione del giudice. A fronte della presentazione di documenti dotati di efficacia probatoria privilegiata indicati dal primo comma dell'art. 642 il giudice, tuttavia, ha il dovere, ove richiesto, di concedere l'esecuzione provvisoria del decreto, anche eventualmente parziale, qualora il credito sia fondato solo in parte su tali documenti (cfr. Zucconi Galli Fonseca, 197). Il comma 1 dell'art. 642 c.p.c. prevede, innanzitutto che, su richiesta del ricorrente, il giudice autorizza l'esecuzione provvisoria del decreto quando il ricorso è fondato su una prova scritta di carattere privilegiato, i.e. cambiale, assegno bancario o circolare, certificato di liquidazione di borsa o atto ricevuto da notaio o altro pubblico ufficiale autorizzato. Rispetto alle cambiali e agli assegni, in accordo con l'orientamento dominante in dottrina e nella prassi giurisprudenziale, è possibile ottenere l'esecuzione provvisoria del decreto anche se i predetti titoli di credito siano privi di un requisito di validità (Garbagnati 2012, 144) o non regolarmente bollati, in quanto ciò è necessario all'esclusivo fine di azionare gli stessi in sede esecutiva e non anche per richiedere la concessione del decreto ingiuntivo (cfr. Ronco, 277, sul rilievo per il quale gli artt. 104 r.d. n. 1669/1933, e 118 r.d. n. 1736/1933, stabiliscono che la cambiale e l'assegno bancario non regolarmente bollati sono validi pur non avendo qualità di titolo esecutivo). Secondo autorevole dottrina, se richiesta, nella fase monitoria l'esecuzione provvisoria dei titoli di credito deve essere concessa anche ove gli stessi siano prescritti, trattandosi di circostanza rimessa ad un'eccezione di parte la cui proposizione è, pertanto, riservata al debitore nel momento di proposizione dell'opposizione (Garbagnati 2012, 147). In senso contrario v., tuttavia, in sede applicativa, App. L'Aquila 11 luglio 1975, in Giur. merito, 1976, I, 4. Tuttavia, ai fini della concessione «doverosa» dell'esecuzione provvisoria nella fase monitoria, non può ritenersi fondato su cambiale il credito fatto valere dal ricorrente nei confronti del fideiussore del debitore per il sol fatto che il debito principale risulti consacrato da una cambiale (cfr. già Cass. n. 438/1975, in Foro it., 1976, I, 2473). Per altro verso, in sede di legittimità è acquisito da lungo tempo che per atto ricevuto da notaio o da pubblico ufficiale autorizzato cui fa riferimento il comma 1 dell'art. 642 ai fini della concessione dell'esecuzione provvisoria del decreto deve intendersi non già qualunque atto dal quale si possa dedurre l'esistenza di un fatto idoneo a far sorgere il preteso credito, quanto soltanto quello che ha per oggetto immediato e diretto la consacrazione di un rapporto obbligatorio cui la legge attribuisce un particolare grado di certezza in relazione alla formazione dell'atto produttivo del rapporto stesso (Cass. n. 704/1977). Come osservato in dottrina, quindi, l'atto in questione deve essere ricevuto da notaio o altro pubblico ufficiale autorizzato ma avere natura contrattuale e provenire dai soggetti titolari di diritti ed obblighi nel rapporto e che hanno il potere di regolare, modificare o costituire lo stesso con la dichiarazione della loro volontà (Franco, I, 240). È oggetto di dibattito, per altro verso, se le fattispecie indicate dal primo comma dell'art. 642 abbiano carattere soltanto esemplificativo o siano tassative. Si registra su tale questione un contrasto tra la giurisprudenza e la dottrina. La S.C. ha infatti più volte ribadito il principio secondo cui l'elencazione degli atti privilegiati contenuta nel comma 1 dell'art. 642 è esemplificativa, trovando la norma applicazione purché il ricorso sia fondato su di un titolo pubblico certo e prima facie non contestabile o comunque su atti che, sebbene non espressamente menzionati, abbiano le caratteristiche di una particolare efficacia riconosciuta dalla legge ordinaria o da norma speciali al documento probatorio del credito ed intrinseche ad esso, nonché nella presunzione sia pure relativa dell'incontestabilità del credito così documentato (v., tra le altre, Cass. n. 1579/1980; Cass. n. 1545/1973, in Foro it., 1975, I, 684, con nota di Pezzano; Trib. Piacenza 3 ottobre 1994, in Foro it., 1995, I, 675; nel senso, per converso, di ritenere tassativa l'indicazione degli atti «privilegiati» in questione v., invece, più di recente, nella giurisprudenza di merito, Trib. Venezia 20 febbraio 2003, in Dir. maritt., 2005, n. 4, 1373, per la quale l'art. 642, nella parte in cui al primo comma si riferisce alla cambiale, all'assegno bancario, all'assegno circolare, al certificato di liquidazione di borsa ed all'atto ricevuto da pubblico ufficiale, non è applicabile, analogicamente alla polizza di carico, trattandosi di norma eccezionale, che pone una deroga al principio generale della non provvisoria esecutività del decreto ingiuntivo). In dottrina la tesi per la quale la concessione dell'esecuzione provvisoria ex art. 642, comma 1, è possibile esclusivamente ove il ricorso sia fondato su uno degli atti indicati da tale disposizione normativa è stata sostenuta avendo riguardo alla rilevata assenza di discrezionalità dell'autorità giudiziaria nel concedere l'esecuzione provvisoria in detta ipotesi, assenza di discrezionalità che, evidentemente, non si concilierebbe con il potere del giudice di individuare ulteriori fattispecie di certezza documentale del credito nelle quali concedere siffatta esecuzione provvisoria (Garbagnati 2012, 145). Il comma 2 dell'art. 642 attribuisce inoltre al giudice adito con il ricorso monitorio il potere discrezionale di concedere, sempre su richiesta del creditore ricorrente, il decreto munito della clausola di esecuzione provvisoria laddove: a) vi sia grave pregiudizio nel ritardo; b) il ricorrente produca documentazione sottoscritta dal debitore comprovante il diritto fatto valere. Sotto un primo profilo, si ritiene che il grave pregiudizio nel ritardo che consente di ottenere già in sede monitoria la concessione di un decreto provvisoriamente esecutivo si correli allo stato di dissesto o di insolvenza del debitore ovvero alla deperibilità o deteriorabilità delle cose oggetto del ricorso (cfr. Garbagnati 2012, 148). È invece controverso se il pericolo di grave pregiudizio nel ritardo possa riconnettersi anche alla posizione del ricorrente, ossia al rischio di insolvenza dello stesso. Infatti, se appare dominante la tesi secondo cui il grave pregiudizio nel ritardo deve essere valutato in relazione al pericolo per il creditore di realizzare utilmente il suo credito all'esito della cognizione piena, senza che assumano rilevanza considerazioni circa l'interesse sostanziale del ricorrente che si assume minacciato irreversibilmente in attesa della definizione del giudizio di opposizione (Pret. Roma 17 luglio 1981, in Dir. lav., 1983, II, 138), si segnala in sede applicativa anche il diverso orientamento per il quale la concessione della esecuzione provvisoria del decreto ingiuntivo ai sensi dell'art. 642, comma 2, può essere fondata non solo sul timore di perdere la garanzia patrimoniale, ma anche su ragioni inerenti alla natura del diritto, specialmente ove si tratti di crediti relativi ai rapporti previsti dall'art. 409 (Pret. Termini Imerese 3 dicembre 1996, in Giur. it., 1998, 54, con nota di Ziino). La concessione dell'esecuzione provvisoria può in tali ipotesi essere subordinata alla prestazione da parte del ricorrente di una cauzione. Per altro verso, la l. n. 263/2005 ha introdotto la possibilità per il giudice adito con ricorso monitorio di concederne, sempre su richiesta di parte, l'esecuzione provvisoria a fronte della produzione di documentazione sottoscritta dal debitore comprovante il diritto fatto valere. Tale previsione è stata oggetto di critica, da parte di alcuni, in ragione delle difficoltà che già derivano dalla prevista possibilità per il ricorrente di ottenere un decreto ingiuntivo sulla scorta di una scrittura privata con apparente sottoscrizione del debitore in un procedimento, come quello monitorio che, svolgendosi inaudita altera parte, non consente l'operare del meccanismo di cui agli artt. 214-215 (v., in particolare, Conte, 1 ss., il quale sottolinea che la possibilità di ottenere la sospensione dell'esecuzione provvisoria per gravi motivi in sede di opposizione a fronte dell'eventuale disconoscimento della sottoscrizione da parte del debitore non costituisce adeguato contrappeso, spiegando invero tale sospensione, a differenza della non ammessa revoca dell'esecuzione provvisoria, efficacia soltanto ex nunc e, quindi, non facendo venir meno gli atti esecutivi eventualmente già compiuti). In ogni caso, dal documento sottoscritto dal debitore devono risultare provati tutti gli elementi costitutivi della pretesa creditoria fatta valere in sede monitoria e ciò sia in ordine all'an che al quantum (Garbagnati 2012, 150). Per alcuni provvisoria esecuzione anche in base a documenti non sottoscritti dall'ingiunto ma provenienti dallo stesso, quali, ad esempio, scritti olografi o deliberazioni di organi collegiali di cui lo stesso sia membro (Zucconi Galli Fonseca, 184 ss.). Nella giurisprudenza di merito si è ritenuto che la documentazione sottoscritta dal debitore, comprovante il diritto di credito fatto valere e che, senza limitare la discrezionalità del giudice, può consentire la provvisoria esecuzione dell'ingiunzione, deve avere una valenza probatoria che dia maggior certezza dell'esistenza del credito stesso e renda probabile l'assenza di contestazioni (Trib. Milano 12 dicembre 2006, in Giur. it., 2007, n. 10, 2276, con nota di Usuelli). In ogni caso, il decreto d'ingiunzione che non ne sia già munito nella fase monitoria acquista efficacia di titolo esecutivo soltanto quando, trascorso il termine in esso fissato senza che l'intimato abbia fatto opposizione, il medesimo giudice che l'ha pronunciato, mediante un nuovo decreto scritto in calce all'originale del decreto stesso, ne dichiari l'esecutività dopo avere accertata la sua regolare notificazione e la mancanza di opposizione in termine (cfr., già Cass. n. 1028/1970, in Foro it., 1970, I, 2100, con nota di Proto Pisani, per la quale, essendo tali le condizioni che determinano la dichiarazione di esecutività del decreto, e in relazione alla funzione cui la stessa adempie nel processo di formazione del titolo esecutivo, secondo la fattispecie considerata dall'art. 647 e ravvisabile in essa un provvedimento giurisdizionale che non è puramente dichiarativo, ma dichiarativo costitutivo). Instaurato il contradditorio nei confronti del debitore destinatario dell'ingiunzione di pagamento mediante la notifica del decreto ed introdotto da parte del debitore stesso il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo può essere concessa l'esecuzione provvisoria del decreto, su richiesta del creditore, ove l'opposizione non sia fondata su prova scritta né di pronta soluzione, come previsto dall'art. 648 (cfr., ex multis, Trib. Alessandria 23 dicembre 1994, in Giust. civ., 1995, I, 1909 ed in Giur. merito, 1995, 708, con nota di Riccardi). L'opposizione non è fondata su prova scritta ai sensi dell'art. 648 c.p.c., in primo luogo, quando le eccezioni formulate dal debitore opponente, i.e. fatti modificativi, estintivi ed impeditivi dell'avversa pretesa creditoria, siano soltanto allegate e non documentate, ovvero fondate su un documento scritto tra quelli indicati dagli artt. 2699 ss. c.c. Peraltro, si è ritenuto che la corrispondenza e-mail costituisca prova scritta idonea a determinare il rigetto dell'istanza di concessione dell'esecuzione provvisoria del decreto ingiuntivo (cfr. Trib. Ancona 9 aprile 2005, in Dir. Internet, 2005, 377). L'opposizione a decreto ingiuntivo non è di pronta soluzione laddove, invece, le prove addotte dal debitore a sostegno delle proprie allegazioni sono di lunga indagine e quindi il tempo necessario per la valutazione delle stesse nel corso del giudizio potrebbe pregiudicare significativamente il creditore: in altre e più chiare parole, prove di pronta soluzione sono quelle che non danno adito ad un'istruzione probatoria in senso stretto (in arg. Majorano, 696 ss.) e tra le stesse rientrano, ad esempio, le eccezioni fondate sul notorio, su fatti pacifici, anche in quanto non specificamente contestati ex art. 115, comma 2, ovvero su un'ammissione del ricorrente (Garbagnati 2012, 222). Tuttavia, ai fini della concessione della provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo nella fase di opposizione non è sufficiente che l'opposizione proposta dal debitore non sia fondata su prova scritta né di pronta soluzione, essendo inoltre necessaria una documentazione della pretesa creditoria idonea a costituire idonea prova della stessa anche in un giudizio ordinario di cognizione come l'opposizione a decreto ingiuntivo. In particolare, di regola tale documentazione non può essere quella di carattere unilaterale indicata dall'art. 634 (ad esempio, la fattura commerciale) che consente eccezionalmente al creditore di ottenere il provvedimento monitorio essendo invero necessaria una prova del diritto di credito che sia tale anche nel giudizio ordinario di cognizione ex art. 2699 ss. c.c. (cfr. Trib. Torino III, 21 febbraio 2007, in Corr. mer., 2007, n. 7, 841). Si è osservato, a riguardo, che, in sostanza, viene richiesto al giudice di effettuare un delicato bilanciamento nella fase iniziale del procedimento di opposizione tra le esigenze contrapposte delle parti, delicato bilanciamento che neppure può prescindere dalle contestazioni formulate dal debitore, specie in considerazione della nuova formulazione dell'art. 115 in ordine alla necessità di una specifica contestazione delle avverse allegazioni. In tale prospettiva, ad esempio, a fronte della documentazione unilaterale posta a sostegno del ricorso per decreto ingiuntivo, avente valenza meramente indiziaria della pretesa creditoria, il Giudice potrà comunque concedere la provvisoria esecuzione del provvedimento monitorio laddove il debitore non abbia contestato (o lo abbia fatto in modo assolutamente generico) tale pretesa, limitandosi a proporre, ammesso il fatto, eccezioni non provate (ad esempio, estinzione del credito, ammesso come esistente, per intervenuto pagamento, soltanto dedotto e non provato mediante la proposizione dell'opposizione: Giordano, par. 3). Seguendo detta impostazione, osta invece alla concessione della provvisoria esecuzione del decreto la proposizione da parte del debitore/opponente di eccezione fondata su prova scritta idonea a paralizzare l'avversa pretesa creditoria. In tal senso si è ad esempio, in sede applicativa, ritenuto che in tema di opposizione a decreto ingiuntivo per canoni di locazione non versati, laddove il conduttore opponga la compensazione di somme pagate per un preliminare di compravendita, intercorso tra le medesime parti relativamente all'immobile locato e poi risolto, ricorrono gravi motivi contrari alla concessione della provvisoria esecutorietà del decreto opposto (Trib. Padova II, 24 ottobre 2012, in Arch. locazioni, 2013, n. 1, 72). Il codice di procedura civile nell'impostazione originaria non contemplava la possibilità di una concessione soltanto parziale della provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo nella fase di opposizione: il sistema è stato peraltro modificato dal d.lgs. n. 231/2002 che ha aggiunto al comma 1 dell'art. 648 un nuovo periodo in virtù del quale il giudice concede l'esecuzione provvisoria parziale del decreto ingiuntivo opposto limitatamente alle somme non contestate, salvo che l'opposizione sia proposta per vizi procedurali (cfr. Barreca, 42). L'impossibilità per il giudice adito in sede di opposizione di concedere l'esecuzione provvisoria parziale, rispetto alle somme non contestate dall'opponente, laddove l'opposizione sia fondata su vizi procedurali implica che non possa essere autorizzata l'esecuzione provvisoria qualora il giudice ritenga già acquisita la prova circa la sussistenza di una questione processuale impediente (Garbagnati 2012, 226 ss.). Invece, qualora la provvisoria esecuzione di un decreto ingiuntivo concessa a norma dell'art. 642 sia stata successivamente revocata, la sentenza che rigetta l'opposizione, non determina l'automatica caducazione del provvedimento di revoca della clausola di provvisoria esecuzione ed il ripristino della clausola in questione, poiché il decreto ingiuntivo deve essere equiparato a quello per il quale la clausola non sia stata mai concessa, con la conseguenza che il decreto per costituire valido titolo esecutivo deve essere munito di esecutorietà con provvedimento dichiarativo-costitutivo ai sensi dell'art. 654, ove l'esecutorietà non sia stata dichiarata espressamente con la sentenza o ordinanza di cui al comma 1 dell'art. 653 (Cass. n. 26676/2007; Cass. n. 2755/1995). Segue. Le ordinanze cautelari e possessorie Non costituiscono titoli esecutivi i provvedimenti cautelari e possessori per i quali è prevista l'attuazione cautelare, regolata dall'art. 669-duodecies (v., già, con riguardo all'assetto anteriore all'entrata in vigore di tale previsione normativa, Cass. n. 11409/1992, secondo cui l'esecuzione dei provvedimenti interinali di reintegra e manutenzione nel possesso si svolge nell'ambito del giudizio possessorio senza dar luogo alla serie procedimentale della esecuzione forzata (prevista e regolata dal libro terzo del c.p.c.), che, a norma dell'art. 474, può avere luogo solo in virtù di sentenze o di provvedimenti ai quali la legge attribuisca espressamente efficacia esecutiva, tra i quali non rientrano quelli possessori: ne consegue che l'attuazione e regolarità formale degli atti di esecuzione dei predetti provvedimenti può essere contestata solo nell'ambito del giudizio possessorio e non con opposizione agli atti esecutivi. L'art. 669-duodecies c.p.c., introdotto nel codice, come le altre norme del procedimento cautelare uniforme, dalla l. n. 353/1990, disciplina l'attuazione dei provvedimenti cautelari, colmando una grave lacuna dell'assetto previgente. Precedentemente, infatti, l'attuazione delle misure cautelari era disciplinata soltanto con riferimento ad alcuni provvedimenti tipici, come i sequestri e le denunzie di nuova opera e di danno temuto. Invero, era previsto che l'esecuzione della misura cautelare dovesse avvenire, in forme identiche o analoghe a quelle dei corrispondenti tipi di esecuzione forzata dei quali la stessa aveva l'obiettivo di assicurare il futuro esito positivo. Per le altre misure cautelari, ed in particolare per i provvedimenti di urgenza che hanno un contenuto eminentemente atipico, era stata, invece, nel silenzio del legislatore sul punto, soprattutto l'elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale ad individuare le forme dell'attuazione cautelare. A riguardo, sulla scorta del rilievo per il quale il provvedimento cautelare non è un atto di accertamento giurisdizionale cui consegue, quale titolo esecutivo, l'esecuzione forzata, bensì un atto di esecuzione forzata ed insieme di creazione dell'obbligo cautelare, si era sottolineato che l'attuazione della misura cautelare doveva avvenire sotto il controllo del giudice della cautela e non facendo applicazione delle norme del processo esecutivo (cfr. Liebman, 248 ss., per il quale le attività degli organi giurisdizionali quando provvedono in materia cautelare non sono diverse da quelle dei processi non cautelari e consistono in attività di cognizione e di esecuzione le quali sono insieme preordinate alla piena attuazione della cautela in mancanza della quale non potrebbe ascriversi nessuna alla concessione di un provvedimento cautelare, mentre, anche a fronte di una sentenza di condanna, vi è, oltre all'interesse al titolo esecutivo, anche quello alla tutela di accertamento, ritenendo, di conseguenza, che all'interno del procedimento cautelare non possano distinguersi un processo di cognizione ed uno di esecuzione). Secondo questa ricostruzione, pertanto, l'attuazione avrebbe dovuto essere demandata allo stesso giudice della cautela. Peraltro si era riconosciuta al contempo l'opportunità di correggere tale sistema, in omaggio al principio della par condicio creditorum, ai fini dell'attuazione di provvedimenti cautelari anticipatori contenenti l'obbligo di pagamento di una somma di denaro, applicando analogicamente gli artt. 491 ss. sull'espropriazione forzata (cfr. Fazzalari, 11 ss.; Verde, 734). L'art. 669-duodecies, introdotto come le altre norme sul procedimento cautelare uniforme dalla l. n. 353/1990, regola l'attuazione delle misure cautelari aventi ad oggetto somme di denaro e quelle relative ai provvedimenti che possono essere eseguiti in forma specifica, in omaggio con la richiamata elaborazione dottrinaria. La norma stabilisce, per vero, una differente disciplina a seconda che l'attuazione riguardi misure cautelari di condanna al pagamento di una somma di denaro ovvero attinenti ad un obbligo di consegna o di rilascio, di fare o di non fare. Tale norma, tuttavia, non trova applicazione per i sequestri, l'esecuzione dei quali è disciplinata dagli artt. 677 ss., ossia dalle norme che già prima della riforma di cui alla l. n. 353/1990 erano infatti idonee a somministrare una compiuta disciplina (Merlin, 425). È, invece, discusso se l'attuazione dei provvedimenti di ripristino pronunciati a seguito della declaratoria di inefficacia di una misura cautelare ex art. 669-novies debba avvenire nelle forme dell'art. 669-duodecies. L'opinione dominante è nel senso che i provvedimenti di ripristino sono privi di natura cautelare, talché si sottraggono all'operatività delle norme sul procedimento cautelare uniforme (v., tra gli altri, Proto Pisani 1991, 367). Le medesime conclusioni, si è osservato, operano per tutte le ipotesi nelle quali si pone il problema di ripristinare la situazione antecedente alla concessione della misura cautelare e, quindi, anche laddove la stessa sia stata revocata o modifica (De Matteis, 585). In senso contrario, in sede applicativa, si è osservato che l'attuazione del provvedimento di revoca, da parte del giudice monocratico del tribunale, del sequestro giudiziario autorizzato dal collegio, è devoluto al giudice che ha emanato il provvedimento di revoca, nelle forme di cui all'art. 669-duodecies (Trib. Lecce 11 luglio 1999, in Giur. merito, 1999, 965, con nota di Sisacusano). La fase di attuazione di regola non è necessaria per i provvedimenti cautelari che, come la sospensione delle delibere assembleari, sono self executive, ovvero di per sé idonei a modificare la situazione sostanziale controversa nel senso auspicato dal ricorrente. L'attuazione delle misure cautelari aventi ad oggetto il pagamento di somme di denaro avviene nelle forme degli artt. 491 ss. in quanto compatibili e, pertanto, dà luogo ad un'espropriazione forzata speciale. L'applicazione delle norme dedicate all'espropriazione forzata è stata ben accolta dalla dottrina dominante, in quanto coerente con l'esigenza di rispettare anche in questi casi il generale principio della par condicio creditorum, evitando un inammissibile privilegio per il beneficiario della misura cautelare rispetto agli altri creditori del medesimo debitor (Frus, in Chiarloni 1992, 763), mediante l'applicazione delle norme del processo esecutivo sull'intervento e la distribuzione del ricavato (Merlin, 426). L'operare di tali norme comporta, infatti, che il beneficiario della misura cautelare possa prevalere rispetto agli altri creditori del destinatario passivo del provvedimento soltanto in ragione della natura del credito e dell'ordine di prelazione e non perché assistito da ragioni di privilegio di ordine meramente processuale (Celeste, 413). L'applicazione del processo di espropriazione forzata alla fase di attuazione delle misure cautelari consente, inoltre, di individuare forme certe in modo da disciplinare adeguatamente le attività volte alla trasformazione in denaro dei beni dell'obbligato (Proto Pisani 1991, V, 67 ss., spec. 83). Di contro si è evidenziato che, in tale assetto, il beneficiario del provvedimento è costretto ad affrontare i tempi lunghi connessi all'esecuzione dello stesso nelle forme degli artt. 491 ss. (Ricci (Borrè, Castellano, Proto Pisani, Taruffo), 58). L'omesso richiamo, da parte dello stesso art. 669-duodecies, agli artt. 474-490, ed in particolare alle norme che disciplinano le attività preliminari all'inizio del processo di espropriazione forzata con il pignoramento, conferma la tesi, sostenuta da larga parte della dottrina, per la quale la misura cautelare non è un titolo esecutivo, poiché non contiene l'accertamento di un diritto certo ma soltanto probabilistico. In altri termini, la misura cautelare ha un'esecutorietà intrinseca e l'attuazione della stessa può avvenire immediatamente, senza la previa necessità di notificare all'intimato il titolo ed il precetto, in coerenza con le esigenze di maggiore celerità richieste in questa ipotesi rispetto a quanto avviene per l'esecuzione di una sentenza di condanna (Vullo, 151). In ogni caso, la dottrina ritiene che alcune tra le norme generali sull'espropriazione poste dagli artt. 483-490, sebbene non espressamente richiamate dall'art. 669-duodecies, debbano essere applicate anche all'attuazione cautelare in quanto parte integrante del processo di espropriazione (Luiso (Consolo, Sassani), 679). Invero, in accordo con l'orientamento dominante, l'attuazione dei provvedimenti cautelari aventi ad oggetto il pagamento di una somma di denaro è demandata al giudice dell'esecuzione, individuato ai sensi degli artt. 16 e 26, e non al giudice della cautela poiché: – lo stesso art. 669-duodecies contrappone nella seconda parte i provvedimenti diversi da quelli aventi ad oggetto una somma di denaro per i quali il giudice dell'attuazione è il medesimo che ha emanato la misura cautelare; – sotto un profilo di opportunità, la competenza del giudice dell'esecuzione, individuato territorialmente in conformità agli artt. 16 e 26 si correla alle esigenze pratiche di contiguità dell'ufficio competente per l'attuazione al luogo in cui si trovano i beni da espropriare; – l'espropriazione forzata ha forme maggiormente complesse rispetto a quelle dell'esecuzione in forma specifica, talché è opportuno affidare la direzione della stessa ad un giudice che è normalmente incaricato a sovrintendere alla stessa (anche per riferimenti ed esempi (cfr. Luiso (Consolo, Sassani), 681). Il richiamo agli artt. 491 ss. rende inoltre esperibili le opposizioni esecutive avverso i provvedimenti di attuazione delle misure cautelari contenenti l'obbligo di pagare una somma di denaro: peraltro, sono state individuate in via interpretativa alcune limitazioni rispetto all'operatività di tali rimedi. In primo luogo, l'assenza di una fase preliminare all'attuazione, implica che le opposizioni, sia relative all'an che al quomodo dell'esecuzione, non possano essere proposte in via preventiva (Merlin, 426), a meno che il beneficiario della misura cautelare a contenuto pecuniario si sia fatto spontaneamente carico degli adempimenti preliminari all'esecuzione forzata (Guaglione, 213). Quanto all'opposizione all'esecuzione, inoltre, operano alcune limitazioni relative ai motivi esperibili nell'ambito della stessa in ragione della possibile interferenza con altri rimedi previsti nell'ordinamento per contrastare i provvedimenti cautelari. Infatti, anche in omaggio ai principi generali sui rapporti tra opposizione all'esecuzione ed impugnazione avente ad oggetto un titolo giudiziale, se l'inesistenza del diritto all'esecuzione forzata può essere senz'altro dedotta in sede di opposizione ex art. 615, comma 2, i motivi di nullità del titolo e quelli di merito devono invece essere fatti valere nel procedimento di reclamo. Non possono inoltre essere dedotti nel procedimento di opposizione fatti successivi alla pronuncia della misura cautelare, fatti che, a seconda dei casi, devono essere fatti valere mediante istanza di revoca ex art. 669-decies (Guaglione, 214) ovvero nel corso del procedimento teso alla declaratoria di inefficacia dei provvedimenti cautelari (contra Merlin, 427, nt. 282, per la quale l'opposizione ai sensi dell'art. 615 è esperibile anche nell'ipotesi in cui si sia realizzata una causa di inefficacia della misura cautelare non ancora dichiarata nel relativo procedimento). Possono, invece, essere fatte valere in sede di opposizione all'esecuzione le doglianze relative all'impignorabilità di alcuni beni (Merlin, 426). Sono ammissibili, poi, le opposizioni proposte in sede di distribuzione del ricavato ex art. 512 per verificare l'esistenza o l'ammontare dei singoli crediti inseriti nel piano di riparto ovvero l'esistenza o il grado di eventuali cause di prelazione: ciò è, invero, conseguenza dell'operare, anche nella fase di attuazione delle misure cautelari del principio della par condicio creditorum (Guaglione, 2149). Il primo periodo dell'art. 669-duodecies rende espressamente applicabili gli artt. 491 ss., in quanto compatibili, all'attuazione dei provvedimenti cautelari contenti l'obbligo di pagamento di una somma di denaro. Proprio l'evidenziata finalità della disciplina nel senso di consentire il rispetto del fondamentale principio della par condicio creditorum implica, tuttavia, che la riserva di compatibilità si risolva in una mera clausola di stile poiché è imposta l'applicazione delle regole che garantiscono nell'espropriazione il soddisfacimento dei creditori escludendo ogni forma di soddisfacimento del creditore che avvenga senza il rispetto del diritto degli altri creditori ad essere soddisfatti su un piede di parità (Luiso (Consolo, Sassani) 1991, 509). Ai fini dell'attuazione delle misure cautelari aventi ad oggetto obblighi eseguibili in forma specifica, in coerenza ad alcune prassi che si erano già affermate nell'assetto antecedente all'emanazione dell'art. 669-duodecies c.p.c., il legislatore ha optato per l'esecuzione c.d. in via breve, i.e. in favore della determinazione delle modalità di attuazione da parte del giudice che ha emanato il provvedimento cautelare. La giurisprudenza si era infatti divisa su due fronti opposti, l'uno favorevole alla possibilità di fare ricorso, per la determinazione delle modalità di attuazione del provvedimento, al giudice della cautela, l'altro nel senso dell'operatività degli artt. 612 ss. (cfr. Cass. n. 6603/1996). In armonia con il principio di unicità del procedimento cautelare (Liebman, 253 ss.) sono dunque semplificati al massimo i meccanismi dell'esecuzione in quanto, non occorrendo attività giuridiche complesse per la trasformazione dei beni del destinatario passivo della misura in denaro, è il medesimo giudice della cautela che sovrintende all'attuazione, risolvendo le difficoltà impreviste che possono insorgere nel corso della stessa. Non si realizza, quindi, un concorso per l'attuazione delle misure cautelari relative ad un obbligo eseguibile in forma specifica con l'esecuzione di cui agli artt. 612 ss.: invero, l'attuazione della misura cautelare non dà luogo ad un processo esecutivo e quindi spetta al giudice che ha disposto la cautela, e non al giudice dell'esecuzione, stabilire le modalità della sua attuazione e sovrintendere alla sua pratica realizzazione (Trib. Roma 11 aprile 2002, in Giur. merito, 2003, 51; Pret. Brindisi, sez. dist. Mesagne, 14 gennaio 1999, in Foro it., 1999, 1668, con nota di Gambineri; conf. Trib. Torre Annunziata 10 novembre 1999, in Giur. Merito, 2000, I, 295). La rimessione della determinazione delle forme del procedimento allo stesso giudice autore della misura è stata ritenuta da alcuni criticabile poiché il procedimento in questione finisce con l'essere «non meglio identificato» (Luiso (Consolo, Sassani) 1991, 508). Pertanto, in assenza di un sicuro riferimento normativo, si ritiene che l'attuazione dovrebbe avvenire nelle forme degli artt. 605 ss. ovvero quelle dell'esecuzione in forma specifica, fermo restando che il ruolo svolto dal giudice dell'esecuzione è attribuito al giudice che ha emanato il provvedimento da attuare. Secondo questa prospettazione, quindi, la disposizione è una norma sulla competenza la quale nulla dice sul procedimento da seguire. Un'altra parte della dottrina evidenzia, invece, che il legislatore ha voluto introdurre un procedimento di attuazione ispirato ad una totale deformalizzazione, di talché viene riconosciuto al Giudice che ha emanato il provvedimento il potere di individuare discrezionalmente le forme da seguire per l'attuazione, in omaggio al principio delle libertà delle forme e con l'unico limite dell'idoneità delle stesse al raggiungimento dello scopo (v., ad esempio, Merlin, 426). Ne deriva l'attribuzione al giudice che ha pronunciato il provvedimento cautelare sia attribuito un triplice potere, i.e. fissare le modalità di attuazione del provvedimento, sovrintendere alla sua attuazione e risolvere eventuali difficoltà e contestazioni con ordinanza, sentite le parti. Peraltro con alcune innegabili differenziazioni derivanti: dalla non necessità di notificare il titolo ed il precetto; dall'inesistenza di un fascicolo dell'esecuzione; nella mancata nomina del giudice dell'esecuzione; nell'inapplicabilità dell'art. 612 secondo cui va proposto ricorso al giudice dell'esecuzione per ottenere la determinazione delle modalità di attuazione della misura cautelare che possono, invero, essere già state stabilite in sede di concessione della stessa; nell'inapplicabilità della disciplina delle opposizioni (cfr., tra gli altri, Proto Pisani, 365). Come precisato in giurisprudenza, peraltro, il potere di controllo del giudice che ha emesso il provvedimento cautelare in ordine all'attuazione della stessa, presuppone l'insussistenza, a seguito della pronuncia giudiziale, di residui spazi per ulteriori valutazioni in capo al soggetto destinatario, potendo prospettarsi margini per ulteriori determinazioni solo in ordine al quomodo, non certo in ordine al quid, con la conseguenza che le determinazioni del giudice dell'attuazione cautelare non costituiscono più espressione di potere, ma solo modalità attuative della pronuncia giudiziale (cfr. Trib. Reggio Calabria 28 gennaio 2004, in Giur. merito, 2005, n. 4, 852; Trib. Perugia 31 luglio 1999, in Rass. giur. umbra, 2000, 707, con nota di Bontà). È auspicabile che le determinazioni in ordine all'attuazione della misura cautelare siano contenute già nell'ordinanza con la quale viene concessa la stessa: ciò consente di evitare, infatti, che le parti siano costrette a rivolgersi per due volte allo stesso giudice, instaurando due procedimenti autonomi e separati, prima per chiedere la concessione della misura cautelare e quindi per individuare le modalità di attuazione della stessa (Attardi 1991, 266). Il giudice che ha emanato il provvedimento cautelare può risolvere, in sede di attuazione, dopo aver ascoltato le parti, le difficoltà incontrate e le contestazioni sollevate nell'attuazione della cautela dando con ordinanza i provvedimenti opportuni. Tali difficoltà sono, in accordo con l'opinione dominante, quelle di carattere eminentemente materiale, ovvero le stesse che sono disciplinate dagli artt. 610 e 613 in tema di esecuzione in forma specifica, rispetto alle quali, peraltro, la giurisprudenza ha precisato che non sono escluse le difficoltà anche di ordine giuridico correlate all'interpretazione del titolo esecutivo e che, peraltro, non ne pongano in discussione la validità (Cass. n. 20648/2006). Le contestazioni attengono, invece, a questioni di carattere squisitamente giuridico. In ogni caso il potere del giudice dell'attuazione di risolvere, sentite le parti, con ordinanza le difficoltà e le contestazioni è limitato alla disciplina del modus procedendi e quindi agli interventi volti ad orientare ed eventualmente ad integrare le sole modalità di attuazione già fissate e mai per modificare o revocare il contenuto oggettivo della misura cautelare concessa, essendo devoluta al giudice di merito ogni altra questione che esorbiti dai limiti dell'attuazione (Celeste, 417). Le medesime questioni che danno luogo nel processo esecutivo agli incidenti di cognizione di cui agli artt. 615 ss. possono sorgere anche nel procedimento di attuazione di un provvedimento cautelare: ne deriva che, stante l'orientamento prevalente in dottrina come in giurisprudenza, per il quale sono improponibili le opposizioni esecutive nell'ipotesi di attuazione delle misure cautelari aventi ad oggetto obblighi di consegna o rilascio, di fare o non fare, in quanto è lo stesso giudice della cautela che decide delle relative questioni in forma sommaria con ordinanza poiché la norma fa riferimento in parte qua, accanto alle difficoltà insorte nel corso dell'esecuzione, alle contestazioni, è necessario considerare in che modo le stesse, a seconda dei casi, possono essere risolte (Luiso (Consolo, Sassani) 685). Gli altri atti del n. 1 del secondo comma L'inserimento, ad opera della l. n. 80/2005, del riferimento, nell'ambito dei titoli giudiziali, anche agli altri «atti» del giudice, posto che, di regola, il termine utilizzato è «provvedimenti» ha indotto la dottrina dominante a ritenere lo stesso riferito al verbale di conciliazione giudiziale (cfr. Bellé, 502, il quale ricorda che la collocazione degli stessi tra i titoli giudiziali era in precedenza incerta). Nel senso del carattere negoziale di tale titolo v. Cass. n. 6333/1987, per la quale l'intervento del giudice nel tentativo di conciliazione non altera, ove questo riesca, la natura consensuale dell'atto di composizione che le parti volontariamente concludono, né gli effetti esecutivi attribuiti al verbale di conciliazione dall'art. 185, ultimo comma, possono sotto alcun profilo equipararsi a quelli di una sentenza passata in giudicato, dovendosi, invece, assimilare a quelli di un titolo contrattuale esecutivo, come gli atti notarili e simili indicati nell'art. 474, n. 3, con la conseguenza che tale atto di composizione resta soggetto alle sanzioni di nullità – rilevabili d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio – ove ne ricorrano le relative condizioni. La direzione nella quale si è mosso il legislatore, ossia quella di far rientrare il verbale di conciliazione giudiziale nell'ambito dei titoli di natura giudiziale, era stata suggerita da un'importante decisione interpretativa di rigetto della Corte costituzionale. In particolare, era stata ritenuta non fondata, in riferimento agli artt. 3,10,24,111 e 113 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell'art. 612, nella parte in cui escluderebbe che il verbale di conciliazione possa costituire titolo esecutivo efficace ai fini dell'esecuzione degli obblighi di fare o non fare, atteso che tale articolo può essere interpretato nel senso che esso consente il procedimento di esecuzione disciplinato dalle disposizioni che lo seguono anche se il titolo esecutivo sia costituito dal verbale di conciliazione, in quanto le eventuali ragioni ostative devono essere valutate non ex post, cioè nel procedimento di esecuzione, bensì, se esse preesistono, in sede di formazione dell'accordo conciliativo da parte del giudice che lo promuove e sotto la cui vigilanza può concludersi soltanto se la natura della causa lo consente (C. cost. n. 336/2002, Giust. civ., 2003, I, 1459, con nota di Finocchiaro). Nel senso che qualora le parti del processo aderiscano alla proposta conciliativa del giudice, formulata ex art. 185-bis, il tribunale può dichiarare estinto il giudizio, ratificando l'accordo conciliativo intervenuto che, se raccolto nel verbale di udienza, costituisce titolo esecutivo v. Trib. Nocera Inferiore 7 novembre 2013. In dottrina si è evidenziato, inoltre, che il riferimento agli altri atti contenuto nel n. 1 del comma 2 dell'art. 474 dovrebbe far rientrare nel catalogo dei titoli esecutivi anche gli atti sostanziali (ad esempio, negozi unilaterali e/o convenzioni bi o pluri-laterali) inseriti nel processo, in quanto assimilabili a scritture private autenticate (Andolina 2007, 1 ss.). Titoli di credito Costituiscono, poi, ai sensi del comma 2, n. 2 della disposizione in esame titoli esecutivi le cambiali e gli altri titoli di credito ai quali la legge attribuisce espressamente la stessa efficacia. In particolare, l'art. 63, comma 1, r.d. n. 1669/1933 (l. camb.), stabilisce che la cambiale tratta ed il vaglia cambiario sono titoli esecutivi per il capitale e gli accessori. La legittimazione a procedere ad esecuzione spetta a colui il quale è portatore legittimo degli stessi in base alla girata risultante dal titolo (Cass. n. 7584/1991). Qualora la cambiale sia priva dei requisiti previsti dalla legislazione speciale perché possa costituire titolo esecutivo (ad esempio, bollatura: Cass. n. 11333/1995; cfr. C. cost. n. 133/2004) o sia decorso il termine triennale dalla scadenza entro il quale essa ha tale efficacia, nondimeno vale come prova del credito ai fini dell'emissione, ad esempio, di un decreto ingiuntivo di pagamento. Poiché, invece, in sede di esecuzione forzata la cambiale non ha rilevanza in quanto scrittura privata, ma come titolo esecutivo, si è ritenuto che, laddove il debitore eccepisca la falsità della sottoscrizione, non potrà limitarsi al mero disconoscimento della firma unitamente all'opposizione ex art. 615, ma sarà necessaria la proposizione della querela di falso, dovendosi privare la cambiale non dell'efficacia probatoria della scrittura privata, ma dell'efficacia esecutiva del titolo (Trib. Terni 22 settembre 2011, Banca borsa tit. cred., 2013, n. 2, 199, con nota di P. Romano; Trib. Pistoia 13 novembre 2000). È inoltre attribuita efficacia esecutiva all'assegno bancario, purché corredato di data (e non post-datato: Cass. n. 5069/2010), ed all'assegno circolare. Nella giurisprudenza di legittimità è stato chiarito che l'efficacia di titolo esecutivo dell'assegno bancario è subordinata al rispetto dei requisiti di forma e contenuto dettati dalla legge, in virtù del combinato disposto degli artt. 50 e 51 del r.d. n. 1736/1933, richiamati dal successivo art. 55, comma 1; ne consegue che tale efficacia non compete all'assegno recante una data insuperabilmente incerta, impedendo quest'ultima di stabilire se il traente avesse la capacità di emetterlo al momento dell'emissione, oltre che di individuare la decorrenza del termine di presentazione per il pagamento (Cass. n. 6342/2023, con principio affermato rispetto ad un assegno nel quale l'anno di emissione risultava essere stato corretto da “2015” a “2016”). I titoli di credito devono essere integralmente trascritti nell'atto di precetto (e tale omissione è deducibile mediante opposizione agli atti esecutivi: Cass. n. 5168/2005). È stato peraltro precisato che il precetto deve contenere la trascrizione non necessariamente integrale del titolo di credito bensì la indicazione degli elementi essenziali per la sua individuazione (Cass. n. 3593/1990). Per altro verso, è stato da lungo tempo chiarito che il creditore cambiario, il quale abbia ottenuto in forza della cambiale un decreto ingiuntivo esecutivo, può ancora avvalersi della cambiale come titolo esecutivo e notificare in base ad essa il precetto in quanto l'originaria efficacia del titolo cambiario non viene meno a causa del decreto ingiuntivo esecutivo o della sentenza che rigetti l'opposizione all'ingiunzione (Cass. n. 2576/1962). Scritture private autenticate La l. n. 263/2005ha ricondotto alla medesima categoria delle cambiali e degli altri titoli di credito anche le scritture private autenticate, limitandone l'efficacia esecutiva alle obbligazioni di somme di denaro in esse contenute, ed ha disposto altresì, come già per le cambiali e per gli altri titoli di credito, l'obbligo ai sensi dell'art. 480, comma 2, di trascrivere integralmente tali scritture nell'atto di precetto (Castoro, 23). Quanto alla disciplina intertemporale applicabile, la S.C. ha chiarito che le scritture private autenticate formate anteriormente alla data del 1° marzo 2006 – di entrata in vigore della modifica in parte qua dell'art. 474 ad opera del d.l. n. 35/2005 – hanno efficacia di titolo esecutivo, se poste in esecuzione successivamente a tale data, atteso che la citata novella legislativa, annoverandole tra i titoli esecutivi stragiudiziali, ne ha modificato la sola efficacia processuale, con la conseguenza che, in omaggio al principio tempus regit actum, ad esse si applica la legge processuale vigente nel momento in cui vengono azionate (cfr. Cass. n. 5823/2019, la quale, in applicazione del principio, ha annullato la sentenza di merito che aveva respinto l'opposizione ex art. 617 contro l'ordinanza di cui all'art. 512, con la quale il giudice dell'esecuzione aveva escluso dal piano di riparto il credito di una banca in quanto fondato su di una scrittura privata autenticata formata anteriormente all'entrata in vigore della riforma dell'art. 474 ancorché posta in esecuzione successivamente). È sorta la questione interpretativa se possa intendersi estensivamente la relativa locuzione al fine di attribuire efficacia esecutiva anche alle scritture private riconosciute in giudizio, questione che si risolve in un senso o nell'altro a seconda che si ritenga o meno tassativa l'elencazione contenuta nella disposizione in commento (Saletti, 194 ss.). Nella vigenza della pregressa formulazione della disposizione in esame, si riteneva, invece, che il riconoscimento della qualità di titolo esecutivo all'atto ricevuto da notaio, relativamente all'obbligazione di somma di denaro generata dal negozio nello stesso documentato, presuppone che esso contenga l'indicazione degli elementi strutturali essenziali dell'obbligazione, indispensabili per la funzione esecutiva, e non dipende dalla particolare efficacia probatoria dell'atto, ma dalla pubblica fede che il notaio vi attribuisce, con la conseguenza che tale qualità non può essere riconosciuta alla scrittura privata autenticata, nonostante l'efficacia probatoria di cui essa è dotata, in ragione dell'autenticazione da parte del notaio (Cass. n. 15219/2005). Atti ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale Sino alla riforma realizzata dalla l. n. 80/2005, gli atti ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale avevano efficacia esecutiva solo con riguardo alle obbligazioni di somme di denaro, mentre attualmente possono essere utilizzati per dare corso ad ogni forma di esecuzione forzata, anche in forma specifica. L'atto ricevuto da notaio o da altro pubblico ufficiale, per avere la qualità di titolo esecutivo, relativamente ad un'obbligazione pecuniaria, deve contenere l'indicazione degli elementi strutturali dell'obbligazione medesima che sono indispensabili in relazione alla funzione esecutiva assegnata all'atto tra cui quelli afferenti all'esistenza di un'obbligazione (Cass. n. 15219/2005; conformi Trib. Milano n. 1758/2007, e Trib. Mantova 22 settembre 2004, Riv. not., 2005, 347, in tema di contratto di apertura di credito in conto corrente con garanzia ipotecaria). Pertanto, costituisce opposizione all'esecuzione quella diretta a porre in discussione l'autorità di accertamento nell'atto notarile dell'obbligazione (cfr. Cass. n. 477/1983). La Corte di legittimità ha sottolineato in più occasioni che, al fine di accertare se un contratto di mutuo possa essere utilizzato quale titolo esecutivo, ai sensi della disposizione in esame, occorre verificare, attraverso la sua interpretazione integrata con quanto previsto nell'atto di erogazione e quietanza o di quietanza a saldo ove esistente, se esso contenga pattuizioni volte a trasmettere con immediatezza la disponibilità giuridica della somma mutuata, e che entrambi gli atti, di mutuo ed erogazione, rispettino i requisiti di forma imposti dalla legge (Cass. n. 6174/2020; Cass. n. 17194/2015). In passato si riteneva che è il contratto condizionato di mutuo non documentasse l'esistenza attuale di obbligazioni di somma di danaro e, pertanto, pur se stipulato con atto pubblico notarile non può essere utilizzato come titolo esecutivo dall'istituto di credito mutuante che intenda procedere ad esecuzione forzata, in quanto difetta dei requisiti previsti dall'art. 474, comma 2, n. 3, e, in particolare, quello di certezza del diritto (Cass. n. 477/1983, in Giust. civ., 1983, n. 5, I, 1493, cui adde Trib. Roma IV, 13 maggio 2015). Questa posizione è stata più coerentemente sviluppata nella successiva elaborazione della giurisprudenza di legittimità nel senso che in tema di esecuzione forzata intrapresa in forza di un atto pubblico notarile (ovvero di una scrittura privata autenticata), che documenti un credito solo futuro ed eventuale e non ancora attuale e certo (pur risultando precisamente fissate le condizioni necessarie per la sua venuta ad esistenza), al fine di riconoscere all'atto azionato la natura di titolo esecutivo ex art. 474 c.p.c. è necessario che anche i fatti successivi, determinanti l'effettiva insorgenza del credito, siano documentati con le medesime forme (vale a dire con atto pubblico o con scrittura privata autenticata: Cass. n. 52/2023; Cass. n. 41791/2021). Occorre peraltro considerare la più recente Cass. n. 9229/2022, la quale ha affermato che, ai fini del perfezionamento del contratto di mutuo, avente natura reale ed efficacia obbligatoria, l'uscita del denaro dal patrimonio dell'istituto di credito mutuante, e l'acquisizione dello stesso al patrimonio del mutuatario, costituisce effettiva erogazione dei fondi, anche se parte delle somme sia versata dalla banca su un deposito cauzionale infruttifero, destinato ad essere svincolato in conseguenza dell'adempimento degli obblighi e delle condizioni contrattuali. Di qui, in applicazione del suddetto principio, la S.C. ha escluso che potesse disconoscersi la natura di titolo esecutivo a un contratto di mutuo, stipulato per atto pubblico, nel quale, subito dopo l'erogazione della somma pattuita, si prevedeva che la stessa fosse riconsegnata all'istituto di credito, al fine di essere custodita in un deposito cauzionale infruttifero a garanzia dell'adempimento di obbligazioni accessorie dei mutuatari. Inoltre, ai fini del perfezionamento di un contratto di mutuo a stato di avanzamento lavori e della sua validità quale titolo esecutivo, non è necessaria la consegna materiale della somma mutuata, poiché è sufficiente la costituzione di un autonomo titolo di disponibilità in favore del mutuatario, risultando irrilevante che l'erogazione della somma non sia immediata ove questa sia ancorata al verificarsi di determinate condizioni oggettive, pattiziamente previste, in presenza delle quali sorge l'obbligo a carico del mutuante di trasferire le somme mutuate al mutuatario (Cass. n. 34116/2023). Ha natura di titolo esecutivo l'atto pubblico contenente una ricognizione di debito, con riconoscimento unilaterale di un'obbligazione restitutoria esistente al momento della dichiarazione e determinata nell'ammontare (Cass. n. 6083/2015). Invero, nella categoria degli atti di cui all'art. 474, n. 3 si possono comprendere, oltre alle dichiarazioni contrattuali costitutive dell'obbligazione, anche atti negoziali a contenuto dichiarativo, ricognitivi della stessa, o il riconoscimento, reso attraverso il congegno della confessione, di aver posto in esistenza il debito (Cass. n. 2372/1965, in Giust. civ., 1966, I, 28). Per altro verso, si è affermato che, ai sensi dell'art. 474, n. 3, secondo cui sono titoli esecutivi gli atti ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale relativamente alle obbligazioni di somme di danaro in essi contenute, il creditore deve, mediante il titolo, dimostrare solo l'esistenza del vinculum juris e l'attualità del suo credito, mentre il debitore che contesti il diritto di procedere all'esecuzione forzata, assumendo che non sussiste mora o inadempimento colpevole, deve dedurre tale fatto impeditivo come causa petendi dell'opposizione ed è onerato della relativa prova. In particolare, la Corte ha precisato che tale principio vale anche nell'ipotesi di obbligazione assunta mediante clausola penale, nella quale il fatto costitutivo si identifica con la scadenza del termine convenuto per l'adempimento dell'obbligazione principale e il giudice deve soltanto accertare se la prestazione sia divenuta esigibile con lo scadere del termine e se sia liquida, cioè determinata nel suo preciso ammontare (Cass. n. 2069/1969, in Giur. it., 1970, I, 1, 1855). La possibilità che anche atti stragiudiziali come quelli ricevuti da notaio o altri pubblici ufficiali siano idonei, dopo la riforma del 2005/2006, a dare corso all'esecuzione per rilascio potrebbe contrastare con il disposto dell'art. 56 l. n. 392/1978, a sua volta novellato dall'art. 7-bis d.l. n. 240/2004, secondo cui, nell'ambito delle locazioni di immobili urbani, con il provvedimento che dispone il rilascio il giudice, previa motivazione che tenga conto anche delle condizioni del conduttore comparate a quelle del locatore, nonché delle ragioni per le quali viene disposto il rilascio stesso e, nei casi di finita locazione, del tempo trascorso dalla disdetta, fissa la data dell'esecuzione entro il termine massimo di sei mesi ovvero, in casi eccezionali, di dodici mesi dalla data del provvedimento. Consentire l'inizio dell'esecuzione per rilascio anche in forza di un atto ricevuto da un notaio o altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato potrebbe sostanzialmente porre nel nulla la suddetta disposizione che, al fine di tutelare la posizione dei conduttori particolarmente disagiati, consente al giudice che ha pronunciato il provvedimento di rilascio di differirne l'esecuzione entro un determinato periodo di tempo una soluzione della questione volta a contemperare questi rilievi critici con la possibilità di attribuire comunque, posto che nelle locazioni di immobili urbani soltanto i titoli di carattere giudiziale sarebbero idonei a fondare l'esecuzione, un qualche effetto al nuovo art. 474, comma 3, c.p.c. nella parte in cui dispone che l'obbligo di rilasciare l'immobile può derivare anche da un atto pubblico. Più in particolare, si è affermato che lo stesso potrebbe fondare l'obbligo esecutivo di rilasciare un immobile in alcune situazioni diverse da quelle in cui sia in gioco l'obbligo di restituzione dell'immobile locato da parte del conduttore. L'obbligo in questione potrebbe infatti derivare da titoli differenti come, ad esempio, un contratto di compravendita nel quale non sia stata prevista una consegna contestuale o, ancora, contratti di comodato, di affitto di azienda o di appalto, quanto all'obbligo dell'appaltatore di riconsegnare il bene al committente, per i quali non trova applicazione il procedimento di cui agli artt. 657 ss. c.p.c. né la disciplina di cui all'art. 56 l. n. 392/1978 (Cuffaro, 750-751). Peraltro, la maggior parte della dottrina sembra invece postulare un'implicita abrogazione del citato art. 56 della legge c.d. equo canone, ritenendo che gli atti pubblici potrebbero generalmente fondare l'esecuzione forzata per rilascio, anche al fine di ottenere la restituzione di un immobile locato (De Stefano, 47). Verbale dell'accordo raggiunto tra le parti nell'ambito della mediazione e della negoziazione assistita L'art. 12 d.lgs. n. 28/2010, in tema di mediazione obbligatoria in materia civile e commerciale, stabilisce che ove tutte le parti aderenti alla mediazione siano assistite da un avvocato, l'accordo che sia stato sottoscritto dalle parti e dagli stessi avvocati costituisce titolo esecutivo per l'espropriazione forzata, l'esecuzione per consegna e rilascio, l'esecuzione degli obblighi di fare e non fare, nonché per l'iscrizione di ipoteca giudiziale qualora gli avvocati attestino e certifichino la conformità dell'accordo alle norme imperative e all'ordine pubblico, dovendo, in difetto di tali presupposti, essere richiesta l'omologa dell'accordo allegato al verbale al Presidente del tribunale che concede l'exequatur con decreto, previo accertamento della regolarità formale e del rispetto delle norme imperative e dell'ordine pubblico (sulle modalità del controllo operato dal Presidente del Tribunale v. Trib. Modica 9 dicembre 2011). Analogamente, l'art. 5 d.l. n. 132/2014, conv., con modif., nella l. n. 162/2014, prevede che in materia di negoziazione assistita l'accordo che compone la controversia, sottoscritto dalle parti e dagli avvocati che le assistono costituisce titolo esecutivo e per l'iscrizione di ipoteca giudiziale. Sia nell'ipotesi di mediazione obbligatoria che di negoziazione assistita l'accordo deve essere integralmente trascritto nel precetto ai sensi dell'art. 480, comma 2. Anche in ragione di tale indicazione nonché dell'assenza dell'intervento dell'autorità giudiziaria ai fini della formazione degli stessi non sussiste alcun dubbio in ordine alla natura di titoli esecutivi stragiudiziali degli stessi, sicché in sede di opposizione all'esecuzione potranno essere dedotti in via di eccezione anche fatti anteriori alla formazione del titolo. Titolo esecutivo erga omnesProblema di generale rilevanza nell'ambito dell'esecuzione forzata per rilascio è quello che ha ad oggetto l'efficacia del titolo esecutivo anche nei confronti di soggetti terzi rispetto a quelli indicati nello stesso e, in particolare, del detentore materiale dell'immobile nel corso dell'esecuzione (Luiso 1984, 103 ss.). La questione deve essere riguardata sotto due distinti profili. Innanzitutto, occorre stabilire se nell'ipotesi in cui in sede di accesso nell'immobile oggetto del procedimento l'ufficiale giudiziario riscontri che lo stesso è occupato da un soggetto diverso da quello portato dal titolo esecutivo l'esecuzione possa proseguire e, in secondo luogo, in caso di risposta positiva ad un tale quesito, quali siano i rimedi a disposizione del terzo. La dottrina è divisa quanto alla possibilità che il titolo esecutivo spieghi efficacia erga omnes: infatti, se alcuni Autori non esitano a riconoscere tale valenza ai titoli esecutivi per rilascio (Mazzarella, 464; Montesano, 932; Punzi, 119), la stessa è negata da altri, i quali ritengono, in una prospettiva maggiormente fedele al principio per il quale il giudicato ha valore esclusivamente tra le parti, gli eredi ed aventi causa ex art. 2909 c.c., che il creditore debba in ogni caso munirsi di un titolo esecutivo direttamente nei confronti del possessore o detentore dell'immobile (Luiso, 103 ss.; Denti, 151; Mandrioli, 579 ss.). La giurisprudenza prevalente ritiene, comunque sia, che il titolo esecutivo per il rilascio contenga un ordine che spiega efficacia non soltanto nei confronti del destinatario della relativa statuizione ma anche di chiunque si trovi a detenere il bene al momento dell'esecuzione forzata (Cass. n. 3183/2003). Anche sotto il secondo profilo non è pacifico, una volta che si ammetta che il titolo esecutivo per rilascio possa produrre effetti anche nei confronti di un soggetto diverso da quello cui è riferito l'obbligo portato dal titolo, quali sono i rimedi a disposizione del terzo. In accordo con l'orientamento dominante in giurisprudenza, il terzo detentore dell'immobile per il quale il locatore ha ottenuto, nei confronti del conduttore, una sentenza di condanna al rilascio, può opporsi o all'esecuzione, ai sensi dell'art. 615, se sostiene di detenere l'immobile in virtù di un titolo autonomo e perciò non pregiudicato da detta sentenza; o ai sensi dell'art. 404, comma 2, se invece sostiene la derivazione del suo titolo da quello del conduttore, ed esser la sentenza frutto di collusione tra questi e il locatore, in suo danno (Cass. n. 9964/2006; Cass. n. 15083/2000). Minoritaria è, invece, almeno in sede pretoria, la tesi per la quale il terzo detentore potrebbe proporre opposizione di terzo ex art. 404 ovvero un'autonoma azione di accertamento del proprio diritto (Cass. n. 3183/2003). Analogamente, si veda in dottrina, il Satta (III, 434), per il quale, non assumendo i terzi la posizione di esecutati, gli stessi non potrebbero esperire le opposizioni esecutive ma soltanto opposizione di terzo ex art. 404, comma 1, facendo valere un diritto di carattere prevalente. In sede di merito si è, poi, ritenuto che, nell'ipotesi in cui il rilascio sia richiesto in sede di attuazione di una misura cautelare, il terzo deve far valere le proprie ragioni con ricorso ex art. 669-duodecies (Trib. Termini Imerese 7 ottobre 2003, in Giur. it., 2004, 987). Del tutto peculiare è, invece, la posizione del sub-conduttore, ovvero del soggetto cui il conduttore abbia a propria volta locato l'immobile oggetto della procedura. Occorre considerare, infatti, che l'art. 1595 c.c. dispone che la sentenza di rilascio pronunciata tra il locatore ed il conduttore spiega efficacia anche nei suoi confronti, sicché lo stesso ha una posizione sostanziale permanentemente dipendente da quella del conduttore. Ciò implica che, anche ai fini dell'esecuzione per rilascio, il sub-conduttore non sia considerato un terzo, con la conseguente piena opponibilità nei suoi confronti del titolo esecutivo per il rilascio. Pertanto, poiché ai sensi del comma 3 dell'art. 1595 c.c. la sentenza pronunciata per qualsiasi ragione (nullità, risoluzione, scadenza del termine della locazione, rinuncia del conduttore sublocatore al contratto in corso, etc.) spiega effetti nei confronti del sub-conduttore, ancorché rimasto estraneo al giudizio tra locatore e conduttore, e, quindi, non menzionato in alcun modo nel titolo esecutivo, non solo gli effetti della cosa giudicata sostanziale ma anche l'efficacia del titolo esecutivo per il rilascio, a maggior ragione questa efficacia, che discende dal principio resoluto iure dantis resolvitur et jus accipientis, deve essere riconosciuta nel caso in cui la sublocazione sia inopponibile al locatore (Cass. n. 5053/1994). Casistica Nel regime del Regolamento CE n. 44/2001, qualora sia iniziata una esecuzione in Italia sulla base di un titolo esecutivo, giudiziale o negoziale, formatosi in uno Stato membro dell'Unione e riconosciuto nell'ordinamento italiano, e sia successivamente intervenuta una decisione dello Stato di formazione del titolo che abbia inciso su di esso privandolo dell'efficacia esecutiva o ridimensionandola, la riserva alla giurisdizione nazionale dell'esecuzione forzata, prevista dall'art. 22, n. 5, del suddetto Regolamento, non osta alla delibazione di tale successiva pronuncia dello Stato estero, atteso che essa dispiega la sua incidenza non già in modo diretto sull'esecuzione forzata, ma sull'efficacia del titolo, e la sua utilizzazione, una volta riconosciuta, dovrà passare attraverso la necessaria investitura del giudice dell'esecuzione con l'apposito rimedio dell'opposizione all'esecuzione, ciò realizzando il monopolio della giurisdizione italiana sull'esecuzione forzata (Cass. n. 9350/2017). La sentenza, la quale condanna la parte soccombente al pagamento delle spese processuali in favore della parte vittoriosa, liquidandone l'ammontare, costituisce titolo esecutivo, pur in difetto di un'espressa domanda e di una specifica pronuncia, anche per conseguire il rimborso dell'IVA che la medesima parte vittoriosa assuma di aver versato al proprio difensore in sede di rivalsa e secondo la previsione dell'art 18 del d.P.R. n. 633/1972, trattandosi di un onere accessorio che in via generale consegue al pagamento degli onorari al difensore, e che come tale, deve ritenersi implicitamente incluso a norma del primo comma dell'art. 91 in quella pronuncia di condanna, mentre resta salva per la parte soccombente la facoltà di contrastare sul punto il titolo esecutivo, con opposizione al precetto o all'esecuzione, per far valere eventuali circostanze che, nel caso concreto, escludano l'indicata rivalsa o comunque l'esigibilità dell'IVA (Cass. n. 1005/1981, in Giust. civ., 1981, I, 1360). In tema di spese giudiziali, ove nel dispositivo di una sentenza sia contenuta la condanna alle spese con la distrazione in favore dell'avvocato, ma senza la previsione espressa del cd. rimborso forfettario a titolo di spese generali, il procuratore distrattario è legittimato ad azionare il titolo in sede esecutiva senza dovere impugnare la sentenza; la somma dovuta per tale voce di tariffa può essere, tuttavia, riconosciuta solo laddove la sentenza distingua gli esborsi dai diritti e dagli onorari, risultando altrimenti carenti i requisiti di liquidità e di certezza che devono caratterizzare il diritto di credito oggetto di un titolo esecutivo ex art. 474 (Cass. n. 3970/2018). Nel procedimento per apposizione di termini la sentenza di condanna, che lo conclude, può non indicare, nel dispositivo, le parti obbligate, in quanto queste possono trovarsi nella medesima posizione processuale, e cosi entrambe destinatarie della condanna ad apporre i termini e facoltizzate a chiederne l'esecuzione (cfr. Cass. n. 4794/1979, la quale ha evidenziato che, di conseguenza, lo stesso obbligo, ancorché non espressamente sancito da tale sentenza a carico dell'una o dell'altra parte, deve ritenersi imposto a ciascuna di esse, cosi che per converso, ciascuna parte è legittimata a domandarne l'esecuzione forzata). In sede di opposizione all'esecuzione, con cui si contesta il diritto di procedere all'esecuzione forzata perché il credito di chi la minaccia o la inizia non è assistito da titolo esecutivo, l'accertamento dell'idoneità del titolo a legittimare l'azione esecutiva si pone come preliminare dal punto di vista logico per la decisione sui motivi di opposizione, anche se questi non investano direttamente la questione (Cass. n. 20868/2017, per la quale, pertanto, dichiarata cessata la materia del contendere per effetto del preliminare rilievo dell'avvenuta caducazione del titolo esecutivo nelle more del giudizio di opposizione, questa deve ritenersi fondata per qualunque motivo sia stata proposta, e il giudice dell'opposizione non può, in violazione del principio di soccombenza, condannare l'opponente al pagamento delle spese processuali, sulla base della disamina dei motivi proposti, risultando detti motivi assorbiti dal rilievo dell'avvenuta caducazione del titolo con conseguente illegittimità ex tunc dell'esecuzione). Nel giudizio di opposizione all'esecuzione fondata su un provvedimento giudiziale definitivo e compito del giudice accertare, indipendentemente dalle eccezioni sollevate dalle parti, se i fatti dedotti per contestare il diritto a procedere all'esecuzione forzata siano idonei o meno, in via generale o per la loro consistenza o per il tempo del loro accadimento, a superare il giudicato: pertanto, non incorre in violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato il giudice dell'opposizione il quale, pur in mancanza di eccezione di parte, rilevi l'esistenza di un giudicato, il quale produce l'indiscutibilità del rapporto giuridico sostanziale fatto valere in giudizio, e, conseguentemente, l'inesistenza e quindi la non esercitabilità dell'azione proposta dal debitore opponente, la quale, pertanto, va rigettata nel merito (Cass. n. 1059/1979, in Foro it., 1979, I, 2677). Poiché il titolo esecutivo è tale non soltanto per i requisiti formali che lo caratterizzano, ma anche per gli elementi intrinseci che ne assicurano la forza cogente, non si può escludere, in linea generale, che di una condanna giudiziale, emessa in via alternativa, uno solo dei casi sia suscettibile di pronta esecuzione, mentre l'altro, per la genericità del contenuto, richieda un ulteriore vaglio che conferisca alla pretesa del creditore i necessari elementi di concretezza (Cass. n. 516/1968, in Dir. fall., 1968, II, 671). Alla dichiarazione di nullità del titolo esecutivo giudiziale (decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo) perché relativo a credito non ancora esigibile, consegue l'inefficacia del precetto e del pignoramento successivamente compiuti, anche se nel corso del giudizio di opposizione all'esecuzione e d'impugnazione del titolo (opposizione al decreto ingiuntivo), il credito fatto valere esecutivamente sia divenuto esigibile (Cass. n. 2810/1963, in Foro it., 1963, I, 2270). L'esecuzione nei confronti di un singolo condomino, sulla base di titolo esecutivo ottenuto nei confronti del condominio, per le obbligazioni contratte dall'amministratore, può avere luogo esclusivamente nei limiti della quota millesimale dello stesso, sicché, ove il creditore ne ometta la specificazione ovvero proceda per il totale dell'importo portato dal titolo, l'esecutato può proporre opposizione all'esecuzione ex art. 615, comma 1, c.p.c. deducendo di non essere affatto condomino o contestando la misura della quota allegata dal creditore: nel primo caso, l'onere di provare il fatto costitutivo di detta qualità spetta al creditore procedente ed in mancanza il precetto deve essere dichiaro inefficace per l'intero, mentre, nel secondo caso, è lo stesso opponente a dover dimostrare l'effettiva misura della propria quota condominiale, ai fini della declaratoria di inefficacia dell'atto di precetto per l'eccedenza, ed in mancanza l'opposizione non può essere accolta (Cass. n. 22856/2017). Qualora, a seguito di sentenza che abbia dichiarato legittimo il recesso del locatore per necessità di destinarlo ad una determinata attività, venga allo stesso riconsegnato l'immobile locato, la successiva dichiarazione – in altro giudizio tra le stesse parti per la risoluzione della stessa locazione per morosità – della cessazione della materia del contendere in relazione alla circostanza della avvenuta riconsegna dell'immobile locato, comportando il configurarsi di una soccombenza solo virtuale esclude l'accertamento dell'esistenza del dedotto inadempimento, quale causa di risoluzione della locazione, con la conseguenza che titolo per il rilascio dello immobile locato è soltanto quello della sentenza che aveva riconosciuto il motivo di recesso del locatore, e questi è tenuto a dare all'immobile la destinazione per la quale l'aveva positivamente azionato (Cass. n. 723/1987, in Giust. civ., 1987, I, n. 10, 2337, nt. Grasselli). La sentenza pronunciata contro l'alienante produce sempre i suoi effetti, come titolo esecutivo, anche contro il successore a titolo particolare, salve le deroghe contemplate nell'art. 111, sicché lo stesso non si può opporre all'esecuzione contrapponendo un proprio diritto all'autorità del titolo esecutivo di provenienza giudiziale, che fa stato anche contro di lui ma, come soggetto all'esecuzione forzata, può sempre contestare la legittimità dell'esecuzione stessa negando l'esistenza del titolo o la corrispondenza ad esso della pretesa esecutiva, o negando, senza attaccare il titolo stesso, che esso possa spiegare effetto contro di lui (Cass. n. 1525/1971, in Foro Padano, 1972, 484, con nota di Punzi). Qualora la controversia promossa dal proprietario per ottenere il rilascio di un immobile prosegua, nonostante la sopravvenuta vendita del bene ad un terzo, fra le parti originarie, la sentenza di accoglimento della domanda spiega effetti, ex art. 111, nei confronti dell'alienante, oltre che dell'acquirente, con la conseguenza che il primo deve essere riconosciuto legittimato alla azione esecutiva in qualità di sostituto processuale del secondo, fermo restando il suo obbligo di trasferire al compratore la disponibilità dell'immobile ottenuta a mezzo dell'esecuzione (Cass. n. 2955/1991). In tema di servitù di passaggio, qualora sia accordata la tutela possessoria al titolare della stessa, il titolo costituito dal provvedimento di reintegra emesso dal giudice non perde efficacia per il fatto che il proprietario del fondo servente abbia dato attuazione all'ordine del giudice, cosicché se egli pone in essere altri comportamenti diretti a protrarre lo spoglio, in quanto ostacolanti l'esercizio del possesso da parte dello spogliato, il titolo esecutivo continua ad essere fonte del potere di promuovere l'esecuzione forzata, al fine di eliminare i nuovi ostacoli frapposti all'esercizio del possesso (Cass. n. 6050/1990). Nel caso di contestuale accoglimento della domanda principale, rivolta al conseguimento di una prestazione, nonché della domanda di garanzia, proposta dal convenuto contro un terzo chiamato in causa, la condanna di detto terzo all'adempimento in favore del convenuto va condizionata all'evento futuro dell'adempimento del convenuto medesimo nei confronti dell'attore, trattandosi di presupposto dell'esigibilità del credito di rivalsa (Cass. n. 9578/1991, in Foro Padano, 1992, I, 324, con nota di Conti). È inammissibile la deduzione per la prima volta in sede di legittimità della natura autoesecutiva degli avvisi di accertamento emessi dopo l'entrata in vigore dell'art. 29 d.l. n. 78/2010, conv., con modificazioni, nella l. n. 122/2010 (Cass. n. 12893/2018). 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