Il regime della responsabilità da infezione nosocomiale alla prova della c.d. “prima ondata”

29 Gennaio 2025

Deve ritenersi responsabile della morte di paziente affetto da Covid -19 la struttura che abbia omesso il trasferimento presso il pronto soccorso, provvedendo direttamente alla somministrazione delle cure?

Massima

In considerazione della rigorosa disciplina, nota come lockdown, adottata dal governo del Paese per contrastare la diffusione della pandemia da Sars-Cov2, e delle disposizioni regionali in vigore nel periodo in cui si sono svolti i fatti di causa (marzo-aprile 2020), deve valutarsi come del tutto ragionevole, opportuno e doveroso che considerazioni relative sia alla salute del paziente, sia alla salute pubblica, inducano la Struttura a non trasferire il paziente presso un pronto soccorso.

Il caso

Il caso oggetto della sentenza qui in commento ci riporta agli albori della vicenda pandemica da Covid-19, in particolare alle convulse settimane successive alla decretazione del lockdown da parte del governo. L'azione veniva, infatti, promossa dagli eredi di un soggetto deceduto in una ASP a metà aprile 2020, a pochissimi giorni di distanza dall'esito positivo di un tampone molecolare.

Il paziente, settantanovenne al tempo dei fatti, era collocato presso la struttura sanitaria dal 2018 per via di una già diagnosticata demenza da Alzheimer, accompagnata da disturbi del comportamento alimentare. In concomitanza con l'emanazione delle misure emergenziali restrittive, la situazione clinica del paziente precipitava repentinamente. A seguito della manifestazione di un rallentamento psichico e delirium, e pur in assenza di sintomatologie di carattere respiratorio, il personale sanitario provvedeva all'esecuzione di un test molecolare dal quale risultava la positività all'infezione da Sars-Cov2. Il personale sanitario provvedeva dunque all'isolamento del paziente, alla somministrazione di farmaci, quali eparina e ceftriaxone, nonché all'ossigenoterapia ed all'infusione di glucosio, sulla base delle conoscenze mediche del tempo. Nonostante le misure messe in atto, il paziente decedeva nel giro di pochi giorni.

In giudizio, le parti attrici chiedevano la condanna della struttura al risarcimento dei danni iure proprio da perdita parentale, nonché dei danni c.d. terminali, trasmessi iure hereditatis. Gli attori invocavano, infatti, la responsabilità della struttura per il decesso del parente, contestando anzitutto «grave superficialità ed omissione di tipo medico-organizzativo» nelle cure prestate, nonché l'aver omesso di trasportare d'urgenza il paziente presso il pronto soccorso più vicino. Tale decisione, in particolare, veniva ritenuta dagli attori come la principale causa dell'evento morte del paziente.

La struttura sanitaria si costituiva in giudizio, contestando ogni addebito e producendo documentazione atta a mettere in evidenza l'evoluzione del quadro clinico del paziente e le relative misure intraprese, tra cui, in particolare, quella dell'isolamento del paziente – allettato nella propria camera singola – a seguito della scoperta positività al Covid-19. Si evidenziava altresì che il trasferimento presso altra sede ospedaliera era in quel periodo categoricamente impedito dalla normativa nazionale e regionale vigente (DGR della Regione Lombardia n. 3018 del 30 marzo 2020 contenente indicazioni per gestioni operative per le ASP e le RSD) e che, in ogni caso, erano state apprestate cure attente, puntuali e tempestive (ad esempio, in considerazione dei disturbi del comportamento alimentare del paziente, venivano effettuate regolari valutazioni da parte della dietista, con monitoraggio degli indici nutrizionali ovvero, a seguito della positività al Covid-19, in base alle conoscenze mediche del tempo, era stato disposto l'isolamento e l'ossigenoterapia).

La questione

Deve ritenersi responsabile della morte di paziente affetto da Covid -19 la struttura che abbia omesso il trasferimento presso il pronto soccorso, provvedendo direttamente alla somministrazione delle cure?

Le soluzioni giuridiche

All'esito del giudizio di merito, valutata la documentazione prodotta in atti, il Tribunale di Milano concludeva per il rigetto integrale delle domande attoree, giudicando, da un lato, carente l'apparato probatorio di parte attrice e, dall'altro, esaustiva la prova avanzata dalla struttura sanitaria circa l'esatto adempimento degli obblighi su di essa incombenti. Nello snodo argomentativo principale, il giudice rilevava che «deve escludersi che nelle condotte del personale della convenuta siano ravvisabili elementi di negligenza, imprudenza, imperizia o violazione di protocolli».

In particolare, è stata valorizzata la diligente compilazione del Diario Unico, dal quale emergevano l'assiduità e l'accuratezza dei controlli effettuati sul paziente e le conseguenti iniziative terapeutiche, nonché il regime normativo vigente ratione temporis, fra cui una delibera della giunta regionale della Regione Lombardia che escludeva la possibilità di trasferire il paziente ad altra struttura.

Pertanto, il Tribunale valutava come «del tutto ragionevole, opportuno e doveroso» che le valutazioni inerenti alla condizione di salute del degente, nonché la presenza di stringenti misure di contenimento della pandemia avessero indotto la Struttura a non optare per il trasferimento in altra sede ospedaliera. Tale DGR prevedeva infatti che «in caso di età avanzata (superiore ai 75 anni)» e di situazione di precedente fragilità e di comorbilità, era opportuno che le cure venissero «prestate presso la stessa struttura per evitare ulteriori rischi di peggioramento, dovuti al trasporto e all'attesa in pronto soccorso».

Nemmeno sul piano della terapia adottata trovavano accoglimento i rilievi di parte attrice. Ad avviso del giudice, infatti, non era stata fornita alcuna indicazione circa il trattamento terapeutico (alternativo) che sarebbe stato necessario al paziente e che, a detta degli attori, disponibile solo in un pronto soccorso. In conclusione, non potendosi muovere alcun addebito alla struttura sanitaria convenuta, né ravvisandosi un nesso causale fra il trattamento praticato al paziente e la sua morte, veniva escluso qualsiasi addebito di responsabilità e rigettate tutte le domande attoree.

 

a) La responsabilità della struttura sanitaria e le sue peculiarità: il riparto dell'onere probatorio

La pronuncia in oggetto presenta un duplice profilo di interesse, attinente, da un lato, ai contorni della prova liberatoria gravante sulla struttura convenuta in giudizio e, dall'altro, alla rilevanza del contesto emergenziale circa l'individuazione della misura della diligenza richiesta al nosocomio.

Quanto al riparto dell'onere probatorio, la pronuncia in oggetto mostra di condividere l'orientamento giurisprudenziale che ricostruisce in termini unitari la responsabilità della struttura sanitaria, a prescindere dal titolo dedotto in giudizio, sia esso un danno iure proprio ovvero iure hereditatis. La giurisprudenza maggioritaria, infatti, ha maturato l'orientamento per cui, sia in tema di responsabilità extracontrattuale che di responsabilità contrattuale per inadempimento dell'obbligazione di diligenza professionale e lesione del diritto alla salute, è onere del danneggiato provare, anche a mezzo di presunzioni, il nesso di causa fra l'aggravamento della situazione patologica, o l'insorgenza di nuove patologie, e la condotta del sanitario; compete alla parte debitrice, invece, provare, ove il creditore abbia assolto il proprio onere probatorio, di aver esattamente adempiuto la prestazione o che l'inadempimento sia dipeso da causa esterna imprevedibile o inevitabile (in questi termini Cass. civ., sez. VI, sent. 26 novembre 2020, n. 26907; Cass. civ., sez. III, sentenze 11 novembre 2019, nn. 28991 e 28992). Al contrario, un altro orientamento – ancorché, come detto, minoritario – tiene ferma la distinzione fra i due ordini di responsabilità, facendo applicazione dei rispettivi regimi probatori. In questo modo, l'azione promossa iure proprio per decesso del parente viene ricondotta nell'alveo della responsabilità extracontrattuale, non potendo qualificare i familiari alla stregua di “terzi protetti dal contratto” che possano far valere la responsabilità della struttura ex contractu (Cass. civ., sez. III, sent. 8 luglio 2020, n. 14258 e Cass. civ. 6 maggio 2022, n. 14471).

Ora, la sentenza in commento, come sopra accennato, sembra accogliere l'orientamento maggioritario. La pronuncia non fa, infatti, distinzione in punto di onere probatorio tra i diversi regimi di responsabilità invocati in giudizio, i quali vengono trattati unitariamente, secondo un paradigma che in dottrina è stato definito come “transtipico”, in quanto frutto di commistione fra i due sistemi della responsabilità civile.

Una delle principali caratteristiche di questo regime sui generis che trova applicazione in materia di responsabilità sanitaria è il c.d. “doppio ciclo causale”, il quale comporta che l'onere della prova venga ripartito fra entrambe le parti in giudizio.

Nello specifico, su parte attrice incombe la prova della causalità materiale, ossia della riconducibilità dell'infezione e delle relative conseguenze pregiudizievoli all'operato dei sanitari, mentre sulla struttura grava la prova negativa (o liberatoria). Occorrerà, dunque che la parte attrice dia prova del rapporto di spedalità, dell'insorgenza della patologia ovvero dell'aggravarsi della condizione clinica, nonché la prova del nesso causale tra la permanenza nella struttura e l'infezione, quest'ultima desumibile anche in via presuntiva (Cass. civ., sez. III, sent. 15 giugno 2020, n. 11599). Una volta assolto tale onere, la struttura è, invece, chiamata a fornire prova dell'esatto adempimento dei propri obblighi ovvero dell'impossibilità in concreto riconducibile ad una specifica causa imprevedibile ed inevitabile (Cass. civ, sez. un., sent. 11 gennaio 2008, n. 577; Cass. civ., sez. III, sent. 25 agosto 2020, n. 17696; Cass. civ., sez. III, sent. 22 febbraio 2023, n. 5490). Nel caso di specie, parte attrice tentava di assolvere al proprio onere probatorio dimostrando il rapporto di spedalità e producendo apposita consulenza tecnica di parte atta ad evidenziare le asserite carenze ed omissioni nella gestione del caso clinico. Alla luce della lunga degenza del paziente, ricoverato ormai da diversi anni presso l'istituto di cura, il nesso di causalità fra la permanenza nel nosocomio ed il contagio non costituiva un punto controverso. Dall'altra parte, la Struttura convenuta adduceva il proprio esatto adempimento, ossia l'aver somministrato cure tempestive ed adeguate alla luce delle conoscenze disponibili al tempo dei fatti.

Da quanto sopra descritto emerge una sostanziale differenza rispetto al regime della responsabilità contrattuale, la quale dovrebbe trovare applicazione ai sensi dell'art. 7 l. 8 marzo 2017, n. 24. Come noto, infatti, a seguito dell'entrata in vigore della legge Gelli la struttura sanitaria o sociosanitaria – pubblica o privata – che nell'adempimento della propria obbligazione si avvalga dell'opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa, risponde delle loro condotte dolose o colpose ai sensi degli articoli 1218 e 1228 c.c. (art. 7, comma 1). Al comma successivo, è disposto che l'esercente la professione sanitaria risponde del proprio operato ai sensi dell'articolo 2043 c.c., salvo che abbia agito nell'adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente. Il dato letterale indurrebbe ad applicare de plano il relativo riparto dell'onere probatorio, imponendo al creditore la sola prova del diritto alla prestazione e la semplice allegazione dell'inadempimento, onerando invece il debitore della prova dell'esatto adempimento ovvero dell'impossibilità sopravvenuta. Come già osservato, invece, i più recenti sviluppi giurisprudenziali si sono discostati dalla lettera della norma, configurando un regime che attinge da entrambi i modelli di responsabilità, dando origine ad un sistema ibrido in base al quale, pertanto, l'onus probandi ex parte creditoris include altresì la dimostrazione del nesso di causalità materiale fra l'evento lesivo e la condotta dei sanitari impiegati nella struttura (v. la già citata Cass. civ., sez. III, 11 novembre 2019, n. 28991).

 

b) Incertezza scientifica e misura della diligenza richiesta al debitore

Occorre poi tenere in considerazione l'ulteriore particolarità del caso concreto, data dal contesto emergenziale.

Se, infatti, in contesti “ordinari” la fuga dall'orbita della colpa c.d. d'organizzazione impone alla struttura di dimostrare non solo l'astratta predisposizione di protocolli e misure organizzative atte alla prevenzione ed al contrasto alla diffusione delle infezioni nosocomiali, ma altresì la loro corretta osservanza ed implementazione (diffusamente, Cass. civ., sez. III, sent. 3 marzo 2023, n. 6386), il contesto emergenziale – quale quello in occasione del quale si sono svolti i fatti - induce l'interprete a meditare soluzioni alternative.

Sul punto, in giurisprudenza si è osservato che nell'ambito della prova liberatoria rientra anche la dimostrazione che la struttura ha adempiuto a quanto era possibile ed esigibile allo stato dell'arte, potendosi configurare un'ipotesi di contagio “non prevedibile, rientrando in quella percentuale di casi che la scienza medica ha enucleato come eventi che possono sfuggire ai controlli di sicurezza apprestabili e di fatto apprestati dalla struttura sanitaria” (Trib. Roma, sez. XIII, 22 giugno 2015).

Difatti, è innegabile che la misura della diligenza richiesta dal debitore ai sensi degli artt. 1176 e 2236 c.c. deve essere parametrata allo stato delle conoscenze promosse dalla comunità scientifica accreditata in un dato momento, nonché delle linee guida e delle buone pratiche eventualmente emanate.

In ultima analisi, in un contesto di grave incertezza circa patogenesi, decorso e trattamento dell'infezione – unitamente ai limiti organizzativi dovuti alle croniche carenze in termini di organico ed attrezzature delle strutture – la condotta esigibile dal debitore non potrà che essere ricostruita tenendo conto di siffatti ostacoli materiali ed epistemologici.

Osservazioni

In ultima analisi, nel caso di specie il Tribunale di Milano ha ritenuto non assolto l'onere della prova richiesto ai danneggianti in punto di causalità materiale, difettando qualsiasi indicazione circa il trattamento terapeutico che sarebbe stato necessario al paziente e che questi avrebbe potuto ricevere presso un pronto soccorso.

Inoltre, alla luce delle poche informazioni disponibili sull'agente virale al tempo dei fatti, sono state valorizzate l'assiduità e l'accuratezza dei controlli effettuati sul paziente, nonché la tempestività delle iniziative assunte al manifestarsi della sintomatologia. Nonostante non fosse controversa la circostanza della contrazione del virus presso la struttura, il giudice ha ravvisato che sono state adottate le azioni che potevano ragionevolmente attendersi dalla struttura in un contesto emergenziale, escludendo la fondatezza di qualsiasi addebito nei confronti della stessa.

In conclusione, la pronuncia mostra nel complesso di aver adeguatamente trasposto in un contesto peculiare ed eccezionale le regole in tema di responsabilità sanitaria, recependo così le preoccupazioni di chi temeva che le tendenze verso l'oggettivizzazione della responsabilità della struttura potessero portare ad un eccessivo aggravamento della responsabilità in occasione della pandemia da Covid-19. Del resto, l'applicazione acritica della giurisprudenza in tema di prova liberatoria delle strutture sanitarie (ad oggi ancora più gravosa, articolandosi in una onerosa produzione documentale, v. la già citata Cass. civ., sez. III, sent. del 3 marzo 2023, n. 6386) avrebbe senz'altro prodotto un esito opposto. D'altra parte, resta aperto il dibattito su come verrà a delinearsi lo statuto della responsabilità sanitaria da infezione nosocomiale per vicende svoltesi in momenti successivi a quello in oggetto, quando all'iniziale ignoranza sulla natura del virus è venuta a sostituirsi la non meno insidiosa contraddittorietà delle risultanze offerte dalla comunità scientifica e, pertanto, l'impossibilità di delineare una legge di copertura generale.

Riferimenti

L. Cannata – L. Molinari – G. Tomei, La responsabilità per infezioni nosocomiali, in Danno e responsabilità, 5/2021, 547; R. Pardolesi – R. Simone, Infezioni nosocomiali: responsabilità in cerca di identità, in Danno e responsabilità, 4/2023, 477; G. Cascella – G. Barile, Riflessioni sull'incidenza del c.d. “COVID-19” sulla responsabilità medica, in IUS Responsabilità civile (ius.giuffrefl.it), 28 maggio 2020; A. Cisterna, La Cassazione fissa lo statuto delle infezioni legate all'assistenza, in Guida dir., 2023, fasc. 13, 75; P. Laghezza, Causalità materiale, prova e presunzioni: nuovi equilibri ed inedite certezze, in Foro it., 2021, I, 524; A. Davola, Infezioni nosocomiali e responsabilità della struttura sanitaria, in Danno e responsabilità, 3/2017, 357; G. Comandé, La responsabilità sanitaria al tempo del Coronavirus…e dopo, in Danno e responsabilità, 3/2020, 301.

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