Non c’è bis in idem fra appropriazione indebita e bancarotta fraudolenta: la Cassazione (purtroppo o comunque per le ragioni sbagliate) ci ripensa
05 Febbraio 2025
Massima Non opera il divieto di ne bis in idem in relazione ai reati di appropriazione indebita e bancarotta fraudolenta patrimoniale, essendo diverso il fatto storico-naturalistico oggetto dei due procedimenti in ragione della sentenza dichiarativa di fallimento della società pronunciata successivamente all'appropriazione, sentenza che rappresenta un dato storico ulteriore, aggiuntivo, dotato di una propria rilevanza non solo sotto il profilo giuridico ma anche naturalistico-fenomenico quale momento accertativo dello stato d'insolvenza in cui si è venuto a trovare l'impresa che ebbe a subire la spoliazione del bene ed idoneo a far risaltare, ove esistente, l'esposizione a pericolo delle ragioni creditorie che l'atto spoliativo avesse determinato. Il caso In sede di merito, veniva disposto un sequestro preventivo nei confronti dell'amministratore di una società fallita, accusato del delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale. In sede di gravame innanzi alla Corte di Cassazione, la difesa – per quanto di interesse in questa sede – deduceva l'erronea applicazione dell'art. 649 e dell'art. 323 c.p.p. nonché dell'art. 669 c.p.p. con riferimento a fatti di bancarotta patrimoniale già qualificati come appropriazione indebita, risultando rispetto ad essi il ricorrente già stato prosciolto con sentenza di non luogo a procedere per intervenuta prescrizione. In proposito, nell'ordinanza impugnata si riteneva che in relazione a tale pronuncia dichiarativa di non luogo a procedere non operava la preclusione di cui all'art. 649 c.p.p. per la diversità di oggetto giuridico tra i delitti di appropriazione indebita e bancarotta ed anche perché il citato art. 649 presuppone un giudizio con carattere di defínitività che non ricorre in presenza di una sentenza dichiarativa dì non luogo a procedere ex art. 425 del codice di rito, priva in generale dei connotati di irrevocabilità e dalla quale quindi non discendono effetti preclusivi di un secondo giudizio. Secondo la tesi difensiva, invece, il divieto di bis in idem dovrebbe applicato anche in assenza di giudicato formale e pur se nel secondo giudizio il fatto sia diversamente contestato con un'imputazione di reato che costituisca progressione criminosa del primo, come nel rapporto che si instaura tra appropriazione indebita e bancarotta preferenziale. Con riferimento al primo aspetto, secondo l'impugnazione, la sentenza dì non luogo a procedere non più suscettibile di impugnazione rientra in virtù del grado di stabilità che tendenzialmente la caratterizza tra le sentenze definitive cui si connette l'effetto preclusivo dell'instaurazione di un nuovo giudizio per il medesimo fatto in applicazione del principio generale del ne bis in idem. Quanto, poi, al rapporto tra delitto di appropriazione indebita e bancarotta per distrazione l'atto di impugnazione richiama alcune decisioni della Cassazione che, sulla base del principio sancito dalla Corte costituzionale con la sentenza 21 luglio 2016 n. 200, affermano l'operatività del principio del ne bis in idem quando il processo per bancarotta per distrazione intervenga dopo una sentenza definitiva per appropriazione indebita pronunciata in relazione ai medesimi fatti (Cass., sez V, 15 febbraio 2018, n. 25651). Indubbiamente, vi è una significativa diversità fra il delitto di bancarotta per distrazione ed il reato di appropriazione indebita ma tale differenza risiene nell'offesa che la distrazione fallimentare reca all'interesse dei creditori per la diminuzione della garanzia patrimoniale ad essa collegata, ma si tratta di una diversità che stando al dictum della Corte costituzionale non rileva ai fini dell'identificazione del fatto perché attiene - insieme all'oggetto giuridico, alla natura dell'evento, ecc. - ad elementi della fattispecie che per la loro opinabilità non devono concorrere a segnare l'ambito della garanzia costituzionale e convenzionale del ne bis in idem. La questione giuridica e le soluzioni Sul rapporto tra appropriazione indebita e bancarotta fraudolenta (una volta dichiarato il fallimento) degli stessi beni, la giurisprudenza ha assunto posizioni diversificate ma comunque nella gran parte dei casi tutte intese a sostenere che lo svolgimento di un proprio processo per il reato di cui all'art. 646 c.p. non precludesse comunque lo svolgimento di un successivo autonomo giudizio per i medesimi fatti qualificati come distrazione fallimentare. In particolare, alcune decisioni, più risalenti, hanno fatto riferimento alternativamente alle figure del concorso formale o del reato complesso, sostenendo, nell'uno e nell'altro caso, che un giudizio, celebrato e comunque concluso, per il reato di cui all'art. 646 c.p. non sarebbe di ostacolo - una volta intervenuto il fallimento - alla celebrazione di altro giudizio per bancarotta. Secondo questa posizione all'unicità di un determinato fatto storico può far riscontro una pluralità di eventi giuridici (come si verifica, appunto, nell'ipotesi del concorso formale di reati), sicché il giudicato formatosi con riguardo ad uno di tali eventi non impedisce l'esercizio dell'azione penale in relazione ad un altro evento (inteso sempre in senso giuridico), pur scaturito da un'unica condotta, quale che sia stato il reato giudicato per primo – salvo che nel primo giudizio sia stata dichiarata l'insussistenza del fatto o la mancata commissione di esso da parte dell'imputato, per ovvie ragioni di incompatibilità logica e per evitare il conflitto di giudicati (Cass., sez. V, 20 gennaio 2016, n. 11918; Cass., Sez. II, 4 marzo 1997, n. 10472. In dottrina, PANTANELLA, La condanna irrevocabile per l'appropriazione indebita di beni aziendali non preclude l'esercizio per bancarotta per distrazione degli stessi beni, in Cass. Pen., 2014, 2411; DI GERONIMO, Bancarotta fraudolenta ed appropriazione indebita: una controversa ipotesi di reato complesso, ivi, 2010, 1598). Secondo un'altra impostazione, di elaborazione più recente ed oggi maggioritaria, l'appropriazione indebita e la bancarotta fraudolenta per distrazione sono in rapporto di contenuto a contenitore, poiché la bancarotta fraudolenta integra una ipotesi di reato complesso, ai sensi dell'art. 84 c.p. con la conseguenza che solo l'avvio del procedimento per bancarotta esclude la possibilità di un secondo giudizio per l'appropriazione, e non viceversa. Tale impostazione fa leva sul fatto che gli elementi normativi descrittivi della bancarotta sono diversi e più ampi rispetto a quelli descrittivi dell'appropriazione, giacché nella bancarotta assume rilevanza la pronuncia di fallimento, che manca all'altra figura di reato (Cass., sez. V, 9 luglio 2010, n. 37298; Cass., sez. V, 18 novembre 2008, n. 4404). Questa impostazione, dunque, valorizza, per la comparazione delle fattispecie (e, quindi, per valutare l'identità del fatto, preclusiva, per l'art. 649 c.p.p., del secondo giudizio), non solo la dimensione naturalistica, ma anche la configurazione giuridica delle fattispecie, per affermare la loro diversità strutturale e, quindi, la irriconducibilità all'idem factum (in dottrina, VALBONESI, Appropriazione indebita, bancarotta per distrazione e ne bis in idem processuale, in Riv. Trim. Dir. Pen. Ec., 2009, 637). Questa impostazione venne tuttavia radicalmente ribaltato da Cass., sez. V, 15 febbraio 2018, n. 25651 (MUCCIARELLI, Bancarotta distrattiva, appropriazione indebita e ne bis in idem: una decisione della Corte di cassazione innovativa e coerente con i principi costituzionali e convenzionali, in Diritto penale contemporaneo, 11 giugno 2018; VIGLIONE, La bancarotta fraudolenta per distrazione al banco di prova del ne bis in idem, in Cass. Pen., 2019, 1246), secondo cui il giudicato formatosi con riferimento al delitto di cui all'art. 646 c.p. andava considerato come alla celebrazione di un secondo giudizio per la bancarotta patrimoniale e ciò in quanto la possibilità di leggere, nella bancarotta, un fatto diverso rispetto all'appropriazione, sulla base degli elementi identitari del reato, tradizionalmente compendiati nella triade condotta, nesso causale, evento sarebbe stata esclusa dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 200 del 2016, che dichiarò l'illegittimità costituzionale dell'art. 649 del codice di procedura penale nella parte in cui escludeva che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussistesse un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale. Alla luce di questa pronuncia, infatti, secondo la Cassazione non si poteva continuare a sostenere che il giudicato formatosi sull'appropriazione indebita non fosse ostativo alla celebrazione di un secondo giudizio per la bancarotta patrimoniale: dopo la decisione di incostituzionalità, infatti, un nuovo giudizio sarebbe consentito solo se il fatto che si vuole punire sia, naturalisticamente inteso, diverso, e non già perché con la medesima condotta sono state violate più norme penali e offeso più interessi giuridici e ciò impedirebbe di far riferimento all'istituto del concorso reale di norme per dirimere la problematica posta dal sopravvenire del fallimento alla pronuncia di appropriazione. La sentenza del 2018 poi si premurava anche di evidenziare come nemmeno l'impostazione più recente della giurisprudenza di legittimità, che fa leva sul fatto che appropriazione indebita e bancarotta per distrazione sono strutturalmente diverse, perché la bancarotta ha, in più, l'elemento specializzante della dichiarazione di fallimento, che "attualizza" l'offesa insita nell'appropriazione, poteva essere seguita. Infatti, il diritto penale punisce i fatti dipendenti dall'azione o dall'omissione dell'agente, per cui “anche se nel "fatto" vanno ricompresi - secondo l'insegnamento della Corte costituzionale e delle Sezioni Unite - le conseguenze della condotta (l'evento) e il nesso che le lega alla condotta, deve trattarsi pur sempre di elementi dipendenti dall'agire del soggetto, perché possano essergli addebitati”; la dichiarazione di fallimento è, invece, per generale opinione, indipendente dalla volontà dell'agente, perché consegue all'iniziativa dei creditori o del Pubblico Ministero ed è legata alle valutazione del Tribunale fallimentare, sicché non può essere annoverata tra gli elementi che concorrono alla identificazione del "fatto", nella accezione assunta dal giudice delle leggi e che qui rileva. Osservazioni Il ricorso è stato dichiarato infondato. Secondo la Cassazione, infatti, il fatto storico-naturalistico oggetto del procedimento cui si riferisce la sentenza in commento sarebbe diverso da quello di cui all'art. 646 c.p., giudicato con la sentenza di non luogo a procedere per intervenuta prescrizione del reato di appropriazione indebita, non essendovi una corrispondenza storico-naturalistica fra le due vicende storiche esaminate in sede giudiziaria sicché non opera il divieto dì bis in idem. Infatti, pur avendo il fatto di bancarotta fraudolenta distrattiva contestato e ravvisato nel procedimento cui si riferisce la sentenza in commento in comune con quello oggetto della sentenza di non luogo a procedere una condotta appropriativa riferita ad una somma di denaro di medesimo importo, secondo i giudici di legittimità non si può comunque parlare di medesimezza del fatto storico. In più occasioni, in effetti, nella giurisprudenza di legittimità si è affermato che in tema di divieto di bis in idem, l'identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico- naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona, e comunque quando in esito al raffronto tra l'imputazione oggetto del giudicato e il fatto afferente alla nuova contestazione, emerga l'identità della condotta e dell'evento naturalistico che ne è derivato. Nella fattispecie in esame, di contro, occorre valorizzare il dato dell'intervenuta sentenza dichiarativa di fallimento della società spoliata successivamente all'appropriazione - elemento non considerato nel giudizio inerente al delitto di cui all'art. 646 c.p.- e questa sentenza rappresenta un dato storico ulteriore, aggiuntivo, dotato di una propria rilevanza non solo sotto il profilo giuridico ma anche naturalistico-fenomenico quale momento accertativo dello stato d'insolvenza in cui si è venuto a trovare l'impresa che ebbe a subire la spoliazione del bene ed idoneo a far risaltare, ove esistente, l'esposizione a pericolo delle ragioni creditorie che l'atto spoliativo avesse determinato. La necessità di considerare e riconoscere rilevanza alla dichiarazione di fallimento è imposta dalla circostanza che ai fini della valutazione ex art. 649 cod. proc. pen. occorre prendere in considerazione il fatto concreto ed il fatto in concreto che emerge in un procedimento per bancarotta fraudolenta patrimoniale si connota, appunto, per la presenza della dichiarazione di fallimento. Di conseguenza, se all'amministratore di una società, in precedenza giudicato per essersi di somme di proprietà della società, viene successivamente contestata la medesima condotta ma dopo che sia intervenuta la sentenza dichiarativa di fallimento, allora si è in presenza di una nuova e diversa conformazione del fatto rispetto alla mera appropriazione di somme altrui, non solo dal punto di vista strettamente giuridico, ma anche sotto un profilo naturalistico avente rilievo giuridico. Invero, il fatto storico appropriativo, in rapporto alla dichiarazione di fallimento, ed al conseguente suo inquadramento nell'ambito della vicenda prefallimentare, si arricchisce della componente dell'esposizione a pericolo delle ragioni creditorie (invece estranea al fatto appropriativo in sé), ossia dell'impatto della spoliazione del bene sul patrimonio della società, con relativa riduzione della garanzia patrimoniale che ne è scaturita, segmento, questo, rimasto del tutto estraneo all'altro procedimento, conclusosi con la declaratoria di estinzione del reato, di - mera - appropriazione indebita, per prescrizione. In altri termini, secondo la decisione in commento, la circostanza che per la bancarotta fraudolenta distrattiva non è necessario che sia derivato un danno ai creditori, essendo sufficiente la esposizione a pericolo, in concreto, delle loro ragioni non consente di concludere che non ricorre, rispetto ad essa, alcuno degli aspetti che assumono rilievo ai fini della valutazione della diversità del fatto, risolvendosi la messa in pericolo delle ragioni creditorie comunque in un connotato distintivo della condotta (che peraltro si ripercuote anche sulla dimensione soggettiva del fatto-reato), e ciò non solo sotto il profilo strettamente giuridico ma anche dal punto di vista fenomenico- giuridico (la natura di reato di pericolo concreto, oramai unanimemente attribuita nella giurisprudenza al reato di bancarotta fraudolenta distrattiva, impone dì tener conto di tale risvolto fattuale ai fini della integrazione del reato). Nella decisione in esame, la Cassazione si impegna a confrontarsi anche con la già menzionata decisione della Corte Costituzionale n. 200/2016 e con la lettura che in tale decisione la Consulta ha reso del combinato disposto di cui agli artt. 4 del protocollo n. 7 CEDU - secondo cui "nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato" – e 649 c.p.p., per il quale "l'imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto". Secondo la Corte Costituzionale, infatti, se è vero che il fatto di cui fanno menzione le citate disposizioni è l'accadimento materiale in sé, senza alcuna considerazione del suo inquadramento giuridico, sicché l'identità fra due imputazioni contestate in doversi procedimento va valutata alla luce delle circostanze fattuali concrete, indissolubilmente legate nel tempo e nello spazio, col ripudio di ogni riferimento alla qualificazione giuridica della fattispecie, bisogna altresì considerare che la descrizione di una vicenda fattuale contenuta in una contestazione di reato è comunque la risultante di una selezione di elementi, circostanze, dati di fatto condotta secondo criteri normativi e tale selezione non deve limitarsi a prendere in considerazione la sola azione o all'omissione senza riconoscere rilievo anche all'oggetto fisico su cui cade l'azione dell'imputato o l'evento naturalistico che ne è conseguito, ovvero la modificazione della realtà indotta dal comportamento dell'agente. Ciò significa che secondo i giudici costituzionali – nella lettura che la Cassazione fornisce della loro posizione – sono costituzionalmente corretti gli approdi della giurisprudenza di legittimità, per la quale l'identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze dì tempo, di luogo e di persona (Cass., sez. un., 28 giugno 2005, n. 34655), sempre che tutti gli elementi del reato siano assunti nella loro dimensione empirica, sicché anche l'evento non potrà avere rilevanza in termini giuridici, ma assumerà significato soltanto quale modificazione della realtà materiale conseguente all'azione o all'omissione dell'agente. In questo modo è assicurato il massimo dispiegarsi della funzione di garanzia sottesa all'art. 649 c.p.p. - senza compromissione di altri principi di rilievo costituzionale - e si evita che la valutazione comparativa - cui è chiamato il giudice investito del secondo giudizio - sia influenzata dalle sempre opinabili considerazioni di tipo strettamente giuridico ancorate alla natura dell'interesse tutelato dalle norme incriminatrici, ai beni giuridici offesi, alla natura giuridica dell'evento, al ruolo che ha un medesimo elemento all'interno delle fattispecie, alle implicazioni penalistiche del fatto e a quant'altro concerne i singoli reati - considerazioni di tipo giuridico che, in quanto, appunto, astratte, investendo il profilo normativa e non quello fattuale del caso concreto, finirebbero col tradire la ratio del divieto del bis in idem che mira ad inibire che si possa essere giudicati per il medesimo fatto, e non riduttivamente per il medesimo reato, indipendentemente, cioè, dalla sua qualificazione giuridica. Secondo la decisione in commento, queste conclusioni non confliggono con le conclusioni cui era giunta la decisione Cass. Pen., Sez. V, n. 25651 del 15 febbraio 2018 – cui si è già fatto cenno. Come detto, in tale decisione la Cassazione ha modificato radicalmente il suo tradizionale orientamento in tema di concorso fra i reati di appropriazione indebita e bancarotta fraudolenta patrimoniale, sostenendo per la prima volta che il giudicato formatosi con riferimento al delitto di cui all'art. 646 c.p. è ostativo alla celebrazione di un secondo giudizio per la bancarotta patrimoniale non essendo possibile leggere, nella bancarotta, un fatto diverso rispetto all'appropriazione, sulla base degli elementi identitari del reato, tradizionalmente compendiati nella triade condotta, nesso causale, evento. Secondo la pronuncia in commento, in quell'occasione non venne riconosciuto il giusto rilievo all'intervenuta pronuncia della sentenza di fallimento quale ulteriore elemento conformante il reato di bancarotta nonché profilo distintivo rispetto al fatto appropriativo contestato e giudicato in precedenza e ciò in quanto si conferì alla dichiarazione di fallimento la natura di condizione obbiettiva di punibilità anziché – come è corretto, secondo la decisione in commento - quale elemento costitutivo del reato, in quanto tale necessariamente da tenere in adeguata considerazione per valutare la (non) medesimezza fra un fatto di appropriazione indebita e una contestazione di bancarotta fraudolenta patrimoniale. E' questo il punto decisivo della pronuncia in commento, che da un lato ribadisce – contrariamente, come vedremo, ad un orientamento contrario ormai assolutamente prevalente – che la pronuncia di insolvenza ha natura di elemento costitutivo del reato e non di condizione obiettiva di punibilità – citando più decisioni, alcune delle quali invero ormai assai risalenti: Cass., sez. V, 24 marzo 2017, n. 17819; Cass. sez. V, 18 maggio 2018; più recente Cass., sez. V, 1 marzo 2023, n. 27426) – e dall'altro, sulla scorta di questa premessa, ribadisce come tale indirizza imponga di riconoscere l'esistenza di una differenza strutturale fra i reati in contestazione, come riconosciuto in più occasioni dalla stessa Cassazione (Cass., sez. V, 29 ottobre 2014, n. 48743; Cass., sez. V, 3 luglio 2015, n. 2295). D'altronde, se è vero che l'intervenuta declaratoria di fallimento non integra un evento del reato di bancarotta (come sostenuto dalla poi immediatamente sconfessata decisione cd. Corvetta: Cass., sez. V, 6 dicembre 2012, n. 47502), comunque tale decisione giurisdizionale qualifica la fattispecie nella sua specifica offensività, modificandola sostanzialmente da quella limitata al patrimonio, propria del reato di appropriazione indebita, alla lesività della garanzia che il patrimonio dell'imprenditore, secondo la previsione dell'art. 2740 cod. civ., offre ai creditori, messa in pericolo dalla destinazione di componenti del patrimonio a finalità diverse da quelle inerenti all'attività imprenditoriale e che viene ad essere concretamente attualizzata con l'effettiva apertura della procedura concorsuale. In sintesi, secondo la pronuncia in epigrafe, ai fini della valutazione del rispetto del principio del ne bis in idem, assume rilievo rispetto ad un determinato fatto storico inteso nella sua globalità anche quanto di esso sia già confluito nell'ambito di un determinato procedimento, perché, ove una rilevante componente storica di esso sia rimasta estranea a quel procedimento - vuoi perché ha assunto rilievo solo a seguito del sopravvenire di un determinato fattore storico-giuridico, quale ad esempio la sentenza di fallimento, vuoi perché sebbene già esistente non sia stata trasfusa in esso – “non può affermarsi che non sì possa procedere a valutare il fatto nella sua globalità in altro procedimento per la sola circostanza che un segmento di esso sia stato già oggetto dell'esercizio dell'azione penale, purché ovviamente non sia già intervenuta una pronuncia definitiva che ne abbia attestato l'insussistenza o la non attribuibilità al medesimo soggetto poi incriminato per il più articolato accadimento che necessariamente lo comprende” (si pensi, ad esempio, all'ipotesi in cui nel procedimento per il delitto di cui all'art. 646 c.p. si affermi la insussistenza del fatto appropriativo o la sua non attribuibilità al ricorrente trattandosi di segmento fattuale necessario ai fini della configurazione della bancarotta distrattiva). All'interno di tale impostazione, alla sentenza di fallimento – quale elemento costitutivo del reato di bancarotta – va riconosciuto il ruolo di momento storico-fattuale che (seppur non privo di rilevanti riflessi giuridici) finisce col connotare il fatto nel suo complesso, “fatto che, ove sussista o sopravvenga la sentenza di fallimento, va dunque letto nella sua unitarietà fenomenica, e tale lettura non può prescindere, ai fini che occupano, da un lato, dal dato storico della sentenza di fallimento quale evento fenomenico modificativo della realtà, che tale rimane a prescindere dalla sua genesi e dalla sua qualificazione giuridica, e, dall'altro, dai risvolti caratterizzanti la condotta appropriativa che assumono rilievo proprio in virtù della dichiarazione di fallimento”. Conclusioni La Cassazione riapre il dibattito sulla possibilità di contestare – senza violazione del divieto di bis idem – il delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale per medesimi fatti già contestati, prima della dichiarazione di insolvenza, ai sensi dell'art. 646 c.p.. La decisione lascia perplessi, se non per il merito della stessa, quanto meno per le ragioni addotte a sostegno. Infatti, come accennato al termine del precedente paragrafo, per superare le osservazioni della Corte costituzionale n. 200 del 2016 – le cui conseguenze sono state poi evidenziate dalla menzionata decisione n. 25651 del 2018 -, la pronuncia in esame non può limitarsi ad evidenziare come, nel delitto di bancarotta, ricorra la circostanza della intervenuta dichiarazione di fallimento della società depauperata ma deve sostenere la natura di tale decisione quale elemento costitutivo del reato di cui all'art. 322, comma 1 lett- a, d.lgs. n. 14 del 2019 (in precedenza art. 216, comma 1 n. 1 R.D. n. 267 del 1942). Peccato che una tale qualificazione giuridica sia ormai sconfessata – e per ragioni assolutamente condivisibile – dalla stessa giurisprudenza, la quale, conformemente alla dottrina, ritiene che tale decisione assuma, nei delitti di bancarotta, il ruolo di condizioni obiettiva di punibilità (Cass., sez. V, 14 febbraio 2017, Gandolfi, n. 6904; Cass., sez. V, 8 febbraio 2017, Santoro, n. 13910, in Mass. Uff., n. 269389. Su tale posizione, senza pretesa di completezza, MUCCIARELLI, Una rivoluzione riformatrice della Cassazione: la dichiarazione giudiziale d'insolvenza è condizione obiettiva di punibilità della bancarotta prefallimentare, Soc., 2017, 897; FASSI, Il revirement della Corte di Cassazione: la sentenza dichiarativa di fallimento è condizione obiettiva di punibilità per il reato di bancarotta fraudolenta pre-fallimentare, in Cass. Pen., 2017, 2197; CHIBELLI, Il ruolo della sentenza dichiarativa di fallimento nei reati di bancarotta prefallimentare: l'atteso revirement della Cassazione, in Cass. Pen., 2017, 2205; ROSSI, La sentenza dichiarativa di fallimento quale condizione obiettiva di punibilità nelle bancarotte prefallimentari: ‘pace fatta' fra giurisprudenza e dottrina, in Giur. It., 2017, 1679; PISANI, La sentenza dichiarativa di fallimento ha natura di condizione obiettiva di punibilità estrinseca nella bancarotta fraudolenta prefallimentare: un apparente revirement della Cassazione, in Dir. Pen. Proc., 2017, 1160). Francamente, non ci pare che per consentire la punibilità a titolo di bancarotta di fatti di appropriazione indebita fosse il caso di ritornare indietro su un tema di particolare rilevanza qual è quello della natura giuridica della sentenza di fallimento su cui finalmente la giurisprudenza è finalmente giunta ad una posizione dogmaticamente condivisibile. |