La responsabilità penale dell’amministratore dimissionario

25 Febbraio 2025

In una controversia relativa ai rapporti tra i reati di bancarotta impropria da reato societario, bancarotta impropria per operazioni dolose nonché per il reato di false comunicazioni sociali, la Cassazione Penale esamina i profili di responsabilità degli amministratori dimissionari.

Massima

In tema di bancarotta, le dimissioni dell'amministratore producono effetto qualora siano comunicate agli organi sociali nel rispetto delle forme e modalità prescritte dall'art. 2385 c.c. ed indipendentemente dalla loro pubblicazione nel registro delle imprese, salve le ipotesi in cui le dimissioni facciano venir meno il numero legale dell'organo gestorio, nel qual caso la legge riconosce una prorogatio dei poteri del dimissionario fino alla ricostituzione della maggioranza dell'organo in seguito all'accettazione dei nuovi amministratori, ed in cui l'amministratore dimissionario abbia continuato ad esercitare di fatto un potere di gestione all'interno della società.  

Il caso

La vicenda giudiziaria sottoposta all'attenzione della suprema Corte origina dal ricorso presentato dagli imputati avverso una sentenza della Corte di Appello di Ancona che ne aveva affermato la responsabilità per i reati di bancarotta impropria da reato societario, bancarotta impropria per operazioni dolose nonché per il reato di false comunicazioni sociali.

Tra le numerose censure mosse alla sentenza di appello meritano di essere qui sottolineate quella concernente la ritenuta violazione degli artt. 2621 c.c. e 223, comma 2 n. 1) l. fall. e quella secondo cui non sarebbe stata correttamente valutata l'estraneità ai fatti di un ricorrente in ragione delle dimissioni da questi precedentemente presentate.

I motivi di ricorso, tra cui quelli ora appena ricordati, erano ritenuti fondati dalla Corte di Cassazione, la quale annullava con rinvio l'impugnata sentenza.

La questione

Il tema in causa concerne dunque l'analisi dei rapporti tra il delitto di bancarotta impropria da reato societario e quello di false comunicazioni sociali nonché le questioni relative al significato da attribuire alle dimissioni rassegnate dall'amministratore ed al momento in cui le stesse divengono effettive.

Le soluzioni giuridiche

Nel caso al vaglio agli imputati, già amministratori di una società a responsabilità limitata dichiarata fallita, erano contestati, tra gli altri, i reati di bancarotta impropria da false comunicazioni sociali nonché quello di false comunicazioni sociali in riferimento, sostanzialmente, alla medesima condotta costituita dall'inserimento nell'attivo del bilancio, peraltro anche tardivo, di un credito divenuto inesigibile; in questo modo il patrimonio della società era rimasto fittiziamente positivo sì da consentire l'elusione degli obblighi di legge costituiti dal ricapitalizzare la società, porla in liquidazione ovvero chiederne il fallimento.

Sul punto la suprema Corte muove dal rilevare l'erroneità in diritto della sentenza impugnata giacché il delitto di bancarotta impropria da false comunicazioni sociali disciplinato dall'art. 223, comma 2 n. 1) l. fall. (ed ora dall'art. 329, comma 2 lett. a) c.c.i.i.) costiuisce un'ipotesi di reato complessoex art. 84 c.p. contenendo al suo interno, quale elemento costitutivo, un fatto (quello di falso in bilancio) che costituirebbe di per se stesso altro reato. Invero qualora il dissesto, secondo un principio di derivazione causale, sia stato cagionato o comunque aggravato dal reato societario, quest'ultimo rimane assorbito nel reato di bancarotta impropria.

La gravata sentenza, aggiunge la Corte, appare viziata da una motivazione carente anche in riferimento alla prova dell'esistenza dell'appena menzionato nesso eziologico. Infatti, se appare indubitabile che l'esposizione in bilancio di dati non corrispondenti al vero al fine di occultare l'esistenza di perdite, evitando che si manifesti la necessità di procedere ad interventi di ricapitalizzazione o di liquidazione, può consentire la prosecuzione dell'attività di impresa con accumulo di ulteriori perdite negli esercizi successivi, nel caso di specie la sussistenza di un simile effetto non risulta sufficientemente verificata dai giudici di merito.

Si riscontra infatti un'omissione nella valutazione di un conferimento comunque effettuato da un ricorrente in favore della società mediante l'utilizzo di risorse personali acquisite accendendo un mutuo ipotecario, valutazione che assume significato anche in merito all'analisi della configurabilità dell'ulteriore contestato reato di bancarotta impropria per operazioni dolose.

La Corte d'Appello, invero, avrebbe dovuto verificare se le risorse conferite dall'imputato avessero inciso sull'efficienza causale delle condotte contestate nella determinazione o nell'aggravamento del dissesto, anche chiarendo se l'apporto economico in questione fosse qualificabile come un conferimento in conto capitale o un finanziamento societario. La Cassazione, evidentemente rimettendo al giudice del rinvio la soluzione interpretativa della questione, continua osservando come, qualora si ritenesse trattarsi di un finanziamento societario, ben difficilmente esso potrebbe costituire attività di segno contrario idonea ad annullare gli effetti negativi dell'operazione contestata in quanto il finanziamento non evita che il pericolo per la garanzia dei creditori acquisisca effettiva concretezza ma, al contrario, crea solamente una nuova passività per la società attribuendo all'amministratore conferente la titolarità di un credito non postergato per la cui soddisfazione dovrà concorrere insieme al ceto creditorio.

Un ulteriore vizio argomentativo si riscontra poi, a giudizio della suprema Corte, in merito allo scrutinio relativo al fatto che uno degli imputati aveva rinunciato alla carica di amministratore anteriormente agli episodi di falso in bilancio ipotizzati, ancorché la trascrizione delle dimissioni nel registro delle imprese fosse stata successiva, sicché, come da questi sostenuto nei motivi di ricorso, sarebbe stato estraneo ai fatti.

In proposito la Corte osserva come la comunicazione dell'atto di dimissioni agli organi sociali abbia natura costitutiva mentre la pubblicazione dell'atto medesimo nel registro delle imprese abbia natura dichiarativa; invero l'unico obbligo imposto all'amministratore dimissionario affinché le dimissioni siano effettive e possano segnare il venir meno della propria responsabilità è che lo stesso le abbia comunicate agli organi sociali nel rispetto delle forme e modalità prescritte dall'art. 2385 c.c., tanto che è onere di questi ultimi, ed in particolare del collegio sindacale, procedere alla pubblicazione nel registro, adempimento che ha come unico effetto l'opponibilità a terzi delle dimissioni stesse.

Il principio dell'effettività delle dimissioni se comunicate ritualmente agli organi sociali, conclude la Corte, conosce tuttavia alcune eccezioni.

In primo luogo si richiama l'ipotesi in cui le dimissioni dell'amministratore facciano venir meno il numero legale dell'organo gestorio, nel qual caso la legge riconosce una prorogatio dei poteri del dimissionario fino alla ricostituzione della maggioranza dell'organo in seguito all'accettazione dei nuovi amministratori.

Inoltre nulla esclude che l'amministratore dimissionario abbia continuato ad esercitare di fatto un potere gestorio all'interno dell'organizzazione societaria, spendendo la qualifica senza formalmente ricoprirla.

Nel caso al vaglio non risulta chiarito dalla Corte territoriale se si fosse verificata una delle ipotesi descritte ed invero la prima pare escludersi poiché l'organigramma della società fallita contemplava due amministratori con poteri disgiunti per cui, alla cessazione dall'incarico da parte di uno di loro, il potere gestorio si era concentrato sull'altro rimasto in carica; anche la seconda ipotesi peraltro resta non sufficientemente chiarita giacché se è vero che nella sentenza di appello si osserva come l'amministratore, successivamente alle sue dimissioni, avrebbe comunque stipulato nell'interesse della società un “atto pubblico”, non si precisa tuttavia la natura dell'atto ed a quale titolo il ricorrente vi avrebbe partecipato.

Osservazioni

Le conclusioni appena riassunte cui è giunta la Corte di Cassazione appaiono condivisibili, salva la questione, sia pure menzionata incidentalmente, relativa alle ipotesi di finanziamento societario costituito da capitale di credito, il quale attribuirebbe al conferente la titolarità di un credito comunque non postergato per la cui soddisfazione dovrà concorrere insieme al ceto creditorio. In realtà tale assunto, la cui analisi tuttavia esula dall'oggetto della presente nota, sembra non confrontarsi adeguatamente con la disciplina degli artt. 2467 e 2497-quinquies c.c. secondo cui, in tema di società a responsabilità limitata e di gruppi di società, vige il principio che il rimborso ai soci dei finanziamenti, in qualsiasi forma effettuati, è postergato rispetto alla soddisfazione degli altri creditori allorché siano stati concessi in un momento in cui risulta un eccessivo squilibrio dell'indebitamento rispetto al patrimonio netto oppure in una situazione finanziaria nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento.

In merito al rapporto tra il reato di bancarotta impropria da false comunicazioni sociali disciplinato dagli artt. 223, comma 2 n. 1) l. fall. e 329, comma 2 lett. a) c.c.i.i. e quello di false comunicazioni sociali disciplinato dagli artt. 2621 e 2622 c.c., quanto sostenuto dalla suprema Corte non dà luogo ad alcuna particolare novità interpretativa.

Il delitto di bancarotta impropria di cui trattasi, quale reato autonomo rispetto a quelli che ne costituiscono presupposto (tra le molte Cass., 2 marzo 2011, n. 15062, CED Rv. 250092-01), si caratterizza infatti per l'indicazione tassativa di questi ultimi, per la necessità della sussistenza di un nesso eziologico tra essi ed il dissesto, anche in termini del suo aggravamento, ed ovviamente per la necessità della sussistenza della condizione obiettiva di punibilità costituita dalla dichiarazione di fallimento o di liquidazione giudiziale; il delitto appare dunque con evento di danno ed a condotta vincolata giacché detto dissesto deve conseguire, per l'appunto, a condotte che a propria volta integrino uno dei reati societari presupposto.

Il nesso eziologico tra condotta e dissesto esula invece dalla tipicità della fattispecie di false comunicazioni sociali, che certo neppure postula la condizione obiettiva di punibilità della dichiarazione di fallimento o di liquidazione giudiziale.

Dunque il concorso tra la bancarotta impropria da reato societario e quello di cui agli artt. 2621 e 2622 c.c. si ravvisa soltanto qualora il più volte citato nesso eziologico difetti, nell'ipotesi contraria trovando applicazione la disciplina del reato complesso di cui all'art. 84 c.p.

Nel caso di specie si ipotizzava in effetti come il falso in bilancio avesse concorso ad aggravare il dissesto della fallita per cui il reato di matrice codicistica non poteva che ritenersi assorbito nel più grave reato di bancarotta, per cui la pronuncia di condanna sia per il reato di bancarotta da false comunicazioni sociali che per quello di false comunicazioni sociali risulta conseguente ad una errata interpretazione delle fattispecie normative in argomento e segnatamente del loro rapporto.

La sentenza che qui si annota appare poi di particolare interesse in riferimento al significato da attribuirsi alle dimissioni dell'amministratore.

Esse trovano disciplina nell'art. 2385 c.c. il quale dispone che il dimissionario deve darne comunicazione scritta al consiglio di amministrazione e al presidente del collegio sindacale; la rinuncia ha effetto immediato se rimane in carica la maggioranza del consiglio di amministrazione o, in caso contrario, dal momento in cui la maggioranza del consiglio si è ricostituita in seguito all'accettazione dei nuovi amministratori. Inoltre la cessazione degli amministratori dall'ufficio per qualsiasi causa deve essere iscritta entro trenta giorni nel registro delle imprese a cura del collegio sindacale.

Si comprende dunque che, qualora le dimissioni facciano venir meno la maggioranza del consiglio, esse producono effetto soltanto al momento dell'accettazione dei nuovi amministratori e tale è l'ipotesi di prorogatio menzionata nella sentenza in commento; in caso contrario, all'adempimento dei menzionati oneri di comunicazione consegue l'efficacia immediata delle dimissioni sì che correttamente, a giudizio della Corte, la loro pubblicazione nel registro delle imprese produce effetti dichiarativi in tema di opponibilità delle stesse ai terzi. Né infine l'eventuale inerzia del collegio sindacale nel procedere a tale iscrizione può risolversi in danno del dimissionario, che comunque non vi può supplire, essendo ormai estraneo all'organizzazione societaria (cfr. Cass. civ., 17 maggio 2021, n. 13221, in CED Rv. 661452-01).

Indipendentemente da ciò è tuttavia necessario verificare la reale effettività delle dimissioni stesse, anche qualora ritualmente comunicate, non nascondendosi il rischio che possano costituire strumento per sottrarsi alle proprie responsabilità ed anche, in tema di misure cautelari personali, potendo determinare il venir meno della sussitenza dell'esigenza cautelare di cui all'art. 274, lett. c) c.p.p.

Correttamente dunque la Cassazione ricorda come debba valutarsi se il dimissionario abbia continuato ad esercitare di fatto, ovvero in modo continuativo e significativo, i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione gestoria, nel qual caso le formali dimissioni risultando, evidentemente, tamquam non esset.

D'altra parte è ben difficile che l'amministratore dimissionario possa essere ritenuto responsabile, qualora si tratti di dimissioni non simulate, di condotte di rilievo delittuoso di natura attiva, le quali evidentemente saranno addebitabili agli amministratori rimasti in carica o nominati in sostituzione.

A conclusioni non dissimili deve giungersi anche in tema di reato omissivo improprio in riferimento alla posizione di garanzia propria dell'amministratore ai sensi dell'art. 40 cpv. c.p. che, com'è noto, si traduce nello specifico obbligo di impedimento della commissione del reato altrui. E' chiaro infatti che (anche) tale obbligo di impedimento viene meno a carico del vero dimissionario per ciò che concerne i reati commessi successivamente alla rinuncia all'incarico, rimanendo invece sussistente per quelli commessi antecedentemente giacché l'amministratore era comunque tenuto ad interrompere il rapporto eziologico che sfocia nella verificazione del danno, ovvero del reato altrui (Cass., 14 dicembre 2011, n. 3714, CED Rv. 252947-01).

Un'ulteriore e diversa ipotesi di cessazione dalla carica degli amministratori si riscontra nel caso in cui la società sia posta in liquidazione.

In propostito l'art. 2487-bis c.c. (norma applicabile alle società di capitali in genere, come sostenuto da Cass. 26 ottobre 2023, n. 48114, CED Rv. 285488-01) dispone che “La nomina dei liquidatori e la determinazione dei loro poteri, comunque avvenuta, nonché le loro modificazioni, devono essere iscritte, a loro cura, nel registro delle imprese. Alla denominazione sociale deve essere aggiunta l'indicazione trattarsi di società in liquidazione.

Avvenuta l'iscrizione di cui al primo comma gli amministratori cessano dalla carica e consegnano ai liquidatori i libri sociali, una situazione dei conti alla data di effetto dello scioglimento ed un rendiconto sulla loro gestione relativo al periodo successivo all'ultimo bilancio approvato. Di tale consegna viene redatto apposito verbale. Quando nei confronti della società è stata aperta la procedura di liquidazione giudiziale o di liquidazione controllata, il rendiconto sulla gestione è consegnato anche, rispettivamente, al curatore o al liquidatore della liquidazione controllata”.

Conclusioni

Si comprende dunque come, in questi casi, l'iscrizione nel registro delle imprese della nomina dei liquidatori assuma efficacia costitutiva, determinando la cessazione dalla carica degli amministratori i quali, oltre ai sindaci ed ai liquidatori, appiono (interessati e) legittimati  all'iscrizione, soprattutto in caso di inerzia di questi ultimi.

Qualora l'iscrizione in argomento non sia effettuata, dunque, gli amministratori continuano a rimanere in carica nonostante l'avvenuta nomina dei liquidatori, ma lo spazio per ravvisare (ancora) un'eventuale loro responsabilità penale appare ridursi.

Infatti, il difetto della menzionata pubblicità:

-si accompagnerà di regola all'effettiva assunzione della gestione da parte dei liquidatori sicché ben difficilmente all'amministratore, pur rimasto tale, potranno attribuirsi condotte delittuose attive, salvo che questi abbia comunque continuato ad operare, magari anche mascherandosi dietro la nomina dell'organo liquidatorio;

-non determina a carico dell'amministratore il venir meno dell'obbligo di garanzia di cui all'art. 40 cpv. c.p. sicché, a fronte della eventuale commissione di reati da parte degli altri amministratori ma anche dei (nuovi) liquidatori -sia pur in quella “zona grigia” costituita dalla nomina ancor priva di effetti giuridici di questi ultimi, che purtuttavia abbiano concretamente agito- l'inerzia dell'amministratore dovrà essere oggetto di valutazione, anche dal punto di vista dell'elemento soggettivo, al fine della verifica della sussistenza degli elementi costitutivi del reato omissivo improprio a suo carico per non avere impedito la commissione di quei reati da parte dell'organo gestorio o liquidatorio.

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