Decreto legislativo - 12/01/2019 - n. 14 art. 322 - Bancarotta fraudolenta

Ivana Vassallo
Paolo Magro

Bancarotta fraudolenta

1. E' punito con la reclusione da tre a dieci anni, se è dichiarato in liquidazione giudiziale, l'imprenditore che:

a) ha distratto, occultato, dissimulato, distrutto o dissipato in tutto o in parte i suoi beni ovvero, allo scopo di recare pregiudizio ai creditori, ha esposto o riconosciuto passività inesistenti;

b) ha sottratto, distrutto o falsificato, in tutto o in parte, con lo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizi ai creditori, i libri o le altre scritture contabili o li ha tenuti in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari.

2. La stessa pena si applica all'imprenditore, dichiarato in liquidazione giudiziale, che, durante la procedura, commette alcuno dei fatti preveduti dalla lettera a) del comma 1, ovvero sottrae, distrugge o falsifica i libri o le altre scritture contabili.

3. E' punito con la reclusione da uno a cinque anni l'imprenditore in liquidazione giudiziale che, prima o durante la procedura, a scopo di favorire, a danno dei creditori, taluno di essi, esegue pagamenti o simula titoli di prelazione.

4. Salve le altre pene accessorie, di cui al capo III, titolo II, libro I del codice penale, la condanna per uno dei fatti previsti nel presente articolo importa l'inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e l'incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni.

Inquadramento

Il Titolo IX del c.c.i.i. è suddiviso in cinque Capi. Il Capo I ha per oggetto i «Reati commessi dall'imprenditore in liquidazione giudiziale» (artt. 322-328). Il Capo II attiene ai «Reati commessi da persone diverse dall'imprenditore in liquidazione giudiziale» (artt. 329-340). Il Capo III detta le «Disposizioni applicabili nel caso di concordato preventivo, accordi di ristrutturazione dei debiti, piani attestati e liquidazione coatta amministrativa» (artt. 341-343). Il Capo IV disciplina i «Reati commessi nelle procedure di composizione delle crisi da sovraindebitamento e reati commessi nella procedura di composizione della crisi» (artt. 344-345), i «Reati commessi nelle procedure di composizione delle crisi da sovraindebitamento», a seguito delle modifiche apportate con il d.lgs. n. 83/2022. Il Capo V contiene le «Disposizioni di procedura» (artt. 346-347).

Come evidenziato nella Relazione Illustrativa, le norme contenute nei Capi I-III si riferiscono a fattispecie illecite già previste e sanzionate nella normativa vigente, essendo le sostituzioni operate soltanto di tipo terminologico (al posto delle parole «fallimento» e «fallito» troviamo le espressioni «liquidazione giudiziale» e «imprenditore sottoposto a liquidazione giudiziale»). Anche le modifiche apportate ai rinvii ai singoli artt. che regolano i corrispondenti istituti della legge fallimentare non hanno valenza innovativa ma rispondono esclusivamente ad una finalità di adattamento.

Non essendo stata prevista l'abrogazione delle corrispondenti norme penali della legge fallimentare, stante la pendenza di numerose procedure al momento dell'entrata in vigore del Codice della Crisi di Impresa, per un certo periodo di tempo le disposizioni contenute nella legge fallimentare e nel Codice della Crisi di Impresa coesisteranno.

L'art. 390 c.c.i.i., quale disposizione transitoria, prevede che le procedure pendenti alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 14/2019 (15 luglio 2022) restino disciplinate dalla legge fallimentare, anche agli effetti penali, confermando, così, l'intenzione del legislatore di non dare luogo ad alcuna abolitio criminis.

Ne consegue pertanto che ai fatti commessi dall'imprenditore dichiarato fallito prima dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 14/2019 si applicheranno le norme contenute nel r.d. n. 267/1942. Tali norme sono destinate ad esaurire la loro efficacia in modo fisiologico in quanto destinate a produrre effetti fino a quando si esauriranno i fallimenti pendenti. Per contro, ai fatti commessi dall'imprenditore in liquidazione giudiziale si applicheranno le norme contenute nel c.c.i.i.

In sintesi, gli artt. da 322 a 328 c.c.i.i. corrispondono agli artt. da 216 a 222 del r.d. n. 267/1942, e puniscono – alla stregua di quanto previsto per l'imprenditore fallito – le condotte dell'imprenditore in liquidazione giudiziale.

L'art. 221 (rubricato «Fallimento con procedimento sommario») – che prevedeva la riduzione, fino al terzo, delle pene previste nel capo, se al fallimento si applicava il procedimento sommario – non è stato riprodotto in quanto abrogato in seguito all'entrata in vigore del d.lgs. n. 5/2006.

Gli artt. 329-340 c.c.i.i. riproducono gli artt. 223-234 della l. fall.

L'art. 235 della l. fall. (rubricato «Omessa trasmissione dell'elenco dei protesti cambiari») non è stato reinserito in quanto la disposizione – già modificata dall'art. 48 della l. n. 689/1981 – è stata depenalizzata dall'art. 1, comma 1, lett. c) della l. n. 561/1993, che ha sostituito la sanzione originaria dell'ammenda con la sanzione amministrativa, successivamente abrogata dal 1° luglio 1998 con l'entrata in vigore del d.lgs. n. 58/1998.

Gli artt. 341-343 c.c.i.i. riproducono disposizioni già previste dalla precedente normativa in quanto corrispondono sostanzialmente agli artt. 236, 236-bis e 237 del r.d. n. 267/1942, sia riguardo alle tipologie delle fattispecie criminose sia riguardo all'entità delle sanzioni previste per i soggetti interessati dalle violazioni in esame.

Con le disposizioni de quibus – di natura precettiva – il legislatore ha intesto coordinare la disciplina previgente con quella innovativa prevista dalla Riforma, preservando l'impianto delle norme incriminatrici preesistenti ed estendendo le ipotesi delittuose in esse contemplate ai nuovi soggetti partecipanti alle procedure concorsuali.

Le disposizioni contenute negli artt. 344-345 c.c.i.i.riproducono le fattispecie di reato previste dall'art. 16 della l. n. 3/2012, introducendo alcune significative novità:

– l'art. 344 – oltre che punire le condotte di falso commesse al fine di ottenere l'accesso alle relative procedure, compreso il cd. concordato minore e di liquidazione controllata del sovraindebitamento – al comma 2 estende le pene previste al comma 1 al debitore incipiente che accede alla procedura di esdebitazione; al comma 3 punisce il componente dell'organismo di composizione della crisi che nella relazione di cui agli artt. 68, 76, 268 e 283 rende false attestazioni in ordine alla veridicità dei dati contenuti nella proposta di cui agli artt. 67 e 75, nella domanda di apertura della liquidazione controllata o nella domanda di esdebitazione di cui all'art. 283; al comma 4 estende le pene previste dal comma 2 al componente dell'organismo di composizione della crisi che cagiona un danno ai creditori omettendo o rifiutando senza giustificato motivo un atto del suo ufficio;

– l'art. 345, che puniva al comma 1 il componente dell'organismo di composizione della crisi che nell'attestazione di cui all'art. 19, comma 3 esponeva informazioni false ovvero ometteva di riferire informazioni rilevanti in ordine alla veridicità dei dati contenuti nel piano o nei documenti allegati, nel riprodurre sostanzialmente il contenuto dell'art. 16, comma 3 della l. n. 3/2012, forniva una descrizione più precisa della condotta incriminata indicando specificamente il contenuto delle informazioni rilevanti la cui omissione integra gli estremi del reato; è stato abrogato dal d.lgs. n. 83/2022.

Gli artt. 346 e 347 c.c.i.i. traspongono, rispettivamente, il contenuto degli artt. 238 e 240 del r.d. n. 267/1942: al commissario giudiziale, con compiti di vigilanza sulla procedura, si sostituisce il liquidatore giudiziale che ha poteri di rappresentanza, esercitando tutte le azioni strumentali (inclusa l'azione di risarcimento dei danni delle parti civili costituite) funzionali alla liquidazione del debitore ed al soddisfacimento dei creditori.

L'art. 239 del r.d. n. 267/1942 (rubricato: «Mandato di cattura») non è stato riprodotto, in quanto abrogato dall'art. unico della l. n. 1217/1964.

Le novità, in ambito penalistico, introdotte dal decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14

La legge delega n. 155/2017, come evidenziato nella Relazione illustrativa più volte citata, esclude la bancarotta dal campo di intervento del decreto attuativo: «... per quanto si sia in presenza di una rivisitazione generale della materia cui è sotteso un diverso modo di porsi del legislatore di fronte al fenomeno dell'insolvenza, manca ogni indicazione volta alla riformulazione delle disposizioni incriminatrici della legge fallimentare». Tuttavia, l'art. 1 della suddetta legge prevede che nell'esercizio della delega il Governo curi «il coordinamento con le disposizioni vigenti, anche modificando la formulazione e la collocazione delle norme non direttamente investite dai princìpi e dai criteri direttivi di delega, in modo di renderle ad essi conformi e adottando le opportune disposizioni transitorie».

L'art. 349 c.c.i.i., rubricato «Abolizione dei termini fallimento e fallito», in attuazione della l. delega, stabilisce che nelle disposizioni normative vigenti i termini «fallimento», «procedura fallimentare» e «fallito» nonché le espressioni derivate dai suddetti termini debbano intendersi sostituite con le espressioni «liquidazione giudiziale», «procedura di liquidazione giudiziale», «debitore assoggettato a liquidazione giudiziale» e loro derivati.

La ratio della innovazione lessicale risiede nell'esigenza di depurare la categoria concettuale di ogni significato negativo (fallere, in latino, significa infatti «ingannare» ovvero «sfuggire»).

Nella Relazione illustrativa, inoltre, si precisa che nonostante la sostituzione terminologica, risulta garantita la continuità normativa, non contenendo la l. delega disposizioni che autorizzassero modifiche di natura sostanziale alle figure incriminatrici già previste ed al trattamento sanzionatorio.

Ancora, un'ulteriore modifica è riconducibile all'intervento sulla pena accessoria, conformemente alla sentenza della Corte cost. n. 222/2018, stabilita non in misura fissa (per la durata di) ma fino a dieci anni.

Possono avere risvolti sul piano penalistico alcune modifiche introdotte dal d.lgs. n. 14/2019 in ordine ai soggetti destinatari della procedura di liquidazione giudiziale, essendo il reato di bancarotta un reato proprio in cui il reo è un soggetto «qualificato»: l'imprenditore dichiarato fallito (nella bancarotta propria, cfr. Cass. pen. V, n. 37190/2019) ovvero l'amministratore della Società dichiarata fallita (nella bancarotta impropria o societaria).

L'identificazione dei soggetti destinatari della procedura di liquidazione giudiziale avviene sulla base di quanto previsto dagli artt. 121 e 2 c.c.i.i.

Infatti, l'art. 121 c.c.i.i. (rubricato: «Presupposti della liquidazione giudiziale», al cui commento si rinvia) prevede che «1. Le disposizioni sulla liquidazione giudiziale si applicano agli imprenditori commerciali che non dimostrino il possesso congiunto dei requisiti di cui all'art. 2, comma 1, lett. d), e che siano in stato di insolvenza».

L'art. 2 c.c.i.i. (rubricato «Definizioni», al cui commento si rinvia), al comma 1, lett. d) definisce «impresa minore» l'impresa che presenta congiuntamente i seguenti requisiti:

1. un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad Euro trecentomila nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di apertura della liquidazione giudiziale o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore;

2. ricavi, in qualunque modo essi risultino, per un ammontare complessivo annuo non superiore ad Euro duecentomila nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell'istanza di apertura della liquidazione giudiziale o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore;

3. un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad Euro cinquecentomila; i predetti valori possono essere aggiornati ogni tre anni con decreto del Ministro della giustizia adottato a norma dell'art. 348».

Sono escluse, quindi, dalla procedura di liquidazione giudiziale sia le imprese agricole sia le imprese minori, assoggettate alla procedura semplificata di liquidazione controllata del sovraindebitamento.

Essendo il reato di bancarotta un reato proprio, che può essere commesso soltanto da un imprenditore «qualificato», si reputa che le modifiche relative ai soggetti nei confronti dei quali possa essere aperta la procedura di liquidazione giudiziale (tra i quali emergono, ictu oculi, le disposizioni relative alla soglia costituita dai ricavi, non più lordi) possano avere delle refluenze sotto un profilo penalistico.

Tuttavia, poiché il giudice penale non può sindacare né il presupposto oggettivo dello stato di insolvenza né quello relativo alle soglie di fallibilità, l'ampiezza della portata innovativa dipenderà specificamente dal modo in cui le nuove disposizioni saranno interpretate sul piano civilistico.

Altra disposizione di natura civilista che produce dei riflessi sul piano penalistico è contenuta nell'art. 290 c.c.i.i. (rubricato: «Azioni di inefficacia tra imprese del gruppo», al cui commento si rinvia).

È noto, infatti, che si è posto il problema della configurabilità del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale impropria rispetto alle condotte distrattive nelle operazioni intra-gruppo e, altresì alla luce dell'espresso riconoscimento del valore giuridico del gruppo di imprese (attuato con il d.lgs. n. 6/2003), che la giurisprudenza di legittimità lo ha risolto positivamente, anche tra enti che abbiano differente natura giuridica, purché tra loro si instauri un rapporto di direzione nonché coordinamento e controllo delle rispettive attività facenti capo al soggetto giuridico controllante.

Aspetto intimamente connesso a siffatta forma di responsabilità riguarda la possibilità di estendere anche ai reati fallimentari, l'efficacia esimente dei vantaggi compensativi, prevista soltanto per il reato di infedeltà patrimoniale di cui all'art. 2634 c.c.

L'art. 290 c.c.i.i. menzionato risolve positivamente la questione in quanto, nel richiamare espressamente l'art. 2497, comma 1 c.c. – che esclude la responsabilità laddove il danno risulti mancante alla luce del risultato complessivo dell'attività di direzione e coordinamento ovvero integralmente eliminato anche a seguito di operazioni a ciò dirette – impone che nel valutare la dannosità di una operazione intra-gruppo si tenga conto degli eventuali «vantaggi compensativi».

Infine, ulteriori refluenze sul piano penalistico possono derivare dalle disposizioni che hanno modificato gli obblighi degli amministratori (cfr. art. 375 c.c.i.i., rubricato «Assetti organizzativi dell'impresa» al cui commento si rinvia), nonché dalla previsione di obblighi di segnalazione per gli organi di controllo societari con l'introduzione di una causa di esonero della responsabilità solidale.

L'introduzione di nuovi obblighi in capo all'imprenditore (di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile al fine di favorire l'emersione tempestiva della crisi ovvero di attivarsi senza indugio per l'adozione ed attuazione di uno degli strumenti previsti dall'ordinamento per il superamento della crisi ed il recupero della continuità aziendale) estende i contenuti delle posizioni di garanzia e, conseguentemente, le ipotesi di concorso nei delitti di bancarotta in forma omissiva.

Analogamente, l'obbligo di segnalazione, posto a carico degli organi di controllo societari (ossia di verificare che l'organo amministrativo valuti costantemente, assumendo le conseguenti idonee iniziative, se l'assetto organizzativo dell'impresa è adeguato, se sussiste l'equilibrio economico finanziario e quale è il prevedibile andamento della gestione, nonché di segnalare all'organo amministrativo l'esistenza di fondati indizi della crisi), in modo del tutto speculare rispetto a quanto previsto per gli amministratori, è suscettibile di ampliare i contenuti della posizione di garanzia con riferimento ai sindaci, con conseguente dilatazione delle ipotesi di concorso ai sensi dell'art. 40 c.p.

Natura giuridica della sentenza di apertura della liquidazione giudiziale e i limiti del sindacato del giudice penale

Con la sent. Cass. pen., n. 13910/2017, cd. «Santoro», la Corte di Cassazione, mutando il consolidato orientamento interpretativo, in adesione all'opinione della prevalente dottrina, ha affermato che la dichiarazione di fallimento (oggi di apertura della liquidazione giudiziale) costituisce, rispetto al reato di bancarotta prefallimentare, condizione obiettiva (estrinseca) di punibilità, ai sensi dell'art. 44 c.p.; determina il dies a quo della prescrizione e vale a radicare la competenza territoriale (Cfr. anche, conforme, Cass. pen. V, n. 4400/2017; Cass. pen. V, n. 53184/2017; da ultimo Cass. pen. V, n. 2899/2018).

È noto che in dottrina si distingue tra le condizioni obiettive proprie (o intrinseche) e condizioni obiettive improprie (estrinseche).

Le condizioni obiettive proprie consistono in fattori portatori di un interesse «solo formalmente estraneo» rispetto al reato ma «sostanzialmente del medesimo tipo o comunque prossimo rispetto al reato stesso»; le condizioni obiettive improprie sono, invece, estranee alla sfera di lesività del fatto tipo e valgono a collegare il disvalore della condotta con un accadimento esterno, senza il quale non scatterebbe la scansione penale (cfr. Romano, 479).

E allora, si ritiene che la definizione della sentenza dichiarativa di apertura della liquidazione giudiziale alla stregua di una condizione obiettiva di punibilità estrinseca risponda maggiormente al sistema delineato dal legislatore, in quanto il provvedimento giudiziale non rafforza l'offensività della condotta tenuta dall'imprenditore ma – conformemente ad una valutazione di tipo politico – collega la punibilità per il reato di bancarotta al verificarsi di una condizione esterna.

Il precedente indirizzo ermeneutico, secondo cui la sentenza dichiarativa di fallimento rientrava tra gli elementi integranti la fattispecie di reato, affondava le proprie radici nella sentenza resa dalle S.U. in data 25 gennaio 1958, Mezzo, secondo la quale, a differenza delle condizioni obiettive di reato, che presuppongono un reato già strutturalmente perfetto, la sentenza dichiarativa di fallimento rappresentava una «condizione di esistenza del reato o, per meglio dire, un elemento al cui concorso è collegata l'esistenza del reato, relativamente a quei fatti commissioni od omissivi anteriori alla sua pronuncia».

Il principio era stato poi elaborato dalla giurisprudenza successiva, secondo cui la sentenza dichiarativa di fallimento, pur essendo elemento costitutivo del delitto di bancarotta, non ne rappresentava tuttavia l'evento e, pertanto, non doveva necessariamente essere collegata né al soggetto agente dal nesso psicologico (Cfr. Cass. pen. V, n. 15850/1990); né alla condotta dal nesso eziologico (cfr. Cass. pen. V, n. 36088/2006).

Ritenuta la sentenza dichiarativa di fallimento un elemento costitutivo del reato di bancarotta fraudolenta, fatti altrimenti irrilevanti sul piano penale, o comunque integranti altri reati, potevano essere considerati lesivi degli interessi dei creditori ed incidenti negativamente sul regolare svolgimento dell'attività imprenditoriale, tanto da essere specificamente perseguiti penalmente (cfr. Cass. V, n. 46182/2004).

L'orientamento interpretativo testé illustrato era stato avallato anche dalle S.U. della Corte di Cassazione (cfr. sent. Rizzoli, Cass. pen.S.U., n. 24468/2009) che, nell'affermare che il decreto di ammissione all'amministrazione controllata possedeva analoga natura e svolgeva la medesima funzione della sentenza dichiarativa di fallimento, producendo i medesimi effetti, gliene riconosceva la natura di elemento costitutivo del reato, e non di mera condizione obiettiva di punibilità, evidenziando che soltanto a seguito dell'ammissione all'amministrazione controllata determinati comportamenti si connotavano come penalmente rilevanti e pertanto la sentenza dichiarativa doveva considerarsi come un elemento normativo che, instaurando una stretta correlazione giuridica con la condotta, partecipava alla descrizione della medesima fattispecie rimanendo inserita nel suo nucleo essenziale.

In particolare, la sentenza dichiarativa di fallimento veniva considerata alla stregua di «una condizione di esistenza del reato» che ne segnava il momento consumativo, una sorta di tertium genus rispetto alla condizione obiettiva di punibilità ed all'evento del reato, potendo affermarsi «che è facoltà del legislatore inserire nella struttura dell'illecito penale elementi costitutivi estranei alla cennata dicotomia» (cfr. Cass. pen. V, n. 32031/2014).

L'utilizzo, da parte delle Sezioni Unite cd. «Mezzo», dell'espressione «condizione di esistenza del reato» manifestava «l'intento di denotare una realtà diversa da quella dell'elemento costitutivo del reato, quanto meno nel significato proprio del termine», indicando «una componente necessaria perché il fatto sia penalmente rilevante» ma, al contempo, facendo riferimento ad una categoria concettuale «distinta dai dati costitutivi della struttura essenziale del reato», ossia una «nozione di elemento costitutivo in senso assolutamente improprio» (cfr. Cass. pen. V, n. 15613/2014, nonché Cass. S.U., n. 24468/2009, cd. «Rizzoli»).

Equiparando la sentenza dichiarativa di fallimento ad un elemento costitutivo «improprio», la giurisprudenza di legittimità, al contempo, affermava che:

– ai fini della sussistenza del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, non è necessario che si configuri il nesso causale tra i fatti di distrazione ed il successivo fallimento, essendo sufficiente che l'agente abbia cagionato il depauperamento dell'impresa, destinandone le risorse ad impieghi estranei alla sua attività, con la conseguenza che, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, sono penalmente rilevanti i fatti distrattivi commessi anche nel periodo in cui l'impresa non si versava in stato di insolvenza (cfr. Cass. S.U., n. 22474/2016, cd. «Passarelli»);

– deve escludersi la sussistenza dell'elemento materiale del reato in caso di bancarotta cd. «riparata», ossia laddove la sottrazione dei beni venga annullata da un'attività di segno contrario, idonea a reintegrare il patrimonio dell'impresa prima della dichiarazione di fallimento, annullando il pregiudizio per i creditori o anche soltanto la potenzialità di un danno (cfr. Cass. pen. V, n. 52077/2014);

– non si configura l'elemento psicologico in assenza di indici di fraudolenza, ossia laddove il dolo di bancarotta non copra anche la pericolosità della condotta rispetto alla preservazione della garanzia patrimoniale dei creditori (cfr. Cass. pen. V, n. 9807/2006).

L'indirizzo ermeneutico che affermava che lo stato di insolvenza, costituendo elemento essenziale del reato, in quanto evento dello stesso, doveva porsi in rapporto causale con la condotta dell'agente e doveva essere supportato dall'elemento soggettivo (cfr. Cass. pen. V, n. 47502/2012 cd. «sentenza Corvetta») era rimasto minoritario.

La Corte di Cassazione, nella sentenza cd. «Santoro», ha ritenuto la «inadeguatezza della ricostruzione tradizionale a giustificare, anche sul piano della coerenza con il principio di responsabilità penale personale, le conclusioni raggiunte, se non a prezzo di artificiose forzature concettuali», rilevando, in particolare, le seguenti criticità:

– non è previsto nel nostro ordinamento un tertium genus rispetto agli elementi costitutivi del reato ed alle condizioni obiettive di punibilità e, pur potendo il legislatore configurare elementi costitutivi estranei alla dicotomia evento – condizione obiettiva di punibilità, tale scelta dovrebbe essere esplicita;

– l'esigenza di trovare una soluzione omogenea non poggia su alcuna base normativa, anzi, la disciplina positiva regolamenta in modo diverso le ipotesi di bancarotta fraudolenta documentale, patrimoniale e preferenziale, ovvero le plurime ipotesi di bancarotta semplice, la bancarotta pre e post fallimentare;

– ritenere la dichiarazione di fallimento come un elemento costitutivo «improprio» sarebbe in contrasto con la esclusione del nesso di causalità tra la condotta realizzatasi con l'attuazione dell'atto dispositivo ed il fallimento ovvero con la esclusione dall'elemento soggettivo del reato della rappresentazione del fallimento e della consapevolezza dello stato di insolvenza.

Inoltre, i giudici di legittimità hanno ritenuto implicitamente riconosciuta la suddetta natura nella sentenza Passarelli cit., in cui è stato affermato che la condotta si perfeziona con la distrazione e la «punibilità della stessa è subordinata alla dichiarazione di fallimento, che, ovviamente, consistendo in una pronunzia giudiziaria, si pone come evento successivo ... e comunque esterno alla condotta stessa».

Ancora, in favore della definizione della sentenza dichiarativa di fallimento come condizione obiettiva di punibilità, è stato evidenziato che:

– la dichiarazione di fallimento – finalizzata a garantire una più efficace protezione delle ragioni dei creditori – non aggrava in alcun modo l'offesa che i creditori soffrono per effetto delle condotte dell'imprenditore, di talché costituisce un evento estraneo all'offesa tipica ed alla sfera di volizione dell'agente;

– nella Relazione del Guardasigilli al r.d. n. 267/1942, la sentenza dichiarativa di fallimento era definita alla stregua di una condizione obiettiva di punibilità;

– l'argomento è coerente con la giurisprudenza della Corte Cost., secondo cui: il fatto costituente reato è, in quanto tale, «meritevole di pena», nel senso che in esso sono presenti i requisiti sufficienti per tracciare il confine tra il lecito e l'illecito e giustificare la sanzione; non è rinvenibile in tutti i «fatti meritevoli di pena» «un'esigenza effettiva di pena», di talché la punibilità del reato può essere subordinata ad elementi estranei al contenuto dell'offesa; tali elementi «condizionanti» non concorrono a definire il confine tra il lecito e l'illecito e pertanto «non devono sottostare ad un'esigenza di determinatezza in funzione di garanzia della libertà (assicurata con la previsione di un'offesa dal contenuto tipico tassativamente definito), bensì in funzione della parità di trattamento tra gli autori del fatto illecito, la cui selezione repressiva non può porsi in contrasto con il principio di uguaglianza» (cfr. Sentenza cd. «Santoro», che richiama, a sua volta, la sentenza della Corte cost. n. 247/1989).

La qualificazione giuridica della sentenza dichiarativa di fallimento come condizione di punibilità non comporta alcun effetto di rottura rispetto agli orientamenti interpretativi formatisi:

– in materia di dies a quo a partire dal quale decorre la prescrizione del reato, da individuarsi, sulla base di quanto previsto dall'art. 158, comma 2 c.p., dal giorno in cui la condizione si è verificata;

– in ordine al tempus e al locus commissi delicti, da individuarsi al momento e nel luogo ove è pronunciata la sentenza dichiarativa di fallimento, coerentemente con il risalente (e consolidato) orientamento ermeneutico secondo il quale «il momento in cui si realizzano tutte le componenti essenziali che integrano la fattispecie, ivi comprese le condizioni obiettive, pur non facenti parte del precetto, con la conseguenza che il reato stesso si consuma allorquando tutti i predetti elementi vengono realizzati e nel luogo e nel momento in cui si realizza l'ultima componente» (cfr. Cass. I, n. 888/1973).

Le considerazioni che precedono valgono soltanto per la bancarotta prefallimentare (come pure evidenziato nella sentenza cd. «Santoro», che ha ritenuto la non necessità di un paradigma omogeneo per le tutte le ipotesi di bancarotta, già diversificate sotto molteplici aspetti dalla disciplina positiva) atteso che nelle ipotesi di bancarotta post-fallimentare la dichiarazione di fallimento costituisce un presupposto della fattispecie delittuosa e pertanto deve rientrare nel fuoco del dolo.

Non può tuttavia sottacersi come l'opzione ermeneutica testé illustrata non abbia trovato integrale riscontro nelle pronunce successive della Corte di Cassazione.

Infatti, Cass. pen., n. 40477/2018, ha nuovamente rimesso in discussione la natura giuridica della sentenza dichiarativa di fallimento (oggi di apertura della liquidazione giudiziale), aderendo al tradizionale orientamento secondo cui trattasi di elemento costitutivo del reato (richiamando, a sua volta, Cass. pen. V, n. 2015/2014; V, n. 48739/2014; Cass. pen. V, n. 26548/2014; Cass. pen. I, n. 1825/2006; Cass. pen. I, n. 4859/1994, Ferrari). La Corte di Cassazione ha evidenziato, nella parte motiva della sentenza appena menzionata, come la nozione di condizione obiettiva di punibilità, ancorché «del tutto sfuggente», attenga alla «punibilità del reato» e non alla «punibilità del fatto», di talché risulta coerente con il dettato normativo ritenere che la condizione obiettiva di punibilità sia collegata alla applicabilità della pena, a fronte di un reato ontologicamente sussistente e perfetto nei suoi elementi essenziali. Nonostante il contrasto, la Corte, infine, non ha ritenuto di investire della questione le Sezioni Unite, stante la sostanziale irrilevanza del profilo nella fattispecie in esame.

Per ciò che concerne la sfera di cognizione del giudice penale in ordine alla sentenza dichiarativa di fallimento, è stato dalla giurisprudenza di legittimità chiarito come il suo sindacato non si estenda al presupposto oggettivo dello stato di insolvenza ed a quelli soggettivi inerenti alle condizioni di fallibilità dell'imprenditore commerciale (cfr. Cass. pen. S.U., n. 19601/2008, Niccoli, nonché Cass. pen. V, n. 1003/2017).

Le S.U., nella sentenza Niccoli, hanno poi precisato che la sentenza di fallimento costituisce il presupposto formale perché possano essere prese in considerazione le condotte poste in essere dall'imprenditore ante procedura e che nella struttura dei reati di bancarotta la dichiarazione di fallimento assume rilevanza nella sua natura di provvedimento giurisdizionale,» in quanto atto della giurisdizione richiamato dalla fattispecie penale «è insindacabile in sede penale» e «vincola il giudice penale (purché esistente e non revocata) come elemento della fattispecie criminosa, e non quale decisione di una questione pregiudiziale implicata dalla fattispecie». Più in generale, è stato affermato che «quando un atto giuridico è assunto quale dato della fattispecie penale (non importa se come elemento costitutivo del reato o come condizione di punibilità), esso è sindacabile dal giudice penale nei soli limiti e con gli specifici mezzi previsti dalla legge». Laddove si tratti di un provvedimento giudiziale, «il giudice penale non ha alcun potere di sindacato, dovendo limitarsi a verificare l'esistenza dell'atto e la sua validità formale». In altre parole, quando elemento della fattispecie è una sentenza, «il giudice penale non è abilitato a compiere alcuna valutazione, neppure incidentale, sulla legittimità di essa, perché le sentenze, a prescindere dalla loro definitività, hanno un valore erga omnes che può essere messo in discussione solo in via principale, con i rimedi previsti dall'ordinamento per gli errori giudiziari (e cioè con i mezzi ordinari o straordinari di impugnazione previsti dalla disciplina processuale). L'iter argomentativo della sentenza de qua conclude affermando che «lo status di fallito non rappresenta [...] una questione pregiudiziale da cui dipende la decisione sui reati di bancarotta, perché questo status è diretto effetto della sentenza dichiarativa di fallimento, che non è sindacabile dal giudice penale».

Conformemente all'arresto appena richiamato, la giurisprudenza successiva ha ribadito come il processo penale per reati fallimentari abbia ad oggetto l'offesa dell'interesse penalmente tutelato (contenuto) da parte dell'imprenditore fallito, cioè da parte di un soggetto qualificato dal giudice civile sia come «imprenditore» sia come «fallito» (presupposto). Poiché spetta soltanto al giudice civile dichiarare fallito chi riconosca come imprenditore il giudice penale non può escludere al «fallito» la qualificazione di «imprenditore» (cfr. Cass. pen. V, n. 9279/2009).

Tale impianto ermeneutico è stato successivamente ribadito, affermandosi che la sentenza di fallimento non possa essere sindacata dinanzi al giudice penale neanche per eventuali errore commessi nel procedimento che ha portato alla sua emanazione (ad esempio laddove venga dedotta la mancata notifica dell'istanza di fallimento all'amministratore in carica oppure la pronuncia della sentenza da parte di un giudice territorialmente incompetente), in quanto i vizi del provvedimento possono essere fatti valere soltanto in sede di reclamo da proporre dinanzi alla Corte d'Appello (cfr. Cass. pen., n. 10033/2017).

Il suddetto principio di diritto, inoltre, non può trovare eccezione nel caso in cui l'imputato di un reato fallimentare non fosse legittimato ad opporsi alla sentenza dichiarativa di fallimento perché ciò comporterebbe una impropria forma di impugnazione, senza alcun termine di decadenza, di una sentenza civile nell'ambito di un processo penale, destinato, invece, soltanto a valutarne le eventuali conseguenze, sul piano esclusivamente penale, e non a soppesarne la correttezza giuridica (Cfr. Cass. pen. V, n. 21920/2018).

Bene giuridico tutelato

Secondo un diffuso orientamento interpretativo, avallato sia dalla dottrina (Allegri, La tutela penale nel fallimento, 219), sia dalla giurisprudenza (cfr. Cass. pen. V, 12 novembre 1974, cd. «Mele»), i reati di bancarotta sono diretti alla tutela degli interessi patrimoniali dei creditori e quindi sono delitti contro il patrimonio.

Secondo un diverso indirizzo interpretativo (cfr. Santoriello, 1292), prima dell'apertura della procedura concorsuale, l'imprenditore può disporre liberamente dei propri beni, a prescindere dall'esistenza di obbligazioni a garanzia del soddisfacimento delle quali è vincolato il patrimonio ovvero dallo stato di insolvenza in cui può versare l'impresa (cfr. anche Cass. pen. V, del 6 giugno1998, cd. «Ranzini», in Gazz. Giur., 1998, 27). Dunque, poiché soltanto laddove venga emessa la sentenza dichiarativa del fallimento, i comportamenti tenuti dall'imprenditore possono assumere rilevanza penalistica (cfr. Cass. pen. V, 22 aprile 1998, De Bendetti), il bene giuridico tutelato è da individuarsi nel patrimonio dei creditori non uti singoli, ma da un punto di vista «collettivo», in quanto tutelati in seno alla procedura concorsuale (che disciplina le modalità di liquidazione dell'attivo e di ripartizione dell'attivo) ovvero dal processo esecutivo concorsuale (cfr. Nuvolone, Il diritto penale del fallimento e delle altre procedure concorsuali, 181 e ss.).

In ogni caso, occorre distinguere la figura dei creditori come persone offese (in senso «collettivo» ovvero «pubblicistico») dai reati fallimentari dalla figura dei creditori come persone danneggiate e, pertanto, legittimate a costituirsi parte civile nel procedimento diretto all'accertamento della responsabilità penale dell'imprenditore in liquidazione giudiziale.

La persona offesa, invero, è il titolare del bene giuridico tutelato dalla norma penale.

Cionondimeno, è legittimata a costituirsi parte civile la persona che deduce di avere subito un danno, diretto e immediato, dal reato, ovverosia il danneggiato dal reato.

In tal caso occorre ulteriormente distinguere il danno eziologicamente riconducibile alla condotta penalmente rilevante tenuta dall'imprenditore in liquidazione giudiziale dal pregiudizio che scaturisce dalla insolvenza ovvero dall'inadempimento dell'imprenditore, che dipende, in concreto, dalle modalità di svolgimento della procedura concorsuale.

Classificazione

La Bancarotta fraudolenta assume le forme di:

– bancarotta documentale, che attiene alle scritture contabili, tenute in modo da rendere complicata o impossibile la ricostruzione degli affari della Società;

– bancarotta patrimoniale, che attiene al patrimonio dell'imprenditore in liquidazione giudiziale, indebitamente depauperato o comunque sottratto alla garanzia dei creditori concorsuali;

– bancarotta preferenziale, che attiene alla violazione della par condicio creditorum, comportando il soddisfacimento di alcuni creditori in danno di altri, nel mancato rispetto delle regole stabilite dal legislatore.

Bancarotta fraudolenta documentale

In generale

La dottrina e la giurisprudenza unanimemente ritengono che il bene giuridico protetto dalla bancarotta fraudolenta documentale è costituito dall'interesse dei creditori ad una conoscenza «documentata» e «giuridicamente utile» del patrimonio del debitore, destinato al soddisfacimento delle loro pretese.

In particolare, è stato affermato che l'interesse tutelato dal delitto in parola non sia circoscritto ad una mera informazione sulle vicende patrimoniali e contabili della impresa, ma concerna una loro conoscenza documentata e giuridicamente utile; il delitto – dunque – sussiste non solo quando la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari dell'imprenditore dichiarato in liquidazione giudiziale si renda impossibile per il modo in cui le scritture contabili sono state tenute, ma anche quando gli accertamenti, da parte degli organi fallimentari, siano stati ostacolati da difficoltà superabili solo con particolare diligenza (cfr. Cass. pen. V, n. 1925/2018; nel caso di specie, per la ricostruzione delle vicende patrimoniali dell'impresa era stato necessario fare capo a fonti di documentazione esterne, nonché ad appunti del fallito, costituenti di fatto una contabilità «in nero», che avrebbero dovuto restare celati al fine di coprire il sistema di evasione di imposta e il drenaggio di risorse finanziarie verso conti correnti personali. La bancarotta era comunque stata ritenuta).

Trattasi di un reato di pericolo, di talché non è necessario che, in concreto, sia eziologicamente riconducibile alla condotta un danno.

Inoltre, sebbene in ossequio al principio del nemo tenetur se detegere, possono astrattamente ritenersi giustificate le irregolarità contabili dirette a mascherare attività distrattive, è invece configurabile il reato di bancarotta fraudolenta documentale (cfr. Cass. pen. V, n. 9746/2014) nella condotta di un ex amministratore di Società dichiarata fallita che non consegni la documentazione contabile al curatore, per evitare che la stessa venga utilizzata in suo pregiudizio in un processo penale già in corso, posto che il suddetto principio comporta la non assoggettabilità ad atti di costrizione tendenti a provocare un'auto-incriminazione, ma non anche la possibilità di violare regole di comportamento poste a tutela di interessi non legati alla pretesa punitiva.

L’oggetto materiale

L'oggetto materiale delle condotte punite è costituito dai «libri o le altre scritture contabili» dell'imprenditore, ovvero tutte le scritture – anche non obbligatorie per legge – idonee a garantire l'esatta conoscenza del patrimonio del debitore in liquidazione giudiziale.

Laddove il legislatore abbia inteso circoscrivere l'area penale della condotta alla documentazione contabile obbligatoria lo ha detto espressamente, come è avvenuto nella bancarotta documentale «semplice», nel qual caso l'oggetto materiale del reato è circoscritto ai libri o scritture contabili «prescritti dalla legge».

Tenuto conto dell'interesse tutelato dalla norma, rientrano, pertanto, nella nozione di «libri e scritture contabili»:

– non soltanto i libri e le scritture di cui all'art. 2214 c.c., ossia il libro giornale (cfr. artt. 2215 e 2216 c.c.) ed il libro degli inventari (cfr. art. 2217 c.c.) – cd. libri assolutamente obbligatori –, le altre scritture richieste dalla natura e dalle dimensioni dell'impresa – scritture relativamente obbligatorie –, e la cd. corrispondenza commerciale (gli originali delle lettere, dei telegrammi e delle fatture ricevute, le copie delle lettere, dei telegrammi e delle fatture spedite);

– ma tutti i documenti che possono contribuire alla ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari (cfr. Cass. pen., n. 44886/2015, secondo cui l'oggetto del reato può essere rappresentato da qualsiasi documento contabile relativo alla vita dell'impresa, dal quale sia possibile conoscere i tratti della sua gestione, diversamente da questo previsto per l'ipotesi di bancarotta semplice documentale, in relazione alla quale l'oggetto del reato è individuato nelle sole scritture obbligatorie, ovvero Cass. pen. V, n. 22593/2012, secondo cui integra il reato di bancarotta fraudolenta documentale il mancato rinvenimento dei partitari).

Ebbene, grava sull'imprenditore l'onere di rispettare i princìpi civilistici che regolano le modalità di tenuta delle scritture contabili, essendo le formalità contemplate dalla normativa vigente preordinate a rendere possibile la ricostruzione del patrimonio e degli affari.

In particolare, è stato affermato che la violazione del principio di continuità delle scritture (previsto dall'art. 2216 c.c.) – per il quale le operazioni devono essere annotate giorno per giorno, la tenuta della contabilità del libro giornale mese per mese, partendo da zero all'inizio di ogni mese, come se si trattasse di un periodo autonomo rispetto ai precedenti – impedendo la ricostruzione del patrimonio della Società, comporta l'integrazione del reato di bancarotta fraudolenta documentale (cfr. Cass. pen. V, n. 49593/2014).

Similmente, la Corte di Cassazione ha ritenuto che l'adozione di criteri scorretti, ossia non corrispondenti ai princìpi di tecnica contabile, nella redazione della documentazione e dei bilanci societari, attenga alla condotta materiale del delitto di bancarotta fraudolenta documentale (cfr. Cass. pen. V, n. 4652/1993).

Inoltre, poiché l'art. 322 c.c.i.i. punisce la sottrazione, distruzione e falsificazione dei libri e delle scritture che l'imprenditore in liquidazione giudiziale è obbligato a tenere secondo la normativa vigente al momento della gestione dell'impresa, al fine di consentire la ricostruzione del suo patrimonio e dei fatti gestionali a tutela del soddisfacimento degli interessi dei creditori, le disposizioni del codice civile costitutive degli obblighi contabili si pongono come elemento normativo della fattispecie e la soppressione del venire meno dell'obbligo per le s.r.l. di tenere il libro dei soci (a seguito della modifica dell'art. 2478 c.c. recata dall'art. 18 del d.l. n. 185/2008, conv. nella l. n. 2/2009) non incide sulla configurabilità del reato in relazione alle condotte tenute nel periodo precedente alla modifica normativa (cfr. Cass. pen. V, n. 26458/2015).

Ancora, l'eventuale regime tributario di contabilità semplificata alle quali aderiscono le imprese minori, non comporta l'esonero dell'imprenditore dall'obbligo di tenuta dei libri e delle scritture contabili previsto dall'art. 2214 c.c., sicché il suo inadempimento – in presenza degli altri presupposti richiesti dalla norma – può integrare gli estremi del reato di bancarotta fraudolenta documentale (cfr. Cass. pen. V, n. 52219/2014).

Per quanto concerne la durata dell'obbligo di tenuta delle scritture contabili, ci si è chiesti, in dottrina, quale rilevanza possa avere l'art. 2220 c.c., secondo cui le scritture contabili devono essere conservate per dieci anni, che decorrono dalla data dell'ultima registrazione e, in special modo, se siano punibili le manomissioni ovvero le omissioni antecedenti a tale data.

Secondo un orientamento interpretativo la risposta non può che essere positiva, estendendosi l'obbligo dell'imprenditore di rendere possibile la ricostruzione del patrimonio e degli affari della Società in ogni momento (cfr. Conti, 177).

Secondo una diversa opzione ermeneutica, quando è possibile ricostruire le voci dell'attivo e del passivo e le ragioni del dissesto, nessuna rilevanza penalistica può essere attribuita alla distruzione o sottrazione di documenti contabili antecedenti ai dieci anni (cfr. Pedrazzi, 97).

Il reato di bancarotta fraudolenta documentale, invece, non può avere ad oggetto:

– il bilancio, non rientrando quest'ultimo nella nozione di «libri» e «scritture contabili» (cfr. Cass. pen., n. 42568/2018, che richiama, a sua volta, Cass. pen., n. 47683/2016, secondo cui eventuali omissioni nei bilanci, sussistendone i presupposti, possono integrare la fattispecie di bancarotta impropria da reato societario);

– i fissati bollati rappresentativi di contratti mai stipulati, in quanto inidonei a costituire ostacolo alla ricostruzione del movimento degli affari della Società (cfr. Cass. pen., n. 36595/2009);

– i reclami dei clienti alla Consob ed il relativo registro, non trattandosi di scritture contabili rilevanti ai fini della ricostruzione del patrimonio sociale e del movimento degli affari, ma di strumenti preordinati a garantire maggiore efficacia alle attività di vigilanza (cfr. Cass. pen., n. 36595/2009);

– i libri sociali, specificamente disciplinati dall'art. 2421 c.c., che rappresentano i fatti relativi all'organizzazione interna dell'impresa e non il possibile tramite della ricostruzione del movimento degli affari, salvo che la loro falsificazione incida direttamente ed immediatamente sulla rappresentazione contabile dei fatti di gestione (cfr. Cass. pen. V, n. 34146/2019; Cass. pen. V, n. 182/2006, contra Cass. pen. V, n. 10810/1993).

Con riferimento ai libri sociali, non può essere sottaciuta l'esistenza di un contrasto interpretativo nella giurisprudenza di legittimità.

Secondo un primo orientamento, più risalente, occorre distinguere tra impresa individuale e impresa collettiva.

Nel caso di bancarotta documentale dell'imprenditore individuale, vengono in considerazione i libri e le altre scritture contabili previste dall'art. 2214 c.c.; nel caso delle Società commerciali, stante l'implicito richiamo operato dall'art. 223 l. fall., adesso 329 c.c.i.i., tramite la previsione di punibilità dei fatti di bancarotta fraudolenta commessi dagli amministratori, direttori generali e sindaci di Società dichiarate fallite, vengono in rilievo tutti quei libri che la legge rende per esse obbligatori e pertanto, in caso di Società cooperativa a responsabilità limitata, oltre che i libri e le scritture contabili di cui all'art. 2214 c.c., grazie al richiamo dell'art. 2516 c.c., anche i libri sociali obbligatori previsti dall'art. 2421 c.c. per le Società per azioni, tra i quali il libro delle adunanze e delle deliberazioni del consiglio di amministrazione (cfr. Cass. pen. V, n. 10810/1993).

Il secondo indirizzo ermeneutico, invece, ha escluso dall'oggetto materiale del delitto di bancarotta fraudolenta documentale societaria i libri sociali, specificamente disciplinati dall'art. 2421 c.c., che rappresentano i fatti relativi all'organizzazione interna dell'impresa e non il possibile tramite della ricostruzione del movimento degli affari, salvo che la loro falsificazione incida direttamente ed immediatamente sulla rappresentazione contabile dei fatti di gestione (cfr. Cass. pen. V, n. 182/2006).

L'oggetto materiale viene individuato nel compendio contabile in quanto il bene giuridico tutelato è costituito dalla tutela degli interessi creditori e della procedura, irrimediabilmente compromessi dalla alterazione della rappresentazione contabile dei dati di gestione.

Peraltro, che i «libri sociali» si distinguano e debbano autonomamente essere presi in considerazione rispetto ai «libri contabili» si evince dalla disciplina continua nel codice civile: i primi, infatti, sono regolati dall'art. 2421 c.c. e i secondi dall'art. 2214 c.c.

Non vi è ragione, pertanto, di estendere l'oggetto materiale del reato di bancarotta fraudolenta documentale ai libri sociali, strutturalmente e funzionalmente preordinati al soddisfacimento di interessi diversi, a meno che l'alterazione del vero (la sottrazione o la distruzione) non incida direttamente ed immediatamente sulla rappresentazione contabile dei fatti di gestione.

Quest'ultimo orientamento è stato ribadito dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. pen. V, n. 34146/2019, cit.) che ha manifestato adesione alla confutazione dell'argomento letterale su cui si imperniava la soluzione opposta, atteso che il rinvio contenuto nell'art. 223, comma 1 l. fall. (oggi trasfuso nell'art. 329, comma 1 c.c.i.i.), «ad alcuno dei fatti previsti dall'art. 216 l. fall.» (oggi 322 c.c.i.i.) non comporta alcuna distinzione con riferimento all'oggetto materiale della fattispecie criminosa, con la conseguenza che «il profilo dirimente è rappresentato non dalla natura individuale o collettiva dell'impresa ma dalla incidenza in concreto della condotta sulla ricostruzione del patrimonio e degli affari».

Rispetto all'oggetto materiale del reato, la Suprema Corte ha stabilito che «occorre distinguere tra impresa individuale e impresa collettiva, posto che, nel primo caso, vengono in considerazione i libri o le altre scritture contabili previste dall'art. 2214 c.c., mentre, nel secondo, assumono rilevanza tutti i libri la cui tenuta è obbligatoria ex lege per le società commerciali» (Cass. pen. V, n. 37077/2022).

Le singole condotte

La bancarotta fraudolenta documentale si articola in diverse condotte:

– la sottrazione, distruzione o falsificazione (in tutto o in parte) dei libri e delle altre scritture contabili (cd. «bancarotta fraudolenta documentale specifica»);

– la loro tenuta in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari (cd. «bancarotta fraudolenta documentale generale»).

La sottrazione consiste nell'occultamento dei libri o delle scritture contabili ovvero in una manovra tale da comportare la indisponibilità (in tutto o in parte) dei libri o delle scritture contabili da parte degli organi della procedura concorsuale. Si configura anche in ipotesi di occultamento delle scritture anche sotto forma della omessa tenuta (cfr. Cass. pen. V, n. 43966/2017) ovvero nell'ipotesi in cui la documentazione contabile sia portata in luoghi che ne escludano ragionevolmente il ritrovamento o comunque in luoghi diversi da quelli di abituale conservazione.

La distruzione implica la eliminazione materiale (in tutto o in parte) dei libri o delle scritture contabili; si configura anche nell'ipotesi in cui i libri e le scritture contabili siano resi indecifrabili.

La falsificazione costituisce un falso materiale o ideologico.

Riguardo, infatti, alla suddetta condotta è stato affermato (cfr. Cass. pen. IV, n. 3951/1992) che la ratio della norma incriminatrice è quella di agevolare lo svolgimento della procedura concorsuale sanzionando le manipolazioni delle scritture che impediscono o intralciano una facile ricostruzione del patrimonio dell'imprenditore dichiarato in liquidazione giudiziale o del movimento dei suoi affari. La procedura concorsuale, peraltro, viene ostacolata non soltanto dall'esistenza di falsità materiali, ma anche da falsità ideologiche contenute nelle scritture contabili. Quindi, ai fini della sussistenza del reato de quo hanno rilevanza sia le falsificazioni relative alla formazione delle scritture contabili (falso materiale) sia quelle aventi ad oggetto il contenuto di esse (falso ideologico).

Inoltre, la fattispecie di reato in esame è integrata nella ipotesi in commento anche in caso di parziale omissione del dovere annotativo, rientrando nell'ambito della norma incriminatrice la condotta di falsificazione dei dati realizzata attraverso la rappresentazione dell'evento economico in modo incompleto e distorto in ordine alla gestione dell'impresa ed agli esiti della stessa (cfr. Cass. pen. V, n. 3114/2010).

La bancarotta fraudolenta documentale cd. «generale» si configura non soltanto quando la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari del fallito si renda impossibile per il modo in cui le scritture contabili siano tenute, ma anche quando gli accertamenti da parte degli organi fallimentari, siano ostacolati da difficoltà superabili soltanto con particolare dirigenza (cfr. Cass. pen., n. 1925/2018).

Sul punto, è stato rilevato che «integra il delitto di bancarotta fraudolenta documentale la tenuta di un registro di magazzino virtuale che, attraverso la creazione di una rappresentazione contabile e documentale alternativa, impedisca la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari della società, ovvero comunque ostacoli gli accertamenti degli organi fallimentari con difficoltà superabili solo con particolare diligenza» (Cass. pen. V, n. 46896/2023).

Inoltre, le condotte di mancata consegna ovvero di sottrazione, distruzione od omessa tenuta dall'inizio della documentazione contabile sono equivalenti, con la conseguenza che non è necessario accertare quale di queste ipotesi in concreto si sia verificate se comunque è certa la sussistenza di una disse ed è acquisita la prova in capo all'imprenditore dello scopo di recare pregiudizio ai creditori (cfr. Cass. pen. V, n. 47923/2014).

Ancora, la commissione di una pluralità di condotte, distinte sotto il profilo naturalistico e materiale, ma aventi tutte ad oggetto le scritture contabili obbligatorie e la loro funzione di veridica rappresentazione della realtà finanziaria, economica ed operativa dell'impresa, dà luogo ad un'unica e complessa azione penalmente rilevante e pertanto deve escludersi la sussistenza degli estremi della circostanza aggravante prevista dall'art. 219 l. fall., oggi 326 c.c.i.i. (cfr. Cass. pen. I, n. 18148/2014).

In ultimo, è stato statuito che «integra il reato di bancarotta fraudolenta documentale l'omessa tenuta della contabilità anche se relativa alla fase finale della vita dell'impresa e nonostante vi sia stata la consegna di tutta la documentazione al curatore, non potendo trasferirsi su quest'ultimo l'obbligo gravante ex lege sull'amministratore» (Cass. pen., n. 39808/2022).

Quanto al rapporto tra le diverse ipotesi delittuose contemplate (sottrazione, distruzione o falsificazione e cd. bancarotta generale), la giurisprudenza di legittimità ha evidenziato che le stesse sono alternative e, poiché ciascuna condotta è idonea ad integrare il delitto in questione, laddove le fattispecie siano tutte contestate, accertata la responsabilità in ordine alla tenuta della contabilità in modo da rendere impossibile la ricostruzione del movimento degli affari e del patrimonio della fallita (che richiede il dolo generico), diviene superfluo accertare il dolo specifico richiesto per la condotta di sottrazione o distruzione dei libri e delle altre scritture contabili (cfr. Cass. pen. V, n. 43977/2017).

L’elemento psicologico

L'elemento soggettivo del reato di bancarotta fraudolenta documentale si atteggia diversamente a seconda delle differenti tipologie di condotta.

La bancarotta fraudolenta documentale cd. «specifica» (sottrazione, distruzione o falsificazione delle scritture o dei libri contabili) richiede il dolo specifico, ossia lo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto ovvero di recare pregiudizio ai creditori.

La bancarotta fraudolenta documentale cd. «generale» (tenuta dei libri e delle scritture contabili di guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio dell'imprenditore e degli affari dell'impresa) è integrata, invece, in presenza del dolo generico, ossia in presenza della consapevolezza nell'agente che la confusa tenuta della contabilità potrà rendere impossibile la ricostruzione delle vicende del patrimonio, a prescindere dello scopo perseguito.

Recentissima giurisprudenza ha affermato, in materia di bancarotta fraudolenta documentale con dolo specifico, che «per omessa tenuta della contabilità interna, lo scopo di recare danno ai creditori impedendo la ricostruzione dei fatti gestionali può essere desunto dalla complessiva ricostruzione della vicenda e dalle circostanze del fatto che ne caratterizzano la valenza fraudolenta colorando di specificità l'elemento soggettivo, che, pertanto, può essere ricostruito sull'attitudine del dato a evidenziare la finalizzazione del comportamento omissivo all'occultamento delle vicende gestionali» (Cass. pen. V, n. 10968/2023).

Ancora, è stato osservato che «in tema di bancarotta fraudolenta documentale per omessa tenuta della contabilità interna, è configurabile il concorso di persone nel reato a condizione che almeno uno dei concorrenti – non necessariamente l'esecutore materiale – agisca animato dal dolo specifico di arrecare pregiudizio ai creditori e che gli altri concorrenti siano consapevoli di tale intenzione» (Cass. pen. V, n. 27688/2024).

La bancarotta fraudolenta documentale cd. «generale» (tenuta dei libri e delle scritture contabili di guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio dell'imprenditore e degli affari dell'impresa) è integrata, invece, in presenza del dolo generico, ossia in presenza della consapevolezza nell'agente che la confusa tenuta della contabilità potrà rendere impossibile la ricostruzione delle vicende del patrimonio, non essendo necessaria la specifica volontà di impedire quella ricostruzione (cfr. Cass. pen. V, n. 5264/2013).

In altre parole, occorre l'intenzione di impedire la conoscenza relativa al patrimonio e al movimento degli affari, ma non anche l'intenzione di recare pregiudizio ai creditori e neanche la rappresentazione di tale pregiudizio (cfr., in parte motiva, Cass. pen. V, n. 24328/2005).

Sul piano pratico, è stato evidenziato come gli indici di fraudolenza della condotta di irregolare tenuta delle scritture contabili, da accertare in modo rigoroso, possono desumersi dall'intenzione di celare lo scopo di danneggiare i creditori (animus nocendi) ovvero di procurarsi un vantaggio (animus lucrandi), essendo sovente la oggettiva impossibilità di procedere alla ricostruzione patrimoniale e finanziaria della Società funzionale alla dissimulazione o all'occultamento di atti depauperativi del patrimonio sociale (cfr., in parte motiva, Cass. pen. V, n. 26613/2019).

A proposito di condotte fattuali dalle quale desumere la sussistenza, in modo inequivoco, di indici di fraudolenza, è stato pure rimarcato che «la tardiva esibizione, nel corso dell'istruttoria dibattimentale, dei libri contabili non è idonea a surrogare gli obblighi di deposito della documentazione contabile che gravano sull'amministratore sia nella fase prefallimentare, sia in quella immediatamente successiva alla comunicazione della sentenza dichiarativa di fallimento, ma piuttosto avvalora e corrobora quegli indici di fraudolenza rilevanti per l'accertamento della sussistenza del reato» (Cass. pen. V, n. 14391/2024).

Con riferimento alla prova del dolo generico, è stata ritenuta illegittima l'affermazione di responsabilità dell'amministratore che faccia derivare l'esistenza dell'elemento soggettivo del reato dal solo fatto, costituente l'elemento materiale del reato, che lo stato delle scritture sia tale da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari: laddove la omessa tenuta della contabilità sia contenuta in limiti temporali piuttosto ristretti, è stata evidenziata la necessità di verificare se l'imprenditore abbia avuto la coscienza e volontà di realizzare detta oggettiva impossibilità oppure abbia semplicemente trascurato la regolare tenuta delle scritture, senza por mente alle conseguenze di tale condotta, nel qual caso si configura l'atteggiamento psicologico del reato di bancarotta semplice (cfr. Cass. pen. V, n. 172/2006).

Sempre sul piano probatorio, è stato evidenziato che il dolo generico può essere desunto:

– con metodo logico inferenziale, dalle modalità della condotta e non può essere dedotto dalla circostanza che l'imprenditore si sia reso irreperibile dopo il fallimento, costituendo detta condotta un posterius rispetto al fatto reato (Cfr. Cass. pen. V, n. 26613/2019); in merito, di segno contrario appare la più recente pronuncia che ha stabilito che «lo scopo di recare pregiudizio ai creditori può essere ricavato anche dall'irreperibilità dell'amministratore, a condizione che ad essa si accompagnino ulteriori indici di fraudolenza, quali il passivo rilevante e la distrazione dei beni aziendali» (Cass. pen. V, n. 2228/2023).

– «con metodo logico-presuntivo, dall'accertata responsabilità dell'imputato per fatti di bancarotta fraudolenta patrimoniale, in quanto la condotta di irregolare tenuta dei libri o delle altre scritture contabili, che rappresenta l'evento fenomenico dal cui verificarsi dipende l'integrazione dell'elemento oggettivo del reato, è di regola funzionale all'occultamento o alla dissimulazione di atti depauperativi del patrimonio sociale» (Cass. pen. V, n. 33575/2022).

Ancora, va evidenziato l'orientamento interpretativo, secondo cui: «In tema di bancarotta fraudolenta documentale cd. «generica», per la sussistenza del dolo dell'amministratore solo formale non occorre che questi si sia rappresentato ed abbia voluto gli specifici interventi da altri realizzati nella contabilità volti ad impedire o a rendere più difficoltosa la ricostruzione degli affari della fallita, ma è sufficiente che l'abdicazione agli obblighi da cui è gravato sia accompagnata dalla rappresentazione della significativa possibilità dell'alterazione fraudolenta della contabilità e dal mancato esercizio dei poteri-doveri di vigilanza e controllo che gli competono» (cfr. Cass. pen. V, n. 44666/2021).

Infine, in merito a singole condotte, la Suprema Corte ha pure statuito che «la parziale omissione del dovere annotativo, integrante la fattispecie di cui alla seconda ipotesi dell'art. 216, comma 1, n. 2, legge fall., è punita a titolo di dolo generico, costituito dalla coscienza e volontà della irregolare tenuta delle scritture con la consapevolezza che ciò renda difficoltosa o impossibile la ricostruzione delle vicende patrimoniali dell'impresa» (Cass. pen. V, n. 15473/2023).

Bancarotta fraudolenta patrimoniale

In generale

Il bene giuridico tutelato è costituito dal patrimonio dei creditori sociali, ossia l'integrità del patrimonio nella sua peculiare funzione di garanzia dei creditori e l'offensività del reato è contraddistinta dal pericolo che, ove per qualsiasi ragione si dia luogo ad una procedura concorsuale, l'esito della stessa venga condizionato da atti distrattivi che abbiano comunque ridotto il patrimonio disponibile (cfr. Cass. pen. V, n. 17819/2017).

In particolare, la fattispecie criminosa in oggetto configura un reato di pericolo concreto, in quanto l'atto di depauperamento, incidendo negativamente sulla consistenza del patrimonio sociale, deve essere idoneo a creare un pericolo per il soddisfacimento delle ragioni creditorie, che deve permanere fino al tempo che precede l'apertura della procedura fallimentare (cfr. Cass. pen. V, n. 50081/2017, che cita, a sua volta, Cass. pen. V, n. 17189/2017).

In altri termini, l'offesa provocata dal reato, «non può ridursi al mero impoverimento dell'asse patrimoniale dell'impresa, ma si restringe alla diminuzione della consistenza patrimoniale idonea a danneggiare le aspettative dei creditori» (cfr. Cass. pen. V, n. 38396/2017, laddove statuisce che « ... l'offensività della condotta è limitata ai fatti che creano un pericolo concreto, ossia allorquando possa affermarsi che la diminuzione della consistenza patrimoniale comporta uno squilibrio tra attività e passività, risultando pertanto, l'atto depauperativo idoneo a creare un vulnus all'integrità della garanzia dei creditori in caso di apertura della procedura concorsuale ...»; essa richiama, in parte motiva, Cass. pen., n. 16388/2011, Barbato).

Specularmente, è stato affermato che, in tema di reati fallimentari, non integra il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione il finanziamento concesso al socio e da questi restituito in epoca anteriore al fallimento, in quanto la distrazione costitutiva del delitto di bancarotta si ha solo quando la diminuzione della consistenza patrimoniale comporti uno squilibrio tra attività e passività, capace di porre concretamente in pericolo l'interesse protetto e cioè le ragioni della massa dei creditori ed il momento cui fare riferimento per verificare la consumazione dell'offesa è quello della dichiarazione giudiziale di fallimento e non già quello in cui sia stato commesso l'atto, in ipotesi, anti-doveroso (cfr. Cass. pen. V, n. 39043/2007).

L’oggetto materiale

Avuto riguardo al bene giuridico tutelato dalla norma, l'oggetto materiale non può che essere costituito dai beni dell'imprenditore, di natura patrimoniale, idonei ad assolvere la funzione di garanzia delle ragioni dei creditori sociali e quindi beni su cui l'imprenditore vanta il diritto dominicale o altro diritto reale ovvero diritti su beni immateriali (diritti sulle opere dell'ingegno, di privativa industriale, invenzioni, marchi, Know-how), diritti di credito e qualsiasi altro diritto che presenti un contenuto patrimoniale.

Ad esempio, è stato affermato dalla giurisprudenza di legittimità che il depauperamento apprezzabile ai fini della configurazione del reato de quo va inteso come riferito ad una nozione giuridica di patrimonio in senso lato, comprensivo cioè non soltanto dei beni materiali ma anche di entità immateriali fra cui rientrano anche le ragioni di credito che avrebbero dovuto concorrere alla formazione dell'attivo del compendio patrimoniale, ossia la mancata riscossione di una parte del credito (cfr. Cass. pen. V, n. 32469/2013).

Ancora, integra la distrazione, costitutiva del delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale, il trasferimento senza alcun corrispettivo dei diritti di utilizzazione di un brevetto dal patrimonio della Società fallita, in coincidenza temporale con le prime sofferenze economiche, ad altra Società che avvii l'attività di produzione del bene brevettato, possibile in quanto vi sia trasferimento del compendio di conoscenze tecniche, già di per sé autonomo elemento patrimoniale suscettibile di utilizzazione economica (cfr. Cass. pen. V, n. 3489/2008).

Potendo costituire oggetto di distrazione non soltanto i beni in proprietà del soggetto posto in liquidazione, ma anche tutte le componenti attive del suo patrimonio, ivi inclusi i diritti reali e personali di godimento, rientra nella fattispecie incriminatrice la condotta con la quale l'accipiens distragga i beni consegnatigli a seguito della conclusione di un contratto estimatorio (cfr. Cass. pen. V, n. 38434/2019).

In dottrina e in giurisprudenza si è a lungo discusso sulla possibilità di annoverare l'avviamento tra i beni dell'imprenditore oggetto del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale.

Secondo un primo orientamento, l'avviamento, i rapporti di lavoro e la tecnologia costituiscono beni economicamente apprezzabili e, come tali, possono essere oggetto di bancarotta per distrazione. Nel concetto di beni, agli effetti dell'art. 322 c.c.i.i. (già art. 216 l. fall.), rientrano infatti tutti gli elementi del patrimonio dell'imprenditore, compresi non soltanto i beni suscettibili di utilizzazione immediata, ma anche i beni strumentali e persino quelli futuri (cfr. Cass. pen. V, n. 8598/1982).

Secondo un diverso indirizzo interpretativo, «in assenza di individuazione di un rapporto contrattuale già definito e trasferito, la capacità di fare impresa, raggiunta in concreto dall'agente per le sue personali capacità professionali, non è, di per sé, e per effetto di autonome scelte di clienti, idonea ad integrare l'elemento oggettivo del reato in contestazione, poiché, a tacer d'altro, non sarebbe suscettibile di determinare un corretto e quantificabile depauperamento del patrimonio della Società a danno dei creditori (cfr., in parte motiva, Cass. pen. V, n. 26542/2014).

Per contro, l'avviamento commerciale dell'azienda è suscettibile di distrazione allorquando oggetto di disposizione sua anche l'azienda stessa, contestualmente alla medesima o, quantomeno, ai fattori aziendali che dànno luogo all'avviamento. In merito, va osservato che se con «avviamento commerciale» si intende – di modo succinto – la «capacità» di profitto di un'azienda (rectius la capacità di produrre sovraredditi) e il suo «valore» si identifica con il plusvalore proprio dell'azienda avviata, non è dubitabile che esso non rappresenti per l'imprenditore una mera aspettativa di fatto, ma rappresenti a tutti gli effetti un «valore», al pari dell'azienda che lo incorpora.

In merito, dottrina e giurisprudenza civile appaio concordi, sulla scorta di plurimi indici positivi. Basti pensare alla l. n. 392/1978, art. 34, che, in tema di cessazione del rapporto di locazione di immobili commerciali, prevede a carico del locatore la prestazione di una indennità in favore del conduttore proprio in ragione della perdita dell'avviamento o al d.P.R. n. 131/1986, art. 51, comma 4, il quale, ai fini del calcolo dell'imposta di registro sugli atti che hanno ad oggetto aziende, assume a base imponibile il valore dei beni aziendali ricomprendendovi espressamente anche l'avviamento. Ed ancora occorre tener conto degli artt. 2424 e 2426 c.c., che, rispettivamente, considerano l'avviamento «derivativo» una immobilizzazione immateriale e ne consentono l'appostazione nello stato patrimoniale del bilancio nei limiti del costo sostenuto per la sua acquisizione. È sì vero che analoga disposizione non è stata prevista anche per l'avviamento «originario», ma ciò dipende dalla natura del bilancio – che misura l'utile effettivamente realizzato, nel mentre la valutazione dell'avviamento originario comporterebbe l'anticipazione di quelli futuri conseguibili in funzione dell'espansione e del consolidamento dei fattori che lo generano – e non significa che quest'ultimo non sia economicamente valutabile e che venga di fatto valutato nel momento in cui l'azienda sia oggetto di cessione o comunque cessi il suo esercizio (si pensi, ad esempio, al caso della morte del socio di Società di persone, in relazione al quale la giurisprudenza civile ritiene che per il calcolo della liquidazione della quota in favore degli eredi debba tenersi conto della effettiva consistenza economica dell'azienda sociale all'epoca dello scioglimento del rapporto compreso, per l'appunto, anche l'avviamento che nella fattispecie è da intendersi come quello «originario»: I. n. 3671/2001). In quanto autonoma componente del valore dell'azienda, dunque, l'avviamento presenta una indubbia natura patrimoniale ed è suscettibile di quantificazione economica, ma non per questo può costituire oggetto di autonoma disposizione, risultando inscindibile dall'azienda medesima. Ne consegue che – come affermato dalla sentenza Franceschini (sopra citata, n.d.r.) – non è possibile configurare la distrazione dell'avviamento commerciale dell'azienda oggetto dell'impresa successivamente fallita se contestualmente non sia stata oggetto di disposizione anche l'azienda medesima o quantomeno quei fattori aziendali in grado di generare l'avviamento. Ma nel caso di passaggio di mano dell'azienda per una contropartita che non remuneri adeguatamente il suo avviamento non v'è ragione – come ritenuto dalla «sentenza Marcucci» – per negare che quest'ultimo possa anche da solo rappresentare l'oggetto materiale della distrazione, atteso che la nozione di «bene» accolta già dalla l. fall., art. 216 nonché dall'attuale art. 322 c.c.i.i., si estende a tutti gli elementi del patrimonio dell'impresa, poiché l'oggetto del reato è costituito dal complesso dei rapporti giuridici economicamente valutabili che fanno capo all'imprenditore e che concorrono a costituire la garanzia patrimoniale dei creditori (Cass. pen. V, n. 67/1985, Ortolani). Dunque, una volta stabilito che l'avviamento ha una intrinseca natura patrimoniale ed è suscettibile di valutazione economica, il suo essere una «qualità» dell'azienda non ne pregiudica la vocazione a costituire l'oggetto materiale della bancarotta, quantomeno nei termini descritti.

Quest'ultimo orientamento è stato ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, che ha affermato come non sia suscettibile di distrazione l'avviamento commerciale dell'azienda se, contestualmente, non sia stata oggetto di disposizione anche l'azienda medesima o quanto meno i fattori aziendali in grado di generare l'avviamento ed ha ritenuto, in particolare, ritenuto configurabile il reato di bancarotta per distrazione dell'avviamento in un'ipotesi in cui l'imputato aveva di fatto trasferito alla Società della figlia l'azienda con tutti i suoi elementi positivi – clientela, locali, autorizzazione di somministrazione, attrezzature ecc. – determinanti l'avviamento (cfr. Cass. pen. V, n. 5357/2017).

Altra questione oggetto di interesse attiene alla sussumibilità, nell'alveo di applicazione della norma in commento, dei beni dei quali l'imprenditore abbia un possesso precario.

In generale, è stato affermato (cfr. Cass. pen. V, n. 5423/1997 e, successivamente, Cass. pen. V, n. 13556/2015) che in materia di bancarotta fraudolenta, nella nozione di beni appartenenti al fallito rientrino le cose oggetto del diritto di proprietà, dei diritti «immateriali», i crediti, ma non quei beni che non siano mai entrati nel di lui patrimonio.

Non sono beni dell'imprenditore, pertanto, quelli che sono nella sua disponibilità, per averli ricevuti a titolo diverso dalla traslatio dominii (locazione, comodato, deposito) e che non sono mai usciti dal patrimonio del dominus.

Di conseguenza, non è stata ritenuta condotta sanzionabile come bancarotta fraudolenta l'atto di disposizione di beni mai entrati nel patrimonio dell'imprenditore, perché a lui pervenuti attraverso un negozio giuridico affetto da anomalia genetica, non idoneo al trasferimento della proprietà.

Ciò in quanto la compravendita di un bene immobile – stipulata con atto notarile sottoscritto dalle parti, ma non trascritto né registrato né inserito a repertorio per la mancata allegazione del certificato di destinazione urbanistica, requisito essenziale prescritto per la validità dell'atto, a norma dell'art. 18 della l. n. 47/1985 – è un negozio originariamente nullo, se non inesistente, e come tale inidoneo a determinare il trasferimento del bene dell'alienante all'acquirente.

Parimenti, i beni su cui l'imprenditore fallito vanti un possesso precario, che non fanno parte del suo patrimonio, che possono essere coinvolti nella procedura concorsuale in quanto si trovino nella sua disponibilità al momento dell'apertura della procedura, devono pertanto essere restituiti, sia pure nelle modalità previste dalla legge, fermo restando che la loro eventuale manomissione può comportare altre ipotesi di responsabilità penale a titolo diverso dalla bancarotta patrimoniale (cfr. Cass. pen. V, n. 1355/2015).

Si è a lungo argomentato sulla rilevanza penale di condotte distrattive aventi ad oggetto beni posseduti dall'imprenditore in virtù di un contratto di leasing.

Il contratto di locazione finanziaria è il negozio con il quale una parte, concedente, dietro il corrispettivo di un canone periodico, concede ad un'altra parte, utilizzatore, il godimento di un bene, con la facoltà, alla scadenza del termine stabilito:

– di restituire il bene;

– di proseguire nel godimento versando un canone di importo inferiore;

– di acquistare il bene in proprietà, pagando una somma ulteriore;

– di chiedere la sostituzione del bene con altro bene.

La proprietà del bene, quindi, in pendenza del rapporto e prima del riscatto, rimane in capo al concedente ed il trasferimento del diritto dominicale è soltanto eventuale, poiché dipende dalla scelta dell'utilizzatore.

In virtù di quanto sopra evidenziato, una parte della giurisprudenza ha escluso che i beni posseduti in leasing dall'imprenditore possano costituire oggetto materiale del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, potendo, al più, costituire oggetto della distrazione i diritti esercitabili dal fallimento con contestuale pregiudizio per i creditori a causa dell'inadempimento delle obbligazioni assunte verso il concedente (cfr. Cass. pen. V, n. 20996/2015, V, n. 448/2015 e, più di recente, Cass. pen. V, n. 21933/2018).

Secondo un diverso orientamento ermeneutico, i princìpi di diritto sopra ricordati devono essere letti in relazione al profilo della possibilità di un effettivo ingresso del bene nel patrimonio dell'imprenditore, al di là della sussistenza o meno di un valido rapporto negoziale quale presupposto dell'acquisizione della disponibilità del bene stesso ed alla luce della disciplina contenuta nell'art. 79 della l. fall. (ora 184 c.c.i.i.) avente ad oggetto i beni di cui l'imprenditore fallito abbia il possesso a titolo precario, distinguendo le ipotesi in cui un bene sia individuabile e reperibile nella sua originaria materialità, da quelle in cui un atto di disposizione del bene abbia comportato l'ingresso di denaro nel patrimonio del fallito, la cui svendita o sottrazione alla massa può costituire oggetto di distrazione penalmente rilevante. Verificatosi l'indefettibile presupposto della consegna del bene oggetto del contratto di leasing e venendo in rilievo la disponibilità di fatto dello stesso, la relativa appropriazione da parte sua integra distrazione in quanto la sottrazione o dissipazione del bene comporta un pregiudizio per la massa fallimentare che viene privata del valore dello stesso, che avrebbe potuto essere conseguito mediante riscatto al termine del rapporto negoziale e, al contempo, viene gravata di un ulteriore onere economico scaturente dall'inadempimento dell'obbligo di restituzione (cfr. Cass. pen. V, n. 44350/2016, che richiama, a sua volta, Cass. pen. V, n. 33380/2008 e Cass. pen. V, n. 9427/2011).

Diversamente, nessun contrasto si configura in tema di bancarotta fraudolenta per distrazione in cui l'oggetto materiale è costituito dalla cessione del contratto di locazione finanziaria, comportando tale atto di disposizione patrimoniale una diminuzione del patrimonio dell'imprenditore, che viene decurtato dei diritti e delle facoltà nascenti dal negozio, a partire dalla possibilità di riscatto del bene al momento della scadenza del rapporto, sempre che la cessione abbia determinato un effettivo nocumento nei confronti dei creditori ovvero la permanenza del rapporto negoziale nel patrimonio affidato al curatore avrebbe costituito in concreto, da un punto di vista economico, una risorsa positiva e non un onere (cfr. Cass. pen. V, n. 304/2003 e, successivamente, Cass. pen. V, n. 3612/2006).

Sempre in ordine all'oggetto materiale, di particolare interesse è la questione relativa ai beni conseguiti dall'imprenditore attraverso una attività illecita.

La giurisprudenza di legittimità è unanime nel ritenere che la provenienza illecita dei beni non escluda il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, giacché per beni del fallito si intendono tutti quelli che fanno parte della sfera di disponibilità del patrimonio, indipendentemente dalla proprietà e dal modo del loro acquisto e, pertanto, anche i beni ottenuti con sistemi illeciti quali la truffa (cfr. Cass. pen. V, n. 8373/2013 e, più di recente, Cass. pen. V, n. 53399/2018).

In particolare, è stato affermato (cfr. Cass. pen. V, n. 45372/2019) che in tema di reati fallimentari, la provenienza illecita dei beni non esclude il delitto di bancarotta per distrazione, sia che si tratti di beni fungibili, e quindi confusi nel patrimonio del fallito destinato alla soddisfazione dei creditori, sia che si tratti di beni infungibili, e quindi formalmente distinti dal patrimonio del fallito, atteso che, in quest'ultimo caso, il curatore, che ne assume la disponibilità, ha l'obbligo di restituirli agli aventi diritto e la condotta distrattiva, rendendo impossibile la restituzione, genera a carico della procedura l'obbligo di pagarne il controvalore ai titolari. (In motivazione, la Corte ha precisato che, nel caso di fallimento di una Società, è irrilevante che i beni illecitamente acquisiti dall'amministratore siano solo strumentalmente transitati nel patrimonio della fallita, per essere poi distratti in favore dello stesso amministratore o di terzi).

Specificamente, con riferimento alla possibilità di ritenere penalmente rilevante la condotta distrattiva avente ad oggetto ricavi fatti figurare nella contabilità dell'imprenditore fallita a seguito di operazioni in realtà inesistenti, laddove gli importi fatturati siano stati effettivamente pagati e poi restituiti, la giurisprudenza ha rigorosamente ritenuto sussistente il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione, in quanto anche il temporaneo ingresso nel patrimonio della fallita di beni che in forza di un patto illecito vengano restituiti al dante causa determina un incremento dello stesso che espande le garanzie dei creditori, con la conseguenza che la restituzione costituisce atto ingiustificato idoneo ad integrare la condotta di distrazione.

Diversamente, è stata esclusa la distrazione laddove alla fatturazione per operazioni inesistenti non sia seguito l'effettivo pagamento da parte dell'utilizzatore delle fatture con la successiva restituzione delle somme ricevute (cfr. Cass. pen. V, n. 51248/2014).

Infine, in ordine all'elemento materiale della bancarotta fraudolenta per distrazione, va evidenziato il recente arresto giurisprudenziale secondo il quale: «Integra il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione la rottamazione di giacenze di magazzino, anche se correttamente giustificata dal punto di vista materiale, effettuata in assenza di elementi contabili individuanti un valore dei beni pari a zero in base alla normativa fiscale, operando la «rottamazione contabile» e quella «materiale» su piani non necessariamente coincidenti» (cfr. Cass. pen. V, n. 8921/2022).

Le singole condotte

I fatti di bancarotta fraudolenta patrimoniale possono dividersi in due categorie:

– quelli che incidono sulle componenti attive del patrimonio dell'impresa, impoverendolo (distrazione, occultamento, dissimulazione, distruzione e dissipazione – totale o parziale – dei beni dell'imprenditore;

– quelli che incidono sulle componenti passive del patrimonio dell'impresa, incrementandole artificiosamente (esposizione o riconoscimento di passività inesistenti).

Trattasi di una norma a più fattispecie, che descrive una pluralità di condotte alternative di commissione di un unico reato, aventi un contenuto sostanzialmente analogo.

Come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, le suddette condotte costituiscono diverse modalità di aggressione del medesimo bene giuridico e – con riferimento alle condotte di distrazione, distruzione, occultamento, dissimulazione e dissipazione da una parte ovvero alle condotte di esposizione e riconoscimento di passività inesistenti dall'altra parte – si pongono in termini di «alternatività formale» (cfr. Cass. pen. S.U., n. 21309/2011).

Conseguentemente, non integra gli estremi della violazione del principio di correlazione tra sentenza e contestazione la decisione del giudice di merito che, stabilendo che i fatti addebitati all'imputato non siano ascrivibili alla categoria della dissipazione, ne affermi comunque la responsabilità, ritenendo che siano sussumibili nella diversa ipotesi della distrazione (cfr. Cass. pen., n. 30422/2007).

Più di recente, la Suprema Corte ha affermato che «Il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale ha natura di reato a condotta eventualmente plurima, che può essere realizzato con uno o più atti, senza che la loro ripetizione, nell'ambito dello stesso fallimento, dia luogo ad una pluralità di reati in continuazione, non venendo meno il carattere unitario del reato quando le condotte previste dall'art. 216 l. fall. siano tra loro omogenee, perché lesive del medesimo bene giuridico, e temporalmente contigue» (Cass. pen. V, n. 13382/2020).

La dottrina suole distinguere le ipotesi in cui la diminuzione della garanzia patrimoniale sia effettiva, ossia nella distruzione e nella dissipazione, in quanto i beni escono dalla disponibilità dell'imprenditore fallito, dalle ipotesi in cui la diminuzione sia fittizia, ossia la distrazione, l'occultamento, la dissimulazione, il riconoscimento o esposizione di passività inesistenti, in quanto i beni continuano a far parte del patrimonio del debitore, sussistendo la possibilità di recuperarli alla massa attiva (cfr. Soana, 126). Altri autori hanno criticato la suddetta classificazione in quanto l'interesse leso è costituito dalla suscettibilità dei beni dell'imprenditore di garantire il soddisfacimento delle pretese dei creditori sociali e tutte le condotte distrattive sono idonee ad indebolire la funzione di garanzia del patrimonio (cfr. Bricchetti, Targetti, 41).

In ogni caso, poiché l'integrazione del reato di bancarotta fraudolenta non richiede l'esistenza di un nesso causale tra i fatti di distrazione ed il pregiudizio dei creditori, le condotte integranti il reato assumono rilevanza penale in qualsiasi momento siano state commesse e pertanto anche qualora siano state poste in essere in un periodo in cui l'impresa non versava in stato di insolvenza (cfr. Cass. pen. V, n. 11899/2010; Cass.S.U., n. 22474/2016).

Deve invece escludersi la rilevanza penale della condotta (cd. «bancarotta riparata») qualora l'imprenditore – prima della dichiarazione di fallimento – ponga in essere comportamenti di segno contrario rispetto a quelli potenzialmente illeciti posti in essere in precedenza, al punto da rimuovere alla propria condotta la carica offensiva (cfr. Bricchetti, Targetti, La bancarotta e gli altri reati fallimentari, 49).

Di recente, la Corte di Cassazione (sentenza n. 2733/2925) ha ribadito il suddetto principio affermando che «il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale prefallimentare è un reato di pericolo concreto, in cui l'atto di depauperamento deve risultare idoneo ad esporre a pericolo l'entità del patrimonio della società in relazione alla massa dei creditori e deve permanere tale fino all'epoca che precede l'apertura della procedura fallimentare (Cass. V, n. 17819/2017; conf. Cass. V, n. 50081/2017), «sicché, ai fini della prova del reato, il giudice, oltre alla constatazione dell'esistenza dell'atto distrattivo, deve valutare la qualità del distacco patrimoniale che ad esso consegue, ossia il suo reale valore economico concretamente idoneo a recare danno ai creditori« (Cass. V, n. 28941/2024)». Correlativamente, costituisce orientamento pacifico quello secondo il quale «La bancarotta “riparata” si configura, determinando l'insussistenza dell'elemento materiale del reato, quando la sottrazione dei beni venga annullata da un'attività di segno contrario, che reintegri il patrimonio dell'Impresa prima della soglia cronologica costituita dalla dichiarazione di fallimento, non rilevando, invece, il momento di manifestazione del dissesto come limite di efficacia della restituzione« (Cass. V, n. 4790/2015, dep. 2016), annullandosi, in tale guisa il pregiudizio per i creditori (Cass. V, n. 57759/2017; conf. Cass. V, n. 14932/2023).».

Più specificamente, la giurisprudenza ha avuto modo di evidenziare che la bancarotta cosiddetta «riparata» – che determina l'insussistenza dell'elemento materiale del reato – si configura quando la sottrazione dei beni venga annullata da un'attività di segno contrario, che reintegri il patrimonio dell'impresa prima della soglia cronologica costituita dalla dichiarazione di fallimento, così annullando il pregiudizio per i creditori, sicché è onere dell'amministratore, che si è reso responsabile di atti di distrazione e sul quale grava una posizione di garanzia rispetto al patrimonio sociale, provare l'esatta corrispondenza tra i versamenti compiuti e gli atti distrattivi precedentemente perpetrati (cfr. Cass. pen. V, n. 57759/2017).

Deve escludersi, pertanto, sia qualora l'attività restitutoria o riparatoria sia posta in essere in epoca successiva alla dichiarazione di fallimento per iniziativa del curatore (cfr. Cass. pen. V, n. 52077/2014) sia qualora il socio e amministratore, che abbia posto in essere condotte distrattive, ceda le proprie quote, ottenendo dall'acquirente manleva per i debiti pregressi nei confronti della Società, compresi quelli derivanti dalle sottrazioni illecite (cfr. Cass. pen. V, n. 28514/2013).

Non è rilevante, inoltre, perché si configuri la cd. bancarotta riparata, il momento di manifestazione del dissesto come limite di efficacia della restituzione (cfr. Cass. pen. V, n. 4790/2015).

Le condotte tipizzate sono costituite dalla distrazione, dall'occultamento, dalla dissimulazione, dalla distruzione e dalla dissipazione.

Segue . Distrazione

Si ha distrazione quando si attribuisce ai beni dell'imprenditore una destinazione diversa da quella attribuitagli dall'ordinamento giuridico, ovvero di messa a disposizione degli organi della procedura concorsuale al fine di attuare la garanzia patrimoniale delle ragioni dei creditori sociali.

La nozione è di carattere residuale rispetto alle altre condotte tipizzate dal legislatore e comprende qualsiasi condotta idonea ad imprimere al patrimonio dell'imprenditore una diminuzione idonea a pregiudicare il soddisfacimento delle pretese dei creditori sociali.

In giurisprudenza sono state date due diverse definizioni della condotta distrattiva:

– secondo un primo indirizzo, integra gli estremi della distrazione la concreta estromissione del bene dal patrimonio dell'imprenditore, a prescindere dalla effettiva possibilità di recupero: ai fini della configurabilità del delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione è sufficiente, nel caso di imprese sociali, qualunque operazione diretta a distaccare dal patrimonio sociale, senza immettervi il corrispettivo, beni ed altre attività in genere, così da impedirne l'apprensione da parte degli organi fallimentari, compiuta da chi abbia avuto in concreto l'effettivo potere di gestione della Società dichiarata fallita, in quanto tale depauperamento si risolve in un pregiudizio per i creditori della Società all'atto del fallimento (cfr. Cass. pen. V, n. 1458/1998), nonché Cass. pen., n. 49472/2013, secondo cui «Il distacco del bene del patrimonio dell'imprenditore poi fallito (con conseguente danno dei creditori) – in cui si sostanzia l'elemento oggettivo del delitto di bancarotta – può realizzarsi in qualsiasi forma e con qualsiasi modalità, non avendo incidenza su di esso la natura dell'atto negoziale con cui il distacco si compie, né la possibilità di recupero del bene attraverso l'esperimento delle azioni apprestate a favore della curatela»);

– secondo un diverso orientamento interpretativo, è necessario che il bene sia stato destinato ad uno scopo diverso da quello imprenditoriale, sicché integra gli estremi del delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione ogni forma di ingiustificata e diversa destinazione volontariamente data al patrimonio rispetto ai fini che questo deve avere nell'impresa, quale elemento necessario per la sua funzionalità e quale garanzia verso i terzi; onde la cosciente e volontaria vendita di consistenti beni, per scopi estranei all'impresa, effettuata con incongrui criteri economici in epoca prossima al fallimento, costituisce distrazione intesa come operazione diretta a ledere l'interesse patrimoniale dei creditori (Cfr. Cass. pen. V, n. 11498/1993).

Avuto riguardo al bene giuridico tutelato, non qualsiasi atto di disposizione patrimoniale è sussumibile nella nozione di distrazione, ma soltanto quello compiuto in pregiudizio dell'impresa, che pone in pericolo, in concreto, in caso di apertura della liquidazione giudiziale, la destinazione del patrimonio al soddisfacimento delle pretese dei creditori sociali («l'offensività della condotta è limitata ai fatti che creano un pericolo concreto, ossia allorquando possa affermarsi che la diminuzione della consistenza patrimoniale comporta uno squilibrio tra attività e passività, risultando pertanto, l'atto depauperativo idoneo a creare un vulnus all'integrità della garanzia dei creditori in caso di apertura della procedura concorsuale» (Cass. pen. V, n. 38396/ 2017, cit. in parte motiva).

I mutamenti di destinazione del bene non sono penalmente rilevanti alla stregua di fatti di bancarotta fraudolenta patrimoniale laddove non incidano, in concreto, sulla funzione di garanzia del bene a tutela della massa dei creditori concorsuali.

La giurisprudenza ha affrontato altresì il tema della sussumibilità nella condotta distrattiva delle operazioni cd. «infra-gruppo», poste in essere, cioè, da Società soggette, in virtù di un rapporto di controllo, alla direzione e coordinamento di un unico soggetto.

È stato evidenziato che, in tema di reati fallimentari, integra la distrazione rilevante ai fini della bancarotta fraudolenta patrimoniale:

– il trasferimento di risorse infra-gruppo, ossia tra Società appartenenti allo stesso gruppo imprenditoriale, effettuato, senza alcuna contropartita economica, da Società che versi in gravi difficoltà finanziarie a vantaggio di Società in difficoltà economiche, posto che, in tal caso, nessuna prognosi fausta dell'operazione può essere consentita (Cfr. Cass. pen. V, n. 365/2009, Cass. pen. V, n. 37370/2011);

– la condotta di finanziamento di ingenti somme in favore di Società dello stesso gruppo, effettuato dalla Società fallita quando già si trovava in situazione di difficoltà finanziaria, in mancanza di garanzie e senza vantaggi compensativi sia per il gruppo nel suo complesso che per la stessa Società fallita (cfr. Cass. pen. V, n. 20039/2013).

Ancora, è stato rilevato come non possa escludersi la natura distrattiva di un'operazione infra-gruppo, effettuata in assenza di contropartite, invocando la provenienza dal patrimonio personale dell'imprenditore della liquidità destinata ad una Società appartenente allo stesso gruppo di quella fallita, quando questa si trovava già in difficoltà finanziaria, in quanto il denaro, una volta immesso nel patrimonio della Società, le appartiene ed è destinato alla garanzia dei suoi creditori (cfr. Cass. pen. V, n. 39043/2019).

Quanto all'incidenza dei cd. «vantaggi compensativi» ai fini della esclusione della offensività della condotta, la giurisprudenza ha escluso la natura distrattiva di un'operazione infra-gruppo in presenza degli stessi laddove siano in grado di riequilibrare gli effetti immediatamente negativi per la Società fallita e neutralizzino gli svantaggi per i creditori sociali: non è distrattivo pertanto il trasferimento di risorse dalla Società fallita ad altre Società del gruppo, laddove venga accertato un evidente vantaggio compensativo per i creditori della fallita conseguente a tale operazione, trattandosi di Società debitrice solidale con le Società del gruppo sostenute verso i medesimi creditori ed in particolare verso il sistema bancario con cui si erano raggiunti accordi di consolidamento del debito di gruppo con la sospensione temporanea e condizionata del decorso degli interessi, cosicché il fallimento di una di esse avrebbe comportato l'attivazione della responsabilità solidale della Società fallita con l'aggravio di pesantissimi interessi di cui avrebbero subito gli effetti negativi gli stessi creditori individuali della Società (cfr. Cass. pen., n. 16206/2017).

In ogni caso, per escludere la natura distrattiva di un'operazione di trasferimento di somme da una Società ad un'altra, non è sufficiente allegare la mera partecipazione ad un «gruppo di Società», dovendo invece l'interessato dimostrare in maniera specifica il saldo finale positivo delle operazioni compiute nella logica e nell'interesse di un gruppo, ovvero la concreta a fondata prevedibilità di vantaggi compensativi per la Società apparentemente danneggiata, giacché la destinazione di risorse da una Società all'altra, sia pure collegata, integra comunque la violazione del vincolo patrimoniale nei confronti dello scopo strettamente sociale (cfr. Cass. pen. V, n. 47216/2019).

Per contro (cfr. Cass. pen. V, n. 7079/2015), è stato escluso che i cd. «vantaggi compensativi» possano rimuovere la offensività della condotta laddove siano successivi al fallimento e laddove consistano in una diminuzione dell'entità del passivo conseguente a concordato preventivo cui venga ammessa altra Società controllante, appartenente allo stesso gruppo, grazie a mutui fondiari concessi per la destinazione del patrimonio immobiliare della Società fallita. (Fattispecie riferita alla cessione di tutto il patrimonio immobiliare di una Società prima del suo fallimento alle altre Società del gruppo che, successivamente fallite anch'esse, avevano in tal modo visto accrescere l'entità del proprio attivo fallimentare).

Da ultimo, la giurisprudenza ha evidenziato che «Non integrano il delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale i pagamenti tra società infragruppo riconducibili all'operatività del contratto di “cash pooling”, purché i consigli di amministrazione delle società interessate abbiano deliberato il contenuto dell'accordo, definendone l'oggetto, la durata, i limiti di indebitamento, le aliquote relative agli interessi attivi e passivi e le commissioni applicabili» (Cass. pen. V, n. 39139/2023).

Trattandosi di una condotta a forma libera, la giurisprudenza ha riconosciuto la natura distrattiva della concessione di un'ipoteca, senza il sinallagma corrispondente al fine istituzionale dell'impresa, in quanto la costituzione del suddetto diritto reale di garanzia realizza, di per sé e automaticamente, una diminuzione patrimoniale; inoltre, poiché ai fini della configurabilità del reato è postulato il dolo generico, la divergenza oggettiva dell'atto di disposizione dal fine suddetto dà sufficientemente conto della direzione del volere dell'agente, essendo del tutto irrilevanti i motivi che hanno determinato il suo comportamento (cfr. Cass. pen. V, n. 45332/2009).

Similmente, integra gli estremi della distrazione, la condotta di colui che, in qualità di presidente del consiglio di amministrazione e amministratore delegato di una Società finanziaria successivamente fallita, costituisca in pegno titoli di stato, in quanto il pegno, in caso di mancato pagamento della somma data in prestito nella quantità, nei tempi e nei modi pattuiti, può essere escusso dal creditore, con perdita del patrimonio societario che costituisce la garanzia per i creditori; invero, la circostanza che l'acquisto dei detti titoli sia avvenuto su mandato e nell'interesse dei clienti non esclude che siano divenuti patrimonio della Società fallita e dunque oggetto di distrazione in quanto la costituzione in pegno senza l'autorizzazione dei clienti costituisce una utilizzazione degli stessi come propri espressione di una interversione del possesso (cfr. Cass. pen. V, n. 36595/2009).

Altra modalità con la quale può essere realizzata la condotta distrattiva è costituita da una illegale ripartizione degli utili. Al riguardo, è stato affermato che la distribuzione di somme di denaro corrispondenti ad asseriti utili «in nero» concreta – ancorché essi rappresentino il profitto effettivo della gestione – una manomissione del capitale che integra la bancarotta fraudolenta patrimoniale, in quanto, ancorché l'utile non costituisca di per sé l'oggetto materiale della condotta di distrazione fraudolenta, essendo di spettanza dei soci e non della Società, quando la sua assegnazione avvenga senza la pre-deduzione dell'onere tributario e della conseguente penalità tributaria (che sorge al momento della erogazione della ricchezza) si riscontra manomissione della ricchezza sociale poiché la distribuzione eccede quanto di pertinenza dei soci (cfr. Cass. pen. V, n. 1769/2009).

Infatti, integra gli estremi della distrazione la condotta dell'amministratore di una Società, che, quale socio creditore della stessa, recuperi, in periodo di dissesto, finanziamenti da lui in precedenza concessi (cfr. Cass. pen. V, n. 26041/2019).

Ciò in quanto la disciplina della postergazione non individua un diverso grado del credito restitutorio ma rende inesigibile la pretesa alla restituzione, atteso che il legislatore, espressamente, richiede che le somme erogate siano vincolate al perseguimento dell'oggetto sociale e non possano essere restituite se non quando venga meno la esigenza di garanzia dei creditori che siano stati integralmente soddisfatti.

Tale statuizione appare in ossequio alla ratio sopra menzionata, attribuita dalla giurisprudenza civile di legittimità al principio di postergazione del rimborso del finanziamento dei soci posto dall'art. 2467 c.c. e preordinata a contrastare i fenomeni di sottocapitalizzazione nominale in Società «chiuse», determinati dalla convenienza dei soci a ridurre l'esposizione al rischio d'impresa, ponendo i capitali a disposizione dell'ente collettivo nella forma del finanziamento, anziché in quella del conferimento (cfr. Cass. I, n. 24871/2015).

Quale esempio di condotta distrattiva, ad ogni modo, è stato affermato che «integra distrazione la condotta dell'amministratore della società fallita che preleva dalle casse sociali somme destinate al pagamento del trattamento di fine rapporto di un lavoratore, ovvero al pagamento, a seguito della cessione del credito in favore della società, delle rate di un finanziamento erogato a un dipendente, trattandosi di somme facenti parte del patrimonio della società fallita» (Cass pen. V, n. 33063/2024).

Anche la cessione di un ramo d'azienda non adeguatamente remunerata è stata indicata quale potenziale condotta distrattiva, purché rientri nella definizione di cui all'art. 2555 c.c. (Cass. pen. V, n. 23577/2024).

Sulla falsariga della pronuncia precedente, integra un'ipotesi distrattiva la cessione di un immobile a prezzo inferiore a quello di mercato e sottoposto a condizione sospensiva unilaterale nell'interesse del solo acquirente, atteso che quest'ultimo «anche ove, alla scadenza del termine prefissato, la condizione sospensiva non si sia verificata, in assenza di un'esplicita dichiarazione di risoluzione del contratto, può rinunciare alla condizione ed esercitare il diritto potestativo di acquisto, con conseguente limitazione del potere dispositivo della parte venditrice e messa in pericolo della garanzia del ceto creditorio» (Cass. pen. V, n. 26164/2024).

Di segno concorde, altrettanto recente pronuncia che ha evidenziato come, nel caso di cessione a prezzo vile di beni dell'asse fallimentare, la configurabilità del delitto, «attesa la reciproca autonomia tra procedura fallimentare e procedimento penale, non può essere esclusa dal rigetto da parte del giudice delegato della domanda di rivendicazione proposta dal terzo cessionario» (Cass. pen. V, n. 50797/2023).

Sul piano pratico, la prova della distrazione può essere desunta dalla mancata dimostrazione, da parte dell'amministratore, della destinazione dei beni. Non si tratta di una inversione dell'onere della prova in quanto grava sull'imprenditore in liquidazione giudiziale l'obbligo di verità, penalmente sanzionato, di rendere nota la destinazione dei beni (cfr. art. 195, comma 3 c.c.i.i., che riproduce il contenuto dell'art. 87, comma 3 l. fall.), non ottemperato attraverso la generica affermazione per cui gli stessi sarebbero stati assorbiti dai costi gestionali, ove non documentati né precisati nel loro dettagliato ammontare (Cfr., in tal senso, Cass. pen. V, n. 8260/2015 e, più di recente, Cass. pen. V, n. 15280/2019).

In ogni caso, l'accertamento della previa disponibilità da parte dell'imputato dei beni non rinvenuti in seno all'impresa non può fondarsi sulla presunzione di attendibilità dei libri e delle scritture contabili dell'impresa previsti dall'art. 2710 c.c., dovendo invece le risultanze desumibili da questi atti essere valutate – soprattutto quando la loro corrispondenza al vero sia negata dall'imprenditore – nella loro intrinseca attendibilità, anche alla luce della documentazione reperita e delle prove concretamente esperibili, al fine di accertare la loro corrispondenza al reale andamento degli affari e delle dinamiche aziendali (cfr. Cass. pen. V, n. 15789/2019).

Va detto che «il prelievo di somme di denaro a titolo di restituzione dei versamenti operati dai soci in conto capitale (o indicati con analoga dizione), integra la fattispecie della bancarotta fraudolenta per distrazione non dando luogo tali versamenti ad un credito esigibile nel corso della vita della società, mentre il prelievo di somme quale restituzione dei versamenti operati dai soci a titolo di mutuo, determinando il sorgere in capo a questi ultimi di un credito chirografario, effettivo ed esigibile, integra la fattispecie di bancarotta preferenziale» (Cass. pen. V, n. 27446/2024).

Segue . Occultamento e dissimulazione

Secondo la giurisprudenza si configura la bancarotta fraudolenta patrimoniale per occultamento laddove l'imprenditore nasconda materialmente uno o più beni in modo da ostacolarne la reperibilità e l'apprensione da parte degli organi della liquidazione giudiziale. Si ha la diversa ipotesi di bancarotta per dissimulazione laddove la sparizione dei beni venga attuata mediante strumenti giuridici, ad esempio in caso di vendite fittizie o, più in generale, negozi simulati o fiduciari preordinati a far figurare la fuoriuscita del bene dal patrimonio dell'imprenditore in favore di soggetti terzi (cfr., in particolare Cass. pen. V, n. 8177/1974, secondo cui: ai fini del delitto di bancarotta fraudolenta, l'occultamento consiste in ogni manovra dell'imprenditore diretta a far credere non esistenti, in tutto o in parte, i suoi beni, che invece esistono; ogni manovra, cioè, diretta a separare in tutto o in parte tali beni impedendo di conoscere dove siano. La dissimulazione consiste in qualsiasi forma di inganno diretta ad occultare la conoscenza di uno stato esistente, che si verifica normalmente sotto forma di negozi giuridici solo apparenti, mediante i quali si celano negozi reali compiuti in frode ai creditori, ovvero ben architettate operazioni dannose rivestite dell'abito apparente della legalità).

Segue . Distruzione e dissipazione

Si ha distruzione del bene quando lo stesso viene annientato sotto un profilo materiale.

La dissipazione, invece, comporta la distruzione economica o giuridica del bene attuata mediante atti negoziali diretti a depauperare il patrimonio con la consapevolezza di ledere l'interesse dei creditori al soddisfacimento delle proprie ragioni.

Si distingue rispetto alla bancarotta semplice (cfr. Cass. pen., n. 47040/2011) realizzata con operazioni di pura sorte o manifestamente imprudenti:

– sia per la diversa caratterizzazione dell'elemento materiale, in quanto l'operazione fraudolenta è priva di qualsiasi aspetto di collegamento con le esigenze delle imprese;

– sia per il diverso atteggiarsi dell'elemento psicologico, in quanto necessita della consapevolezza e volontà di diminuire il proprio patrimonio per scopi del tutto estranei alle finalità dell'impresa.

Arresti di legittimità sul punto, hanno chiarito come integri il delitto di bancarotta per dissipazione la sistematica vendita di merce sottocosto, essendo tale prassi inconciliabile con il raggiungimento dello scopo sociale e incoerente con il soddisfacimento delle esigenze dell'impresa, purché sia dimostrata la consapevolezza dell'agente di diminuire il patrimonio societario per scopi estranei all'oggetto sociale (cfr. Cass. pen. V, n. 38707/2019, nonché Cass. pen. V, n. 5317/2014).

Circa la distinzione con la condotta di distrazione, la Suprema Corte ha affermato che «In tema di bancarotta fraudolenta, la condotta di “distrazione” si concreta in un distacco dal patrimonio sociale di beni cui viene data una destinazione diversa da quella di garanzia dei creditori, non rilevando se in quel momento l'impresa versi in stato di insolvenza, mentre quella di “dissipazione” consiste nell'impiego dei beni in maniera distorta e fortemente eccentrica rispetto alla loro funzione di garanzia patrimoniale, per effetto di consapevoli scelte radicalmente incongrue con le effettive esigenze dell'azienda, avuto riguardo alle sue dimensioni e complessità, oltre che alle specifiche condizioni economiche ed imprenditoriali sussistenti» (Cass. pen. V, n. 7437/2020).

Segue . Esposizione o riconoscimento di passività inesistenti

Integra gli estremi della bancarotta fraudolenta patrimoniale mediante esposizione o riconoscimento di passività inesistenti la condotta di chi pone in essere una operazione fittizia di diminuzione patrimoniale finalizzata a sottrarre all'esecuzione fallimentare una quota di beni, che può concretizzarsi:

– con la denuncia, da parte dell'imprenditore in liquidazione giudiziale, di passività non reali (esposizione di passività inesistenti);

– con la rivendica, da parte di creditori inesistenti, di crediti fittizi (riconoscimento di passività inesistenti;

– con l'inserimento in contabilità di fatture per operazioni inesistenti, in quanto trattasi di operazione che incrementi indebitamente le poste passive, in modo da assottigliare la quota garanzia disponibile per i creditori, a nulla rilevando che si tratti di «costi» e non di «elementi debitori», allorché queste siano destinate a dissimulare la destinazione illecita di attività già sottratte (cfr. Cass. pen. V, n. 12427/2013).

In proposito, si è chiarito che l'esposizione di costi fittizi, dissimulante la diversa destinazione data alle corrispondenti attività, non si risolve nella falsificazione idonea ad integrare l'ipotesi di bancarotta fraudolenta documentale – ex art. 332, comma 1 c.c.i.i. – né l'ipotesi di falso in bilancio, a norma degli artt. 329, comma 2, lett. a) e 2621-2622 c.c.; al contrario ciascuna di queste ultime previsioni può concorrere sia con la bancarotta patrimoniale costituita dall'esposizione di passività inesistenti sia con la bancarotta patrimoniale costituita da attività distrattive mascherate attraverso l'esposizione di costi inesistenti (cfr. Cass. pen. V, n. 29336/2007).

In tema di bancarotta per esposizione o riconoscimento di passività inesistenti, il rilascio ad un creditore fittizio di cambiali o di scritture di ricognizione o di assunzione di obbligazioni simulate da parte dell'imprenditore insolvente integra gli estremi del reato soltanto se e quando il fallito riconosca – anche mediante acquiescenza – nella procedura fallimentare la passività inesistente e le conferisca rilevanza concorsuale. In questo caso il creditore fittizio viene a rispondere quale concorrente nel reato proprio del fallito e, se non vi è concorso con costui, sarà responsabile del reato di presentazione di domanda di ammissione – al passivo – di credito fraudolentemente simulato (cfr. Cass. pen. V, n. 2781/1989).

L’elemento psicologico

L'elemento soggettivo della bancarotta fraudolenta per distrazione, occultamento e dissipazione di beni, si concreta nel dolo generico, essendo il fine particolare di recare pregiudizio ai creditori richiesto solo per le ipotesi della esposizione e del riconoscimento di passività inesistenti. Tuttavia, poiché l'interesse tutelato è di natura patrimoniale e concerne la conservazione a favore di creditori della garanzia dei loro crediti, l'agente deve rappresentarsi che dalla sua condotta possa derivare danno alle ragioni dei creditori.

Nel caso sottoposto all'esame della Suprema Corte, il rilievo dell'elemento psicologico così individuato era stato considerato nell'analisi della condotta dell'agente che aveva effettuato vendite sottocosto, fuga dal luogo dove si svolgeva l'attività di impresa; aveva usato falso nome; aveva indicato nuovo domicilio; aveva costituito nuova Società con il trasferimento alla stessa delle attività sottratte alla precedente; apertura di un conto corrente occulto agli organi finanziari (cfr. Cass. pen. V, del 20 marzo 1987).

In tema di bancarotta fraudolenta per distrazione, l'accertamento dell'elemento soggettivo costituito dal dolo generico deve valorizzare la ricerca di «indici di fraudolenza», rinvenibili, ad esempio, nella disamina della condotta alla luce della condizione patrimoniale e finanziaria dell'azienda, nel contesto in cui l'impresa ha operato, avuto riguardo a cointeressenze dell'amministratore rispetto ad altre imprese coinvolte, nella irriducibile estraneità del fatto generatore dello squilibrio tra attività e passività rispetto a canoni di ragionevolezza imprenditoriale, necessari a dar corpo, da un lato, alla prognosi postuma di concreta messa in pericolo dell'integrità del patrimonio dell'impresa, funzionale ad assicurare la garanzia dei creditori, e, dall'altro, all'accertamento in capo all'agente della consapevolezza e volontà della condotta in concreto pericolosa (Cass. pen. V, n. 38396/2017).

Successivamente, è stato affermato che ai fini della sussistenza del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, l'elemento soggettivo si configura nella forma del dolo generico, per la cui sussistenza non è necessaria la consapevolezza dello stato di insolvenza dell'impresa, né lo scopo di recare pregiudizio ai creditori, essendo sufficiente la consapevole volontà di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte (cfr. Cass. pen. V, n. 45130/2019, che ha ritenuto conforme al suddetto principio la pronuncia di merito che ha valorizzato, quale «indice di fraudolenza», l'assenza di ogni valida giustificazione in ordine alla destinazione dei beni non rinvenuti, neanche quanto al loro controvalore in denaro; Cfr. in senso conforme, Cass. pen. V, n. 9807/2006; Cass. pen. V, n. 3229/2012; Cass. pen. V, n. 218462014; Cass. pen. V, n. 517152014).

Nelle pronunce sopra richiamate (in particolare, Cass. pen., n. 51715/2014), la Cassazione ha ribadito come il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale sia un reato di pericolo, essendo il bene giuridico della norma penale identificabile nell'interesse dei creditori all'integrità dei mezzi di garanzia; invero, l'art. 322 c.c.i.i. (già 216 l. fall.) prende in considerazione non solo la effettiva lesione dovuta al cagionamento di un danno al ceto creditorio – che non è elemento costitutivo della fattispecie tipizzata e che invero rileva esclusivamente ai fini della configurabilità dell'aggravante di cui al primo comma del successivo art. 326 c.c.i.i. (prima 219 l. fall.) – bensì anche il pericolo conseguente alla mera possibilità che questo si verifichi (cfr. anche, ex multis, Cass. pen. V, n. 11633/2012, Lombardi-Stronati, Rv. 252307). Pertanto, sul versante dell'elemento soggettivo del reato, il dolo necessario per la configurabilità della bancarotta patrimoniale è quello generico, integrato dalla volontà di distaccare il bene oggetto di distrazione dal patrimonio della fallita nella prevedibilità del pericolo che tale operazione può determinare per gli interessi dei creditori. In altri termini è sufficiente che la condotta di colui che pone in essere o concorre nell'attività distrattiva sia assistita dalla consapevolezza che le operazioni che si compiono sul patrimonio sociale siano idonee a cagionare un danno ai creditori, senza che sia necessaria l'intenzione di causarlo o che la finalità di determinarlo colori il dolo del reato come specifico (Cass. pen. V, n. 9807/2006; contra Cass. pen. V, n. 47502/2012).

Poiché in tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione (così come per occultamento e dissimulazione ovvero per distruzione e dissipazione) il dolo generico deve essere individuato nella consapevolezza del distacco dal patrimonio sociale dei beni che, destinati a finalità estranee, determinano il depauperamento dell'impresa in danno dei creditori, non hanno alcuna incidenza sull'elemento soggettivo, in quanto elementi estranei alla struttura oggettiva e soggettiva del reato, suscettibili soltanto di valutazione ai fini della determinazione della pena:

– né la finalità perseguita dall'agente (che rappresenta un prius rispetto alla distrazione);

– né l'eventuale recupero di quanto distaccato (che è un posterius; cfr. Cass. pen., n. 39212/2003).

Di contro, per la sussistenza del delitto di bancarotta fraudolenta mediante esposizione o riconoscimento di passività insussistenti è richiesta la presenza del dolo specifico, rappresentato dallo scopo di recare pregiudizio ai creditori.

Sul punto, i giudici della nomofilachia hanno ritenuto la sussistenza degli estremi del reato di cui all'art. 322, comma 1, lett. a) (già art. 216, comma 1, n. 1 l. fall.) nell'applicazione di coefficienti di ammortamento superiori a quelli fiscalmente ammessi, a prescindere dal rilievo che tale condotta costituisca illecito fiscale; ciò in quanto tale comportamento è suscettibile di tradursi nell'esposizione di costi fittizi che incidono sul risultato d'esercizio e dunque nell'esposizione di passività non reali, in pregiudizio dell'interesse dei creditori (cfr. Cass. pen. V, n. 45431/2004).

In merito all'elemento soggettivo, la Corte di Cassazione ha recentemente evidenziato (cfr. Cass. pen. V, n. 4329/2025), che, nell'ipotesi dell'amministratore formale, esso postula almeno la generica consapevolezza, pur non riferita alle singole operazioni, delle attività illecite compiute dalla società per il tramite dell'amministratore di fatto.

Bancarotta fraudolenta preferenziale

In generale

La bancarotta fraudolenta preferenziale costituisce una figura di reato del tutto autonoma rispetto alle altre forme di bancarotta fraudolenta.

L'interesse tutelato dalla norma è costituito dall'esigenza di far sì che il patrimonio dell'imprenditore in liquidazione giudiziale soddisfi i creditori nel rispetto delle regole e delle preferenze della par condicio.

Elemento oggettivo

La bancarotta fraudolenta preferenziale si può verificarsi attraverso due distinte condotte:

– il pagamento preferenziale dei crediti (ossia il pagamento dei crediti nel mancato rispetto dei privilegi previsti dal legislatore);

– la simulazione di titoli di prelazione (ossia la simulazione di titoli di prelazione che in realtà non esistono).

Il reato di bancarotta preferenziale pre-fallimentare si consuma nel momento in cui interviene la sentenza dichiarativa di fallimento (oggi sentenza dichiarativa della liquidazione giudiziale; cfr. Cass. pen. V, n. 26548/2014, conf. Cass. n. 48739/2014, Cass. pen. V, n. 17084/2014; contra, Cass. pen., n. 37428/2009, secondo cui il reato di bancarotta fraudolenta preferenziale si consuma nel momento dei pagamenti, essendo irrilevante la data della sentenza dichiarativa di fallimento).

Qualora, poi, l'imprenditore sottoposto a liquidazione provveda al pagamento di crediti privilegiati, ai fini della configurabilità del reato, è necessario il concorso di altri crediti con privilegio di grado prevalente o eguale rimasti insoddisfatti per effetto del pagamento e non già di qualsiasi altro credito (cfr. Cass. pen. V, n. 54502/2018); in merito, però, va chiarito che l'esistenza di altri crediti insoddisfatti per effetto del pagamento eseguito dal creditore in via preferenziale non può essere desunta dal principio civilistico della «non contestazione» (cfr. Cass. pen. V, n. 3797/2018).

Deve inoltre ritenersi configurabile la sussistenza del reato, sotto il profilo oggettivo, anche nel caso di cessione di crediti, atteso che il relativo effetto traslativo si produce nel momento in cui si realizza l'incontro delle volontà fra cedente e cessionario, per cui da quello stesso momento si determina il depauperamento del patrimonio dell'impresa fallita, nulla rilevando che la cessione avvenga, salvo patto contrario, pro solvendo e che, ai sensi dell'art. 1198 c.c., quando in luogo di adempimento è ceduto un credito, l'obbligazione si estingue con la riscossione del credito, se non risulta una diversa volontà delle parti (cfr. Cass. pen. V, n. 24105/2004).

La condotta preferenziale può anche attuarsi mediante datio in solutum, che costituisce sempre un negozio traslativo oneroso, alla quale vanno applicati i princìpi della compravendita, allo scopo di stabilire se gli atti compiuti siano idonei a realizzare il trasferimento dei beni e, quindi, la sottrazione degli stessi alla garanzia dei creditori. Segue che risponda del reato suindicato, quindi, l'amministratore di una Società a responsabilità limitata, dichiarata fallita, che abbia ceduto alcuni autoveicoli ad uno dei creditori, anche se non abbia provveduto alla relativa trascrizione presso il Pubblico Registro Automobilistico, poiché il trasferimento di proprietà si è già verificato con l'incontro della volontà delle parti (cfr. Cass. pen. V, n. 9318/1994).

Com'è chiaro – quanto all'oggetto del reato – occorre che si verifichi la violazione della par condicio creditorum nella procedura di liquidazione e, in relazione all'elemento psicologico, il dolo specifico, costituito dalla volontà di recare un vantaggio al creditore (o ai creditori) soddisfatto, con l'accettazione della eventualità di un danno per gli altri (cfr. Cass. pen., n. 7230/1991).

Ancora, la locuzione «simulazione» di cui al comma 3, seconda parte, dell'art. in commento, non va intesa in senso civilistico, poiché la ratio della previsione è quella di sanzionare sia le condotte che realizzino la costituzione fittizia di un titolo preferenziale sia quelle che trasformino un credito chirografario in credito privilegiato con la costituzione effettiva di una garanzia in presenza dello stato di insolvenza, posto che entrambe conducono al medesimo risultato di alterazione della par condicio creditorum (cfr. Cass. pen. V, n. 1668/2004).

Inoltre, la bancarotta preferenziale si riferisce al fallito il quale esegua dei pagamenti o simuli la sussistenza di titoli di prelazione allo scopo di favorire, a danno di altri creditori, alcuni di essi.

In merito, è stato affermato che è integrata la fattispecie nel caso in cui un'impresa in decozione consegua da una banca creditrice mutui fondiari garantiti da ipoteca immobiliare utilizzati per il ripianamento (nella specie, ad opera della capogruppo) di saldi negativi di conti correnti intrattenuti con la banca stessa, giacché in tal modo il credito vantato da quest'ultima verso l'impresa si trasforma da chirografario in privilegiato, con conseguente costituzione di un titolo di prelazione in danno degli altri creditori (cfr. Cass. pen. V, n. 51861/2018).

Parimenti, l'esclusione dall'azione revocatoria dei pagamenti di beni e dei servizi effettuati nell'esercizio dell'attività di impresa nei termini d'uso, ai sensi dell'art. 166, comma 3, lett. a) (prima 67, comma 3, lett. a), r.d. n. 267/1942), riguarda solo la soggezione ai rimedi di natura civilistica approntati a tutela della massa dei creditori, sì da non rendere penalmente lecite le corresponsioni compiute in violazione della parità di trattamento dei creditori o dell'ordine di preferenza accordato per legge ad alcuni di essi (cfr. Cass. pen. S.U., n. 289/2019, che ha altresì escluso che possa configurarsi la scriminante dello stato di necessità, in relazione al reato de quo, laddove i soci amministratori abbiano effettuato pagamenti nei confronti di alcuni creditori che sappiano appartenere ad una organizzazione criminale di stampo ndranghetistico, da cui temevano azioni violente per il mancato soddisfacimento delle loro pretese, qualora gli stessi avessero volontariamente e consapevolmente creato la situazione di pericolo per l'impresa, rivolgendosi agli stessi).

Ad ogni modo, ai fini della configurabilità del delitto di bancarotta preferenziale, è necessario che il pagamento estingua un debito effettivo, della cui esistenza l'imprenditore è onerato di fornire la prova, in difetto della quale ricorre un'ipotesi di distrazione dei beni e non di diseguale trattamento dei creditori (cfr. Cass. pen. V, n. 32637/2018).

La compensazione volontaria, pur consentita in linea generale dall'art. 1252 c.c. e dall'art. 155c.c.i.i. (prima art. 56 l. fall.), può integrare il reato di bancarotta preferenziale nei casi in cui l'accordo sia raggiunto durante la fase di insolvenza e sia finalizzato a favorire alcuni creditori con danno per gli altri (cfr. Cass. pen. V, n. 16983/2014).

Risponde di bancarotta preferenziale e non di bancarotta fraudolenta per distrazione anche l'amministratore che ottenga in pagamento di suoi crediti verso la Società in dissesto, relativi a compensi e rimborsi spese, una somma congrua rispetto al lavoro prestato (cfr. Cass. pen. V, n. 48017/2015, nonché Cass. pen. V, n. 32378/2018, che ha precisato che il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione si configura laddove l'amministratore si auto-attribuisca un compenso sproporzionato all'attività svolta).

Al contrario, la condotta dell'amministratore che occulti con artifici contabili l'ammanco dalle casse della fallita di somme ingenti integra gli estremi della bancarotta per distrazione e non preferenziale: affinché si possano considerare le somme dovute a titolo di retribuzione, è necessario che lo statuto della Società fallita contempli espressamente la retribuzione dovuta all'amministratore e ne quantifichi l'ammontare ovvero, in subordine, che la corresponsione delle suddette retribuzioni sia riportata in bilancio (cfr. Cass. pen. V, n. 1901/2010).

Non sussiste il reato di bancarotta preferenziale qualora il fallito paghi il canone di locazione dell'abitazione familiare, essendo necessario, ai fini della violazione della par condicio dei creditori, che questi ultimi concorrano nella ripartizione dell'attivo, mentre il rapporto di locazione avente ad oggetto un immobile destinato esclusivamente ad abitazione del fallito e della sua famiglia è preordinato al soddisfacimento di un'esigenza primaria di vita, ai sensi dell'art. 146 c.c.i.i. (già 46, n. 1, l. fall.) ed ha, pertanto, natura strettamente personale, restando estraneo al fallimento (cfr. Cass. pen. V, n. 54512/2018).

Non sussiste violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza nel caso in cui il giudice di appello, in parziale riforma della sentenza di condanna di primo grado relativa al reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, riqualifichi il fatto come bancarotta preferenziale, in quanto l'atto dispositivo tipico di tale fattispecie criminosa costituisce una species del più ampio genus di sottrazioni di risorse del patrimonio della Società, che caratterizza la bancarotta per distrazione (cfr. Cass. pen. V, n. 27141/2018).

Per contro, sussiste la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza nel caso in cui il giudice di appello, in riforma della sentenza assolutoria di primo grado dal reato di bancarotta preferenziale, condanni l'imputato per il reato di bancarotta per distrazione, trattandosi di fatto significativamente e sostanzialmente diverso da quello contestato con l'originaria imputazione, con conseguente difetto della concreta possibilità di esercizio dei correlati poteri difensivi dell'imputato, cosicché si impone l'applicazione – previo annullamento senza rinvio della sentenza impugnata e di quella di primo grado – del disposto di cui all'art. 521, comma 2 c.p.p., che prevede l'invio degli atti al P.M. (cfr. Cass. pen. V, n. 9347/2013).

Concorre nel reato di bancarotta preferenziale il creditore che, consapevole dello stato di dissesto del debitore fallendo, fornisce un contributo causale determinante alla violazione della par condicio. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto che correttamente la decisione impugnata avesse ravvisato gli estremi del reato con riferimento alla condotta di soci dell'impresa poi dichiarata fallita, i quali, in un momento successivo alla manifestazione dei segnali di decozione, avevano anticipato delle somme di denaro necessarie per consentire all'ente il compimento di un'operazione economica e ne avevano poi ottenuto l'immediata restituzione, cfr. Cass. pen. V, n. 40998/2014, nonché Cass. pen. V, n. 39417/2008, che ha ritenuto esente da censure l'affermazione della responsabilità penale del creditore che si soddisfaceva dei propri crediti utilizzando le somme di pertinenza della Società in stato di insolvenza versate dai debitori di quest'ultima su un conto corrente a lui intestato).

L'art. 1186 c.c. legittima il creditore ad esigere immediatamente la prestazione, anche in pendenza di termine stabilito in favore del debitore, se questi è divenuto insolvente, e pertanto lo stato d'insolvenza esistente e conosciuto al momento del pagamento di un debito non scaduto non costituisce, ex se, un elemento che concreti un'ipotesi di bancarotta preferenziale né tantomeno un concorso nella stessa da parte del creditore favorito. Nondimeno, l'art. 1186 c.c. non è stato ritenuto è applicabile quando lo stesso fatto – pagamento in stato d'insolvenza – assuma un diverso rilievo con la dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale, in virtù di norme speciali che – come quelle relative alla revocatoria fallimentare – prevedono l'inefficacia di quei pagamenti, o – come per la bancarotta preferenziale – attribuiscono loro un carattere delittuoso se qualificati dal fine di favorire, a danno dei creditori, taluno di essi. In tal caso anche il creditore favorito che abbia agito con lo stesso elemento soggettivo risponde, a titolo di concorso, del delitto di bancarotta preferenziale (cfr. Cass. pen. V, n. 215/1983, nonché Cass. V, n. 9219/1981).

Di recente, sul rapporto fra la fattispecie in commento e quella della bancarotta per distrazione, la Suprema Corte ha stabilito che:

– «Integra il delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione e non quello di bancarotta preferenziale, la condotta dell'amministratore di una società che si appropri di somme della società a titolo di pagamento per le prestazioni lavorative svolte in favore di quest'ultima, non essendo scindibile la sua qualità di creditore da quella di amministratore» (Cass. pen. F, n. 27132/2020);

– «il prelievo di somme di denaro a titolo di restituzione dei versamenti operati dai soci in conto capitale (o indicati con analoga dizione), integra la fattispecie della bancarotta fraudolenta per distrazione non dando luogo tali versamenti ad un credito esigibile nel corso della vita della società, mentre il prelievo di somme quale restituzione dei versamenti operati dai soci a titolo di mutuo, determinando il sorgere in capo a questi ultimi di un credito chirografario, effettivo ed esigibile, integra la fattispecie di bancarotta preferenziale» (Cass. pen. V, n. 27446/2024).

Elemento soggettivo

L'elemento soggettivo del reato di bancarotta preferenziale è ravvisabile ogni qualvolta l'atteggiamento psicologico del soggetto agente sia rivolto a favorire un creditore, riflettendosi, contemporaneamente, anche secondo lo schema tipico del dolo eventuale, nel pregiudizio per altri. La punibilità non è esclusa dalla mancata incriminazione del creditore favorito, nei cui confronti sia ipotizzabile il concorso nel delitto (cfr. Cass. pen. V, n. 4427/1998, cfr. anche Cass. pen. V, n. 673/2013; Cass. pen., n. 31894/2009; Cass. pen., n. 31168/2009; Cass. pen. n. 4431/1998).

Non è ipotizzabile il delitto di bancarotta preferenziale, per difetto dell'elemento psicologico:

– nel fatto del titolare dell'azienda che provveda al pagamento di alcuni creditori al fine di eliminare istanze di fallimento, con la intenzione di migliorare la situazione dell'azienda medesima ed evitare la procedura concorsuale (cfr. Cass. pen. V, n. 7248/1992);

– nel pagamento volto, in via esclusiva o prevalente, alla salvaguardia della attività sociale o imprenditoriale, la cui finalità di evitare il fallimento possa ritenersi più che ragionevolmente perseguibile (Cfr. Cass. pen. V, n. 54465/2018; fattispecie relativa ad erogazioni di denaro effettuate in favore di una Società a cui erano stati affidati lavori edili in subappalto, in modo da ottenere dalla committente il pagamento dei lavori in corso d'opera e garantire così la sopravvivenza finanziaria della Società amministrata dall'imputato).

Bancarotta post-fallimentare

La stessa pena prevista dal comma 1 dell'art. 322 si applica anche all'imprenditore, dichiarato in liquidazione giudiziale, che, durante la procedura, commette alcuno dei fatti di bancarotta fraudolenta patrimoniale ovvero sottrae, distrugge o falsifica i libri o le altre scritture contabili.

Il momento consumativo del reato è costituito dal momento in cui vengono poste in essere le singole condotte (cfr. Cass. pen. V, n. 2334/1988).

In particolare, con riferimento alla bancarotta fraudolenta patrimoniale (post-fallimentare), è stato affermato che la condotta distrattiva:

– non potendo essere compiuta interamente dall'amministratore, ad eccezione dei casi in cui la disponibilità dei beni dell'impresa fallita è conservata dallo stesso, si manifesta, di regola, nella forma del concorso di persone nel reato, poiché è necessario il contributo dei soggetti che, in quanto titolari di funzioni nella procedura concorsuale, sono in grado di adottare gli atti dispositivi dei beni della liquidazione giudiziale o di consentire il compimento delle azioni distruttive. (cfr. Cass. pen. V, n. 15951/2015; ivi la Corte ha ritenuto immune da vizi la sentenza di merito che aveva ritenuto il concorso nel reato dell'amministratore della Società fallita, del curatore fallimentare e del giudice delegato, in relazione a una transazione, autorizzata da quest'ultimo, con la quale erano state alienate l'azienda e gli immobili dell'impresa a due Società gestite dallo stesso amministratore della fallita, realizzandosi così effetti pregiudizievoli per i creditori);

– può concretizzarsi nella distrazione delle somme pervenute all'imprenditore in liquidazione per l'attività esercitata successivamente alla dichiarazione di fallimento, qualora dette somme superino i limiti determinati dal giudice delegato in relazione a quanto occorre per il mantenimento dell'imprenditore fallito e della famiglia, ai sensi dell'art 146, comma 1, lett. b) e ultimo comma c.c.i.i. (già 46, comma 1, n. 2 e ultimo comma l. fall.); in tal caso, tuttavia, non è sufficiente ad integrare il delitto la circostanza che il fallito abbia utilizzato i proventi senza aver chiesto od ottenuto un preventivo provvedimento dal giudice delegato circa le somme che aveva il diritto di trattenere, in quanto la materialità del fatto di bancarotta richiede la concreta sottrazione di somme superanti il limite massimo previsto dalla disciplina sul fallimento (cfr. Cass. pen. V, n. 1432/1978); contra: cfr. Cass. pen. V, n. 9812/2006, secondo cui in tema di reati fallimentari, qualora il fallito dopo la dichiarazione di fallimento intraprenda una nuova attività di impresa [nella specie edilizia] acquistando materie prime ed attrezzature e pagandole con il ricavato dei lavori eseguiti, non è configurabile la distrazione di cui all'art. 216, comma 2 l. fall. (oggi 322, comma 2 c.c.i.i.) se essa concerna i ricavi reinvestiti nell'esercizio dell'impresa, posto che la curatela fallimentare ha facoltà, ex art. 42, comma 2 l. fall. (oggi 142 c.c.i.i.) di appropriarsi dei risultati positivi della nuova attività al netto delle spese incontrate per la loro realizzazione. Da ultimo, la Cassazione ha chiarito che – ad ogni buon conto – «integra il delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale post-fallimentare la condotta di colui che, dopo essere stato dichiarato fallito, intraprenda una nuova attività dalla quale tragga ricavi consistenti e, comunque, eccedenti i redditi necessari per il mantenimento proprio e della propria famiglia, omettendo di conferirli a favore della procedura concorsuale in corso, in violazione dell'art. 46 l. fall.» (Cass. pen. V, n. 12730/2024).

Relativamente a marchi e brevetti, ai fini della configurabilità del delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale post-fallimentare:

– «non è sufficiente la violazione della privativa industriale, ma è necessario che il diritto sui beni immateriali, pur rimanendo nel patrimonio della fallita, subisca l'annacquamento (“dilution”) del suo pregio, inteso come perdita irrimediabile, totale o parziale, di “chance” di una proficua collocazione dello stesso sul mercato, non ripristinabile neanche dopo la cessazione della condotta di violazione» (Cass. pen. V, n. 44889/2023);

– il cd “know-How” non rappresenta un autonomo elemento patrimoniale suscettibile di integrare, di per sé, un “distacco” quale elemento costitutivo del reato (Cass. pen. V, n. 44889/2023 cit.).

In tema di bancarotta fraudolenta documentale post-fallimentare è stato rilevato come:

– laddove si configuri attraverso la falsificazione, oggetto della falsificazione possa essere sia il documento da annotare nella scrittura contabile dell'impresa sia l'atto formato posteriormente e finalizzato a giustificare una falsa annotazione già compiuta ed a rafforzarne la portata illecita, quale ostacolo alla ricostruzione del patrimonio (cfr. Cass. pen. V, n. 17084/2014; fattispecie in cui la Suprema Corte ha condiviso la riconduzione, al reato in esame, della formazione di un contratto ideologicamente falso di vendita, finalizzato a supportare una falsa fattura già precedentemente annotata in contabilità e relativa alla vendita di quello stesso bene);

– il reato si perfeziona indipendentemente dalla impossibilità di ricostruire la contabilità dell'impresa, atteso che, stando alla lettera della norma (che neppure menziona la citata quarta ipotesi della bancarotta documentale cd. generale) e alla ratio che la ispira, la sottrazione, la distruzione o la falsificazione dei libri o documenti dopo la dichiarazione di fallimento mirano ad impedire la ricostruzione del patrimonio ed i movimenti degli affari (cfr. Cass. pen. VI, n. 4038/1994);

– il concorso di persone nel reato può assumere anche la forma del consiglio, dell'invito, del suggerimento e dell'istigazione a compiere un'azione penalmente illecita. Integra, pertanto, concorso nel reato di bancarotta documentale post fallimentare il suggerimento, dato dal curatore fallimentare al fallito, di distruggere le scritture contabili, nel caso il suggerimento sia accettato e realizzato (cfr. Cass. pen. VI, n. 4038/1994).

Ai fini della configurabilità dei reati di bancarotta post fallimentare, quali previsti dall'art. 322, comma 2 c.c.i.i. (già 216, comma 2 l. fall.) non è richiesta, sotto il profilo soggettivo, la prova che l'agente abbia avuto conoscenza dell'intervenuta dichiarazione di apertura della liquidazione (prima, fallimento), atteso che la struttura di detti reati non è diversa da quelle dei reati di bancarotta pre-fallimentare previsti dal primo comma dell'art. in commento, per i quali la dichiarazione opera per il solo fatto del suo sopravvenire a condotte che altrimenti sarebbero lecite o potrebbero dar luogo ad altre e diverse figure di reato (cfr. Cass. pen. V, n. 44884/2007).

Sempre sotto un profilo soggettivo, è stato evidenziato come l'elemento psicologico del reato di bancarotta documentale post fallimentare, alla stessa stregua delle ipotesi di bancarotta pre-fallimentare, si identifichi nel dolo specifico di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori mediante sottrazione, distruzione o falsificazione di libri e scritture (cfr. Cass. pen. V, n. 4038/1994).

Consumazione e tentativo

Poiché con la dichiarazione di apertura della procedura di liquidazione i fatti compiuti dall'imprenditore divengono penalmente rilevanti, la suddetta dichiarazione segna il momento ci consumazione dei reati di bancarotta pre-fallimentare (cfr. Cass. S.U., n. 21309/2011).

Correlativamente, la competenza per territorio si radica nel luogo ove viene pronunciata la suddetta sentenza (cfr. Cass. pen. I, n. 4356/2002).

Quanto ai reati post-fallimentari, la giurisprudenza ha evidenziato come la sentenza dichiarativa citata costituisca un presupposto del reato ovvero un elemento che deve precedere la commissione della condotta e che pertanto questi reati si consumino nel tempo e luogo della commissione dei fatti delittuosi e, in particolare, degli ultimi atti esecutivi del reato fallimentare (cfr. Cass. S.U., n. 21039/2011).

Laddove due o più soci di fatti, che abbiano svolto la medesima attività di impresa, vengano dichiarati falliti in tempi diversi, il reato di bancarotta imputato a ciascun socio si consuma al momento della dichiarazione di fallimento individuale e non al momento del fallimento della Società (cfr. Cass. pen. V, n. 41138/2001).

La compatibilità del tentativo nei reati fallimentari di bancarotta fraudolenta va verificata con riferimento a ciascuna fattispecie criminosa.

In generale, non sorgono dubbi sulla configurabilità del tentativo nelle ipotesi di bancarotta post-fallimentare (in quanto, a seguito della dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale, possono essere posti in essere atti idonei e diretti in modo non equivoco a commettere un delitto).

Per contro, con riferimento ai reati di bancarotta pre-fallimentare, la giurisprudenza è divisa: in alcune pronunce è stata esclusa (cfr. Cass. pen., n. 875/1967, secondo cui «In tema di bancarotta fraudolenta il tentativo è incomparabile rispetto a fatti anteriori alla dichiarazione di fallimento»), in altre pronunce è stata riconosciuta (cfr. Cass. pen., n. 4123/1983, secondo cui: «Ai fini della causa di non punibilità di cui al terzo comma dell'art. 56 cod. pen., la desistenza dall'azione deve intervenire durante lo svolgimento del processo esecutivo del reato, quando cioè l'attività esecutiva non è ancora esaurita, così da impedirne il completamento; altrimenti può configurarsi soltanto l'ipotesi del recesso attivo mediante impedimento dell'evento. (Nella specie si è ritenuto che le dimissioni da amministratore della Società non costituiscono desistenza volontaria in relazione ai fatti di distrazione posti in essere prima della dichiarazione di fallimento)».

Concorso di reati

In tema di reati fallimentari, nel caso di consumazione di una pluralità di condotte tipiche di bancarotta, anche relative a diverse fattispecie di cui agli artt. 322 e 323 c.c.i.i. (prima artt. 216 e 217 l. fall.), nell'ambito del medesimo fallimento, le stesse mantengono la propria autonomia ontologica, dando luogo ad un concorso di reati, unificati, ai soli fini sanzionatori, nel cumulo giuridico previsto dall'art. 325, comma 2, lett. a) c.c.i.i. (già art. 219, comma 1, n. 1 l. fall.), disposizione che pertanto non prevede, sotto il profilo strutturale, una circostanza aggravante, ma detta per i reati fallimentari una peculiare disciplina della continuazione derogatoria di quella ordinaria di cui all'art. 81 c.p. (cfr. Cass. S.U. , n. 21309/2001 e, da ultimo, Cass. pen. V, n. 44097/2019).

La pluralità di atti di bancarotta è considerata, ai sensi dell'art. 325, comma 2, lett. a) c.c.i.i. (già art. 219, comma 1, n. 1 l. fall.), come semplice circostanza aggravante del reato (assoggettata all'ordinario giudizio di comparazione tra aggravanti ed attenuanti) solo all'interno del medesimo procedimento concorsuale; ne consegue che, nel caso in cui le dichiarazioni di fallimento siano plurime ed autonome, le rispettive condotte illecite realizzano una ipotesi di concorso di reati, con applicazione del cumulo materiale delle pene, ovvero, se ne sussistono i presupposti, dell'istituto della continuazione (cfr. Cass. pen. V, n. 31408/2004).

In tema di continuazione tra reati di bancarotta fraudolenta, ai fini dell'individuazione della contiguità cronologica quale indice della sussistenza della medesima identità del disegno criminoso, assume rilievo la data di commissione della condotta (cfr. Cass. pen. V, n. 24657/2019, che richiama, a sua volta, Cass. pen. I, n .45602/2010).

In tema di reato continuato, la ratio della disciplina va ravvisata, con riferimento all'aspetto intellettivo, nella previsione della ricorrenza di più azioni criminose rispondenti a determinate finalità dell'agente e, in relazione al profilo della volontà, nella deliberazione di un programma di massima richiedente, di volta in volta, in sede attuativa, una specifica volizione (cfr. Cass. pen. V, n. 34502/2015; ivi la Corte ha annullato, con rinvio, la decisione di merito che aveva escluso la continuazione tra due condanne per il reato di bancarotta fraudolenta, sebbene i fatti fossero stati commessi con modalità esecutive similari e in un arco temporale ravvicinato, ritenendo inadeguata la motivazione incentrata sulla osservazione secondo cui l'agente non poteva avere certezza, sin dall'inizio delle sue condotte, della possibilità di operare sulle singole Società in crisi).

I reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale (artt. 322 e 329, comma 1 c.c.i.i.; prima, artt. 216 e 223, comma 1 l. fall.) e quello di bancarotta impropria di cui all'art. 329, comma 2, lett. b) (già art. 223, comma 2, n. 2 l. fall.) hanno ambiti diversi: il primo postula il compimento di atti di distrazione o dissipazione di beni societari ovvero di occultamento, distruzione o tenuta di libri e scritture contabili in modo da non consentire la ricostruzione delle vicende societarie, atti tali da creare pericolo per le ragioni creditorie, a prescindere dalla circostanza che abbiano prodotto il fallimento, essendo sufficiente che questo sia effettivamente intervenuto; il secondo concerne, invece, condotte dolose che non costituiscono distrazione o dissipazione di attività – né si risolvono in un pregiudizio per le verifiche concernenti il patrimonio sociale da operarsi tramite le scritture contabili – ma che devono porsi in nesso eziologico con il fallimento.

Ne consegue che, in relazione ai suddetti reati, mentre è da escludere il concorso formale è, invece, possibile il concorso materiale qualora, oltre ad azioni ricomprese nello specifico schema della bancarotta fraudolenta propria, si siano verificati differenti ed autonomi comportamenti dolosi i quali – concretandosi in abuso o infedeltà nell'esercizio della carica ricoperta o in un atto intrinsecamente pericoloso per l'andamento economico finanziario della Società – siano stati causa del fallimento (cfr. Cass. pen. V, n. 24051/2014, nonché Cass. pen., n. 345/2010). Per contro, il reato di cui all'art. 329, comma 2, lett. b) (prima art. 223, comma 2, n. 2 l. fall.) deve considerarsi assorbito nel primo quando l'azione diretta a causare il fallimento sia la stessa sussulta nel modello descrittivo della bancarotta fraudolenta (cfr. Cass. pen. V, n. 44103/2016).

Rispetto al concorso con il delitto di truffa, avente ad oggetto il conseguimento di finanziamenti bancari mediante falsificazione dei bilanci e di altra documentazione relativa alla situazione economico-patrimoniale di una Società, questo non assorbe la condotta di bancarotta successivamente realizzata dal medesimo imputato attraverso la sottrazione al ceto creditorio delle somme derivanti dall'anzidetta condotta illecita, trattandosi di fatti illeciti naturalisticamente differenziati (cfr. Cass. pen. V, n. 13399/2019; in motivazione, si è precisato che il rapporto strutturale tra i reati in oggetto è diverso da quello ricorrente tra appropriazione indebita e bancarotta, nel quale si ravvisa un'ipotesi di continenza). Non sussiste, però, il concorso formale dei reati di bancarotta fraudolenta ed appropriazione indebita (nella specie con riferimento a beni oggetto di locazione finanziaria), quando oltre ad esservi perfetta identità della cosa su cui si sono concentrate le rispettive attività criminose e simultaneità delle attività stesse, unica risulti la destinazione data dal soggetto attivo ai beni da lui appresi indebitamente, in quanto la condotta dell'apprensione di beni di cui il fallito abbia la disponibilità, pur essendo astrattamente riconducibile alle due distinte ipotesi delittuose in questione, ricade sotto la previsione dell'art. 84 c.p., con la conseguenza che il reato meno grave di appropriazione indebita è assorbito da quello di bancarotta fraudolenta (cfr. Cass. pen. V, n. 37298/2010).

È configurabile il concorso tra il delitto di bancarotta fraudolenta documentale, ex art. 322, comma 1, lett. a) c.c.i.i. (prima art. 216, comma 1, n. 2) e quello di occultamento e distruzione di documenti contabili, previsto dall'art. 10 del d.lgs. n. 74/2000, che sono tra loro in rapporto di specialità reciproca, in ragione: a) del differente oggetto materiale dell'illecito; b) dei diversi destinatari del precetto penale; c) del differente oggetto del dolo specifico; d) del divergente effetto lesivo delle condotte di reato (cfr. Cass. pen. V, n. 11049/2017 e, da ultimo, Cass. pen. III, n. 24255/2024).

Il reato di malversazione a danno dello Stato, di cui all'art. 316-bis c.p., concorre con quello di bancarotta impropria distrattiva, di cui all'art. 329, comma 1 c.c.i.i., (già 223, comma 1 l. fall.), in quanto l'autore dapprima si appropria delle risorse erariali immettendole nel patrimonio della Società, e successivamente le sottrae alla garanzia generica dei creditori, destinando le somme a finalità diverse sia rispetto a quelle per le quali era stato concesso il contributo o il finanziamento, sia rispetto a quelle proprie dell'attività imprenditoriale della Società. In motivazione, la Corte ha individuato un rapporto di progressione criminosa tra le due fattispecie incriminatrici (cfr. Cass. pen. V, n. 49992/2017).

È configurabile il concorso tra il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte e quello di bancarotta fraudolenta per distrazione, alla luce della diversità del soggetto-autore degli illeciti (nel primo caso, tutti i contribuenti, nel secondo, soltanto gli imprenditori falliti) e del differente elemento psicologico tra i reati, rispettivamente, dolo specifico e dolo generico (cfr. Cass. pen. V, n. 35591/2017).

Il reato di inosservanza dell'obbligo di deposito delle scritture contabili, previsto dagli artt. 327, comma 1 c.c.i.i. e 49 c.c.i.i. (prima artt. 220 e 16 n. 3, l. fall.), concorre con quelli di bancarotta fraudolenta documentale, di cui all'art. 322, comma 1, lett. b) (prima 216, comma 1, n. 2) l. fall.) e di bancarotta semplice documentale, di cui all'art. 323, comma 2 c.c.i.i. (già art. 217, comma 2 l. fall.), tutte le volte in cui la condotta di bancarotta non consista nella sottrazione, distruzione ovvero nella mancata tenuta delle scritture contabili, ma nella tenuta irregolare o incompleta delle stesse ovvero in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari (cfr. Cass. pen. V, n. 49789/2013). Di contro, l'inosservanza dell'obbligo di deposito delle scritture contabili deve ritenersi assorbita dall'ipotesi di bancarotta fraudolenta documentale laddove commessa mediante sottrazione dei documenti contabili, giacché «a fronte dell'omogeneità della struttura e dell'interesse sotteso ad entrambe le figure di reato, la seconda è più specifica, in ragione dell'elemento soggettivo» (Cass. pen. V, n. 2809/2014).

Il reato di bancarotta fraudolenta integra una figura di reato complesso ex art. 84 c.p. rispetto a quello di appropriazione indebita, con assorbimento di quest'ultimo in quello di bancarotta, sicché gli stessi fatti, già contestati ex art. 646 c.p., possono essere ricondotti, dopo la pronuncia della sentenza dichiarativa della liquidazione giudiziale, alla fattispecie di bancarotta. (cfr. Cass. pen. V, n. 2295/2015; la Suprema Corte ha in questa sede affermato tale principio ritenendo legittima un'ipotesi di modifica dell'imputazione ex art. 516 c.p.p., operata in dibattimento dal pubblico ministero una volta intervenuta la sentenza di fallimento).

Il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione addebitabile, ai sensi del combinato disposto degli artt. artt. 322 e 329, comma 1 c.c.i.i. (prima artt. 216 e 223, comma 1 l. fall.), all'amministratore della Società fallita, può concorrere con quello di bancarotta per infedeltà patrimoniale, previsto dal comma 2, n. 1, del citato art. 223 l. fall., in relazione all'art. 2634 c.c., attesa la diversità degli interessi tutelati dalle due norme anzidette (quello dei creditori sociali, quanto alla prima, e quello della tutela del patrimonio sociale, quanto alla seconda) e dovendosi altresì considerare che si perverrebbe, altrimenti, all'assurda conseguenza per cui la condotta di infedeltà patrimoniale, aggravata dal conflitto d'interessi, sarebbe punibile solo se avesse determinato il dissesto della Società mentre la distrazione, commessa senza conflitto d'interessi, sarebbe punibile di per sé, anche in mancanza di un rapporto di causalità con il dissesto (cfr. Cass. pen. V, n. 13110/2008).

È configurabile il concorso tra i delitti di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti e di dichiarazione infedele, di cui agli artt. 2 e 4 del d.lgs. n. 74/2000, e quello di di bancarotta fraudolenta documentale, di cui all'art. 216, comma 1, n. 2 l. fall., sussistendo un rapporto di eterogeneità strutturale tra le fattispecie, posto che la condotta di presentazione di una dichiarazione dei redditi fraudolenta o infedele, seppur preceduta dalla condotta di distruzione od occultamento della contabilità, non è elemento specializzante del delitto fallimentare (cfr. Cass. pen. III, n. 15208/2022).

In tema di reati fallimentari, non è configurabile il concorso formale tra i reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale e di bancarotta impropria da operazioni dolose, per il diverso ambito delle due fattispecie, ma il solo concorso materiale qualora, oltre alle condotte ricomprese nello specifico schema della bancarotta ex art. 216 l. fall., siano stati realizzati differenti ed autonomi comportamenti di abuso o infedeltà nell'esercizio della carica ricoperta ovvero atti intrinsecamente pericolosi per l'andamento economico finanziario della società, che siano stati causa del fallimento (cfr. Cass. pen. V, n. 348/2022).

Infine, appare non superfluo evidenziare il recente intervento giurisprudenziale secondo cui: «In tema di reati fallimentari, non sussiste il concorso tra il reato di inosservanza dell'obbligo di deposito delle scritture contabili, previsto dagli artt. 16, comma 1, n. 3 e 220 l. fall., ed il reato di bancarotta fraudolenta documentale di cui all'art. 216, comma 1, n. 2, primo periodo, l. fall. e ciò anche nell'ipotesi in cui le condotte non riguardino i medesimi libri e scritture contabili, attesa la clausola di riserva contenuta all'art. 220 e l'identità dell'offesa che connota le due fattispecie. In applicazione del principio la Corte ha annullato senza rinvio la sentenza di condanna dell'imputato nella parte in cui aveva ravvisato il concorso tra le due fattispecie di reato in considerazione del fatto che la condotta di cui agli artt. 16, comma 1, n. 3 e 220 l. fall. riguardava il deposito tardivo di scritture contabili relative ad annualità diverse da quelle considerate ai fini dell'integrazione della bancarotta fraudolenta» (cfr. Cass. V, n. 675/2021).

Concorso di persone

In tema di concorso nel reato di bancarotta fraudolenta, il dolo dell'extraneus nel reato proprio dell'imprenditore richiede la consapevolezza della qualifica del soggetto intraneus, ma non la rappresentazione della sussistenza dei requisiti soggettivi di fallibilità, quali la tipologia e le dimensioni dell'impresa (cfr. Cass. pen. V, n. 37194/2019) ovvero la specifica conoscenza dello stato di dissesto della Società, la quale può però rilevare sul piano probatorio quale indice significativo della rappresentazione della pericolosità della condotta per gli interessi dei creditori (cfr. Cass. pen. V, n. 4710/2019; Cass. pen. V, n. 3871/2017, nonché Cass. pen. V, n. 12414/2016).

Inoltre, quando l'apporto del terzo abbia per oggetto comportamenti che non abbiano esaurito la potenzialità offensiva degli interessi della massa dei creditori prima della dichiarazione di fallimento, sussiste la responsabilità di questi, ex art. 110 c.p., nel reato del soggetto proprio, avendo l'extraneus concorso a realizzare un segmento efficace del risultato illecito, la cui consumazione coincide con l'accertamento giudiziale dell'insolvenza (cfr. Cass. pen. V, n. 30412/2011, cfr. anche Cass. pen. V, n. 21475/2022, sul concorso del tecnico informatico, consapevole dei propositi illeciti dell'amministratore di una società in dissesto, nel reato di bancarotta fraudolenta documentale).

Il coinvolgimento dell'imputato in una singola operazione distrattiva non è, in assenza di indici sintomatici ulteriori, di per sé sufficiente a giustificare l'attribuzione della qualifica di amministratore di fatto a soggetto formalmente estraneo al ceto gestorio della Società, ferma restando la possibilità di configurare il concorso del medesimo in qualità di extraneus alla realizzazione dei reati di bancarotta commessi dall'amministratore di diritto (cfr. Cass. pen. V, n. 24051/2014).

Non integra la violazione del principio di correlazione tra reato contestato e reato ritenuto in sentenza (art. 521 c.p.p.), la decisione con la quale sia condannato un soggetto quale concorrente esterno in un reato di bancarotta fraudolenta, anziché quale amministratore di fatto, qualora rimanga immutata l'azione distrattiva (cfr. Cass. pen. V, n. 4117/2009, Cass. pen. V, n. 13595/2003 e, più di recente, Cass. pen. V, n. 36155/2019).

In tema di reati fallimentari commessi da persone diverse dal fallito, gli elementi di prova ritenuti insufficienti per radicare la qualità di amministratore di fatto in capo all'estraneo non possono essere utilizzati come prova presuntiva della sua responsabilità a titolo di concorso esterno nel reato proprio del fallito; nella specie, bancarotta per distrazione (cfr. Cass. pen. V, n. 37038/2006).

Se, infatti, risulta provata la qualifica di amministratore di fatto, è sufficiente, al fine di provare la responsabilità penale per il reato di bancarotta fraudolenta, la mancata giustificazione del destino dei beni e dei valori non rinvenuti al momento della dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale, rispondendo egli come destinatario della norma (cfr. Cass. pen. XV, n. 4571/1987).

Per contro, laddove non ricorrano i presupposti per il riconoscimento della suddetta qualifica, sarà necessario dimostrare il concreto apporto concorsuale dell'extraneus ai singoli fatti distrattivi.

In tema di reati fallimentari, è configurabile il concorso nel reato di bancarotta fraudolenta da parte di persona estranea al fallimento qualora la condotta realizzata in concorso col fallito sia stata efficiente per la produzione dell'evento e il terzo concorrente abbia operato con la consapevolezza e la volontà di aiutare l'imprenditore in dissesto a frustrare gli adempimenti predisposti dalla legge a tutela dei creditori dell'impresa (cfr. Cass. pen. V, n. 27367/2011).

Intorno al concorso in bancarotta fraudolenta per distrazione, il dolo dell'extraneus nel reato proprio dell'amministratore consiste nella volontarietà della propria condotta di apporto a quella dell'intraneus, con la consapevolezza che essa determina un depauperamento del patrimonio sociale ai danni del creditore, non essendo, invece, richiesta la specifica conoscenza del dissesto della Società. Ne consegue che ogni atto distrattivo assume rilievo ai sensi dell'art. 322 c.c.i.i. (già art. 216 l. fall. in caso di fallimento, indipendentemente dalla rappresentazione di quest'ultimo, il quale non costituisce l'evento del reato che, invece, coincide con la lesione dell'interesse patrimoniale della massa, posto che se la conoscenza dello stato di decozione costituisce dato significativo della consapevolezza del terzo di arrecare danno ai creditori ciò non significa che essa non possa ricavarsi da diversi fattori, quali la natura fittizia o l'entità dell'operazione che incide negativamente sul patrimonio della Società (cfr. Cass. pen. V, n. 16579/2010).

Al contempo, un comportamento postumo del terzo extraneus non è idoneo a configurare il concorso nel delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale commesso dall'intraneus: in tema di bancarotta fraudolenta, non sussiste la responsabilità ex art. 110 c.p. del terzo extraneus nel caso in cui questi – in epoca successiva alla condotta distrattiva e senza preventivo accordo con l'intraneus – ponga in essere un comportamento autonomo che rende di fatto irreversibile l'effetto distrattivo, anche se tale condotta sia stata posta in essere in epoca antecedente alla dichiarazione di fallimento (cfr. Cass. pen. V, n. 49499/2018; nel caso concreto deciso con la sentenza richiamata, il professionista di fiducia dell'amministratore della Società poi fallita, in epoca successiva al compimento degli atti distrattivi, aveva posto in essere condotte finalizzate a ritardare la dichiarazione di fallimento e garantire l'impunità dell'amministratore, senza che ci fosse alcun preventivo accordo con quest'ultimo).

Guardando a una specifica ipotesi, il consulente della Società risponderà a titolo di concorso delle fattispecie di cui all'art. in commento se, consapevole dei propositi distrattivi dell'imprenditore e degli amministratori della Società, progetti e porti a esecuzione la conclusione di contratti (nella specie affitto di azienda) privi di effettiva contropartita e preordinati ad avvantaggiare i soci a scapito dei creditori o, ancora, fornisca all'imprenditore consigli sui mezzi giuridici idonei a sottrarre i beni ai creditori o lo assista nella conclusione dei relativi negozi od ancora svolga un'attività diretta a garantire l'impunità o a rafforzare, con il proprio ausilio e le, proprie preventive assicurazioni, l'altrui progetto delittuoso (cfr. Cass. pen. V, n. 10742/2008, nonché Cass. pen., n. 49472/2013, che ha riconosciuto la legittimità dell'affermazione di responsabilità dell'imputata che nella qualità di ragioniere e fiduciario dell'amministratore di diritto aveva consapevolmente proposto, coltivato ed insistito per porre in essere atti depauperatori del patrimonio sociale a danno dei creditori; Cass. pen. V, n. 8276/2015, che ha riconosciuto la legittimità dell'affermazione di responsabilità dell'imputato, quale consulente incaricato della tenuta della contabilità di varie Società fallite, aveva consapevolmente partecipato alla realizzazione di numerose manipolazioni delle scritture contabili al fine di occultare la distrazione di ingenti somme di denaro).

Non è configurabile il reato di riciclaggio del denaro provento di bancarotta fraudolenta per distrazione, bensì quello di concorso dell'extraneus nel reato di cui all'art. 322 c.c.i.i. (già 216 l. fall.), nella condotta del soggetto che riceve somme di denaro provenienti dalla Società poi fallita, con la consapevolezza dello stato di dissesto finanziario della stessa ed in mancanza di titolo giustificativo (cfr. Cass. pen. V, n. 2290/2017).

Risponde del reato di autoriciclaggio anche il soggetto a cui non sia contestato il reato presupposto giacché si configura un'ipotesi di concorso dell'extraneus nel reato proprio; nella specie, è stata affermata la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza per il reato di autoriciclaggio in capo all'indagato che si occupava della redazione dei bilanci e della tenuta delle scritture contabili delle Società nei cui conti correnti transitava il denaro proveniente dal reato presupposto, bancarotta fraudolenta, a lui non contestato (cfr. Cass. pen. II, n. 42561/2017).

Integra il concorso dell'extraneus nel reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, il soggetto che agevoli il titolare della Società debitrice nella costituzione di una nuova Società di cui assuma l'amministrazione e con cui la prima stipuli un contratto di locazione connotato da un canone sensibilmente inferiore a quelli di mercato al fine di mantenere la disponibilità materiale dell'immobile locato alla famiglia del titolare della Società in procinto di essere sottoposto a liquidazione giudiziale (cfr. Cass. pen. V, n. 49642/2009).

In tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale societaria per distrazione, integra l'ipotesi di concorso dell'extraneus nel reato di cui all'art. 329, comma 2, lett. a) (prima art. 223, comma 2, n. 1 l. fall.) la condotta del socio e procuratore speciale della Società debitrice che abbia contribuito alla cessione, materialmente posta in essere dall'amministratore, del patrimonio immobiliare della Società in decozione ad altra Società della quale egli stesso era socio-amministratore, senza che sia stato poi effettivamente pagato il prezzo pattuito (cfr. Cass. pen. V, n. 33306/ 2016).

In tema di concorso in bancarotta fraudolenta documentale, il dolo dell'extraneus nel reato proprio dell'amministratore consiste nella volontarietà della propria condotta di sostegno a quella dell'intraneus, con la consapevolezza che essa determina un depauperamento del patrimonio sociale ai danni del creditore, non essendo, invece, richiesta la specifica conoscenza del dissesto della Società (cfr. Cass. pen. V, n. 1706/2013).

Sempre in merito alla bancarotta fraudolenta documentale, è stato detto che «concorre in qualità di extraneus nel reato di bancarotta fraudolenta documentale il tecnico informatico che, consapevole dei propositi illeciti dell'amministratore di una società in dissesto, lo aiuti a eliminare dalle banche dati “file” contenenti documentazione contabile, così da impedire la ricostruzione della situazione economica, patrimoniale e degli affari della fallita, nella consapevolezza di cagionare – con tale condotta – pregiudizio ai creditori sociali» (Cass. pen. V, n. 21475/2022).

Giova anche qui ricordare come recentissima giurisprudenza ha evidenziato come «in tema di bancarotta fraudolenta documentale per omessa tenuta della contabilità interna, è configurabile il concorso di persone nel reato a condizione che almeno uno dei concorrenti – non necessariamente l'esecutore materiale – agisca animato dal dolo specifico di arrecare pregiudizio ai creditori e che gli altri concorrenti siano consapevoli di tale intenzione» (Cass. pen. V, n. 27688/2024).

A proposito di concorso nel reato di bancarotta preferenziale, il dolo dell'extraneus nel reato proprio dell'amministratore consiste nella volontarietà della propria condotta di sostegno a quella dell'intraneus, con la consapevolezza che essa determina la preferenza nel soddisfacimento di uno dei creditori rispetto agli altri, non essendo, invece, richiesta la specifica conoscenza del dissesto della Società (cfr. Cass. pen., n. 27141/2018, nonché Cass. pen. V, n. 16983/2014).

Le pene accessorie

Come sopra accennato, il legislatore del 2019 ha adeguato il dettato normativo all'intervento della Corte cost. n. 222/2018, che aveva dichiarato l'illegittimità̀ costituzionale dell'art. 216, ultimo comma, del r.d. n. 267/1942 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa), nella parte in cui dispone: «la condanna per uno dei fatti previsti dal presente art. importa per la durata di dieci anni l'inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e l'incapacità̀ per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa», anziché́: «la condanna per uno dei fatti previsti dal presente art. importa l'inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e l'incapacità̀ ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni».

Ciò in quanto le pene accessorie di durata fissa non potevano essere considerate compatibili con i princìpi di proporzionalità e necessaria individualizzazione del trattamento sanzionatorio.

Poiché la gravità dei fatti qualificabili come bancarotta fraudolenta può essere in concreto assai diversa, un'unica e indifferenziata durata delle pene accessorie era suscettibile di determinare risposte sanzionatorie manifestamente sproporzionate per eccesso rispetto ai fatti di bancarotta meno gravi.

Pertanto, nel condannare l'imputato per il reato di bancarotta fraudolenta il giudice deve determinare discrezionalmente la durata delle pene accessorie, che si aggiungono alla pena principale, fino ad un tetto massimo di dieci anni, senza alcun automatismo, ma tenendo conto della concreta gravità del fatto commesso dell'imputato.

Rimane ferma, altresì, la possibilità che la durata della pena accessoria sia maggiore rispetto a quella della pena detentiva, atteso che le pene accessorie hanno un minor grado di affettività e svolgono una finzione, in parte diversa, rispetto alle pene detentive, in quanto finalizzate ad impedire al condannato di continuare a svolgere le attività che gli hanno fornito l'occasione per commettere gravi reati.

La durata delle pene accessorie per le quali la legge stabilisce, in misura non fissa, un limite di durata minimo ed uno massimo, ovvero uno soltanto di essi, deve essere determinata in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all'art. 133 c.p. e non rapportata, invece, alla durata della pena principale inflitta ex art. 37 c.p. In applicazione del principio, la Corte ha annullato con rinvio la sentenza che aveva irrogato agli imputati le pene accessorie conseguenti al reato di bancarotta fraudolenta per il periodo fisso di dieci anni richiamando la sent. della Corte cost. n. 222/2018 (cfr. Cass. pen. S.U. , n. 28910/2019, nonché Cass. pen. V, n. 5882/2019, contra: Cass. pen. V, n. 1968/2018, secondo cui in tema di bancarotta fraudolenta, le pene accessorie previste dall'art. 216, ult. comm., l. fall., nella formulazione derivata dalla sentenza della Corte cost. n. 222/2018, devono essere commisurate alla durata della pena principale, in quanto, essendo determinate solo nel massimo, sono soggette alla disciplina di cui all'art. 37 c.p. (In applicazione del principio la Corte, riconoscendo d'ufficio l'illegalità delle pene accessorie irrogate prima della declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 216, ultimo comm., l. fall., ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla durata delle pene accessorie, che è stata quindi rideterminata in quella corrispondente alla pena principale inflitta all'imputato).

In tema di bancarotta fraudolenta, il patteggiamento di una pena detentiva non superiore ai due anni preclude l'applicazione delle pene accessorie obbligatorie per legge, non essendo l'art. 322 c.c.i.i. (prima 216 l. fall.) una norma speciale, prevalente rispetto a quella di cui all'art. 445, comma 1 c.p.p. Fattispecie riguardante le pene accessorie dell'inabilitazione dell'esercizio di un'attività commerciale e dell'incapacità ad esercitare uffici direttivi presso imprese per la durata di dieci anni (cfr. Cass. pen. V, n. 15386/2016).

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