Si può sanzionare un medico che registra la conversazione fra colleghi per costituirsi una prova processuale?

23 Aprile 2025

La registrazione di una conversazione tra presenti, senza il consenso dell'altra parte, non viola il diritto alla riservatezza se è necessaria per il legittimo esercizio del diritto di difesa in giudizio. La registrazione può essere utilizzata solo per perseguire tale finalità e per il periodo di tempo strettamente necessario.

Massima

La registrazione di un colloquio fra colleghi, a cui partecipa chi registra, finalizzata ad acquisire prove da utilizzare in sede giudiziaria, non è lesiva del diritto alla riservatezza, seppure realizzata senza il consenso dell’interessato, perché necessaria ai fini dello svolgimento delle indagini difensive o comunque per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria.

Il caso

La Commissione medica di disciplina dell'Ordine provinciale dei medici chirurghi e degli odontoiatri di un comune italiano infliggeva ad una professionista la sanzione della censura ex art. 40 punto 2) d.P.R. 221/1950 per violazione dell'art. 58 del Codice deontologico dei Medici, per avere posto in essere un comportamento scorretto, in violazione del dovere di rispetto reciproco e fiducia nei confronti di un collega; in particolare, il medico aveva registrato senza autorizzazione una conversazione privata, intercorsa con il collega in ambiente e orario di lavoro, allo scopo di utilizzarne il contenuto come prova contro il direttore della U.O.C., da lei denunciato per abuso di ufficio e omissione di atti d'ufficio commessi in suo danno. Il collega col quale la conversazione registrata era intercorsa aveva segnalato all'Ordine Provinciale la condotta della professionista che, violando il suo diritto alla riservatezza, aveva irreparabilmente compromesso il loro rapporto fiduciario (la registrazione era stata depositata in Procura in un giudizio penale a carico del terzo). La Commissione centrale per gli esercenti le professioni sanitarie confermava la sanzione irrogata, respingendo il ricorso proposto dalla lavoratrice, la quale sosteneva la legittimità del proprio comportamento, necessitato dall'esercizio del proprio diritto alla difesa nel procedimento penale con un terzo.

In particolare, con il secondo motivo, la ricorrente ha prospettato la violazione degli artt. 24 Cost., 51 c.p. e 24 d.lgs. 196/2003 per non avere la Corte considerato che la registrazione di un colloquio fra colleghi, a cui partecipi chi registra, finalizzata ad acquisire prove da utilizzare in sede giudiziaria, non è lesiva del diritto alla riservatezza, seppure realizzata senza il consenso dell'interessato, perché necessaria ai fini dello svolgimento delle indagini difensive o comunque per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria. Avverso questa decisione la professionista ha proposto ricorso per cassazione.

La questione

Si può registrare una conversazione senza il consenso degli interessati? È necessario che partecipi anche chi effettua la registrazione?

Le soluzioni giuridiche

La Suprema Corte con l'Ordinanza 5 marzo 2025 n. 5844 ha ritenuta ammissibile la doglianza della lavoratrice e cassato la decisione impugnata con la quale la Commissione centrale aveva considerato scorretta deontologicamente la registrazione in assenza di previo consenso perché attuata in violazione del diritto alla riservatezza e non scriminata dalla addotta necessità, da parte dell'incolpata, di procurarsi una prova rilevante in un giudizio penale.

Nel provvedimento impugnato la condotta sanzionata era stata specificamente individuata come deontologicamente illecita in riferimento al diritto alla riservatezza, la cui violazione si sarebbe tradotta nella violazione delle norme di correttezza tra colleghi. In particolare, l'art. 58 del codice deontologico, nella versione approvata il 15 dicembre 2006, prevedeva che «il rapporto tra medici deve ispirarsi ai principi di corretta solidarietà, di reciproco rispetto e di considerazione della attività professionale di ognuno»; in sostanza, la Commissione ha considerato scorretta da un punto di vista deontologico la registrazione in assenza di previo consenso perché attuata in violazione del diritto alla riservatezza e non scriminata dalla addotta necessità, da parte dell'incolpata, di procurarsi una prova rilevante in un giudizio penale. La censura in esame, dunque, è stata formulata in riferimento alla violazione di due norme imperative, l' art. 51 c.p. e l'art. 24, d.lgs. 196/2003 (Codice della privacy), vigente all'epoca di compimento dei fatti, perché nella motivazione del provvedimento impugnato la condotta sanzionata è stata specificamente individuata come deontologicamente illecita in riferimento al diritto alla riservatezza, la cui violazione si sarebbe tradotta nella violazione delle norme di correttezza tra colleghi. La violazione del diritto alla riservatezza risulta, dalla predetta norma, scriminata dalla sussistenza di una particolare ipotesi, il contrapposto esercizio del diritto di difesa (e lo risulta anche in riferimento al decreto legislativo n. 101/2018). La norma, peraltro, è applicazione specifica del principio generale sancito nell'art. 51 c.p., secondo cui l'esercizio di un diritto o l'adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità, esclude la punibilità. In tal senso, la Commissione centrale, nell'esaminare le ragioni scriminanti addotte dalla incolpata, non si è conformata a un principio di diritto consacrato nella norma dell'art. 24 del Codice della privacy, in applicazione – ancor prima – del principio generale di cui all'art. 51 c.p., secondo cui non è illecita la violazione del diritto alla riservatezza, cioè la condotta di registrazione d'una conversazione tra presenti in mancanza dell'altrui consenso, ove rispondente alle necessità conseguenti al legittimo esercizio del diritto di difesa in giudizio. Nello specifico, per quel che qui rileva, la scriminante opera a prescindere dalla esatta coincidenza soggettiva tra i conversanti e le parti processuali, purché l'utilizzazione di tale registrazione avvenga solo in funzione del perseguimento di tale finalità e per il periodo di tempo strettamente necessario. A ciò si aggiunga che questa Corte ha, pure, esplicitamente affermato che «il diritto di difesa non è limitato alla pura e semplice sede processuale, estendendosi a tutte quelle attività dirette ad acquisire prove in essa utilizzabili, ancor prima che la controversia sia stata formalmente instaurata mediante citazione o ricorso; non a caso, nel codice di procedura penale, il diritto di difesa costituzionalmente garantito dall'art. 24 Cost. sussiste anche in capo a chi non abbia ancora assunto la qualità di parte in un procedimento.

Per completezza si rende necessario richiamare le ulteriori norme che regolano la materia in questione.

La Costituzione all'articolo 15 statuisce che “la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili”. Tale disposizione è precisata dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione le quali hanno affermato che “la riservatezza è costituzionalmente garantita nei limiti in cui la stessa va ad incidere su alcuni diritti di libertà”. Inoltre, l'art. 2712 c.c. precisa che “le registrazioni fonografiche e, in genere, ogni altra rappresentazione meccanica di fatti e di cose formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate” e l'art. 24 lett. f ) del Codice della Privacy, applicabile al caso in esame, afferma che il consenso non è richiesto quando il trattamento “è necessario ai fini dello svolgimento delle investigazioni difensive di cui alla legge 7 dicembre 2000, n. 397, o, comunque, per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria, sempre che i dati siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento, nel rispetto della vigente normativa in materia di segreto aziendale e industriale”. L'art. 6 GDPR, inoltre, dispone che il trattamento è lecito se necessario al perseguimento del legittimo interesse del titolare e l'art. 9 del regolamento citato secondo il quale il trattamento di categorie particolari di dati personali è possibile se lo stesso è necessario per accertare, esercitare o difendere un diritto in sede giudiziaria. Sul punto l'art 160 bis del Codice della Privacy, così come modificato dal d. lgs. 10 agosto 2018, n. 101, stabilisce che “la validità, l'efficacia e l'utilizzabilità nel procedimento giudiziario di atti, documenti e provvedimenti basati sul trattamento di dati personali non conforme a disposizioni di legge o di Regolamento restano disciplinate dalle pertinenti disposizioni processuali”.

Sul punto vale la pena precisare che la Giurisprudenza è univoca nell'affermare che la registrazione fonografica di un colloquio, svoltosi tra presenti ad opera di un soggetto che ne sia partecipe, è prova documentale utilizzabile; proprio lo scorso anno la Corte di cassazione si è trovata ad affrontare un caso simile riguardante la registrazione non consensuale utilizzata come prova in un contesto di contratto preliminare. In quel caso, la Corte ha stabilito che la registrazione era ammissibile come prova per dimostrare l'inadempimento contrattuale non avendo affrontato direttamente il bilanciamento tra diritto alla riservatezza e diritto alla difesa; circostanza diversa nel caso analizzato in cui la registrazione era necessaria per l'esercizio del diritto di difesa in giudizio.

In conclusione, la sentenza Cass. n. 5844/2025 costituisce un precedente significativo per l'uso di registrazioni non consensuali in casi di difesa legale, bilanciando il diritto alla riservatezza con il diritto alla difesa.

Osservazioni

Secondo la legge italiana, registrare le conversazioni un’altra persona, senza il suo consenso, è generalmente illecito. Tuttavia, la registrazione è legale quando avviene a scopo difensivo, ad esempio per tutelarsi da una minaccia o per raccogliere prove in vista di un possibile contenzioso. In particolare, la registrazione di conversazioni tra presenti, effettuata all’insaputa degli interlocutori, costituisce una grave violazione del diritto alla riservatezza. Registrare qualcuno mentre parla rappresenta una violazione della privacy, con possibili conseguenze disciplinari o legali.

Tuttavia, la registrazione è considerata legittima quando avviene a scopo difensivo, ossia risulta necessaria per far valere o difendere un diritto e acquisirne le prove. Ad esempio, questo potrebbe accadere nel caso in cui un lavoratore si trovasse a subire minacce o comportamenti scorretti da parte di colleghi o superiori.

Anche quando la registrazione è lecita, la sua diffusione a terzi non coinvolti nella conversazione, è vietata. In particolare, la legge stabilisce che la registrazione non può essere condivisa con persone estranee, né può essere diffusa sui social media, poiché questo costituirebbe una violazione della privacy della persona registrata.

Il contenuto della registrazione può essere ascoltato esclusivamente dalle persone presenti al momento della conversazione. È, inoltre, vietato inviare registrazioni audio o condividerle con altri colleghi. Chi registra dev’essere fisicamente presente durante la conversazione: non è consentito utilizzare un registratore automatico, né delegare terzi per effettuare la registrazione.

Mentre le registrazioni audio possono essere utilizzate a scopo difensivo, ci sono alcune azioni che sono assolutamente vietate sul lavoro. La normativa sulla privacy, ad esempio, vieta l’accesso al computer altrui senza previo consenso, anche se non sono richieste credenziali di accesso o si conosce la password.

Allo stesso modo, leggere le e-mail di un collega può considerarsi illecito, poiché la segretezza della corrispondenza, inclusa quella elettronica, è tutelata dalla Costituzione e dal codice penale. Anche se le caselle di posta elettronica aziendali appartengono di fatto al datore di lavoro, le e-mail contenute potrebbero essere considerate private, in quanto nome e cognome sono da considerare dati personali ai sensi del GDPR.

Le restrizioni in azienda si estendono anche alle foto. È vietato, infatti, scattare e diffondere una fotografia a un collega o a un superiore senza il suo consenso. Viceversa, è possibile farlo al di fuori del luogo di lavoro: ad esempio, se un dipendente in malattia viene sorpreso a passeggiare fuori casa, le foto possono essere utilizzate come prova in caso di licenziamento.

Anche la divulgazione di maldicenze o informazioni riservate tra colleghi è limitata, poiché può influire negativamente sull’ambiente di lavoro. Infine, compiere qualsiasi azione che violi o leda la privacy di un collega o del datore di lavoro, può avere conseguenze anche gravi, che vanno dal licenziamento per giusta causa alla reclusione da 4 a 6 anni.

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