Il contenuto di una chat privata del lavoratore non può costituire giusta causa di recesso

26 Maggio 2025

La Corte di cassazione è chiamata a decidere su un caso relativo al licenziamento per giusta causa comminato, nei primi due gradi di giudizio, ad una dipendente che ha postato su una chat privata di Whatsapp un video che denigra una cliente per le sue fattezze fisiche e indirettamente anche l’azienda presso cui la dipendente lavora. Tra "gli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa", ai sensi dell’art.4 dello Statuto dei lavoratori, non rientra il cellulare privato della dipendente ai cui dati il datore di lavoro non può, in alcun modo, avere accesso. Sulla base di ciò la Corte ha deciso stabilendo l’illegittimità del licenziamento della dipendente.

Massima

La garanzia della libertà e della segretezza da corrispondenza privata e il diritto alla riservatezza nel rapporto di lavoro impediscono di elevare a giusta causa di licenziamento il contenuto in sé delle comunicazioni private del lavoratore, condivise con telefono personale a determinate persone e nell’intento di mantenerle segrete, a prescindere dal mezzo e dai modi con cui il datore di lavoro ne sia venuto a conoscenza.

Il caso

Tizia, dipendente di una famosa casa di moda aveva postato su un gruppo whatsapp privato, che conta circa una quindicina di persone, un video ritraente una cliente particolarmente corposa con il chiaro intento di denigrarla mettendone in evidenza le fattezze fisiche. La società datrice di lavoro ha mosso a Tizia la seguente contestazione, dopo esser venuta a conoscenza della corrispondenza da uno dei membri del gruppo whatsapp: “in questi giorni siamo venuti a conoscenza che durante il suo orario di lavoro - ha postato un video sulla chat WhatsApp - alla quale ella partecipava insieme ai suoi colleghi operanti nel negozio contenente ripresa, effettuata nel medesimo negozio, avente ad oggetto una cliente particolarmente corposa in area vendita con il palese intento denigratorio di metterne in evidenza le fattezze fisiche … Con riserva sin da ora di agire in tutte le sedi a tutela del marchio G. per il nocumento che potesse derivarne all'immagine dalla ulteriore divulgazione, con qualsiasi mezzo, del suddetto filmato attinente al negozio e alla relativa clientela”.

I giudici di seconde cure hanno accolto il reclamo della società datrice di lavoro e, in riforma della sentenza di primo grado (che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento), hanno respinto l’impugnativa del licenziamento per giusta causa intimato a Tizia.

La Corte d’appello ha valutato la condotta addebitata alla dipendente di gravità tale da giustificare il licenziamento in tronco, in quanto avente carattere pluri offensivo e idonea a ledere l’immagine sia della società datrice di lavoro sia della cliente, nonché tale da costituire offesa alla riservatezza della cliente e illecito trattamento dell’immagine della stessa, ripresa senza il suo consenso.

Avverso tale provvedimento Tizia ha proposto ricorso per cassazione.

La questione

Il datore di lavoro può licenziare per giusta causa il dipendente che posta su un gruppo WhatsApp a dei colleghi il video di una cliente?

Le soluzioni giuridiche

La Suprema Corte di cassazione, con la sentenza n. 5334/2025, ha reputato illegittimo il licenziamento comminato alla dipendente in quanto la garanzia della libertà e della segretezza da corrispondenza privata e il diritto alla riservatezza nel rapporto di lavoro impediscono di elevare a giusta causa di licenziamento il contenuto in sé delle comunicazioni private del lavoratore, condivise con telefono personale a determinate persone e nell'intento di mantenerle segrete. Tra i punti sottolineati dai giudici, quello per cui il dipendente che trasmette al datore il contenuto video da un gruppo chiuso di chat - e da cui deriva il licenziamento della collega - viola il principio costituzionale di segretezza delle comunicazioni tra privati.

In un precedente provvedimento (Cass. civ., sent., 10 settembre 2028, n. 21965), la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione ha stabilito che in tema di licenziamento disciplinare, i messaggi scambiati in una "chat" privata, seppure contenenti commenti offensivi nei confronti della società datrice di lavoro, non costituiscono giusta causa di recesso poiché, essendo diretti unicamente agli iscritti ad un determinato gruppo e non ad una moltitudine indistinta di persone, vanno considerati come la corrispondenza privata, chiusa e inviolabile, e sono inidonei a realizzare una condotta diffamatoria in quanto, ove la comunicazione con più persone avvenga in un ambito riservato, non solo vi è un interesse contrario alla divulgazione, anche colposa, dei fatti e delle notizie ma si impone l'esigenza di tutela della libertà e segretezza delle comunicazioni stesse. Si è quindi escluso il carattere illecito, da un punto di vista oggettivo e soggettivo, della condotta contestata al dipendente in quanto riconducibile alla libertà, costituzionalmente garantita, di comunicare riservatamente.

Nel caso analizzato, la condotta contestata in via disciplinare alla dipendente rientra nell'alveo dell'art. 15 Cost., posto che il messaggio è stato inviato a persone determinate, facenti parte della chat ristretta dei dipendenti del negozio, e le caratteristiche tecniche del mezzo di comunicazione adoperato, ovvero WhatsApp, riflettono chiaramente la volontà della mittente di escludere soggetti terzi dalla conoscenza del messaggio e soddisfano il requisito di segretezza della corrispondenza.

Tale norma, al primo comma, definisce inviolabili “la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione”, così collocando la libertà di comunicare riservatamente accanto alla libertà nella sua dimensione spaziale (art. 14) e alla libertà personale (art. 13), quali presidi della dignità della persona umana (art. 2). La dottrina ha individuato nella libertà e nella segretezza due differenti contenuti della tutela costituzionale: la libertà di comunicare con altri soggetti ha come elemento costitutivo la determinatezza dei destinatari ed esige che la comunicazione, nel suo aspetto dinamico, non sia in alcun modo impedita o ostacolata; la segretezza si rivolge all'animus del mittente, alla sua volontà che soggetti diversi dai destinatari determinati non prendano conoscenza del contenuto della comunicazione. La tutela costituzionale è circoscritta al rapporto comunicativo attuato con cautele e modalità idonee ad escludere terzi dalla conoscenza, attraverso cioè l'impiego di mezzi di trasmissione convenzionalmente riconoscibili come segreti, in difetto dei quali sarà configurabile solo una manifestazione del pensiero rivolta ad un destinatario determinato.

Particolare attenzione è stata dedicata dalla dottrina e dalla giurisprudenza alla nozione di corrispondenza, per le complesse problematiche poste dall'evoluzione dei sistemi di trasmissione delle comunicazioni nell'era cd. digitale. Posto che non vi è accordo, in dottrina, sul requisito di attualità della corrispondenza, secondo alcuni autori l'art. 15 Cost. include soltanto l'atto del corrispondere, che cessa nel momento in cui il destinatario prende cognizione del messaggio; secondo altra opinione, la tutela non si esaurisce con la ricezione ma perdura finché la comunicazione conservi carattere di attualità per i corrispondenti e l'attualità viene meno solo quando, per il decorso del tempo o per altra causa, il messaggio abbia assunto le fattezze di un documento storico, di valore solo retrospettivo, affettivo, collezionistico, artistico, scientifico o probatorio.

La nozione di giusta causa di licenziamento è collegata a comportamenti che si concretizzano nella violazione degli obblighi facenti capo al lavoratore, individuati come obblighi di conformazione, diligenza e fedeltà, strettamente connessi all'osservanza delle prescrizioni attinenti all'organizzazione aziendale e ai modi di produzione e agli interessi dell'impresa.

Anche il rilievo disciplinare di condotte extralavorative dei dipendenti è, comunque, subordinato alla idoneità delle stesse di riflettersi, in senso negativo, sul rapporto fiduciario e sulla prospettiva di regolare esecuzione della prestazione.

Non rientra tra le prerogative datoriali un potere sanzionatorio di tipo meramente morale nei confronti dei dipendenti, tale da comprimere o limitare spazi di libertà costituzionalmente protetti, come quello concernente la corrispondenza privata. Da ciò discende che la garanzia della libertà e segretezza della corrispondenza privata e il diritto alla riservatezza nel rapporto di lavoro, presidi della dignità del lavoratore, impediscono di elevare a giusta causa di licenziamento il contenuto in sé delle comunicazioni private del lavoratore, trasmesse col telefono personale a persone determinate e con modalità significative dell'intento di mantenere segrete le stesse, a prescindere dal mezzo e dai modi con cui il con cui il datore di lavoro ne sia venuto a conoscenza.

La  sentenza della Corte Costituzionale n. 170/2023 che in un giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato ha esaminato la portata dell'art. 15 Cost. rispetto alle nuove forme di comunicazione costituisce il punto cardine della vicenda analizzata, affermando che la tutela accordata dall'art. 15 Cost. «prescinde dalle caratteristiche del mezzo tecnico utilizzato ai fini della trasmissione del pensiero, aprendo così il testo costituzionale alla possibile emersione di nuovi mezzi e forme della comunicazione riservata» (v. anche Corte Cost., sentenza n. 2 del 2023) e che la «garanzia si estende […] ad ogni strumento che l'evoluzione tecnologica mette a disposizione a fini comunicativi, compresi quelli elettronici e informatici, ignoti al momento del varo della Carta costituzionale».

Su tali principi la sentenza n. 170 ha fondato la statuizione per cui «posta elettronica e messaggi inviati tramite l'applicazione WhatsApp (appartenente ai sistemi di cosiddetta messaggistica istantanea) rientrano a pieno titolo nella sfera di protezione dell'art. 15 Cost., apparendo del tutto assimilabili a lettere o biglietti chiusi. La riservatezza della comunicazione, che nella tradizionale corrispondenza epistolare è garantita dall'inserimento del plico cartaceo o del biglietto in una busta chiusa, è qui assicurata dal fatto che la posta elettronica viene inviata a una specifica casella di posta, accessibile solo al destinatario tramite procedure che prevedono l'utilizzo di codici personali; mentre il messaggio WhatsApp, spedito tramite tecniche che assicurano la riservatezza, è accessibile solo al soggetto che abbia la disponibilità del dispositivo elettronico di destinazione, normalmente protetto anch'esso da codici di accesso o altri meccanismi di identificazione».

La manifestazione del pensiero realizzata attraverso moderne vie di comunicazione elettronica, assimilabili, secondo la Corte costituzionale, a una lettera inserita in una busta chiusa, è stata considerata dal datore di lavoro come condotta riprovevole.  Tale condotta è senza dubbio attratta nel raggio di protezione dell'art. 15 Cost., posto che il messaggio è stato inviato a persone determinate, facenti parte della chat ristretta dei dipendenti del negozio e le caratteristiche tecniche del mezzo di comunicazione adoperato, WhatsApp, riflettono in modo inequivoco la volontà della mittente di escludere terzi dalla conoscenza del messaggio e soddisfano il requisito di segretezza della corrispondenza. Si precisa che ciò che viene contestato a Tizia non è la realizzazione del video bensì l'avere condiviso il video sulla chat privata dei colleghi di lavoro che conta circa una quindicina di persone.

È altrettanto pacifico, in fatto, che la violazione della segretezza della comunicazione, attraverso la rivelazione del contenuto al datore di lavoro, è avvenuta ad opera, non di terzi estranei alla chat, bensì di uno dei partecipanti alla chat medesima, compreso tra i destinatari del messaggio per cui è causa. La società controricorrente ha appreso il contenuto della corrispondenza, destinata a rimanere segreta, su iniziativa di uno dei destinatari della stessa; nondimeno, tale iniziativa costituisce violazione del diritto alla segretezza e riservatezza della corrispondenza (v. citato art. 15 Cost.) avvenuta in danno di Tizia. In particolare, la difesa della dipendente ha sostenuto che la condotta della società, entrata illecitamente in possesso del video e che ha utilizzato lo stesso a fini disciplinari, integri un vero e proprio controllo a distanza della lavoratrice, al di fuori dei limiti di cui all'art. 4 St. Lav. Si sottolinea che tra "gli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa", di cui al comma 2 del predetto art. 4 e per i quali non operano le procedure di garanzia dettate dal comma 1, non rientra il cellulare privato della dipendente ai cui dati il datore di lavoro non può, in alcun modo, avere accesso.

In conclusione, la Corte di cassazione cassa con rinvio, la sentenza della Corte d'Appello ritenendo illegittimo il licenziamento comminato alla dipendente.

Osservazioni

La garanzia della libertà e segretezza della corrispondenza privata e il diritto alla riservatezza nel rapporto di lavoro, presidi della dignità del lavoratore, impediscono di elevare a giusta causa di licenziamento il contenuto in sé delle comunicazioni private del lavoratore, trasmesse col telefono personale a persone determinate e con modalità significative dell’intento di mantenere segrete le stesse, a prescindere dal mezzo e dai modi con cui il datore di lavoro ne sia venuto a conoscenza. A tal riguardo la posta elettronica e i messaggi WhatsApp operano secondo modalità e procedure che soddisfano il requisito di segretezza, in funzione del quale è riconosciuta a tutti 10 consociati la tutela di cui all’art. 15 Cost.

In tema di licenziamento disciplinare, i messaggi scambiati in una "chat" privata, seppure contenenti commenti offensivi nei confronti della società datrice di lavoro, non costituiscono giusta causa di recesso poiché, essendo diretti unicamente agli iscritti ad un determinato gruppo e non ad una moltitudine indistinta di persone, vanno considerati come la corrispondenza privata, chiusa e inviolabile, e sono inidonei a realizzare una condotta diffamatoria in quanto, ove la comunicazione con più persone avvenga in un ambito riservato, non solo vi è un interesse contrario alla divulgazione, anche colposa, dei fatti e delle notizie ma si impone l'esigenza di tutela della libertà e segretezza delle comunicazioni stesse. Si è quindi escluso il carattere illecito, da un punto di vista oggettivo e soggettivo, della condotta contestata alla dipendente in quanto riconducibile alla libertà, costituzionalmente garantita, di comunicare riservatamente.

La nozione di giusta causa di licenziamento è collegata a comportamenti che si concretano nella violazione degli obblighi facenti capo al lavoratore, individuati come obblighi di conformazione, diligenza e fedeltà, strettamente connessi all’osservanza delle prescrizioni attinenti all'organizzazione aziendale e ai modi di produzione e agli interessi dell'impresa.

Anche il rilievo disciplinare di condotte extralavorative dei dipendenti è, comunque, subordinato alla idoneità delle stesse di riflettersi, in senso negativo, sul rapporto fiduciario e sulla prospettiva di regolare esecuzione della prestazione. Non rientra tra le prerogative datoriali un potere sanzionatorio di tipo meramente morale nei confronti dei dipendenti, tale da comprimere o limitare spazi di libertà costituzionalmente protetti, come quello concernente la corrispondenza privata.

Da ciò discende che la garanzia della libertà e segretezza della corrispondenza privata e il diritto alla riservatezza nel rapporto di lavoro, presidi della dignità del lavoratore, impediscono di elevare a giusta causa di licenziamento il contenuto in sé delle comunicazioni private del lavoratore, trasmesse col telefono personale a persone determinate e con modalità significative dell’intento di mantenere segrete le stesse, a prescindere dal mezzo e dai modi con cui il datore di lavoro ne sia venuto a conoscenza.

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