Quando insorge l’obbligo di retribuzione del datore del c.d. “tempo tuta”?
29 Maggio 2025
Massima Il tempo impiegato dal lavoratore subordinato per la vestizione e/o svestizione della divisa aziendale (il c.d. “tempo tuta”) costituisce tempo di lavoro (e, pertanto, deve essere retribuito) solo qualora il tempo e il luogo di esecuzione di quelle operazioni siano, esplicitamente o implicitamente, imposti dal datore di lavoro. Il caso Il lavoratore ricorrente era preposto alla mansione di “addetto macchine – fabbricazione” presso la società resistente, la quale produce bottiglie in vetro mediante l’impiego di specifici macchinari. La produzione aziendale si svolgeva in turni lavorativi di otto ore, nelle quali sono inclusi trenta minuti di pausa pranzo presso la mensa aziendale. Al fine di eseguire la prestazione lavorativa, il ricorrente era solito accedere alla c.d. “zona calda” del reparto di produzione, alla quale era addetto, dovendo preventivamente indossare una divisa fornita dalla datrice (costituente, ai sensi di apposito regolamento aziendale, un dispositivo di protezione individuale), composta da giacca, pantaloni, scarpe antinfortunistiche con lamina in ferro e cappellino rinforzato, oltre ad appositi guanti, occhialini e tappi otoprotettori. Le divise venivano fornite periodicamente dalla resistente, mentre guanti, occhialini e tappi otoprotettori si trovavano in appositi dispenser presenti in azienda. La società aveva, inoltre, messo a disposizione dei lavoratori degli spogliatoi, muniti di armadietti e docce, che i lavoratori potevano utilizzare prima dell’inizio e al termine della prestazione lavorativa. Era, inoltre, previsto che, tra un turno ed il successivo, i lavoratori in procinto di terminare il proprio turno dovessero effettuare il cosiddetto “passaggio di consegne” al dipendente che, diversamente, si accingeva a cominciare il proprio, così fornendo eventuali informazioni essenziali per continuare la lavorazione interrotta in modo informato e consapevole. Sulla base di quanto sopra rappresentato, il lavoratore ricorrente ha sostenuto di essere stato sottoposto all’obbligo di indossare e svestire la divisa di servizio negli spogliatoi aziendali, oltre a dovere, in base alle prescrizioni aziendali a riguardo, sostare presso il dispenser in cui si trovavano guanti, occhialini e tappi otoprotettori, al fine di recuperarli e indossarli, prima di poter accedere alla zona calda e, poi, gettarli in appositi cestini alla fine del turno. Inoltre, secondo il lavoratore, la società imponeva ai propri dipendenti di entrare nella zona calda dieci minuti prima dell’orario di inizio del proprio turno, al fine di confrontarsi con il lavoratore uscente per effettuare il passaggio di consegne. Infine, il ricorrente ha rilevato che, alla fine del proprio turno, una volta dismessa la divisa, fosse indispensabile effettuare una doccia nello spogliatoio aziendale a causa delle condizioni di igiene nelle quali finiva per trovarsi al termine delle lavorazioni effettuate. Per tali ragioni, il ricorrente ha richiesto al giudice adito di accertare il proprio diritto a vedersi riconosciuto, quale orario di lavoro retribuito, il cosiddetto “tempo tuta”, ossia il tempo impiegato per la vestizione e svestizione degli indumenti da lavoro e degli ulteriori dispositivi di protezione individuale (calcolato dalla parte in venti minuti), il tempo impiegato nell’effettuazione del c.d. “passaggio di consegne” (quantificato in ulteriori dieci minuti) e il tempo impiegato per la doccia di fine turno (cinque minuti), con conseguente condanna della società convenuta all’esborso, in favore del ricorrente, dei corrispondenti importi a titolo di retribuzione, dal momento dell’assunzione, per ogni giorno lavorato. La convenuta, di contro, ha contestato quanto asserito dal ricorrente sull’esistenza dell’obbligo di vestire e svestire la divisa aziendale presso gli spogliatoi aziendali, precisando che la disponibilità di questi ultimi non comporta, di per sé, l’eterodirezione del tempo tuta. Non vi era un divieto, secondo la società datrice, di vestire, svestire e conservare la divisa presso la propria abitazione, rilevando l’abitudine, di diversi lavoratori, di recarsi presso la propria abitazione, in un bar ristorante, in un supermercato e altri pubblici esercizi siti nei pressi dello stabilimento con le suddette divise indosso. Invero, la società ha fatto notare che non vi fossero né prescrizioni aziendali, né ragioni scaturenti dalla tipologia di lavoro svolto, o dalla tipologia della divisa, che impedissero ai lavoratori di indossare e/o dismettere la divisa in luogo diverso. La datrice ha sostenuto, inoltre, che, in ogni caso, non fossero necessari più di due minuti per effettuare il cambio degli abiti e, quindi, complessivamente, non più di quattro minuti al giorno potessero essere attribuiti a tale attività. Inoltre, il datore ha contestato le modalità, ricostruite dal lavoratore, del “passaggio di consegne”, affermando che si trattasse di un breve scambio tra i lavoratori al fine unico di segnalare eventuali anomalie, dalla durata irrisoria e, in ogni caso, non superiore al minuto. Peraltro, la società convenuta ha contestato la circostanza che i lavoratori si trovino, alla fine del turno, in uno stato di igienico tale che li costringa ad effettuare una doccia, rilevando la circostanza di fatto che molti lavoratori, solitamente, non ne usufruiscano, soprattutto in inverno. La datrice ha contestato, infine, la determinazione offerta dal ricorrente del tempo necessario per indossare guanti, occhialini e tappi otoprotettori, sostenendo l’irrisorietà del tempo impiegato dal lavoratore per svolgere tale azione, la quale consisterebbe, al massimo, in cinque secondi. Per le ragioni illustrate, parte resistente ha chiesto il rigetto del ricorso del lavoratore e, in subordine, di ridefinire in complessivi cinque minuti il quantum dovuto per il “tempo tuta” e quello dedicato al “passaggio di consegna”. La questione Il tempo impiegato dal lavoratore dipendente per la vestizione e/o svestizione della divisa aziendale, noto come "tempo tuta", costituisce tempo di lavoro e dev'essere retribuito solo se il tempo e il luogo di svolgimento di tali attività sono imposti dal datore di lavoro? Le soluzioni giuridiche Il Tribunale di Trento ha accolto la posizione della società resistente. Il giudice origina il proprio ragionamento dalla definizione del perimetro normativo entro il quale il caso porta a muoversi, e, in tal modo, rileva che l'art. 1, comma 2, del D. Lgs. 8 aprile 2003, n. 66, che ha dato attuazione alle Direttive 93/103/CE e 2000/344/CE, definisce quale “orario di lavoro” “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell'esercizio della sua attività o delle sue funzioni”. Il giudice ha individuato, poi, alcune pronunce della Corte di Giustizia UE che hanno contribuito a definire la nozione di orario di lavoro, concepito, da quest'ultima, come quel tempo in cui il lavoratore sia obbligato a essere fisicamente presente sul luogo di lavoro e a essere a disposizione del datore per poter fornire immediatamente la propria opera. In particolare, perché un dipendente possa dirsi a disposizione del proprio datore di lavoro, deve trovarsi in una situazione nella quale sia obbligato giuridicamente a eseguire le istruzioni e a esercitare la propria attività in favore dello stesso. In coerenza con quanto stabilito con le predette decisioni, sono seguite molteplici decisioni della Corte di cassazione (da ultimo, si veda Cass. 16 maggio 2024, n. 13639). Nell'ambito di tali pronunce è stato ribadito che il tempo impiegato dal lavoratore subordinato per la vestizione e/o svestizione della divisa aziendale (i.e., il tempo tuta), costituisca tempo di lavoro (generando, quindi, l'obbligo di retribuzione dello stesso) qualora il tempo e il luogodi esecuzione di quelle operazioni siano imposti dal datore di lavoro. Si tratta, come puntualizza il giudice trentino, di quelle situazioni in cui il tempo tuta sia assoggettato all'esercizio del potere direttivo del datore di lavoro, ossia ad eterodirezione, e, per tale ragione, il lavoratore si trova nello stato di “disposizione” di cui al menzionato art. 1, comma 2, d. lgs. n. 66/2003. La Corte di cassazione precisa, inoltre, che l'assoggettamento all'eterodirezione datoriale può essere esplicito o implicito. Il primo caso di verifica nei casi in cui sia previsto, all'interno del contratto di lavoro individuale, nel CCNL applicabile o in un regolamento aziendale, l'obbligo del lavoratore di vestire e/o svestire la divisa aziendale all'interno dello stabilimento; nel secondo caso, il lavoratore è obbligato, pur in essenza di una disposizione formale, a indossare e/o dismettere la divisa all'interno dei locali aziendali in considerazione della funzione che la stessa ricopre o della natura della divisa, ossia in considerazione del fatto che la divisa perda la sua utilità se non indossata e/o tolta presso l'azienda oppure, secondo un criterio di normalità sociale dell'abbigliamento, se si tratti di indumenti che non è ragionevole ipotizzare siano utilizzati al di fuori dell'ambiente di lavoro. Successivamente, il Tribunale di Trento ha svolto una completa disamina in relazione a cosa costituisca e cosa, invece, non rappresenti una circostanza idonea a configurare eterodirezione, del datore nei confronti del lavoratore, “in ordine al tempo e al luogo di esecuzione delle operazioni di vestizione e/o svestizione della divisa aziendale”. Nella specie, ha ribadito, come già affermato da precedente giurisprudenza di Cassazione, che sussiste eterodirezione in relazione al tempo tuta, nei casi di: divieto di indossare la divisa al di fuori dell'ambiente di lavoro, anche nei casi in cui ciò sia imposto da esigenze di igiene pubblica previste dalla legge e non da pattuizioni contrattuali o previsioni collettive o regolamenti aziendali (Cass. 20784/2024; Cass. 18612/2024; Cass. 7738/2018); obbligo di conservazione della divisa nell'armadietto sito nello spogliatoio aziendale (Cass. 5437/2019); obbligo di indossare la divisa prima della timbratura in entrata (Cass. 5437/2019); divisa consistente in una casacca a maniche corte, pantaloni, zoccoli, cuffia per chi somministra gli alimenti, in quando tale abbigliamento non potrebbe essere indossato in un luogo diverso che sul luogo di lavoro, secondo un criterio di normalità sociale dell'abbigliamento (Cass. 1352/2016). Non sussiste, invece, il potere direttivo del datore di lavoro sul tempo tuta del lavoratore nei casi di: vigenza, nell'ambiente di lavoro, di prescrizioni che impongano meramente di indossare la divisa durante le lavorazioni, e di farlo secondo specifiche modalità (Cass. 25478/2023); divieto di indossare la divisa per finalità diverse da quella del lavoro (Cass. 25478/2023); mera messa a disposizione da parte del datore di lavoro, in favore dei lavoratori, di spogliatoi in cui effettuare la vestizione/svestizione (Cass. 25478/2023); il mero divieto di trattenersi in azienda prima e dopo la marcatura del cartellino (Cass. 9215/2012). Completata la disamina normativa e giurisprudenziale dell'argomento, il giudice trentino passa all'analisi del caso concreto e, in prima istanza, rileva l'assenza di obblighi espliciti di vestizione e/o svestizione della divisa nei locali aziendali nel contratto individuale e collettivo di riferimento, nonché nei regolamenti aziendali applicati. Nel caso di specie, il giudice prende atto dell'esistenza di un obbligo, posto unilateralmente dalla società resistente, di indossare la divisa per i lavoratori che prestano la propria attività nei reparti produttivi, come documentato dal ricorrente, e accerta, inoltre, che la divisa costituisca un dispositivo di protezione individuale, essendo costituita da un tessuto volto proteggere dal rischio di scintille, alle quali sono esposti i lavoratori della zona calda. Tuttavia, afferma il giudice trentino, “la natura di dispositivo di protezione individuale, che presenta la divisa de qua, non comporta, di per sé sola, che il tempo occorrente per la sua vestizione e svestizione sia da considerarsi rientrante nell'orario di lavoro e come tale fonte del diritto alla retribuzione”. Invero, il giudice ha sostenuto la necessità di verificare se sussista un'ipotesi di eterodirezione implicita sul tempo tuta, ossia di una imposizione implicita, da parte del datore, sul tempo e sul luogo di vestizione e/o svestizione della divisa, in considerazione della funzione e della natura della stessa. Il giudice ha ritenuto non sussistere, nel caso di specie, particolari caratteristiche legate alla funzione e alla natura della divisa che richiedessero che la stessa fosse indossata e svestita all'interno dei locali aziendali, dal momento che la funzione era quella di proteggere da scintille, e la natura, quella di una comune forma di abbigliamento che non le impedisce di essere indossata anche al fuori dei locali aziendali, secondo normali canoni sociali di abbigliamento. Il giudice accertate le suddette circostanze ha sostenuto che “il tempo impiegato dal ricorrente per compiere le operazioni di vestizione e svestizione della divisa non costituisce tempo di lavoro e, quindi, la società datrice non ha l'obbligo di retribuirlo”. Con riferimento agli ulteriori dispositivi di protezione individuale, ossia ai guanti, gli occhialini e i tappi otoprotettori, la stessa società ha ammesso la circostanza che questi debbano essere indossati in azienda e, al termine del turno, gettati in appositi raccoglitori presenti in azienda. Quantunque non ci siano delle esplicite pattuizioni individuali o collettive, nonché delle direttive unilaterali aziendali in relazione al tempo e al luogo in cui debbano essere indossati e svestiti tali DPI, il giudice ha ritenuto che il tempo tuta in relazione agli stessi sia implicitamente caratterizzato da eterodirezione, ossia che il tempo impiegato costituisca orario di lavoro retribuito, in ragione della natura di tali DPI, che non rende immaginabile che i lavoratori possano ragionevolmente indossarli al di fuori dell'azienda, alla luce del criterio di normalità sociale dell'abbigliamento. Tuttavia, il giudice ha affermato che il tempo tuta in relazione a tali DPI fosse pressocché irrisorio e, richiamando consolidata giurisprudenza (Cass. 16 giugno 2023, n. 17326), ha sostenuto l'inidoneità a “fondare il diritto alla retribuzione di tempi di lavoro “assolutamente minimali””. Per tale ragione, secondo il giudice di Trento, il tempo tuta relativo alla vestizione e svestizione di guanti, occhialini e tappi otoprotettori, sebbene formalmente idoneo a fondare il diritto alla retribuzione, in quanto eterodiretto dal datore di lavoro, costituisca, di per sé, un tempo irrisorio che comporta la perdita del diritto alla retribuzione dello stesso. Per ciò che concerne il motivo di ricorso inerente al “passaggio di consegne”, il giudice, rilevato il contrasto tra la versione di parte ricorrente e quella offerta dalla società resistente, ha disposto l'audizione dei testi, escussi i quali il giudice ha sostenuto che non fosse sufficientemente provata la circostanza che il ricorrente entrasse nella zona calda dieci minuti prima dell'orario di inizio del turno di lavoro retribuito al fine di effettuare il “passaggio di consegne”. Infine, sulla domanda del ricorrente di accertare la sussistenza di eterodirezione del datore di lavoro sull'effettuazione delle docce di fine turno, il giudice ha constatato, tenuto conto delle dichiarazioni dei testi ascoltati, che non vi fosse alcuna imposizione di tempo e di luogo, da parte del datore di lavoro, sull'effettuazione delle stesse. Pertanto, la società resistente non ha l'obbligo di retribuire il tempo impiegato dal ricorrente, qualora questi scelga di usufruire del servizio doccia reso disponibile dal datore. Osservazioni A giudizio di chi scrive, la soluzione offerta dal Tribunale di Trento ricalca correttamente l’orientamento consolidato della Corte di legittimità in tema di tempo tuta. Appare, in particolare, cruciale la distinzione, correttamente operata dal giudice, tra l’obbligo di indossare la divisa, derivante dalla circostanza che la stessa costituisca un dispositivo di protezione individuale, e gli (eventuali) vincoli in capo al lavoratore con riguardo alla vestizione e svestizione della stessa. Risulta, infatti, condivisibile la scissione, effettuata dal Tribunale di Trento, tra il piano dell’obbligatorietà dell’utilizzo della divisa, in quanto DPI, durante l’esecuzione della prestazione lavorativa e quello del tempo e del luogo in cui la stessa debba essere indossata, concludendo, nel caso di specie, per l’assenza di imposizioni datoriali al riguardo. |