Uso improprio dell'auto aziendale: il datore di lavoro si può avvalere dell'agenzia investigativa per gli opportuni accertamenti?

09 Giugno 2025

La Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa del dipendente, confermando la possibilità per il datore di lavoro di avvalersi di agenzie investigative per controllare comportamenti potenzialmente fraudolenti, purché tali verifiche non riguardino l’adempimento della prestazione lavorativa in sé e siano svolte nel rispetto della privacy. 

Massima

Sono legittimi i controlli del datore di lavoro, anche tramite agenzia investigativa, sull’uso dell’auto aziendale da parte del dipendente durante l’orario di lavoro per motivi personali quando questa era stata concessa al dipendente per uso esclusivamente lavorativo, cioè soltanto per esigenze attinenti all’attività

Il caso

Tizio, dipendente di una società operante nel settore del trattamento delle acque reflue civili e industriali, in diverse occasioni ha timbrato la propria presenza in ufficio per poi allontanarsi ed utilizzare il mezzo concesso esclusivamente per lo svolgimento dell'attività lavorativa per fini personali. La condotta così descritta era stata accertata anche mediante il ricorso ad agenzia investigativa.

Conseguentemente il datore di lavoro intimava a Tizio il licenziamento per giusta causa a valle del procedimento ex art. 7, l. 300/1970. 

Il Tribunale di primo grado e i giudici di seconde cure hanno stabilito la legittimità del licenziamento nei confronti di Tizio il quale ha proposto ricorso per Cassazione, basando le proprie doglianze sui seguenti motivi di censura: con il primo motivo di ricorso, il dipendente ha dedotto l'illegittimità dell'attività investigativa per aver il datore di lavoro fatto ricorso ad un'agenzia privata per controllare le mansioni svolte fuori dai locali aziendali, così ponendosi in violazione dell'art. 4, l. 300/1970 e della normativa privacy. Tizio con un secondo motivo di ricorso ha dedotto l'omesso esame di fatti decisivi, per non aver la Corte di Appello considerato la genericità della relazione investigativa posta a fondamento del licenziamento. Il dipendente, inoltre, ha censurato l'operato della Corte per non aver considerato che il comportamento contestato era avallato da prassi consolidata aziendale.

Con l'ultimo motivo di ricorso, il ricorrente ha addotto di non aver commesso alcuna falsificazione e che dunque la condotta avrebbe dovuto essere sanzionata in maniera meno grave, mancando il licenziamento di proporzionalità rispetto ai fatti contestati.

La questione

Il datore di lavoro può controllare l’utilizzo personale che il dipendente fa dell’auto aziendale durante l’orario lavorativo?

Le soluzioni giuridiche

La Corte di cassazione con l'Ordinanza n. 3607 del 12 febbraio 2025 ha confermato che sono legittimi i controlli del datore di lavoro (anche tramite agenzia investigativa) sull'uso dell'auto aziendale da parte del dipendente durante l'orario di lavoro per motivi personali quando questa era stata concessa al dipendente per uso esclusivamente lavorativo, cioè soltanto per esigenze attinenti all'attività lavorativa.

La Corte ha ritenuto, quindi, inammissibili i motivi di ricorso presentati anche in considerazione del principio “doppia conforme” che rende improponibili le censure ex art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ. Secondo il ragionamento della Corte sussiste la legittimità di tali controlli purché: l'oggetto del controllo non sia l'adempimento della prestazione lavorativa in sé ma il fatto che questi comportamenti del dipendente possano integrare attività fraudolente recanti danno per il datore medesimo (come l'uso dell'auto aziendale per motivi personali in orario di lavoro e la falsa attestazione della presenza in servizio poiché il badge era stato timbrato, creando così «una situazione definita di “apparenza lavorativa”»). Inoltre, tali controlli non sono lesivi della privacy del dipendente stesso, in quanto effettuati in luoghi pubblici e finalizzati ad accertare le cause dell'allontanamento del dipendente dal posto di lavoro in orario di lavoro. Riguardo l'utilizzo da parte del lavoratore dell'auto aziendale, questo deve conoscere le regole e i possibili controlli che il datore di lavoro può esercitare su di lui, il percorso eseguito, sul consumo di carburante, deve altresì essere consapevole dei rischi che corre nel caso di uso inappropriato, come per fini personali, o fraudolento. 

Sulla base di tale presupposto, la Corte ha dichiarato la legittimità del licenziamento del dipendente in presenza delle condotte contestate così comprovate; ciò a prescindere “dall'integrazione di una fattispecie di reato o dalla quantificazione del danno, comunque riscontrabile nell'utilizzo improprio della vettura e dell'orario lavorativo retribuito”.

Venendo alla censura circa la mancanza di proporzionalità tra fatti contestati e licenziamento, la Corte ha ricordato come tale valutazione sia rimessa al giudice di merito, non potendo il giudizio di legittimità estendersi sino ad un diverso apprezzamento dei fatti analizzati, ed anche la circostanza che la condotta contestata fosse prevista dal contratto collettivo di riferimento come riconducibile ad una sanzione conservativa non preclude una “autonoma valutazione del giudice di merito in ordine all'idoneità di un grave inadempimento, o di un grave comportamento del lavoratore…a far venire meno il rapporto fiduciario”.

La Corte di Cassazione confermando la legittimità del licenziamento per giusta causa del dipendente, ha ribadito la possibilità per il datore di lavoro di avvalersi di agenzie investigative per controllare comportamenti potenzialmente fraudolenti, purché tali verifiche non riguardino l'adempimento della prestazione lavorativa in sé e siano svolte nel rispetto della privacy.

La decisione si inserisce in un consolidato orientamento giurisprudenziale che tutela il diritto del datore di lavoro a proteggere il proprio patrimonio aziendale e il corretto svolgimento dell'attività lavorativa, purché non invasivi e lesivi di altri diritti fondamentali. Tale pronuncia conferma, infatti, l'importanza di un corretto bilanciamento tra il potere di controllo datoriale e la tutela dei diritti del lavoratore, ponendo l'accento sulla necessità che ogni verifica sia condotta con criteri di legittimità e proporzionalità. Sul punto la Suprema corte sottolinea come il datore di lavoro «abbia il potere, ma non l'obbligo, di controllare in modo continuo i propri dipendenti e di contestare loro immediatamente qualsiasi infrazione al fine di evitarne un possibile aggravamento. Questo significa che la contestazione potrebbe avvenire anche molto tempo dopo l'illecito ed essere ugualmente valida. Del resto, voler assegnare al datore di lavoro l'obbligo di controllare costantemente l'operato dei lavoratori negherebbe in radice il carattere fiduciario del rapporto subordinato che invece si basa sull'affidamento reciproco. Ragion per cui «la tempestività della contestazione disciplinare va valutata non in relazione al momento in cui il datore avrebbe potuto accorgersi dell'infrazione ove avesse controllato assiduamente l'operato del dipendente, ma con riguardo all'epoca in cui ne abbia acquisito piena conoscenza».

Nel rapporto di lavoro, del resto, «si fa affidamento sul corretto utilizzo degli strumenti di lavoro, in funzione esclusiva delle esigenze connesse alla prestazione, non potendosi esigere un controllo costante di parte datoriale che presupporrebbe null'altro che una pregiudiziale sfiducia nell'operato del dipendente e quindi la negazione di quel patto di reciproca fiducia che sta alla base di ogni rapporto negoziale e del rapporto di lavoro in special modo».

Osservazioni

Lo Statuto dei Lavoratori (l. 300/1970) individua i limiti entro cui può essere esercitato il potere di controllo del datore di lavoro nel rispetto della libertà e dignità del lavoratore. Dagli articoli 2 e 3 dello Statuto dei Lavoratori discendono indicazioni circa i soggetti che possono effettuare controlli sull'attività dei lavoratori. Tuttavia, come chiarito dalla giurisprudenza, la disposizione dell'art. 2, nel limitare la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a tutela del patrimonio aziendale, non preclude a quest'ultimo di ricorrere ad agenzie investigative, purché queste non sconfinino nella vigilanza dell'attività lavorativa vera e propria riservata dall'art. 3 direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori. Dunque, il datore di lavoro ha il potere di controllare i propri dipendenti facendo ricorso ad agenzie investigative purché i controlli non abbiano ad oggetto l'adempimento/inadempimento della prestazione lavorativa, ma siano destinati ad individuare comportamenti illeciti che esulano la normale attività lavorativa e che siano tali da ledere la fiducia del datore di lavoro: l'intervento in questione, dunque, è giustificato per verificare l'avvenuta perpetrazione di illeciti, anche laddove vi sia un sospetto o la mera ipotesi che siano in corso di esecuzione (Cass. 15094/2018; Cass. 11697/2020; Cass. 6468/2024). 

Affinché l'investigazione sia legittima e i dati raccolti siano utilizzabili è necessario che:

  • la raccolta e il trattamento dei dati avvengano per scopi determinati, espliciti e legittimi; in particolare, deve essere chiara la base giuridica del trattamento che è rappresentata dal legittimo interesse del datore di verificare la commissione di un illecito ai suoi danni (art. 6, comma 1, lett. f), del GDPR);
  • i dati raccolti non eccedano le finalità per le quali è stata avviata l'attività investigativa;
  • i dati siano conservati per un periodo di tempo non superiore a quello necessario agli scopi per i quali essi sono stati raccolti e trattati.

La Cassazione ha tuttavia affermato che il licenziamento è una sanzione eccessiva rispetto all'illecito nel caso di uso sporadico di beni aziendali per fini personali, come ad esempio il caso del dipendente che utilizzi l'auto aziendale per prendere qualche volta i figli a scuola, tenendo conto anche dell'importante funzione a cui si adempie in tale modo. Infatti, hanno motivato gli Ermellini, la giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell'elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all'intensità del profilo intenzionale; dall'altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell'elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare.

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