Codice di Procedura Civile art. 22 - Foro per le cause ereditarie.Foro per le cause ereditarie. [I]. È competente il giudice del luogo dell'aperta successione [456 c.c.] per le cause: 1) relative a petizione [533 c.c.] o divisione di eredità [12 2, 784; 713 1 c.c.] e per qualunque altra tra coeredi fino alla divisione; 2) relative alla rescissione della divisione [763 c.c.] e alla garanzia delle quote [758 c.c.], purché proposte entro un biennio dalla divisione; 3) relative a crediti verso il defunto [752 c.c.] o a legati dovuti dall'erede [662 c.c.], purché proposte prima della divisione e in ogni caso entro un biennio dall'apertura della successione; 4) contro l'esecutore testamentario [700 ss. c.c.], purché proposte entro i termini indicati nel numero precedente. [II]. Se la successione si è aperta fuori della Repubblica, le cause suindicate sono di competenza del giudice del luogo in cui è posta la maggior parte dei beni situati nella Repubblica, o, in mancanza di questi, del luogo di residenza [43 c.c.] del convenuto o di alcuno dei convenuti. InquadramentoLa disposizione in commento individua il foro delle cause ereditarie, elencate al comma 1, in base al luogo dell'aperta successione. Ai fini della competenza per territorio nelle cause ereditarie è necessario perciò accertare quale sia il domicilio del defunto al momento del decesso (luogo dell'aperta successione ex art. 456 c.c.), per tale intendendosi il luogo dove la persona, alla cui volontà occorre avere principalmente riguardo, concentra la generalità dei suoi interessi, sia materiali ed economici, sia morali, sociali e familiari (Cass. n. 5811/2015). Trattasi di foro esclusivo insuscettibile di deroga per connessione soggettiva ex art. 104 e per la cui contestazione, in caso di eccezione di incompetenza, non è necessaria la specifica indicazione dei fori alternativamente concorrenti (Cass. n. 5811/2015; Cass. n. 1213/2003). Pur esclusivo, il foro delle cause ereditarie non è però inderogabile (Cass. n. 5811/2015): ne consegue che, in ipotesi di più domande di divisione, inerenti ad eredità diverse, proposte cumulativamente contro lo stesso convenuto, la competenza del giudice adito, ove sussistente, in applicazione della citata norma, per una di dette domande, deve essere riconosciuta anche con riguardo alle altre, ai sensi dell'art. 104 (Cass. n. 215/1985). Sulla stessa premessa si osservato che, ove sia stato proposto contro l'erede domanda di pagamento di un debito del defunto e l'erede stesso abbia eccepito in comparsa di risposta l'incompetenza del giudice adito alla stregua del foro generale, invocando la applicabilità della disciplina del foro per le cause ereditarie soltanto in comparsa conclusionale, la competenza del suddetto giudice diviene incontestabile con riguardo ai fori speciali previsti dall'art. 20, fori concorrenti nella specie in difetto della tempestiva eccezione del foro regolato dall'art. 22 (Cass. n. 2466/1976). Il comma 2 concerne l'ipotesi della successione apertasi fuori dal territorio nazionale. Luogo dell’aperta successioneIl luogo di apertura della successione, oltre a radicare la competenza per le cause ereditarie, e ad assumere rilievo in una pluralità di fattispecie successorie (basti rammentare la rinuncia all'eredità, ex art. 519 c.c., l'accettazione dell'eredità con beneficio di inventario, ex art. 484 c.c., la dichiarazione di giacenza dell'eredità ex art. 528 c.c., l'autorizzazione alla vendita dei beni ereditari, ex art. 747 c.p.c., l'imposizione della cauzione all'erede o al legatario, ex art. 750 c.p.c., la pubblicazione del testamento, ex art. 620 c.c., l'accettazione della nomina ad esecutore testamentario, ex art. 702 c.c.), è presa in considerazione — fra altri criteri — ai fini dell'attribuzione della giurisdizione del giudice italiano in materia successoria. Difatti, la legge, riguardo alla giurisdizione in materia successoria, dispone che in materia successoria la giurisdizione italiana sussiste: a) se il defunto era cittadino italiano al momento della morte; b) se la successione si è aperta in Italia; c) se la parte dei beni ereditari di maggiore consistenza economica è situata in Italia; d) se il convenuto è domiciliato o residente in Italia o ha accettato la giurisdizione italiana, salvo che la domanda sia relativa a beni immobili situati all'estero; e) se la domanda concerne beni situati in Italia (art. 50 l. n. 218/1995). La successione si apre — non già nel luogo in cui la morte è sopraggiunta, né nel luogo di residenza anagrafica del de cuius, ma — nel luogo dell'ultimo domicilio del defunto, ex art. 456 c.c. In generale, si tratta del luogo ove la persona concentra la generalità dei suoi interessi sia materiali ed economici, sia morali, sociali e familiari, prescindendosi dalla dimora o dalla presenza effettiva del medesimo in detto luogo (Cass. n. 18560/2013). Più in specifico, il domicilio di una persona è il luogo in cui questa ha stabilito la sede principale dei suoi affari ed interessi, ai sensi dell'art. 43 c.c. Esso si differenzia dalla residenza, pure definita dall'art. 43 c.c., che è il luogo di abituale dimora della persona. È dunque possibile che domicilio e residenza non coincidano. La nozione di domicilio data dall'art. 43 c.c., in particolare, richiede il concorso di un elemento obiettivo, costituito dalla concentrazione degli affari e degli interessi, e di uno soggettivo, rappresentato dall'intenzione, manifestata espressamente o tramite comportamenti concludenti, di stabilire in un determinato luogo la sede principale dei propri affari ed interessi. Secondo l'opinione tradizionale — che si vedrà fatta propria dalla giurisprudenza — proprio l'elemento soggettivo, indispensabile per stabilire il collegamento tra la persona ed il luogo, costituirebbe l'elemento caratterizzante della figura. Più di recente — all'evidente scopo di alleggerire il peso e l'incertezza gravante sui terzi interessati ad individuare il domicilio della persona — è stato sottolineato come non sia carente, nella definizione di domicilio, «l'elemento materiale, ma questo si concreta in un fatto diverso dalla presenza costante dell'individuo» ( Forchielli, Domicilio, residenza e dimora (dir. priv.), in Enc. dir., XIII, Milano, 1964, 847): l'ubicazione del domicilio, in tale prospettiva, si individua attraverso lo scrutinio della obbiettiva sistemazione logistica delle attività che fanno capo al soggetto. Ciò renderebbe superflua la sottolineatura dell'elemento soggettivo, salvo nei casi in cui la concentrazione degli affari ed interessi in un determinato luogo non abbia ancora raggiunto un grado di consistenza obiettiva tale da rivelarlo chiaramente all'esterno. Alla formula «affari ed interessi» vanno ricondotti non soltanto i rapporti economici e patrimoniali della persona, ma anche le sue relazioni morali, sociali e familiari (Cass. n. 21370/2011), che confluiscono normalmente — si diceva ancora qualche decennio addietro — nel luogo ove essa vive con la propria famiglia (Cass. n. 435/1973; Cass. n. 72/1965; Cass. n. 64/1964). Può non essere agevole stabilire quale, tra due o più centri di affari ed interessi (si immagini l'imprenditore titolare di più aziende ubicate in luoghi diversi, o il professionista che abbia più studi in diverse città) sia quello «principale». Si suggerisce — nella medesima ottica già sottolineata di tutela dei terzi — l'esigenza di condurre lo scrutinio sul dato apparente, ossia stabilendo quale tra i diversi centri di interessi della persona assuma obbiettivamente maggiore importanza. La nozione di residenza, a differenza di quella di domicilio, si risolve in una res facti, un dato di fatto: la abituale dimora della persona in un determinato luogo, intendendosi con ciò una determinata circoscrizione comunale. Decisivo, a tal fine, è il dato oggettivo della stabilità della dimora, senza che assuma rilievo l'elemento soggettivo (che può però entrare in gioco ove si discorra di trasferimento della residenza) ossia l'animus di erigere quel luogo a propria residenza. È noto il rilievo pratico della possibile difformità tra la residenza emergente dalle risultanze anagrafiche e la residenza effettiva, coincidente con il luogo, obiettivamente individuato, di abituale dimora. Il codice civile stabilisce che: il trasferimento della residenza non può essere opposto ai terzi di buona fede, se non è stato denunciato nei modi prescritti dalla legge (art. 44, comma 1, c.c.). Norma, quest'ultima, da leggere unitamente al disposto secondo cui: «Il trasferimento della residenza si prova con la doppia dichiarazione fatta al Comune che si abbandona e quello dove si intende fissare la dimora abituale. Nella dichiarazione fatta al Comune che si abbandona deve risultare il luogo in cui è fissata la nuova residenza» (art. 31 disp. att. c.c.). Solo una parte minoritaria della giurisprudenza assegna rilievo decisivo al combinato disposto appena ricordato, mentre è in assoluta prevalenza ritenuto — in particolare dalla giurisprudenza formatasi in tema di validità della notificazione — che la residenza effettiva prevalga sulla residenza anagrafica, la quale possiede un valore probatorio meramente presuntivo, superabile mediante prova contraria desumibile da qualsiasi fonte di convincimento (Cass. n. 24422/2006; Cass. n. 12021/2003; Cass. n. 5513/1998; Cass. n. 4518/1998; Cass. n. 2230/1998; Cass. n. 2143/1983; Cass. n. 951/1979; Cass. n. 5953/1978; Cass. n. 1309/1977). La residenza anagrafica non ha insomma di per sé valore costitutivo, presumendosi, solo fino a prova contraria (iuris tantum), la coincidenza fra residenza anagrafica e residenza effettiva della persona. Con riguardo ai rapporti tra residenza e domicilio, occorre rammentare la previsione secondo cui, quando una persona ha nel medesimo luogo il domicilio e la residenza e trasferisce questa altrove, di fronte ai terzi di buona fede si considera trasferito pure il domicilio, se non si è fatta una diversa dichiarazione nell'atto in cui e stato denunciato il trasferimento della residenza (art. 44, comma 2, c.c.). Val quanto dire che nell'atto in cui è stato denunciato il trasferimento della residenza occorre specificare che il domicilio resta fissato altrove: in mancanza, di fronte ai terzi di buona fede, si considera trasferito pure il domicilio unitamente alla residenza. In giurisprudenza, come si accennava, il rapporto tra domicilio e residenza è sintetizzato — secondo un indirizzo ribadito da Cass. n. 2936/1980; Cass. n. 1342/1963; Cass. n. 2845/1962 — nell'affermazione secondo cui, mentre la residenza si ricollega al concetto di dimora della persona in un dato luogo, avente carattere di relativa stabilità e durata, e riguarda il fatto della sua presenza abituale in un determinato luogo, il domicilio prescinde dal fatto della dimora o della presenza della persona in un luogo, in quanto esso, pur riposando su un elemento di fatto, costituito dall'avere la persona stabilito in un luogo la sede principale dei suoi affari ed interessi, consiste in una relazione tra la persona e detto luogo, essenzialmente ed anche soltanto giuridica, caratterizzata dalla volontà della persona di stabilire in quel luogo la sede generale delle sue relazioni e dei suoi interessi (Cass. n. 3322/1960). La S.C., dunque, pone l'accento — e lo fa tuttora — sulla tradizionale ricostruzione secondo cui il domicilio «si caratterizza per l'elemento oggettivo della permanenza e per l'elemento soggettivo dell'intenzione di abitarvi stabilmente» (Cass. n. 25726/2011). Il domicilio, in definitiva, pur presupponendo una situazione di fatto costituita dall'avere un soggetto fissato in un luogo determinato la sede principale dei propri affari ed interessi, consiste per la S.C. principalmente in una situazione giuridica, caratterizzata dalla volontà della persona di stabilire in quel luogo la sede generale delle sue relazioni economiche, morali e sociali, sicché, a differenza della residenza che come si è detto è una res facti, il domicilio è caratterizzato principalmente dall'elemento soggettivo e cioè dall'intenzione di costituire e mantenere in un determinato luogo il centro principale delle proprie relazioni familiari, morali e giuridiche (Cass. n. 408/1970). Ne discende che «una più o meno prolungata assenza dal luogo fissato come dimora abituale non fa venir meno la residenza o il domicilio a tale dimora collegati, specie quando detta assenza sia occasionata da motivi contingenti, come villeggiatura o viaggi» (Cass. n. 70/1962; analogamente Cass. n. 21370/2011, chiarisce che il ricovero in casa di cura o di riposo non importa necessariamente trasferimento del domicilio). L'elemento oggettivo del domicilio, tuttavia, assume anche per la S.C. preminente rilievo quando si versi in ipotesi di molteplicità di collegamenti di un soggetto con luoghi diversi. In tal caso, infatti, si afferma che, ai fini dell'individuazione del domicilio generale, «non basta la mera intenzione di fissare in esso la sede principale dei propri affari, ma occorre che vi si aggiunga l'elemento materiale costituito dallo svolgimento dell'effettiva e prevalente attività» (Cass. n. 408/1970). Mentre ciascuno dei coniugi ha un proprio domicilio, ai sensi dell'art. 45 c.c., nel luogo in cui ha fissato la sede principale dei propri affari o interessi, il minore ha il domicilio dei genitori, o, in caso di separazione, di quello con il quale convive. In proposito, però, si è chiarito che il domicilio del minore non è un semplice riflesso di quello dei genitori. Esso va inteso «non come il luogo dove il minore stesso permane ricevendovi cure materiali, bensì come il luogo di vero e proprio domicilio ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 43, comma 1, c.c., vale a dire il luogo dove il minore custodisce e coltiva i suoi più radicati e rilevanti legami affettivi ed i suoi reali interessi» (Trib. minorenni Roma 16 novembre 1992, in Dir. fam. pers., 1993, 1143). Il minore, inoltre, può avere una residenza distinta dal domicilio dei genitori o del genitore con cui convive. Ciò si verifica quando egli dimori abitualmente in un luogo diverso da quello dei genitori, senza opposizione di questi (Cass. n. 2872/1967). Il minore soggetto a tutela, infine, ha il domicilio del tutore, ex art. 45 c.c., come pure l'interdetto. Tra i casi particolari che meritano di essere segnalati, per la frequenza con cui si presentano, occorre ricordare che lo straniero residente all'estero può avere domicilio in Italia, se vi ha la sede principale dei suoi affari ed interessi. In un caso, ad esempio — valorizzando gli elementi di giudizio nell'occasione disponibili —, si è ritenuto che un cittadino straniero residente all'estero avesse il domicilio italiano nel comune in cui ha denunciato all'autorità di pubblica sicurezza il possesso di alcune armi, ha chiesto l'autorizzazione a soggiornare, ed ha scelto la banca a cui affidare i suoi risparmi. Ivi, alla sua morte, si apre la successione (Cass. n. 3438/1976). Il detenuto non trasferisce il domicilio presso l'istituto di pena in cui è recluso, ma conserva quello che aveva prima dell'inizio della detenzione. Ciò per il marcato rilievo — al quale si è poc'anzi accennato — che, nella fissazione del domicilio, assume l'elemento volitivo. Si è perciò escluso che la detenzione di una persona, per espiazione di pena in un luogo diverso da quello di domicilio rilevi agli effetti dell'individuazione del foro davanti al quale essa può essere convenuta a norma dell'art. 18 (App. Milano 11 maggio 1976, in Foro pad., 1976, I, 172). Si presume che il militare di carriera, come ogni altro impiegato dello Stato, sia domiciliato presso il reparto o l'ufficio di appartenenza (Cass. n. 1342/1963). Le suore che abbiano fatto professione di voti solenni, infine, hanno il domicilio presso la sede della curia vescovile dalla cui giurisdizione dipendono (App. Ancona 23 maggio 1956, in Foro it., 1956, I, 1729). Ambito di applicazioneNel quadro della previsione dettata dal comma 1, la norma in commento si applica ad ogni azione personale (quelle reali ricadendo sotto la previsione dell'art. 21) per qualsiasi credito vantato nei confronti del defunto, indipendentemente dalla causa o dal titolo da cui è sorto, all'imprescindibile condizione che non sia ancora decorso un biennio dall'apertura della successione, senza che rilevi la circostanza che sia stato, o meno, instaurato un giudizio di divisione (Cass. n. 10097/2014). In tale prospettiva, in tema di competenza territoriale, la controversia avente ad oggetto l'esercizio del diritto di prelazione ai sensi dell'art. 732 c.c. rientra tra le cause tra coeredi, previste dall'art. 22, comma 1, n. 1, dovendo per tali intendersi non solo le controversie che riguardano diritti caduti in successione, ma ogni causa avente un oggetto attinente alla qualità di erede (Cass. n. 2543/2017, ove vengono richiamate Cass. n. 22306/2011; Cass. n. 2249/2000). In fattispecie concernente l'azione di recupero di compensi professionali contro gli eredi del defunto è stato ulteriormente ribadito che l'art. 22, comma 1, n. 3, nel prevedere la competenza del giudice dell'aperta successione per le controversie relative a crediti verso il defunto o legati dovuti dall'erede, si riferisce ad ogni azione personale per qualsiasi credito vantato nei confronti del defunto, indipendentemente dalla causa o dal titolo da cui è sorto, purché non vi sia stata la divisione e non sia ancora decorso un biennio dall'apertura della successione (Cass. n. 17827/2015). Nello stesso senso è la dottrina (Andrioli, 96), la quale precisa che le azioni dell'erede verso terzi seguono le ordinarie regole di competenza territoriale (Segrè, in Comm. Utet, 269). In relazione al n. 1 del comma 1, è stato chiarito che la competenza territoriale prevista dall'articolo in esame, riguarda le sole cause di divisione ereditaria, ossia quelle relative all'universalità dei rapporti giuridici facenti capo al de cuius, sicché la disposizione non si applica in caso di divisione di un bene immobile solo parzialmente compreso nell'eredità (Cass. n. 4260/1978). Poiché l'azione di divisione appartiene alla competenza del giudice del luogo dell'aperta successione, allo stesso giudice deve ritenersi devoluta anche l'azione di riduzione, proposta cumulativamente con quella di divisione, di cui costituisce giuridicamente un prius logico (Cass. n. 3145/1962). Viceversa, non rientra nel campo applicativo della disposizione l'azione di riduzione di una donazione per lesione di legittima, quando non è proposta cumulativamente con la domanda di divisione, né, tanto meno, la domanda restitutoria delle somme che il convenuto avrebbe prelevato, quale cointestatario, da un conto corrente del de cuius durante la vita di questi, non essendo qualificabile tale domanda come petizione ereditaria, che consente all'erede di reclamare soltanto i beni nei quali egli sia succeduto mortis causa al defunto (Cass. n. 11879/2022). La latitudine dell'espressione «per qualunque altra [causa] tra coeredi fino alla divisione» è illuminata da alcune pronunce in cui si osserva che la competenza del giudice del luogo dell'aperta successione, fissata dall'art. 22, comma 1, n. 1, per le cause tra coeredi, opera quando la legittimazione, attiva e passiva, dei litiganti sia collegata necessariamente alla loro qualità di erede, non anche se tale qualità venga in rilievo solo occasionalmente: è stata così esclusa la qualità ereditaria della causa tra fratelli per l'adempimento dell'onere apposto ad un contratto avente causa mista di compravendita e donazione intervenuto tra padre, nel frattempo deceduto e figlio in favore di altro figlio dell'alienante (Cass. n. 26775/2011); è stata parimenti esclusa l'applicabilità del forum hereditatis in relazione a controversia avente ad oggetto la restituzione di spese sostenute per la manutenzione di un immobile intrapresa da due fratelli che erano divenuti unici proprietari pro indiviso del bene, già caduto in successione, soltanto a seguito di transazione intercorsa con gli altri coeredi (Cass. n. 22306/2011); è stata invece riconosciuta l'applicabilità della disposizione in esame all'azione di petizione di eredità (Cass. n. 18334/2006); ed è stato infine escluso che l'azione di regresso, esercitata da uno dei coeredi nei confronti dell'altro per ottenere il rimborso di una quota delle somme corrisposte all'amministratore giudiziario per la gestione di uno dei beni ereditari da dividere, rientri nella disciplina della competenza dettata dall'art. 22, in quanto detta azione non presuppone la qualità di erede, trattandosi di una comune azione sorta da un rapporto obbligatorio, che può instaurarsi non solo tra coeredi, ma anche tra soggetti privi di tale qualifica (Cass. n. 2249/2000). È stato inoltre chiarito che la competenza del giudice del luogo dell'aperta successione, a norma dell'art. 22, per qualunque causa fra coeredi fino alla divisione, permane oltre il momento all'esaurimento delle operazioni divisionali previste dall'art. 713 c.c. sin quando sia cessata ogni controversia relativa all'universalità dei rapporti giuridici facenti capo al de cuius, e pertanto non è esclusa dalla circostanza che il testatore con l'attribuzione di beni singoli ex art. 734, comma 1, c.c. (divisione fatta dal testatore) prevenga il formarsi della comunione ereditaria: ne consegue che competente a conoscere della domanda di rimborso dell'imposta di successione, proposta da un coerede nei confronti di altro coerede, è il giudice del luogo in cui la successione si è aperta, radicandosi la competenza di detto giudice in relazione ad ogni causa nella quale la legittimazione attiva e passiva discenda necessariamente e non occasionalmente dalla qualità di erede e che abbia un oggetto attinente a tale qualità (Cass. n. 1260/1997). La domanda risarcitoria proposta dall'erede del mandante nei confronti del mandatario, fondata sull'inadempimento dell'obbligo di rendiconto che grava sul mandatario anche dopo la morte del mandante in favore degli eredi, non integra una causa successoria, la quale è configurabile solo allorché la controversia sorga tra successori veri o presunti a titolo universale o particolare e abbia come oggetto principale l'accertamento di beni o diritti caduti in successione o che si ritenga debbano costituirne parte (Cass. S.U., n. 20503/2019). In relazione al n. 3 del comma 1, è stato chiarito che gli eredi del debitore defunto, qualora eccepiscano l'incompetenza per territorio del giudice adito, per essere competente il giudice del luogo dell'aperta successione, devono provare le circostanze alle quali detta competenza è subordinata e, quindi, anche l'avvenuta proposizione della domanda del creditore prima della divisione dell'eredità, spettando a chi solleva l'eccezione di incompetenza per territorio, fuori dei casi previsti dall'art. 28, dimostrare i fatti che la giustificano (Cass. n. 14594/2012). In tema di competenza territoriale nelle controversie aventi ad oggetto la simulazione di un contratto vitalizio, si applicano invece i criteri generali di cui agli artt. 18 e 20 c.p.c., atteso che non può operare il foro ex art. 22,, poiché le cause ivi indicate sono tassative e devono vertere «tra coeredi», mentre il legittimario totalmente pretermesso che agisce per far valere la simulazione del contratto vitalizio, è privo della qualità di erede (Cass. n. 4233/2016). Successione aperta fuori della RepubblicaPoiché, secondo l'art. 456 c.c., la successione si apre, senza eccezioni, nel luogo dell'ultimo domicilio del defunto, non sembra potersi dubitare che anche la successione del cittadino italiano domiciliato all'estero segua la stessa regola. In ambito di giurisdizione contenziosa l'art. 22, dopo aver fissato, in generale, la competenza del giudice del luogo dell'aperta successione, stabilisce che, se la successione si è aperta fuori della Repubblica, le cause ivi indicate — quelle di petizione e di divisione ereditaria e qualunque altra causa fra coeredi fino alla divisione; quelle di rescissione della divisione e di garanzia delle quote; quelle relative ai crediti verso il defunto o a legati dovuti dall'erede; quelle contro l'esecutore testamentario — sono di competenza del giudice in cui è posta la maggior parte dei beni situati nella Repubblica, o, in mancanza di questi, del luogo di residenza del convenuto o di alcuno dei convenuti. In caso di successione ereditaria di un cittadino italiano apertasi all'estero, il comma 2 della disposizione in commento istituisce dunque due fori concorrenti: il luogo in cui è posta la maggior parte dei beni in Italia; il luogo di residenza del convenuto o di qualcuno dei convenuti. In mancanza di convenuti residenti in Italia, o la cui residenza sia ignota, si ritiene applicabile l'art. 18, con conseguente radicamento della competenza sulla base della residenza dell'attore (Acone e Santulli, 39; Levoni, 124). Manca invece una norma generale che individui il giudice competente in ambito di giurisdizione volontaria e, in particolare, che disciplini l'ipotesi della successione del cittadino italiano apertasi all'estero. Non può dubitarsi, però, che tale individuazione debba essere compiuta, dal momento che l'art. 50 l. n. 218/1995, riconosce la giurisdizione del giudice italiano in materia successoria, se il defunto era cittadino italiano al momento della morte, ovunque egli fosse domiciliato. In proposito, taluno ha sostenuto che, in ambito di giurisdizione volontaria, le parti avrebbero la più ampia libertà di scelta del giudice competente, perché, nel silenzio della legge ed in mancanza di norme generali sul punto, non vi sarebbe altra strada che quella di rimettere alla parte istante la scelta. Si è obbiettato che l'art. 28 c.p.c. fissa, senza distinzioni e limiti, il principio dell'inderogabilità della competenza per territorio nei procedimenti in camera di consiglio e che l'art. 737 c.p.c., anch'esso senza distinzioni e limiti, stabilisce l'obbligo di proporre il ricorso al giudice competente (Mazzacane, La volontaria giurisdizione nell'attività notarile, Roma, 1980, 28; Cardarelli, L'apertura della successione all'estero di cittadino italiano, in Riv. not. 1991, II, 1026). D'altronde, rimettere alla parte la scelta del giudice — e con esso, del cancelliere incaricato, tra l'altro, di tenere il registro delle successioni e ricevere gli atti di accettazione beneficiata e rinuncia — significherebbe frustrare inaccettabilmente il fine di pubblicità che al sistema di interventi in precedenza ricordato l'ordinamento riconnette, nuocendo alla generalità di coloro i quali siano di volta interessati ad accertare se vi sia stata rinuncia o accettazione beneficiata, se l'erede beneficiato abbia fatto l'inventario, munendosi delle autorizzazione necessarie alle alienazioni, e così via. È comunemente ammesso che, allo scopo di colmare la lacuna, debba farsi ricorso al procedimento di interpretazione analogica. Così, vi è stato chi ha affermato che l'interpretazione dovrebbe procedere non già dalla comparazione con le norme che disciplinano la competenza territoriale nella giurisdizione contenziosa — considerata la mancanza del presupposto della eadem ratio —, ma con quelle che regolano la competenza territoriale nella giurisdizione volontaria, sicché dovrebbe aversi riguardo al domicilio o residenza del soggetto interessato al provvedimento. Difatti, si rileverebbe che «è competente territorialmente il giudice nella cui circoscrizione ha il domicilio o la residenza la persona nel cui interesse il provvedimento viene richiesto ...: in quanto esso è considerato il più idoneo per lo svolgimento delle funzioni attribuite al giudice nella giurisdizione volontaria» (Mazzacane, 30). Si è replicato che il principio formulato mal si presta ad essere applicato nella materia in esame, nella quale la nozione di «“persona nel cui interesse il provvedimento viene richiesto” appare incerta ed equivoca: basti pensare all'accettazione beneficiata per constatare che interessato potrebbe apparire non soltanto l'erede, ma — certo — anche i creditori o legatari» (Brama, Accettazione di eredità con beneficio di inventario, Milano, 1995, 16). Si potrebbe ipotizzare, dunque, l'applicazione analogica dell'art. 35 d.P.R. 5 gennaio 1967, n. 200 — la legge consolare — che prevede la competenza del capo dell'ufficio consolare nelle questioni di volontaria giurisdizione in materia successoria altrimenti di competenza del giudice delle successioni. Ma si è osservato in contrario che «l'art. 35, allorché stabilisce che il capo dell'ufficio consolare ha il potere di emanare provvedimenti di volontaria giurisdizione in materia di successioni ..., si riferisce esclusivamente ai provvedimenti cautelari e d'urgenza, quali l'apposizione di sigilli e l'inventario, che si ritengano opportuni nei confronti dei cittadini residenti nella circoscrizione consolare» (Brama, 17). Neppure è possibile sostenere — soggiunge la dottrina — che, in caso di successione apertasi all'estero, sia sempre competente l'autorità giudiziaria di Roma, ai sensi dell'art. 36 d.P.R. 5 gennaio 1967, n. 200 (Franchi, Giurisdizione e competenza per la nomina del curatore dell'eredità giacente , in Giur. it. 1972, I, 1, 485 ss.). La norma, infatti, peraltro abrogata dall'art. 79, comma 1, lett. a, d.lgs. n. 71/2011, si limita a prescrivere che, per i reclami contro i provvedimenti di volontaria giurisdizione adottati dall'autorità consolare, è competente a decidere il tribunale del luogo di ultima residenza in Italia dell'interessato e, se ciò non sia possibile, il tribunale di Roma (Brama, 18). Né conferma della competenza del tribunale di Roma potrebbe essere tratta dall'art. 6 d.lgs. n. 346/1990, che attribuisce all'Ufficio del Registro di Roma la competenza a ricevere la dichiarazione di successione qualora l'ultima residenza del defunto fosse all'estero, trattandosi di norma che si fonda su un criterio di collegamento — la residenza — diverso da quello previsto in materia successoria e che, per di più, non sembra possa essere applicato al di fuori dell'ambito della disciplina fiscale (Cardarelli, 1027). La soluzione al quesito in esame — mediante l'applicazione dell'art. 22 — è dunque venuta dalla giurisprudenza di legittimità, che si è soffermata sull'individuazione del giudice competente nominare il curatore dell'eredità giacente, in un caso in cui il defunto, cittadino italiano, era domiciliato all'estero. La S.C., dopo aver osservato che, quando la successione di un cittadino italiano si sia aperta all'estero, l'eredità giacente è regolata dalla legge italiana ed il curatore deve essere nominato dal giudice italiano, ha affermato che la competenza territoriale per tale nomina va determinata non in base all'art. 528 c.c., per cui è carente il presupposto costituito dall'apertura della successione in Italia, bensì alla stregua della norma generale del capoverso dell'art. 22, per cui sussiste in concreto il presupposto dell'apertura all'estero della successione. Pertanto, per la nomina del curatore dell'eredità giacente sussiste la competenza per territorio del pretore nel cui mandamento trovasi un bene caduto nella successione del cittadino apertasi all'estero (Cass. n. 2836/1971). Dello stesso tenore la soluzione accolta da Pret. Genova 16 settembre 1978, in Dir. fam. pers., 1979, 811. Analogamente, nella giurisprudenza di merito, si trova risolto in applicazione del medesimo principio il dubbio sulla competenza all'autorizzazione alla vendita di un bene ereditario appartenuto ad un cittadino italiano che aveva il suo ultimo domicilio all'estero ( Trib. Roma 7 novembre 1991, in Riv. not., 1991, II, 1025). In dottrina la tesi è stata condivisa da chi ha osservato che soltanto interpretando analogicamente l'art. 22 è possibile superare l'impasse dovuto all'assenza di una specifica disciplina della delicata questione affrontata (Brama, 19). Ben può accadere, peraltro, di cimentarsi con il caso del cittadino italiano privo di beni nel territorio dello Stato, nel qual caso, non soccorrendo l'applicazione analogica dell'art. 22, non sembra residuare altra strada — pur con i dubbi prima evidenziati — che il riconoscimento della competenza territoriale del giudice nella cui circoscrizione ha il domicilio o la residenza la persona nel cui interesse il provvedimento viene richiesto, secondo l'opinione proposta da Mazzacane, 30. BibliografiaAcone e Santulli, Competenza (dir. proc. civ.), in Enc. giur. VII, Roma 1988; D'Onofrio, Commento al codice di procedura civile, I-II, Torino, 1957; Finocchiaro, La competenza inderogabile che deroga alle competenze inderogabili: l'art. 30-bis c.p.c., in Giust. civ. 2002, I, 3043; Levoni, Competenza, in Dig. civ., Torino, 1988. |