Codice di Procedura Civile art. 75 - Capacità processuale 1 .Capacità processuale 1. [I]. Sono capaci di stare in giudizio le persone che hanno il libero esercizio dei diritti che vi si fanno valere [299, 300 1]. [II]. Le persone che non hanno il libero esercizio dei diritti non possono stare in giudizio se non rappresentate, assistite o autorizzate secondo le norme che regolano la loro capacità [182 2]. [III]. Le persone giuridiche stanno in giudizio per mezzo di chi le rappresenta a norma della legge o dello statuto. [IV]. Le associazioni e i comitati, che non sono persone giuridiche, stanno in giudizio per mezzo delle persone indicate negli articoli 36 e seguenti del codice civile 2. [1] La Corte cost., con sentenza 16 ottobre 1986, n. 220, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale degli artt. 75 e 300 c.p.c. nella parte in cui non prevedono, ove emerga una situazione di scomparsa del convenuto, la interruzione del processo e la segnalazione, ad opera del giudice, del caso al pubblico ministero perché promuova la nomina di un curatore, nei cui confronti debba l'attore riassumere il giudizio. [2] Comma così modificato dal r.d. 20 aprile 1942, n. 504. Inquadramento.Gli artt. 75 e ss. riconoscono la capacità di stare in giudizio ai titolari dei diritti azionati, purché ne abbiano il libero esercizio, attribuendo, altrimenti, la relativa legittimazione a chi rappresenti o assista l'incapace. Le persone giuridiche, le associazioni e I comitati, invece, partecipano al processo tramite I loro rappresentanti legali o statutari. Eccezionale e limitato è il potere di avvalersi di un procuratore generale o speciale. Ove manchi il rappresentante e vi sia urgenza, può essere nominato all'incapace, alla persona giuridica o all'associazione non riconosciuta un curatore speciale. Del pari, va nominato un curatore speciale al rappresentato in ipotesi di conflitto d'interessi col rappresentante. Capacità di essere “parte” del processo.Ad attore e convenuto spetta propriamente la qualità di «parte», in quanto autori degli atti del processo e, reciprocamente, destinatari dei loro effetti. Tuttavia, diverse sono le possibili nozioni di parte: colui che compie gli atti del processo si definisce «parte in senso formale» (soggetto dell'azione); colui che riceve gli effetti degli atti del processo è la «parte in senso processuale»; colui che è titolare del rapporto sostanziale per cui è lite e subisce gli effetti dell'accertamento giudiziale è, infine, la «parte in senso sostanziale» (soggetto della lite). Secondo un principio generale di indisponibilità del potere di stare in giudizio e di necessario collegamento tra diritto alla tutela giurisdizionale e affermazione della titolarità del diritto sostanziale, si verifica una normale coincidenza soggettiva fra la parte in senso formale e la parte in senso sostanziale; ciò non avviene unicamente allorché il titolare del rapporto controverso sia privo di capacità processuale, oppure quando venga conferita la rappresentanza processuale a colui che già sia investito di un potere rappresentativo di natura sostanziale in ordine al rapporto dedotto in giudizio (art. 77), casi nei quali si ha un soggetto (parte in senso formale) che sta in giudizio in nome e per conto di altri (parte in senso sostanziale). Qualora il giudizio venga, tuttavia, promosso da soggetto privo di poteri rappresentativi (o, come si dice, di «legittimazione processuale»), il vizio può essere sanato in ogni stato e grado del giudizio, con efficacia retroattiva e con riferimento a tutti gli atti processuali già compiuti, per effetto della spontanea costituzione del soggetto dotato dell'effettiva rappresentanza della parte sostanziale, oppure mediante ordine giudiziale ex art. 182, comma 2 (Cass. S.U., n. 9217/2010). Se, dunque, la capacità processuale concerne la titolarità del potere di proporre la domanda, o di resistere alla stessa, la legitimatio ad causam è, invece, istituto processuale, e connota il soggetto che ha il potere di proporre la domanda giudiziale e quello che ha il dovere di subire tale iniziativa. Essa è condizione dell'azione, nel senso che ne dipende l'ottenimento di una qualsiasi decisione di merito da parte del giudice, ma va riscontrata esclusivamente alla stregua della fattispecie allegata, rimanendo sufficiente che la riferibilità all'attore ed al convenuto di quei diritti, e, rispettivamente, di quei doveri o di quegli obblighi, venga semplicemente prospettata dal primo mediante deduzione di fatti idonei in astratto a fondare le situazioni giuridiche controverse. Cosa distinta dalla legittimazione è l'effettiva titolarità del rapporto oggetto di causa, in quanto questione che non può risolversi sulla base della narrazione delle parti, giacché attiene al merito del processo, ossia al riscontro dei requisiti di fondatezza della domanda e delle eccezioni spiegate nelle reciproche difese. Si comprende allora come il profilo dell'eventuale difetto di titolarità di diritti, doveri o obblighi in contesa non sia affatto rilevabile d'ufficio, bensì piuttosto rimesso al tempestivo rilievo delle parti, in quanto contestazione rientrante nelle facoltà dispositive e soggetta all'onere deduttivo e probatorio di queste (Cass. S.U., n. 1912/2012). Cass. S.U., n. 2951/2016 , ha ribadito la distinzione tra legittimazione al processo e titolarità della posizione sostanziale oggetto dell'azione, condividendo l'affermazione per cui il problema della titolarità della posizione soggettiva, attiva o passiva, attiene al merito della decisione, cioè alla fondatezza della domanda. Tale attinenza al merito non significa, tuttavia, che la questione della titolarità del rapporto dedotto in lite rientra nel potere dispositivo e nell'onere deduttivo e probatorio della parte interessata. Il fatto che la questione della titolarità attenga al merito significa, secondo le Sezioni Unite, che rientra nel problema della fondatezza della domanda, ovvero della verifica della sussistenza del diritto fatto valere in giudizio, ma non che la relativa prova gravi sul convenuto e che la difesa con la quale il convenuto neghi la sussistenza della titolarità stessa costituisca un'eccezione, tanto meno in senso stretto. La «legittimazione ad agire » si iscrive nella cornice del «diritto all'azione», ovvero del diritto di agire in giudizio, riconosciuto dall'art. 2907 c.c. e dall'art. 24 Cost. La legittimazione ad agire discende dalla titolarità del diritto ad agire in giudizio e spetta a chiunque faccia valere nel processo un diritto assumendo di esserne titolare. La valutazione di sussistenza della legittimazione ad agire va fatta sulla base della domanda, nella quale l'attore deve prospettare di essere titolare del diritto dedotto in giudizio. Simmetricamente, la legittimazione a contraddire discende dalla titolarità passiva dell'azione e dipende dalla prospettazione nella domanda di un soggetto come titolare della situazione soggettiva passiva dedotta in lite. Se la citazione o il ricorso introduttivi della causa non indichino l'attore come titolare del diritto di cui si chiede l'affermazione e il convenuto come titolare della relativa posizione passiva, l'azione è inammissibile. Se, invece, all'esito del processo, viene provato o comunque accertato che l'attore non era titolare del diritto che aveva esposto come suo in domanda, o che il convenuto non era titolare del rispettivo dovere o obbligo, la domanda verrà rigettata, senza però che sia esclusa la legittimazione ad agire o a resistere di quelle parti in quel processo. La stessa Cass. S.U., n. 2951/2016 ribadisce, allora, che la carenza della legittimazione ad agire può essere eccepita in ogni grado e stato del giudizio e può essere rilevata d'ufficio dal giudice, trattandosi di questione che non può andare soggetta a preclusioni, in quanto una causa non può chiudersi con una pronuncia che riconosce un diritto o un obbligo di chi, alla stregua della stessa domanda, non aveva titolo al riguardo. Diverso è il problema quando si tratta di stabilire se colui che vanta un diritto o del quale si sostenga un obbligo in giudizio sia effettivamente il titolare di tali situazioni soggettive: il problema attiene al merito della causa e riguarda non la prospettazione ma la fondatezza della domanda. Ora, osservano le Sezioni Unite, la titolarità del diritto fatto valere in giudizio è un elemento costitutivo della domanda. Così, nel caso di una domanda di risarcimento del danno subito da un immobile, tra gli elementi costitutivi della domanda vi è il diritto di proprietà sul bene danneggiato, diritto che va dimostrato. Il diritto di proprietà del bene non è il diritto oggetto della domanda, ma è un elemento costitutivo di quel diritto; sul piano dell'onere probatorio, in base alla ripartizione fissata dall'art. 2697 c.c., la titolarità del diritto è un fatto, appartenente alla categoria dei fatti-diritto, che della domanda costituisce il fondamento. Se il convenuto non condivide l'assunto dell'attore in ordine alla titolarità del diritto, può limitarsi a negarla, spiegando una mera difesa, in quanto consistente non nell'esposizione di ragioni giuridiche (ovvero, in fatti che privano di efficacia i fatti costitutivi, o modificano o estinguono il diritto, eccezioni, cioè, ai sensi dell'art. 2607, comma 2, c.c.), ma in una presa di posizione che si limita a negare l'esistenza di fatti costitutivi del diritto. Tale mera difesa può essere posta dal convenuto anche il termine stabilito per le eccezioni in senso stretto dall'art. 167, può essere sollevata d'ufficio dal giudice, e può anche essere oggetto di motivo di appello. Tuttavia, la presa di posizione assunta dal convenuto con la comparsa di risposta può rendere superflua la prova dell'allegazione dell'attore in ordine alla titolarità del diritto, allorché il convenuto con contesti quest'ultima, agli effetti dell'art. 115, comma 1. Al tal fine, peraltro, l'eventuale contumacia del convenuto non vale a rendere non contestati i fatti allegati dall'attore. Ne consegue, conclusivamente, che la carenza di titolarità, attiva o passiva, del rapporto controverso è rilevabile di ufficio dal giudice se risultante dagli atti di causa, e che le contestazioni, da parte del convenuto, sulla a titolarità del rapporto controverso dedotte dall'attore, avendo, come visto, natura di mere difese, sono proponibili in ogni fase del giudizio, senza che l'eventuale contumacia o tardiva costituzione assuma valore di non contestazione o alteri la ripartizione degli oneri probatori, ferme le eventuali preclusioni maturate per l'allegazione e la prova di fatti impeditivi, modificativi od estintivi della titolarità del diritto non rilevabili dagli atti (si vedano anche, di seguito, Cass. II, n. 12641/2016, in tema di titolarità di diritto reale; Cass. II, n. 13664/2016, in tema di elementi costitutivi di una sanzione amministrativa). Nelle ipotesi, poi, di sostituzione processuale eccezionalmente ammesse dall'ordinamento, si realizza una scissione tra parte in senso processuale (il cosiddetto sostituto processuale) e parte in senso sostanziale (il cosiddetto sostituito). Come spiega l'art. 81, nessuno può far valere nel processo un diritto altrui in nome proprio fuori dei casi espressamente previsti dalla legge. In queste ipotesi, sebbene la titolarità dell'interesse dedotto in giudizio competa non all'attore, ma al sostituito, il potere di agire in nome proprio per la tutela di quell'interesse trova la sua fonte in un diritto soggettivo autonomo, ossia in un particolare rapporto sostanziale che intercede tra il sostituto ed il sostituito. L'art. 75, nell'escludere la capacità processuale delle persone che non hanno il libero esercizio dei propri diritti, si riferisce solo a quelle che siano state legalmente private della capacità di agire con una sentenza di interdizione o di inabilitazione o con un provvedimento di nomina di un tutore o di un curatore provvisorio, e non alle persone colpite da incapacità naturale (Cass. III, n. 17914/2022; Cass. II, n. 21507/2019; Cass. I, n. 17912/2010). Infatti, l'incapacità processuale è collegata alla incapacità di agire di diritto sostanziale, ovvero ad una posizione giuridica risultante risulta dai registri delle tutele e delle curatele e dai registri dello stato civile, e non ad una mera condizione fisio-psichica, che obbligherebbe ciascuno ad un'impossibile indagine sullo stato mentale della controparte; cosicché l'incapace naturale conserva la piena capacità processuale sino a quando non sia stata pronunciata nei suoi confronti una sentenza di interdizione, ovvero non gli sia stato nominato, durante il giudizio che fa capo a tale pronunzia, il tutore provvisorio. E' stato precisato che la rappresentanza sostanziale conferita all'amministratore di sostegno con il decreto del giudice tutelare gli attribuisce,exart. 75, comma 2 c.p.c., anche il relativo potere processuale, in quanto funzionale alla tutela delle situazioni sostanziali per le quali gli è stato attribuito il potere rappresentativo (Cass. I, n. 6518/2019). Allo stesso tempo, viene chiarito che il provvedimento di nomina dell'amministrazione di sostegno non determina di per sé l'interruzione del giudizio di cui sia parte il beneficiario dell'amministrazione e, anche qualora il difensore dell'amministratore dichiari in udienza l'evento, non si verifica automaticamente l'interruzione del processo, come invece accade nelle diverse ipotesi dell'interdizione e dell'inabilitazione. Ne consegue che ove il giudice dichiari con ordinanza l'interruzione del giudizio, il "dies a quo" per la riassunzione del processo nel termine di tre mesi ex art. 305, decorre, per esigenze di tutela del beneficiario, non dalla data della dichiarazione in udienza dell'evento da parte del difensore, ma dal successivo provvedimento del giudice di merito che, dopo aver valutato, in base al tenore del provvedimento del giudice tutelare, l'effettiva capacità di agire residua dell'amministrato e la corrispondente capacità processuale ex art. 75, dichiara l'interruzione del processo (Cass. I, n. 32845/2022; si vedano anche, in tema di amministrazione di sostegno e capacità processuale, Cass. III, n. 17113/2024; Cass. I, n. 3762/2024). Si è affermato che il ricorso per cassazione proposto dai genitori quali esercenti la potestà sul figlio, quando lo stesso sia già divenuto maggiorenne, impone l'integrazione del contraddittorio nei confronti di quest'ultimo, in quanto litisconsorte necessario, essendo già stato parte del giudizio nei precedenti gradi di merito in relazione ai riflessi patrimoniali e non patrimoniali della domanda a lui riferibili, sia pure per effetto della rappresentanza legale dei medesimi genitori, e risultando l'impugnazione così proposta inidonea a determinare la presenza del figlio nella fase di legittimità (Cass. S.U., n. 21670/2013). Poiché, appunto, le persone fisiche che hanno la rappresentanza dell'incapace ne hanno anche la rappresentanza processuale, gli atti del processo, ancorché diretti a quest'ultimo, vanno notificati esclusivamente alle prime (Cass. III, n. 6318/2000). Nei confronti delle persone inabilitate, che devono stare in giudizio con la necessaria assistenza del curatore, il procedimento di notificazione ha carattere complesso in quanto può ritenersi perfezionato solo quando l'atto sia portato a conoscenza tanto della parte quanto del curatore, per mettere quest'ultimo in grado di svolgere la sua funzione di assistenza (Cass. V, n. 12531/2015). L'atto di pignoramento notificato personalmente al debitore esecutato privo di capacità processuale, perché in stato di interdizione legale, è nullo, ma tale nullità – qualora il debitore interdetto, già costituito in proprio, e non in persona del tutore, legale rappresentante, riacquisti la capacità processuale in pendenza di processo esecutivo – è destinata a sanarsi con efficacia “ex tunc”, ciò che vale ad escludere l'invalidità dell'atto di pignoramento, ma non anche degli atti del processo esecutivo svolto in violazione del principio del contraddittorio, che va fatta valere con opposizione agli atti esecutivi da proporsi nel termine di venti giorni dalla data di cessazione dello stato di incapacità processuale (Cass. III, n. 7403/2017). In caso di morte o perdita di capacità della parte costituita a mezzo di procuratore, l'omessa dichiarazione o notificazione del relativo evento ad opera di quest'ultimo comporta, per la regola dell'ultrattività del mandato alla lite, che il difensore continui a rappresentare la parte come se l'evento stesso non si fosse verificato, risultando così stabilizzata la posizione giuridica della parte rappresentata (rispetto alle altre parti ed al giudice) nella fase attiva del rapporto processuale, nonché in quelle successive di sua quiescenza od eventuale riattivazione dovuta alla proposizione dell'impugnazione. Tale posizione è suscettibile di modificazione qualora, nella fase di impugnazione, si costituiscano gli eredi della parte defunta o il rappresentante legale di quella divenuta incapace, ovvero se il suo procuratore, già munito di procura alla lite valida anche per gli ulteriori gradi del processo, dichiari in udienza, o notifichi alle altre parti, l'evento, o se, rimasta la medesima parte contumace, esso sia documentato dall'altra parte o notificato o certificato dall'ufficiale giudiziario ex art. 300, comma 4 (Cass. S.U., n. 15295/2014). Dopo la riforma del diritto societario, attuata dal d.lgs. n. 6/2003, qualora all'estinzione della società, di persone o di capitali, conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale: a) l'obbligazione della società non si estingue, in quanto ciò sacrificherebbe ingiustamente il diritto del creditore sociale, ma si trasferisce ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che, pendente societate, fossero limitatamente o illimitatamente responsabili per i debiti sociali; b) i diritti e i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta si trasferiscono ai soci, in regime di contitolarità o comunione indivisa, con esclusione delle mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, e dei crediti ancora incerti o illiquidi, la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un'attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale), il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato, a favore di una più rapida conclusione del procedimento estintivo (Cass. S.U., n. 6070/2013). E’ stato così ritenuto inammissibile l’appello proposto da una società di persone successivamente alla sua cancellazione dal registro delle imprese, anziché dai soci, in quanto strutturalmente inidoneo a realizzare il proprio scopo, poiché la cancellazione comporta l'immediata estinzione della società e determina un fenomeno di tipo successorio, in forza del quale la legittimazione processuale facente capo all'ente si trasferisce ai soci (Cass. II, n. 14859/2022; si veda anche Cass. I, n. 26196/2016; Cass. III, n. 2439/2024). La fusione per incorporazione estingue la società incorporata, che non può dunque iniziare un giudizio in persona del suo ex amministratore, ferma restando la facoltà per la società incorporante di spiegare intervento volontario in corso di causa, ai sensi e per gli effetti dell'art. 105 c.p.c.; nondimeno, ove la fusione intervenga in corso di causa, non si determina l'interruzione del processo, esclusa "ex lege" dall'art. 2504 bis c.c. (Cass. S.U., n.21970/2021). La cancellazione dell'imprenditore individuale dal registro delle imprese non incide sulla sua legittimazione e capacitàprocessuale (Cass. II, n. 35962/2021). Persone giuridiche.Si è chiarito che la parte deve rendere nota e palese la propria legittimazione con l'atto di citazione e, specularmente, con l'atto di costituzione i quali, cristallizzando la posizione processuale, costituiscono l'unica fonte sulla quale la controparte deve fare affidamento e in relazione alla quale calibra le proprie difese; sicché, ove sorga ragione per interpretare una pluralità di ruoli (ad esempio, persona fisica rivestente anche il ruolo di rappresentante di una società), è in detti atti che la parte deve indicare quale dei ruoli intende spendere (e, se del caso, tutti), non potendosi integrare tali indicazioni attraverso il ricorso ad elementi estrinseci, quali la nota d'iscrizione a ruolo o la procura (Cass. II, n. 21448 /2019). Ai sensi dell'art. 75, comma 3, la persona fisica che sta in giudizio come organo di una persona giuridica - sia essa ente o società - ed ha rilasciato mandato al difensore, non ha l'onere di dimostrare detta veste, che deve presumersi legittimamente dedotta, spettando piuttosto a colui che contesta il potere rappresentativo l'onere di provare la inesistenza del rapporto organico (Cass. S.U,n. 31963/2021; Cass. III, n. 26253/2007; Cass. III, n. 23916/2006). Così, in tema di rappresentanza processuale del Comune, la causa di impedimento del sindaco a firmare direttamente la procura alle liti si presume esistente in virtù della presunzione di legittimità degli atti amministrativi, restando a carico dell'interessato l'onere di dedurre e di provare l'insussistenza dei presupposti per l'esercizio dei poteri sostitutivi, sicché si è reputata valida la procura conferita dal vice sindaco ancorché sia stata omessa l'indicazione delle ragioni di assenza o impedimento del sindaco (Cass. III, n. 7348/2022). Altrimenti, si afferma che, sempre in tema di rappresentanza delle persone giuridiche, in presenza di contestazioni circa la qualità di rappresentante sostanziale in capo al procuratore speciale che abbia sottoscritto la procura alle liti incombe sulla parte rappresentata l'onere della prova dei poteri rappresentativi spesi in ordine al rapporto dedotto in giudizio; ne consegue che, in difetto di tale contestazione, l'allegazione dei suddetti poteri è sufficiente ai fini della valida nomina dei difensori. L'onere di provare la dichiarata qualità non spetta neppure nel caso in cui l'ente si sia costituito in giudizio per mezzo di persona diversa dal legale rappresentante e l'organo che ha conferito il potere di rappresentanza processuale derivi tale potestà dall'atto costitutivo o dallo statuto, poiché i terzi hanno la possibilità di verificare il potere rappresentativo consultando gli atti soggetti a pubblicità legale e, quindi, spetta a loro fornire la prova negativa. Solo nel caso in cui il potere rappresentativo abbia origine da un atto della persona giuridica non soggetto a pubblicità legale, incombe a chi agisce l'onere di riscontrare l'esistenza di tale potere a condizione, però, che la contestazione della relativa qualità ad opera della controparte sia tempestiva, non essendo il giudice tenuto a svolgere di sua iniziativa accertamenti in ordine all'effettiva esistenza della qualità spesa dal rappresentante, dovendo egli solo verificare se il soggetto che ha dichiarato di agire in nome e per conto della persona giuridica abbia anche asserito di farlo in una veste astrattamente idonea ad abilitarlo alla rappresentanza processuale della persona giuridica stessa (Cass. S.U., n. 20596/2007; Cass. V, n. 10009/2018). La parte che contesti che la persona fisica, la quale assume di rivestire la qualità di rappresentante di una persona giuridica, manca del potere rappresentativo, deve perciò sollevare siffatta contestazione nella prima difesa, restando così onere dell'altra parte documentare la pretesa qualità (Cass. I, n. 1332/2017). In tema di rappresentanza in giudizio dello Stato, Cass. S.U., n. 8516/2012 ha specificato, a proposito dell'art. 4 l. 25 marzo 1958, n. 260, inerente l'errore di identificazione della persona destinataria della notifica, che tale norma, quando si tratti di enti ammessi al patrocinio dell'Avvocatura dello Stato, in forza dell'ineludibile principio dell' effettività del contraddittorio, vede la propria operatività circoscritta al profilo della rimessione in termini, con esclusione, dunque, di ogni possibilità di "stabilizzazione" nei confronti del reale destinatario, in funzione della comune difesa, degli effetti di atto giudiziario notificato ad altro soggetto e del conseguente giudizio. Sicché, nell'ipotesi di vocatio in ius di un Ministero diverso da quello istituzionalmente competente, allorché l'Avvocatura dello Stato — pur ricorrendo i presupposti per l'applicazione dell'art. 4, l. 25 marzo 1958, n. 260 — non si avvalga, nella prima udienza, della facoltà di eccepire l'erronea identificazione della controparte pubblica, provvedendo alla contemporanea indicazione di quella realmente competente, resta preclusa la possibilità di far valere, in seguito, l'irrituale costituzione del rapporto giuridico processuale, non ponendosi, in senso proprio, una questione di difetto di legittimazione passiva, ferma restando la facoltà per il reale destinatario della domanda di intervenire in giudizio e di essere rimesso in termini (Cass. VI-3, n. 5230/2015). La Cass. II, n. 15301/2016, ha invece affermato che l'opposizione a decreto ingiuntivo proposta dalla Presidenza della Regione Siciliana, ovvero dall'Assessorato Regionale alla Presidenza, non può ritenersi formulata da soggetto diverso dalla Regione Siciliana, nei cui confronti era stata pronunciata l'ingiunzione da opporre, atteso che la Presidenza della Regione Siciliana costituisce organo che esplica le attribuzioni del Presidente della Regione ed al quale è riconosciuta una generale legittimazione ad agire, mentre la Regione Siciliana non ha una sua autonoma e distinta soggettività unitaria.
Il falsus procurator nel campo processuale
Sulla sanatoria del vizio provocato dall'abusivo rappresentante in giudizio, si rievoca la questione dell'ipotizzabilità di una ratifica dell'atto del falsus procurator con efficacia retroattiva nel campo processuale e dei meccanismi di sanatoria conseguenti alla spontanea costituzione in giudizio del soggetto falsamente rappresentato, anche ai fini della validità della procura alle liti già conferita (questione su cui influiscono altresì le modifiche dell'art. 182, comma 2, introdotte dall'art. 46, comma 2, l. n. 69/2009) (cfr. Cass. I, n. 5175/2005; Cass. III, n. 3700/2012, per la quale la sanatoria retroattiva della carenza di legittimazione processuale incontra l'insuperabile limite delle decadenze verificatesi nelle precedenti fasi intermedie del giudizio, quale quella conseguente allo spirare del termine breve per l'appello, con correlata formazione del giudicato per difetto di tempestiva impugnazione; in senso opposto, Cass. III, n. 20913/2005); secondo Cass. II, n. 10885/2018, l'art. 182, comma 2, trova applicazione anche qualora la procura manchi del tutto, restando irrilevante la distinzione tra nullità e inesistenza della stessa; si vedano anche Cass. I, n. 22559/2015; Cass. S.U., n. 10414/2017). In proposito, Cass. III, n. 19881/2011, proprio in nome della generalizzata ammissibilità della sanatoria con effetti ex nunc dell'operato di colui che abbia agito (o resistito) in giudizio in nome di un soggetto di cui non aveva la rappresentanza, ha concluso che il difetto di legittimazione processuale del genitore che agisca in giudizio in rappresentanza del figlio, non più soggetto a potestà per essere divenuto maggiorenne, può essere sanato in qualunque stato e grado del giudizio, con efficacia retroattiva e con riferimento a tutti gli atti processuali già compiuti, per effetto della costituzione in giudizio da quest'ultimo operata manifestando, in modo non equivoco, la propria volontà di sanatoria (ma riferendosi al conseguimento della maggiore età avvenuto subito dopo la notificazione della citazione di primo grado). Tuttavia, Cass. I, n. 6083/1979, con riferimento all'impugnazione esperita da un rappresentante sfornito di poteri, conteneva l'operatività sanante della ratifica ad opera del soggetto legittimato, condizionandone la retroattività al presupposto che essa intervenga prima della scadenza del termine di gravame (analogamente, Cass. II, n. 3442/1987). Esprimeva un principio più elastico Cass. II, n. 1133/1985, per la quale, qualora il minore sia stato presente nel processo per mezzo di una persona non abilitata a rappresentarlo, il difetto di legittimazione processuale rimane sanato con effetto retroattivo, rispetto alle nullità da esso dipendenti, mediante la costituzione nel giudizio d'appello del suo legale rappresentante, il quale manifesti con il suo comportamento la volontà di ratificare la condotta difensiva precedente a tale costituzione; successivamente Cass. II, n. 272/1998). Peraltro, la specificità del giudizio di legittimità (ovvero, l'esigenza del conferimento della procura speciale) ha indotto la giurisprudenza a negare comunque l'ammissibilità di una sanatoria e ratifica degli effetti del ricorso per cassazione posto in essere da soggetto privo, anche parzialmente, del potere di rappresentanza, imponendo l'art. 365 che i poteri rappresentativi sussistano al momento del conferimento della procura, e così precludendo, diversamente dalle fasi processuali di merito, una ratifica a mezzo di atto successivo (cfr. Cass. III, n. 8708/2009; Cass. II, n. 9464/2012). La Cass. S.U. n. 4248/2016 ha affermato, comunque, che il difetto di rappresentanza processuale è suscettibile di sanatoria, anche in grado di impugnazione, senza che operino le ordinarie preclusioni istruttorie ed è rilevabile d'ufficio pure in sede di legittimità, potendo la parte, in caso di contestazione esplicita, fornire la prova documentale della sussistenza della legittimazione processuale ai sensi dell'art. 372. Condizione, tuttavia, per la sanatoria ex art. 182 in sede di impugnazione, dando prova della sussistenza del potere rappresentativo o del rilascio dell'autorizzazione, e che il rilievo del vizio sia officioso e non provenga dalla controparte, giacché, in tal caso, l'onere di sanatoria sorge immediatamente, non essendovi necessità di assegnare un termine da parte del giudice, in quanto sul rilievo di parte l'avversario è chiamato prima ancora a contraddire (Cass. II, n. 12525/2018). BibliografiaLiebman, Manuale di diritto processuale civile. Principi, Milano, 2007, 147; Luiso-Sassani, La riforma del processo civile, Milano, 2006.
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