Codice di Procedura Civile art. 82 - Patrocinio 1 2 .

Mauro Di Marzio

Patrocinio  12.

[I]. Davanti al giudice di pace le parti possono stare in giudizio personalmente nelle cause il cui valore non eccede euro 1.100  3.

[II]. Negli altri casi, le parti non possono stare in giudizio se non col ministero o con l'assistenza di un difensore. Il giudice di pace tuttavia, in considerazione della natura ed entità della causa, con decreto emesso anche su istanza verbale della parte, può autorizzarla a stare in giudizio di persona 4.

[III]. Salvi i casi in cui la legge dispone altrimenti, davanti al tribunale e alla corte d'appello le parti debbono stare in giudizio col ministero di un procuratore legalmente esercente; e davanti alla corte di cassazione col ministero di un avvocato iscritto nell'apposito albo 5.

 

[1]  Articolo così sostituito dall'art. 20 l. 21 novembre 1991, n. 374. Il testo precedente recitava: «[I]. Davanti ai conciliatori le parti possono stare in giudizio senza ministero di difensore. [II]. Davanti ai pretori le parti non possono stare in giudizio se non col ministero o con l'assistenza di un difensore. Il pretore tuttavia, in considerazione della natura ed entità della causa, con decreto emesso anche su istanza verbale della parte può autorizzarla a stare in giudizio di persona. [III]. Salvi i casi in cui la legge dispone altrimenti, davanti ai tribunali e alle Corti d'appello le parti debbono stare in giudizio col ministero di un procuratore legalmente esercente; e davanti alla Corte di cassazione col ministero di un avvocato iscritto nell'apposito albo».

[2]  Vedi anche, in tema di patrocinio a spese dello Stato, artt. 80 e 81 d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.

[3]  L'art. 13 del d.l. 22 dicembre 2011, n. 212, conv., con modif., in l. 17 febbraio 2012, n. 10, ha sostituito con le parole «euro 1.100» le parole «516,46 euro». L'art. 13 del d.l. n. 212, cit., prima delle modifiche della legge di conversione, aveva fissato il valore in «euro mille».

[4]  V. l'art. 6 d.lg. 1° settembre 2011 n. 150, in materia di opposizione a ordinanza ingiunzione.

[5] Comma così modificato dall'art. 61 d.lg. 19 febbraio 1998, n. 51, con effetto, ai sensi dell'art. 247 comma 1 dello stesso decreto quale modificato dall'art. 1 l. 16 giugno 1998, n. 188, dal 2 giugno 1999.

Inquadramento

Il cuore della disposizione in commento sta nel suo comma 3, che disciplina lo ius postulandi, ossia il potere di compiere gli atti del processo, delimitando l'area di operatività dell'onere di patrocinio (Della Pietra, 644), lungi dal contraddire il principio costituzionale del diritto di azione (art. 24 Cost.), costituisce coerente esplicazione di esso, giacché il diritto di difesa «deve essere inteso come potestà effettiva dell'assistenza tecnica e professionale in qualsiasi processo, e il compito del difensore è di importanza essenziale nel dinamismo della funzione giurisdizionale» (Corte cost. n. 47/1971).

È l'autodifesa, al contrario, a porsi potenzialmente in contrasto con l'art. 24 Cost., anche quando la parte sia soltanto temporaneamente privata della difesa tecnica (Corte cost. n. 171/1996), per quanto la difesa personale è inadeguata ad affrontare le difficoltà tecniche che il processo pone. Argomenti in contrario non possono essere tratti neppure dall'art. 6, comma 3, lett. c), Cedu, il quale contempla il diritto di difendersi personalmente, giacché tale norma non riconosce alcun diritto ad esercitare attività difensiva personale laddove è riconosciuto il diritto alla difesa tecnica (Cass. n. 22186/2009).

La ratio dell'onere di patrocinio è generalmente individuata nell'elevato tasso di tecnicismo del processo (Mandrioli, in Comm. Allorio, 1973, 929). Altri sostengono che l'onere di patrocinio si giustificherebbe con lo scopo di stemperare la naturale animosità delle parti in lite (Mazzarella, 3).

 Al di fuori dei casi in cui è consentita la difesa personale, le parti non possono stare in giudizio se non col ministero o con l’assistenza di un difensore: dunque anche l’istanza di correzione di errore materiale proposta dalla parte personalmente è inammissibile per violazione dell'art. 82, comma 2, c.p.c. (Cass. n. 8620/2024). 

Contratto di patrocinio e procura

Nello stabilire che le parti devono stare in giudizio col ministero di un procuratore legalmente esercente, l'art. 82 presuppone l'instaurazione di un negozio, rilevante per il diritto, tra la parte ed il proprio difensore, ma nulla dice riguardo ad esso, che è generalmente qualificato come contratto di patrocinio. L'art. 83 prevede poi che il difensore debba essere munito di procura. Contratto di patrocinio e procura si pongono su piani separati.

L'uno, il contratto di patrocinio, è contratto bilaterale di prestazione d'opera professionale in forza del quale il difensore viene incaricato, secondo lo schema negoziale del mandato, di svolgere la sua opera professionale in favore della parte ed assume così l'incarico di rappresentarla e difenderla in giudizio (Cass. n. 10454/2002; da ult. Cass. n. 6905/2019; Cass. n. 8863/2021) .

Tale contratto è disciplinato per un verso dalle norme sul contratto d'opera professionale (artt. 2229 ss. c.c.) e dalla normativa in tema di professione forense, e, per altro verso, dalle regole dettate per il mandato, nei limiti della compatibilità. È contratto a forma libera (ma non per la pubblica amministrazione: Cass. n. 8500/2004; Cass. n. 13963/2006): secondo Cass. n. 11668/2024 il requisito della forma scritta ad substantiam sarebbe soddisfatto con il rilascio al difensore della procura ai sensi dell'art. 83 c.p.c., atteso che l'esercizio della rappresentanza giudiziale tramite la redazione e la sottoscrizione dell'atto difensivo perfeziona, mediante l'incontro di volontà fra le parti, l'accordo contrattuale in forma scritta, rendendo così possibile l'identificazione del contenuto negoziale e lo svolgimento dei controlli da parte dell'Autorità tutoria) che può essere stipulato anche da un terzo diverso dalla parte rappresentata in giudizio. In quest'ultimo caso cliente del professionista è colui che ha stipulato il contratto di patrocinio e non il rappresentato, il quale abbia conferito la procura, con l'ulteriore conseguenza che il pagamento del compenso al professionista grava sul primo e non sul secondo (Cass. n. 6631/1988; Cass. n. 2880/1967, nonché Cass. S.U. , n. 405/2000; Cass. n. 5336/1996).

Perciò, nel caso in cui sia stato conferito un incarico ad un avvocato da parte di un altro avvocato ed in favore di un terzo, ai fini dell'individuazione del soggetto obbligato a corrispondere il compenso al difensore per l'opera professionale richiesta, si deve presumere, in presenza di una procura congiunta, la coincidenza del contratto di patrocinio con la procura alle liti, salvo che venga provato, anche in via indiziaria, il distinto rapporto interno ed extraprocessuale di mandato esistente tra i due professionisti e che la procura rilasciata dal terzo in favore di entrambi era solo lo strumento tecnico necessario all'espletamento della rappresentanza giudiziaria, indipendentemente dal ruolo di dominus svolto dall'uno rispetto all'altro nell'esecuzione concreta del mandato (Cass. n. 7037/2020).

L'altra, la procura alle liti, costituisce un negozio unilaterale con il quale il difensore viene investito del potere di rappresentare la parte in giudizio, ossia dello ius postulandi. Talora la procura alle liti è definita come «negozio esclusivamente processuale, formale e autonomo, e non estrinsecazione di un mandato extraprocessuale» (Cass. n. 6113/1979). È stato invece ripetuto che «la procura è atto geneticamente sostanziale con rilevanza processuale» (Cass. n. 11326/2004; Cass. n. 21924/2006; Cass. n. 1419/2011). Ma, al di là delle differenze terminologiche, ciò che le pronunce tendono a mettere in evidenza è l'autonomia della procura, collocata sul piano del conferimento dei poteri processuali, e dunque dell'attribuzione dello ius postulandi, rispetto al contratto di patrocinio, i cui effetti sono circoscritti all'ambito sostanziale. Essa, dunque, presuppone un rapporto di mandato tra il cliente ed il professionista, entro cui si inalvea il contratto di patrocinio, il cui contenuto è determinato dalla natura del rapporto controverso e dal risultato perseguito dal mandante nell'intentare la lite o nel resistere ad essa, ma non si confonde con la procura (Cass. n. 2910/1997; Cass. n. 6264/2003).

In breve si può dire che «v'è tra patrocinio e procura (processuale) relazione omologa a quella che in diritto privato intercorre fra mandato e procura (sostanziale)» (Della Pietra, 57).

Le ricadute applicative sono di rilievo: la distinzione tra contratto di patrocinio e procura alle liti, infatti, fa sì che l'invalidità del primo non si riverberi sulla seconda e, dunque, non privi il difensore dello ius postulandi (Cass. n. 8388/1997).

La figura del difensore, i cui poteri promanano dall'uno e dall'altro negozio, come si diceva, viene per lo più inquadrata nell'alveo del contratto di mandato (Calamandrei, 258; Liebman, 89; Andrioli, 1959, 349). Tuttavia il mandante, nel contesto della disciplina codicistica dettata dagli artt. 1703 ss. c.c., affida al mandatario, l'incarico di «compiere uno o più atti giuridici» individuati secondo la sua libera volontà. Viceversa, la previsione dell'art. 83, unitamente al successivo art. 84, fa sì che colui il quale, stipulato il contratto di patrocinio, conferisce all'avvocato la procura alle liti, non abbia che una modestissima libertà di stabilire quali atti giuridici l'avvocato debba compiere, dal momento che la gamma dei suoi poteri è predeterminata per legge.

Nondimeno, la S.C. non dubita « che il mandato o procura alle liti, che investe della rappresentanza in giudizio il difensore, ha, come suo presupposto, un rapporto interno relativo al conferimento dell'incarico, il quale è disciplinato dalle norme di diritto sostanziale circa il mandato» (Cass. n. 5617/1996).

L’esercizio della professione di avvocato

L'accesso all'esercizio della professione di avvocato è tuttora disciplinata dal r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, recante norme sull'Ordinamento della professione di avvocato, nonché dal regolamento di attuazione r.d. 22 gennaio 1934, n. 37. Peraltro la disciplina dell'ordinamento della professione forense è stata riformata dalla l. 31 dicembre 2012, n. 247. Requisiti principali per l'accesso e per l'esercizio della professione forense sono i seguenti: -) abilitazione a seguito di un esame preceduto da una pratica obbligatoria; -) iscrizione obbligatoria nell'albo, quale condizione per l'esercizio della professione; -) incompatibilità con l'esercizio di altre professioni, mestieri, impieghi retribuiti, rapporti di dipendenza e simili; -) soggezione ad un sistema disciplinare interno; -) remunerazione sulla base di appositi parametri (v. le tabelle dei nuovi parametri forensi, aggiornate sulla base del d.m. 8 marzo 2018, n. 37).

Per l'iscrizione nell'albo ordinario degli avvocati è necessario di regola superare l'esame di abilitazione all'esercizio della professione (artt. 17, comma 1, n. 6, e 20 r.d.l. n. 1578/1933, come modificati dall'art. 1 d. lgs. lgt. 7 settembre 1944, n. 215). Si tratta di esame e non di concorso, giacché non esiste — com'era invece previsto all'origine nella legge professionale forense — un numero precostituito di avvocati per ciascun albo. L'accesso all'esame di avvocato – che, una volta superato, permette l'iscrizione all'albo e quindi l'esercizio della professione – è consentito solo dopo il compimento di un periodo di pratica la cui durata, in precedenza annuale, è stata portata a due anni dall'art. 2 l. 24 luglio 1985, n. 406 (v. anche d.m. 17 marzo 2016, n. 70). Tale previsione è compatibile con l'ordinamento comunitario, il quale non preclude agli stati membri di disciplinare l'accesso alla professione (Cass. S.U., n. 21945/2004).

L'iscrizione all'albo, come si è appena detto, è condizione per l'esercizio della professione di avvocato. Secondo l'art. 1 r.d.l. n. 1578/1933, infatti, «nessuno può assumere il titolo, né esercitare le funzioni di avvocato se non è iscritto nell'albo professionale» tenuto presso ciascun Consiglio dell'ordine.  Secondo l'art. 12, comma 2, r.d.l. n. 1578/1933, poi, gli avvocati «non possono esercitare la professione se prima non hanno giurato» in una pubblica udienza del tribunale. Il Consiglio nazionale forense ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della norma che impone il giuramento (CNF n. 99/2010). L'iscrizione all'albo ha natura costitutiva (Cass. n. 20436/2009, secondo cui è affetto da nullità assoluta ed insanabile, rilevabile anche d'ufficio in qualsiasi stato e grado del processo, l'atto introduttivo del giudizio di impugnazione sottoscritto da un praticante, non ancora iscritto nell'albo professionale degli avvocati)

Vi sono due albi: quello ordinario al quale si iscrivono gli avvocati che abbiano conseguito l'abilitazione all'esercizio della professione (art. 16 r.d.l. n. 1578/1933); quello speciale al quale si iscrivono gli avvocati ammessi al patrocinio innanzi alla Corte di cassazione e alle altre giurisdizioni superiori (art. 33 r.d.l. n. 1578/1933). Vi è inoltre un elenco speciale riservato agli avvocati degli uffici legali istituiti sotto qualsiasi denominazione e in qualsiasi modo presso gli enti di cui al comma 2 dell'art. 3 r.d.l. n. 1578/1933 (avvocati dello Stato, Province, Comuni ed altre amministrazioni o istituzioni pubbliche). Ciascun avvocato iscritto nell'albo di un determinato Consiglio dell'ordine può cancellarsi ed iscriversi ad altro albo di altro Consiglio dell'ordine. Non devono però sussistere cause ostative alla cancellazione previste dall'art. 37 r.d.l. n. 1578/1933.

L'art. 6, comma 1, d.lgs. 2 febbraio 2001, n. 96 prevede l'iscrizione in una sezione speciale dell'albo dei cittadini degli stati membri dell'Unione europea in possesso di uno dei titoli di cui all'art. 2 d.lgs. 2 febbraio 2001, n. 96, che intendano esercitare permanentemente in Italia la professione di avvocato (avvocato stabilito). Con l'iscrizione, l'avvocato stabilito può, inizialmente, avvalersi del titolo professionale di provenienza (es. abogado spagnolo), e deve agire in giudizio «di intesa con un professionista abilitato ad esercitare la professione con il titolo di avvocato» (art. 8). Può invece di esercitare senza ulteriore ausilio l'attività stragiudiziale. Dopo aver esercitato in Italia per almeno tre anni può ottenere l'iscrizione nell'albo degli avvocati (avvocato integrato). È inoltre possibile che l'avvocato cittadino di uno Stato membro dell'Unione europea ottenga preventivamente il riconoscimento del proprio titolo in Italia.

A tutela della sua autonomia e indipendenza, la professione di avvocato si pone in rapporto di incompatibilità con l'esercizio di altri mestieri od attività (art. 3 r.d.l. n. 1578/1933). Possono individuarsi tre gruppi di incompatibilità: a) quella concernente l'esercizio del commercio; b) quella concernente gli stabili impieghi retribuiti, anche se alle dipendenze dello Stato o altri enti pubblici; c) quella, eterogenea, concernente l'esercizio di specifiche attività: notaio, ministro di qualunque culto, giornalista professionista, direttore di banca, mediatore, agente di cambio, sensale, ricevitore del lotto, appaltatore di un pubblico servizio o di una pubblica fornitura, esattore di pubblici tributi.

In tali situazioni la stessa iscrizione all'albo è esclusa: non è cioè consentita un'iscrizione ai soli fini del conseguimento del titolo di avvocato, disgiunta dall'abilitazione all'esercizio professionale (Cass. S.U., n. 2336/1988). Con riguardo alle attività commerciali, l'incompatibilità ricorre non soltanto nel caso dell'esercizio in forma diretta di una qualsiasi impresa commerciale (Cass. n. 5010/1994), ma anche quando essa è riferibile sia pur indirettamente al professionista, come nel caso dell'assunzione della carica di amministratore delegato di una società commerciale (Cass. S.U., n. 37/2007), quantunque a capitale interamente pubblico (Cass. S.U., n. 1143/1977), ovvero inattiva (Cass. S.U., n. 4773/2011). Le medesime regole devono ritenersi applicabili in caso di assunzione della carica di amministratore unico nonché di presidente del consiglio di amministrazione di una società di capitali, sempre che ciò importi l'esercizio di poteri gestori. Eguali conclusioni trovano applicazione nel caso dell'assunzione della qualità di socio accomandatario di società in accomandita (Cass. S.U., n. 10162/2003). Anche il rapporto che lega un'azienda sanitaria al suo direttore genera incompatibilità poiché l'art. 3 citato è volto a garantire l'autonomo ed indipendente svolgimento del mandato professionale, sicché non rileva la natura subordinata od autonoma del rapporto, bensì la sua relativa stabilità e la sua remunerazione in misura predeterminata in ragione della continuità del rapporto professionale (Cass. S.U., n. 14810/2009). E poi incompatibile con l'esercizio della professione di avvocato ogni attività lavorativa comportante un vincolo di subordinazione (Cass. S.U., n. 11151/1997)

La disciplina dell'incompatibilità è sottoposta ad alcune deroghe, le quali riguardano da un lato i professori e gli assistenti delle Università e degli altri istituti superiori ed i professori degli istituti secondari della Repubblica, dall'altro gli avvocati iscritti nell'elenco speciale di cui si è in precedenza fatto cenno. Per quanto riguarda le attività di insegnamento, la giurisprudenza del Consiglio nazionale forense era orientata in senso restrittivo, dal momento che le deroghe alla previsione di incompatibilità hanno natura eccezionale e costituiscono un numerus clausus (CNF n. 157/2009). In senso diverso, le Sezioni Unite hanno escluso l'incompatibilità nel caso dell'esercizio dell'attività di insegnamento nelle scuole elementari. Difatti, la norma dell'art. 3, comma 4, lett. a) r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578 - in base alla quale la previsione generale dell'incompatibilità tra lo svolgimento della professione di avvocato e la sussistenza di un impiego pubblico non si applica ai professori universitari e ai docenti delle scuole secondarie - va letta nel senso che, sussistendone i requisiti, l'incompatibilità è esclusa anche per i docenti della scuola elementare; costoro, infatti, godono della medesima libertà di insegnamento stabilita per gli altri docenti e devono essere in possesso della laurea, sicché la loro esclusione dall'eccezione prevista dalla legge si risolverebbe in una discriminazione in contrasto col principio costituzionale di uguaglianza (Cass. S.U.,  n. 22623/2010).

Avvocato e procuratore. Ministero e assistenza

Con l'espressione « ministero di un procuratore legalmente esercente » l'art. 82 si riferisce oggi essenzialmente all'avvocato (non più, come subito si vedrà, alla soppressa figura del procuratore legale) dotato dell'abilitazione all'esercizio della professione ed attualmente iscritto all'apposito albo, in conformità all'ordinamento della professione come disciplinato anzitutto dal r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, convertito con modificazioni in l. 27 gennaio 1934, n. 36. La qualità di « procuratore legalmente esercente », in caso di contestazione, deve essere oggetto di prova dalla parte interessata, nei cui confronti la contestazione è diretta (Cass. n. 4357/1985).

L'art. 5 della legge professionale forense, appena citata, stabiliva che i procuratori legali potessero esercitare la professione davanti a tutti gli uffici giudiziari del distretto in cui era compreso l'ordine circondariale presso il quale erano iscritti nonché davanti al tribunale amministrativo regionale competente nel distretto medesimo. Tale disposizione, unitamente all'art. 87, ove è stabilito che la parte può farsi «assistere» da uno o più avvocati, fondava la distinzione tra le funzioni di rappresentanza, propria del procuratore, e quelle di assistenza, spettanti all'avvocato: funzioni normalmente riunite nella medesima persona del difensore o dei difensori, ma nondimeno concettualmente distinte, giacché dirette le une ad assicurare la rappresentanza della parte in giudizio, le altre a garantirne la difesa tecnica e professionale.

Come è stato detto: «Il ministero del procuratore consisteva nel potere di compiere e ricevere nell'interesse della parte tutti gli atti del processo ai sensi dell'art. 84; l'assistenza dell'avvocato consisteva, invece, nel mero svolgimento degli argomenti difensivi a favore della parte nel tentativo di determinare il convincimento del giudice. In dottrina si era soliti dire che mentre l'attività del procuratore riguardava la forma degli atti, quella dell'avvocato concerneva il loro contenuto » (Punzi, La difesa nel processo civile e l'assetto dell'avvocatura in Italia, in Riv. dir. proc., 2006, 814).

L'abolizione della distinzione professionale tra gli avvocati e i procuratori legali (ad opera della l. 24 febbraio 1997, n. 27, recante «Soppressione dell'albo dei procuratori legali e norme in materia di esercizio della professione forense»), non ha determinato il superamento della tradizionale bipartizione tra le funzioni di procuratore e di avvocato — normativamente individuate nel codice di rito con le rispettive locuzioni di « ministero di difensore » e di « assistenza di difensore » — con la conseguente necessità della procura, ex art. 83, comma 1, per il conferimento del ministero di difensore (Cass. n. 13729/2000), procura invece non necessaria per il conferimento dell'incarico di assistenza. La procura, infatti, « conferisce al difensore i poteri di rappresentanza processuale espressamente evocati nell'art. 84, c.p.c. mentre non occorre per l'espletamento di quello di assistenza, che gli "avvocati" (in senso letterale) svolgono in nome proprio ed a favore della parte, al pari dei consulenti tecnici designati dalle parti, come testualmente si evince dalla ben diversa impostazione (rispetto al comma  1 cit. art. 83) dell'art. 87 c.p.c. » (così Cass. n. 4718/1999, che ha cassato la sentenza con cui una corte d'appello aveva dichiarato la nullità di un atto di impugnazione per mancanza di procura poiché essa conteneva l'espressione « nomino difensori », indicativa secondo quel giudice esclusivamente all'incarico della difesa). Ulteriore rilevante applicazione della distinzione è quella secondo cui nei giudizi davanti alla Corte di cassazione l'attività dei difensori consiste nella sola « assistenza » di avvocato, non estendendosi alla rappresentanza processuale della parte (Cass. n. 1141/2000), onde non spettano al difensore le competenze procuratorie (Cass. n. 19295/2006). Dalla distinzione tra le attività di procuratore e di avvocato discendeva una limitazione territoriale, giudicata costituzionalmente compatibile (Corte cost. n. 54/1977), delle funzioni procuratorie, ove pure cumulate nella stessa persona dell'avvocato (Cass. n. 8691/1992; Cass. n. 3027/1989), le quali potevano essere svolte esclusivamente intra districtum, ossia nell'ambito territoriale della corte d'appello entro cui il legale era iscritto. Ed in proposito si era formato un indirizzo giurisprudenziale assai rigoroso il quale, in caso di violazione della limitazione territoriale, riteneva che il procuratore esercente extra districtum fosse radicalmente privo di ius postulandi, con conseguente inesistenza giuridica (e quindi non sanabilità) degli atti da lui compiuti (Cass. n. 2691/1994; Cass. n. 11657/1993).

La figura del procuratore legale, con la collegata limitazione territoriale delle funzioni procuratorie, è però venuta meno, come si diceva, in armonia con l'esigenza di conformare l'ordinamento interno al principio di libera circolazione dei professionisti riconosciuto dall'Unione Europea, per effetto dell'abrogazione del citato art. 5, unitamente al successivo art. 6, ad opera dell'art. 6 l. 24 febbraio 1997, n. 27. Perciò, attualmente, pur rimanendo in essere la distinzione concettuale tra attività procuratoria e attività defensionale, l'avvocato può esercitare il patrocinio sotto entrambi gli aspetti indifferentemente su tutto il territorio nazionale, e con efficacia retroattiva.

In tal senso la S.C. ripete che, avendo l'art. 6 l. 24 febbraio 1997, n. 27 abrogato l'art. 5 poc'anzi menzionato, che ammetteva il procuratore legale ad esercitare la professione solo entro il distretto, ed avendo l'art. 8 l. 16 dicembre 1999, n. 479 attribuito efficacia retroattiva a tale abrogazione, estendendone gli effetti a tutti i processi in corso alla data di entrata in vigore della disposizione abrogativa, il difensore munito di procura può svolgere in ogni caso il suo patrocinio senza limitazioni territoriali (Cass. n. 12133/2001; Cass. n. 9977/2002; Cass. n. 4213/2002; Cass. n. 11038/2002; Cass. n. 12675/2003).

Rimane ferma, nonostante la soppressione della figura del procuratore legale (Cass. n. 2626/2004; Cass. n. 6959/2001), la disposizione che impone agli avvocati i quali esercitano il proprio ufficio in un giudizio che si svolge fuori della circoscrizione del tribunale al quale sono assegnati, di eleggere domicilio, all'atto della costituzione nel giudizio, nel luogo dove ha sede l'autorità giudiziaria presso la quale il giudizio è in corso, con la conseguenza che, in mancanza della elezione di domicilio, questo si intende eletto presso la cancelleria della stessa autorità giudiziaria (art. 82 r.d. n. 37/1934).

Com'è noto, le ricadute di tale disposizione si ravvisavano essenzialmente con riguardo all'individuazione del luogo di effettuazione di notificazioni e comunicazioni. Oggi, tuttavia, l'art. 16-sexies (rubricato  «Domicilio digitale») del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179 , convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221 , come introdotto dall'art. 52 d.l. 25 giugno 2014, n. 90 , convertito, con  modificazioni, dalla l. 11 agosto 2014, n. 114 , prevede  testualmente: «Salvo quanto previsto dall'articolo 366 del codice di procedura civile , quando la legge prevede che le notificazioni degli atti in materia civile al difensore siano eseguite, ad istanza di parte, presso la cancelleria dell'ufficio giudiziario, alla notificazione con le predette modalità può procedersi esclusivamente quando non sia possibile, per causa imputabile al destinatario, la notificazione presso l'indirizzo di  posta elettronica certificata, risultante dagli elenchi di cui all'art. 6-bis d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82 , nonché dal registro  generale degli indirizzi elettronici, gestito dal ministero della giustizia»; tale norma, dunque, nell'ambito della giurisdizione civile (e fatto salvo quanto disposto dall'art. 366, per il giudizio  di cassazione), impone alle parti la notificazione dei propri atti presso  l'indirizzo PEC risultante dagli elenchi INI PEC di cui all' art. 6-bis d.lgs. n. 82/2005 ( Codice dell'amministrazione digitale ) ovvero presso il ReGIndE, di cui al d.m. n. 44/2011 , gestito dal Ministero  della giustizia, escludendo che tale notificazione possa avvenire presso  la cancelleria dell'ufficio giudiziario, salvo nei casi di impossibilità a procedersi a mezzo PEC, per causa da addebitarsi al destinatario della  notificazione; in tal senso, la prescrizione dell' art. 16-sexies d.l. 18 ottobre 2012, n. 179,  prescinde dalla stessa indicazione dell'indirizzo di posta elettronica ad opera del difensore, trovando applicazione direttamente in forza dell'indicazione  normativa degli elenchi/registri da cui è dato attingere l'indirizzo PEC  del difensore, stante l'obbligo in capo ad esso di comunicarlo al  proprio ordine e dell'ordine di inserirlo sia nel registro INI PEC, che  nel ReGIndE; pertanto, la norma in esame non solo depotenzia la portata  dell'elezione di domicilio fisico, la cui eventuale inefficacia (ad es., per  mutamento di indirizzo non comunicato) non consentirà, pertanto, la  notificazione dell'atto in cancelleria, ma pur sempre e necessariamente  alla PEC del difensore domiciliatario (salvo l'impossibilità per causa al  medesimo imputabile), ma, al contempo, svuota di efficacia prescrittiva  anche l' art. 82 del r.d. n. 37/1934 , posto che, stante l'obbligo di  notificazione tramite PEC presso gli elenchi/registri normativamente  indicati, potrà avere un rilievo unicamente in caso, per l'appunto, di  mancata notificazione via PEC per causa imputabile al destinatario  della stessa, quale localizzazione dell'ufficio giudiziario presso il quale  operare la notificazione in cancelleria (Cass. n. 30139/2017 )

 

Avvocato cancellato e sospeso

Non può essere considerato «procuratore legalmente esercente» l'avvocato cancellato dall'albo. Difatti la cancellazione dall'albo professionale disposta dal consiglio dell'ordine anteriormente al compimento dell'atto, privando l'avvocato dello ius postulandi, determina la mancanza di legittimazione del difensore al compimento del medesimo (Cass. S.U., n. 10284/1996): e, poiché le norme che disciplinano l'esercizio della professione forense sono di ordine pubblico, tale mancanza dà luogo ad inesistenza dell'atto, rilevabile anche d'ufficio in ogni stato e grado del processo e non sanabile per effetto della costituzione ed acquiescenza del convenuto (Cass. n. 10049/2005).

Perciò, la cancellazione dall'albo professionale, ancorché disposta a domanda dell'interessato, comportando la decadenza dall'ufficio di avvocato e la cessazione dello stesso ius postulandi, rende giuridicamente inesistente la notificazione tanto della sentenza, ai sensi dell'art. 285 (Cass. n. 5676/1986). D'altro canto, legittimamente il procuratore cancellato dall'albo rifiuta la notifica dell'atto di impugnazione e il suo rifiuto non può dare luogo alla cosiddetta notificazione virtuale prevista dall'art. 139 (Cass. n. 4944/1997). Nondimeno, la notificazione al procuratore che, benché cancellato dall'albo, adempia al dovere di darne comunicazione alla parte non è inesistente, ma soltanto nulla, e, pertanto, suscettibile di sanatoria nel caso in cui l'atto abbia comunque raggiunto il suo effetto (Cass. n. 1548/2003).

Naturalmente la cancellazione dall'albo, come pure la radiazione e la sospensione, determinano l'interruzione del processo, ai sensi dell'art. 301 (Cass. n. 7373/1986).

Diversi i termini della questione in caso della sanzione della (temporanea) sospensione dall'esercizio della professione. In tale ipotesi la prosecuzione del processo, una volta terminato il periodo di sospensione, non richiede necessaria una nuova procura alla lite, né una nuova costituzione in giudizio, essendo sufficiente, invece, che il procuratore, già regolarmente costituito, riprenda a svolgere le proprie funzioni in base alla precedente procura ed alla già esperita costituzione, entrambe divenute nuovamente valide ed efficaci in seguito alla cessazione della sospensione (Cass. n. 24997/2010).

Il praticante avvocato

Accanto all'avvocato è, o meglio — com'è ormai da ritenersi — era, « procuratore legalmente esercente », ai sensi dell'art. 82 c.p.c., anche il praticante avvocato, nei limiti in cui gli era consentito di esercitare direttamente, in prima persona, il patrocinio. La figura era contemplata dall'art. 8 r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, convertito con modificazioni in l. 22 gennaio 1934, n. 36, norma non espressamente abrogata, ma sulla quale ha come vedremo prodotto un effetto parzialmente abrogativo la riforma dell'ordinamento forense del 2012.

Secondo il citato art. 8:

 a) i laureati in giurisprudenza in possesso degli ulteriori requisiti previsti dall'art. 17 dello stesso r.d.l. (cittadinanza italiana ovvero di uno Stato membro dell'Unione Europea; godimento dell'esercizio dei diritti civili; condotta specchiatissima ed illibata), sono iscritti, a domanda e previa certificazione dell'avvocato di cui frequentano lo studio, nel registro speciale tenuto dal consiglio dell'ordine degli avvocati presso il tribunale nel cui circondario hanno la residenza, e sono sottoposti al potere disciplinare del consiglio stesso;

 b) i praticanti avvocati, dopo un anno dalla iscrizione, sono ammessi per un periodo non superiore a sei anni ad esercitare il patrocinio, entro il distretto nel quale è compreso l'ordine circondariale che ha la tenuta del registro, nelle cause di competenza del giudice di pace ed in quelle di competenza del tribunale in composizione monocratica, limitatamente, quanto agli affari civili, alle cause "olim" devolute alla cognizione pretorile.

Formalmente vigente è anche l'art. 7 l. 16 dicembre 1999, n. 479, secondo cui i praticanti avvocati, dopo il conseguimento dell'abilitazione al patrocinio, possono esercitare l'attività professionale ai sensi dell'art. 8 appena menzionato, nelle cause di competenza del giudice di pace e dinanzi al tribunale in composizione monocratica, limitatamente, negli affari civili: i) alle cause, anche se relative a beni immobili, di valore non superiore a € 25.822,84; ii) alle cause per le azioni possessorie, salvo il disposto dell'art. 704, e per le denunce di nuova opera e di danno temuto, salvo il disposto dell'art. 688, comma 2, c.p.c.; iii) alle cause relative a rapporti di locazione e di comodato di immobili urbani e a quelle di affitto di azienda, in quanto non siano di competenza delle sezioni specializzate agrarie. In passato è stato costantemente escluso che il praticante avvocato potesse patrocinare al di fuori degli stretti limiti normativamente fissati. Così, ad esempio, il praticante avvocato non era legittimato ad esercitare il patrocinio nel giudizio di appello che si svolgesse dinanzi al tribunale in composizione monocratica nelle cause civili di competenza del giudice di pace, poiché tali cause non erano ricomprese nell'elenco di cui all'art. 7 l. n. 479/1999, norma che derogava alla regola generale secondo la quale il patrocinio legale è subordinato al superamento dell'esame di Stato e all'iscrizione all'albo degli avvocati e, quindi, di stretta interpretazione (Cass. n. 3917/2016).

La disciplina è stata nel suo complesso giudicata costituzionalmente compatibile nella parte in cui consente di ammettere i laureati in giurisprudenza che svolgono la pratica professionale ed hanno frequentato per un anno lo studio di un avvocato, ad esercitare per non più di sei anni davanti agli uffici giudiziari indicati (Corte cost. n. 5/1999). Tuttavia, il Giudice delle leggi ha in seguito dichiarato l'incostituzionalità della disposizione, ivi prevista, nella parte in cui stabiliva che i praticanti avvocati potessero essere nominati difensori d'ufficio (Corte cost. n. 106/2010). La decisione più antica non si pone in contrasto con quella più recente, la quale non esclude che i praticanti avvocati abilitati possano patrocinare cause di propri clienti, in materia sia civile sia penale, ma soltanto sulla base di incarichi fiduciari conferiti direttamente dall'assistito. Gli atti posti in essere in violazione dei limiti menzionati dal praticante avvocato, tenuto ad operare sotto il controllo di un avvocato (v. Cass. S.U., n. 1727/2005), si dicevano affetti da nullità assoluta ed insanabile, rilevabile anche d'ufficio in qualsiasi stato e grado del processo, data la stretta attinenza alla costituzione del rapporto processuale (Cass. n. 2043/2009). E, se il praticante avvocato avesse svolto attività non di spettanza sua, bensì propria dell'avvocato, nessun compenso gli spettava. Difatti, per il disposto dell'art. 2231 c.c., l'esecuzione di una prestazione d'opera professionale di natura intellettuale effettuata da chi non sia iscritto nell'apposito albo previsto dalla legge, dando luogo a nullità assoluta del rapporto tra professionista e cliente (art. 1418, comma 1, c.c.), priva il contratto di qualsiasi effetto: di guisa che, nel caso di esercizio della professione forense in difetto dell'iscrizione all'albo professionale al momento in cui il contratto di patrocinio è stato stipulato e sono state poste in essere le relative attività, il professionista non ha diritto al compenso (Cass. n. 3740/2007).

La S.C. ha talora affermato (Cass. S.U., n. 17761/2008) che si potrebbe rimanere praticanti avvocati a vita. Si è stabilito, cioè, che l'art. 8 r.d.l. n. 1578/1933, una volta decorso il sessennio di cui si è detto, l'iscritto non può più esercitare il patrocinio, ma non per questo deve subire la cancellazione dal registro, in assenza di specifica previsione normativa che la contempli, potendo, quindi, mantenere l'iscrizione per coltivare l'interesse a proseguire la pratica forense in un rapporto di giuridica dipendenza con un professionista già abilitato: insomma — come già in precedenza era stato affermato — il venir meno del riconosciuto ius postulandi non comporterebbe anche il venir meno dello status stesso di praticante e dell'interesse del soggetto a continuare ad essere iscritto nel registro speciale ai fini dello svolgimento della pratica con esclusione del patrocinio stesso (Cass. S.U., n. 12543/2006).

All'iscrizione nel registro dei praticanti la giurisprudenza ha più volte riconosciuto carattere costitutivo, con l'ulteriore conseguenza che il decorso del termine previsto, ossia del menzionato sessennio, non avrebbe fatto cessare automaticamente l'abilitazione dell'iscritto al patrocinio, occorrendo, invece, a tal fine, un provvedimento formale del consiglio dell'ordine degli avvocati che, accertata la scadenza del periodo, disponesse la cancellazione dell'iscrizione (Cass. S.U., n. 845/1998). In applicazione di tale principio si è in passato ritenuto che non potesse essere dichiarata la nullità della citazione introduttiva sottoscritta da un praticante procuratore rimasto iscritto nel registro speciale nonostante il decorso del tempo previsto. La soluzione non era persuasiva, né si armonizzava con il già citato indirizzo giurisprudenziale secondo cui l'attività del praticante avvocato svolta al di fuori dei limiti consentiti dall'ordinamento era colpita da nullità assoluta. Più di recente, difatti, è stato affermato che la perdita della qualifica di praticante avvocato comporta automaticamente il venir meno del patrocinio: la cancellazione dall'albo dei praticanti abilitati non è regolata dall'art. 37 r.d.l. n. 1578/1933, pertanto una volta decorso il sessennio l'iscritto non può più esercitare il patrocinio, senza dover necessariamente subire la cancellazione del registro, in assenza di specifica previsione normativa che la contempli (Cass. n. 26704/2018).

I termini della disciplina si sono modificati, come si premetteva, con la riforma dell'ordinamento forense di cui alla l. 31 dicembre 2012, n. 247, la quale, al comma 12 dell'art. 41, stabilisce che: « Nel periodo di svolgimento del tirocinio il praticante avvocato, decorsi sei mesi dall'iscrizione nel registro dei praticanti, purché in possesso del diploma di laurea in giurisprudenza, può esercitare attività professionale in sostituzione dell'avvocato presso il quale svolge la pratica e comunque sotto il controllo e la responsabilità dello stesso anche se si tratta di affari non trattati direttamente dal medesimo, in ambito civile di fronte al tribunale e al giudice di pace, e in ambito penale nei procedimenti di competenza del giudice di pace, in quelli per reati contravvenzionali e in quelli che, in base alle norme vigenti anteriormente alla data di entrata in vigore del d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51, rientravano nella competenza del pretore. L'abilitazione decorre dalla delibera di iscrizione nell'apposito registro. Essa può durare al massimo cinque anni, salvo il caso di sospensione dall'esercizio professionale non determinata da giudizio disciplinare, alla condizione che permangano tutti i requisiti per l'iscrizione nel registro ». La norma ha dunque introdotto la figura del c.d. « patrocinio sostitutivo », sicché il praticante abilitato non può più avere cause proprie, ma può patrocinare esclusivamente in sostituzione del dominus. Ciò trova conferma nell'art. 15 della stessa legge, che istituisce « il registro dei praticanti » e « l'elenco dei praticanti abilitati al patrocinio sostitutivo, allegato al registro di cui alla lettera g) ».

La disposizione, d'altro canto, non contiene più il riferimento alla composizione del tribunale, al valore della causa ed al limite territoriale. Sembra quindi che il praticante possa esercitare in qualsiasi causa civile dinanzi al giudice di pace o al tribunale, anche in composizione collegiale e senza limiti di valore e territorio, ma sempre e soltanto in sostituzione del dominus, e cioè senza poter essere destinatario della procura alle liti, rilasciata invece all'avvocato presso cui la pratica è svolta.

Sulla materia è poi intervenuto il d.m. 17 marzo 2016, n. 70, del Ministro della giustizia, « Regolamento recante la disciplina per lo svolgimento del tirocinio per l'accesso alla professione forense ai sensi dell'art. 41, comma 13, l. 31 dicembre 2012, n. 247 ». L'art. 1, comma 2, stabilisce che: « Il presente regolamento si applica ai tirocini iniziati a partire dalla sua entrata in vigore. Ai tirocini in corso a tale data continua ad applicarsi la normativa previgente, ferma restando la riduzione della durata a diciotto mesi e la facoltà del praticante di avvalersi delle modalità alternative di svolgimento del tirocinio ».

Sotto la rubrica: « Abilitazione all'esercizio della professione in sostituzione dell'avvocato », l'art. 9, comma 1, dello stesso d.m. precisa ancora che: « Il praticante in possesso dei requisiti richiesti dalla l. 31 dicembre 2012, n. 247, può chiedere al consiglio dell'ordine l'autorizzazione a esercitare attività professionale in sostituzione dell'avvocato presso il quale svolge la pratica. Il consiglio dell'ordine deve pronunciarsi sulla domanda entro trenta giorni dalla presentazione della stessa ». Sicché appare confermato che il praticante avvocato non può più patrocinare per così dire in proprio, ma solo in sostituzione dell'avvocato presso cui svolge la pratica.

Certo, il praticante non può patrocinare in appello, sia pure dinanzi al tribunale. Il praticante avvocato non è legittimato ad esercitare il patrocinio davanti al tribunale in sede di appello neppure a seguito dell'entrata in vigore della l. n. 247/2012 che, all'art. 41, comma 12, ne ammette l'attività difensiva solo in sostituzione e sotto la responsabilità del dominus avvocato (Cass. n. 7754/2020).

Inoltre, è inammissibile il ricorso proposto personalmente dal praticante avvocato al Consiglio nazionale forense, col quale si censura il provvedimento emesso dal Consiglio dell'ordine territoriale, di cancellazione dal registro speciale dei praticanti a causa dell'interruzione ultrasemestrale della pratica; analogamente a quanto disposto in tema di procedimento disciplinare, infatti, la possibilità di proporre ricorso al Consiglio nazionale forense o alle Sezioni Unite della Corte di cassazione da parte di soggetto non iscritto all'albo dei patrocinanti davanti alle giurisdizioni superiori presuppone pur sempre che si tratti di soggetto iscritto almeno all'albo degli avvocati, poiché, in mancanza di tale condizione, il ricorrente è privo dello ius postulandi indispensabile per stare in giudizio di persona (Cass. S.U. n. 22246/2022).

L'avvocato cassazionista

L'art. 82 richiede per in giudizio dinanzi alla Corte di cassazione il patrocinio « di un avvocato iscritto nell'apposito albo », il quale è contemplato dall'art. 33 r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, convertito con modificazioni in l. 27 gennaio 1934, n. 36.

L'iscrizione all'albo, in effetti, è richiesta non soltanto nel giudizio di cassazione ma per il patrocinio dinanzi alle giurisdizioni superiori nel loro complesso, ed in particolare, oltre che alla Corte costituzionale, dinanzi « al Consiglio di Stato ed alla Corte dei conti in sede giurisdizionale, al Tribunale supremo militare, al Tribunale superiore delle acque pubbliche ed alla Commissione centrale per le imposte dirette », secondo quanto prescrive l'art. 4 r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578 cit.

Prima della riforma forense del 2013 (l. 31 dicembre 2012, n. 247, recante «Nuova disciplina dell'ordinamento della professione forense») era sufficiente, per diventare avvocato cassazionista, essere iscritto nell'albo degli avvocati da almeno 12 anni. La riforma, nell'introdurre una nuova disciplina della materia, ha tuttavia dettato una normativa transitoria, in forza della quale, fino ad una certa data, reiteratamente prorogata, può conseguire l'iscrizione all'albo dei cassazionisti l'avvocato che sia in possesso dei requisiti richiesti dalla precedente disposizione.

La nuova legge professionale richiede, per diventare avvocati cassazionisti, alternativamente uno dei seguenti requisiti:

-) essere iscritto all'albo da almeno 5 anni ed avere superato un apposito esame, previo svolgimento di un periodo di pratica, della durata di almeno cinque anni, presso un avvocato che eserciti abitualmente il patrocinio davanti alla Corte di cassazione; l'esame di abilitazione si svolge a Roma, presso il Ministero della Giustizia, e consta di prove scritte ed orali che devono essere superate complessivamente con voto superiore a 7 decimi. Le prove scritte sono tre e consistono nella compilazione di tre ricorsi per cassazione in materia civile, penale e amministrativa; la prova in amministrativo può anche consistere in un ricorso al Consiglio di Stato o alla Corte dei conti in sede giurisdizionale; la prova orale consiste invece nella «discussione di un tema avente per oggetto una contestazione giudiziale, nella quale il candidato dimostri la propria cultura e l'attitudine al patrocinio dinanzi alle giurisdizioni superiori» (così l'art. 4 l. 28 maggio 1936, n. 1003);

-) essere iscritto all'albo da almeno 8 anni ed aver frequentato con lodevole profitto la Scuola Superiore dell'Avvocatura, istituita presso il Consiglio Nazionale Forense, ed avere superato positivamente l'esame di verifica finale; l'accesso alla Scuola è richiede la dimostrazione dell'effettivo esercizio della professione; occorre poi superare un esame di ammissione consistente in un test a risposta multipla composto di 36 domande: 12 in materia di diritto processuale civile, penale ed amministrativo e 24 in una materia a scelta del candidato.

Un'eccezione alla regola che precede, la quale richiede la speciale abilitazione per la difesa dinanzi alle giurisdizioni superiori, è data per i procedimenti disciplinari a carico di avvocati, i quali possono difendersi personalmente in cassazione, in sede di impugnazione dei provvedimenti del Consiglio Nazionale Forense, pur non essendo iscritti all'albo dei cassazionisti (Cass. S.U. n. 6490/2002; Cass. S.U. n. 23288/2010). Ciò però non nell'ipotesi in cui la sanzione disciplinare sia consistita nella sospensione dall'esercizio della professione forense, nel qual caso viene a mancare il requisito indispensabile dello ius postulandi, la cui carenza è rilevabile d'ufficio (Cass. S.U., n. 10956/2001; Cass. S.U., n. 557/1998). Anche nello stesso procedimento a monte davanti al C.N.F., il professionista può essere assistito da un avvocato abilitato al patrocinio dinanzi alle magistrature superiori solo se munito di mandato speciale, per tale intendendosi la procura conferita specificatamente per quel grado del procedimento: conseguono, quali corollari di siffatta enunciazione di principio, la impossibilità di sanatoria del difetto di procura al difensore per effetto di successiva ratifica dell'operato del difensore medesimo da parte del rappresentato e la assoluta irrilevanza della procura rilasciata nell'ambito del procedimento dinanzi al Consiglio dell'ordine (CNF n. 33/2006; v. pure CNF n. 165/2005).

Gli avvocati iscritti nell'«elenco speciale»

 

L'art. 3 r.d.l. 7 novembre 1933, n. 1578, convertito con modificazioni in l. 27 gennaio 1934, n. 36, dopo aver stabilito alcune incompatibilità tra la professione di avvocato e lo svolgimento di diverse attività lavorative presso enti pubblici, aggiunge al comma 3 che dette incompatibilità sono escluse, oltre che per gli insegnamenti universitari e nelle scuole superiori, per: « Gli avvocati ed i procuratori degli uffici legali organicamente istituiti come tali presso gli enti di cui allo stesso secondo comma, per quanto concerne le cause e gli affari inerenti all'ufficio a cui sono addetti. Essi sono iscritti in un elenco speciale annesso all'albo ».

La possibile inclusione di una società per azioni nel numero degli enti pubblici previsti dalla norma va valutata in concreto, caso per caso: in particolare la natura pubblica del soggetto va riconosciuta allorché la società, le cui azioni siano possedute esclusivamente o prevalentemente dall'ente pubblico, costituisca lo strumento per la gestione di un servizio pubblico e quindi faccia parte di una nozione allargata di pubblica amministrazione (Cass. n. 9096/2005).

Dalla disposizione, come interpretata dalla giurisprudenza della S.C., si desume che, per l'iscrizione al detto elenco speciale, è necessario il concorso di due presupposti: a) deve esistere, nell'ambito dell'ente pubblico, un ufficio legale che costituisca un'unità organica autonoma; b) colui che chiede l'iscrizione (dipendente dell'ente ed in possesso del titolo di avvocato) deve far parte dell'ufficio legale ed essere incaricato di svolgervi tale attività professionale, limitatamente alle cause ed agli affari propri dell'ente (Cass. n. 5559/2002; Cass. n. 3733/2002). La validità degli atti posti in essere dall'avvocato, una volta che egli sia stato iscritto nell'elenco speciale, non è tuttavia pregiudicata dall'insussistenza dei requisiti a tal fine necessari, la quale può assumere rilievo soltanto sul piano disciplinare (Cass. S.U., n. 5035/2004).

Con riguardo alla destinazione del dipendente-avvocato a svolgere l'attività professionale presso l'ufficio legale, la quale si realizza mediante il suo inquadramento in detto ufficio, è stato chiarito che deve avvenire a titolo non precario e non deve essere cioè del tutto priva di stabilità, sebbene non debba necessariamente trattarsi di un rapporto di lavoro subordinato (Cass. n. 7731/2007): non è perciò configurabile siffatto inquadramento quando la destinazione all'ufficio legale dell'ente pubblico sia liberamente revocabile, essendo invece necessario, ai fini della iscrizione, che la cessazione di tale destinazione sia consentita solo sulla base di circostanze e/o di criteri prestabiliti (Cass. S.U., n. 14213/2005; Cass. S.U., n. 28049/2008).

Lo ius postulandi degli avvocati iscritti nell'elenco speciale è limitato alle cause dell'ente presso il quale prestano la loro opera, sicché essi devono in caso di contestazione fornire la prova della prestazione della propria opera a favore dell'ente per il quale agiscono (Cass. S.U., n. 363/2000): dal suddetto vincolo di stretta interpretazione discende non solo che tali avvocati non possono esercitare il patrocinio in favore di altri privati clienti, ma anche che non è consentito ritenere « propri » dell'ente pubblico datore di lavoro del professionista le cause di un soggetto diverso, dotato di distinta personalità, quantunque il primo ente abbia previsto la possibilità di utilizzazione del proprio ufficio legale da parte del secondo, ovvero detenga una partecipazione sociale totalitaria della società per azioni difesa dal legale dell'ente medesimo (Cass. n. 18090/2004). Ed inoltre, potendo gli avvocati iscritti nell'albo speciale esercitare il patrocinio esclusivamente in favore dell'ente presso il quale prestano la loro opera, la cessazione del rapporto di impiego, determinando la mancanza di legittimazione a compiere a ricevere atti processuali relativi alle cause proprie dell'ente, comporta il totale venir meno dello ius postulandi per una causa equiparabile a quelle elencate dall'art. 301, con conseguente interruzione dei processi in cui gli stessi siano costituiti (Cass. n. 11521/2007; Cass. n. 20361/2008), indipendentemente dalla cancellazione dall'albo (Cass. n. 21048/2007).

Quantunque inserito in una struttura costituita come avvocatura dell'ente, il professionista iscritto nell'elenco speciale conserva nondimeno la sua individualità, sicché gli atti da notificarsi al procuratore costituito sono invalidamente notificati all'ente, elettivamente domiciliato presso l'avvocatura, se la notificazione è genericamente effettuata presso di essa senza l'indicazione nominativa del difensore (Cass. n. 9298/2007).

Società fra avvocati

Il divieto di costituire società tra professionisti, un tempo dettato dalla l. n. 1815/1939, (al fine di evitare che le attività professionali di maggiore rilevanza per l'interesse pubblico venissero esercitate da soggetti non in possesso dei necessari requisiti di preparazione e di moralità), ma ancor prima desumibile dalla regola generale stabilità dall'art. 2232 c.c., che impone al prestatore d'opera di eseguire personalmente l'incarico assunto, già abrogato dall'art. 24 l. n. 266/1997, dopo qualche apertura da parte della giurisprudenza (si allude a Cass. n. 4628/1997, secondo cui lo studio professionale associato costituisce autonomo centro di imputazione di rapporti giuridici), è definitivamente caduto, con riguardo agli avvocati, per effetto del d.lgs n. 96/2001, recante « Attuazione della direttiva 98/5/CE volta a facilitare l'esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata acquisita la qualifica professionale ». La legge stabilisce, tra l'altro, che: i) l'attività può essere esercitata in forma comune esclusivamente secondo il tipo della società tra professionisti denominata società tra avvocati, la quale non è soggetta a fallimento ed è iscritta in una sezione speciale dell'albo degli avvocati, applicandosi alla stessa in quanto compatibili le norme, legislative, professionali e deontologiche che disciplinano la professione di avvocato (art. 16); ii) la società tra avvocati ha per oggetto esclusivo l'esercizio in comune della professione dei propri soci (art. 17); iii) i soci della società tra avvocati devono essere in possesso del titolo di avvocato (art. 21); iv) l'incarico professionale conferito alla società tra avvocati può essere eseguito solo da uno o più soci in possesso dei requisiti per l'esercizio dell'attività professionale richiesta e la società deve informare il cliente, prima della conclusione del contratto, che l'incarico professionale potrà essere eseguito da ciascun socio in possesso dei requisiti per l'esercizio dell'attività professionale richiesta; il cliente ha tuttavia diritto di chiedere che l'esecuzione dell'incarico sia affidata ad uno o più soci da lui scelti (art. 24); v) i compensi derivanti dall'attività professionale dei soci costituiscono crediti della società (art. 25); vi) il socio o i soci incaricati sono personalmente e illimitatamente responsabili per l'attività professionale svolta in esecuzione dell'incarico, mentre la società risponde con il suo patrimonio (art. 26).

Sulla materia è poi intervenuto l'art. 4-bis l. n. 247/2012, articolo inserito dall'art. 1, comma 141, lett. b), l. n. 124/2017, che, sotto la rubrica: « Esercizio della professione forense in forma societaria », ha così disposto:

 i) l'esercizio della professione forense in forma societaria è consentito a società di persone, a società di capitali o a società cooperative iscritte in un'apposita sezione speciale dell'albo tenuto dall'ordine territoriale nella cui circoscrizione ha sede la stessa società, mentre è vietata la partecipazione societaria tramite società fiduciarie, trust o per interposta persona;

 ii) i soci, per almeno due terzi del capitale sociale e dei diritti di voto, devono essere avvocati iscritti all'albo, ovvero avvocati iscritti all'albo e professionisti iscritti in albi di altre professioni;

 iii) anche nel caso di esercizio della professione forense in forma societaria resta fermo il principio della personalità della prestazione professionale, sicché l'incarico può essere svolto soltanto da soci professionisti in possesso dei requisiti necessari per lo svolgimento della specifica prestazione professionale richiesta dal cliente;

 iv) la responsabilità della società e quella dei soci non esclude la responsabilità del professionista che ha eseguito la specifica prestazione;

 v) la sospensione, cancellazione o radiazione del socio dall'albo nel quale è iscritto costituisce causa di esclusione dalla società;

 vi) le società in questione sono in ogni caso tenute al rispetto del codice deontologico forense e sono soggette alla competenza disciplinare dell'ordine di appartenenza;

 vii) esse sono tenute a prevedere e inserire nella loro denominazione sociale l'indicazione « società tra avvocati » e sono soggetta ad una particolare disciplina concernente l'IVA.

In ordine all'applicazione della menzionata norma alle società tra avvocati anteriormente costituite, la S.C. ha affermato che, in tema di esercizio in forma associata della professione forense, in virtù del disposto dell'art. 4-bis citato, sostitutivo della previgente disciplina di cui agli artt. 16 segg. d.lgs. n. 96/2001, dal 1° gennaio 2018 è consentita la costituzione di società di persone, di capitali o cooperative i cui soci siano, per almeno due terzi del capitale sociale e degli aventi diritto di voto, avvocati iscritti all'albo, ovvero avvocati iscritti all'albo e professionisti iscritti in albi di altre professioni, ed il cui organo di gestione debba essere costituito solo da soci e, nella sua maggioranza, da soci avvocati (Cass. S.U., n. 19282/2018).

Questo il caso. Una società in accomandita semplice costituita ai sensi della disciplina delle « società tra professionisti » ex art. 10 l. n. 183/2011 da due avvocati e da un terzo socio laureato in economia, partecipante per il 20 per cento delle quote, impugna la decisione del Consiglio Nazionale Forense di conferma del diniego all'iscrizione della società all'albo. Secondo il Consiglio Nazionale Forense l'art. 10 era inapplicabile, in considerazione della perdurante vigenza del divieto di società multidisciplinari per gli avvocati contenuto nei principi e criteri direttivi della delega legislativa contenuta nell'art. 5 del nuovo ordinamento forense, delega non attuata per scadenza del termine di esercizio, ma avente efficacia normativa propria. È così sorta la questione della legittimità delle società tra avvocati con partecipazione di soci non iscritti all'albo forense, e cioè dell'applicabilità agli avvocati, già sottoposti alla disciplina delle « società tra avvocati » di cui agli artt. 16 ss. d.lgs. n. 96/2001, della disciplina delle società tra professionisti multidisciplinari previste dall'art. 10 l. n. 183/2011 cit., che contiene al comma 9 una clausola di salvaguardia secondo la quale: « Restano salve le associazioni professionali, nonché i diversi modelli societari già vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge ». La questione è stata risolta con l'enunciazione del principio ricordato.

Le Sezioni Unite, in particolare, constatata l'abrogazione, nelle more del giudizio, dell'art. 5 l. n. 247/2012 per effetto dell'art. 1, comma 141, l. n. 124/2017, che, al fine di garantire una maggiore concorrenzialità nell'ambito della professione forense, ha, tra l'altro, inserito nella l. n. 247/2012 il nuovo art. 4-bis, hanno osservato che il rigetto dell'istanza di iscrizione all'albo della società ricorrente non poteva essere fondato sulla sopravvivenza del principio di cui all'art. 5 l. n. 247/2012, ormai abrogate, aggiungendo che il menzionato art. 4-bis, quale ius superveniens, « introducendo la nuova disciplina d'un rapporto sociale ancora in corso, va applicato anche d'ufficio in questa sede ».

Difesa personale

L'ordinamento conosce poi ulteriori ipotesi di difesa personale delle parti. Il caso forse maggiormente rilevante, sul piano pratico, è quello del procedimento per convalida di licenza e sfratto, il quale consente all'intimato comparso personalmente, senza che occorra alcuna autorizzazione giudiziale, di spiegare opposizione e compiere le attività previste dagli artt. 663-666.

Un significativo rilievo, inoltre, possiede la difesa personale nelle cause di opposizione ad ordinanza-ingiunzione di pagamento concernente sanzioni amministrative. La norma di riferimento è costituita anzitutto dall'art. 23, comma 4, l. n. 689/1981 (v. ora art. 6 d.lgs. n. 150/2011), il quale stabilisce appunto che l'opponente e l'autorità che ha emesso l'ordinanza possono stare in giudizio personalmente e che l'autorità che ha emesso l'ordinanza può avvalersi anche di funzionari appositamente delegati, senza che occorra una procura ad litem (Cass. n. 3979/2002), essendo sufficiente una semplice delega scritta che non occorre produrre in giudizio (Cass. n. 4872/2007; Cass. n. 9842/2010). La norma si riferisce esclusivamente al giudizio di primo grado e non anche al giudizio di appello (Cass. n. 14520/2009; Cass. S.U., n. 23285/2010; Cass. S.U., n. 2359/2010).

Una speciale esenzione dall'onere di patrocinio è data in particolari giudizi alle pubbliche amministrazioni ai sensi dell'art. 13 l. n. 103/1979. Si tratta:

a) dei procedimenti di cui all'art. 101 l. fall. (per la nuova disciplina v. art. 208 d.lgs. n. 14/2019 – Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza), nei quali le amministrazioni dello Stato, le regioni e gli enti difesi a norma dell'art. 43 r.d. n. 1611/1933 (t.u. delle leggi e delle norme giuridiche sulla rappresentanza e difesa in giudizio dello Stato e sull'ordinamento dell'Avvocatura dello Stato), sono rappresentati da propri funzionari, salvo che non debba procedersi alla istruzione della causa;

b) dei procedimenti di ammortamento dei titoli all'ordine di cui agli artt. 2016 ss. c.c. nei quali le amministrazioni indicate sono rappresentate da propri funzionari, salvo il caso di opposizione da parte del detentore;

c) dei giudizi in materia di pensioni, nei quali le amministrazioni statali, comprese quelle ad ordinamento autonomo, nei casi in cui non ritengano di avvalersi del patrocinio dell'Avvocatura dello Stato, possono delegare un proprio funzionario a sostenere, anche oralmente la loro posizione.

La difesa personale è poi consentita ai sensi dell'art. 417 nelle controversie di lavoro e previdenziali che non eccedano il valore di € 129,11. La stessa norma, attraverso il rinvio contenuto nell'art. 447-bis, si applica, negli indicati limiti di valore, anche alle controversie locatizie.

Ai notai, ancora, è dato difendersi personalmente nei procedimenti volti all'irrogazione di sanzioni disciplinari nei loro confronti, ai sensi dell'art. 153 l. n. 89/1913, mentre analoga facoltà non è dato al Consiglio dell'ordine di appartenenza, tenuto a costituirsi a mezzo di avvocato (Cass. n. 11412/2004). È anche il caso di accennare, qui, allo speciale ius postulandi spettante eccezionalmente al notaio sensi dell'art. 1 l. n. 89/1913, il quale lo abilita a «sottoscrivere e presentare ricorsi relativi agli affari di volontaria giurisdizione, riguardanti le stipulazioni a ciascuno di essi affidate dalle parti», ius postulandi che si fonda sulla necessaria complementarietà fra la sua postulazione e la sua stipulazione.

Un'ulteriore eccezione alla regola dell'onere di patrocinio si rinviene nel contenzioso elettorale, avuto riguardo anzitutto alla previsione dell'art. 33 l. n. 1058/1947. Il contenzioso elettorale amministrativo, invece, è sotto l'aspetto menzionato disciplinato dall'art. 3 l. n. 1147/1966.

Particolari questioni sorgono, sotto l'aspetto della sussistenza dell'onere di patrocinio, per i procedimenti camerali, riguardo ai quali si può in generale dire che la difesa tecnica è richiesta nel caso di procedimenti contenziosi, mentre non lo è per quelli volontari (Cass. n. 14245/2003).

Dopo l'introduzione nell'ordinamento dell'amministrazione di sostegno è sorta questione se il procedimento volto alla sua nomina sia o meno sottoposto alla regola generale stabilita dall'art. 82, comma 3. La S.C. ha affermato che il procedimento per la nomina dell' amministratore di sostegno, il quale si distingue, per natura, struttura e funzione, dalle procedure di interdizione e di inabilitazione, non richiede il ministero del difensore nelle ipotesi, da ritenere corrispondenti al modello legale tipico, in cui l'emanando provvedimento debba limitarsi ad individuare specificamente i singoli atti, o categorie di atti, in relazione ai quali si richiede l'intervento dell'amministratore; necessita, per contro, detta difesa tecnica ogni qualvolta il decreto che il giudice ritenga di emettere, sia o non corrispondente alla richiesta dell'interessato, incida sui diritti fondamentali della persona, attraverso la previsione di effetti, limitazioni o decadenze analoghi a quelli previsti da disposizioni di legge per l'interdetto o l'inabilitato, per ciò stesso incontrando il limite del rispetto dei principi costituzionali in materia di diritto di difesa e del contraddittorio (Cass. n. 25366/2006; Cass. n. 27268/2006; Cass. n. 1923/2008).

Quanto alle procedure concorsuali, la sussistenza dell'onere di patrocinio è riconosciuta ogni qualvolta sussistano i presupposti per l'applicazione della regola generale stabilita dall'art. 82.

L'onere di patrocinio sussiste anche con riguardo ai procedimenti di esecuzione forzata. Difatti, l'art. 82 regola in via generale le condizioni per l'inserimento delle parti in relazione a qualsiasi tipo di processo, cognitivo, esecutivo o camerale: perciò anche nel processo esecutivo i soggetti che vi partecipano devono farlo con il ministero di un difensore legalmente esercente (Cass. n. 9913/1994).

Unico difensore di più parti e conflitto di interessi

Con riguardo all'ipotesi che il medesimo difensore che eserciti il patrocinio in favore di più parti desta interesse il problema del conflitto di interessi che può venirsi a creare e delle ricadute di esso sul processo in corso.

In linea generale, pur con sfumature diverse a seconda della peculiarità dei casi, la S.C. ripete che, nel caso in cui tra due o più parti sussista conflitto di interessi — attuale ovvero anche virtuale, nel senso che appaia potenzialmente insito nel rapporto tra le medesime, i cui interessi risultino, in astratto, suscettibili di contrapposizione — è inammissibile la loro costituzione in giudizio a mezzo di uno stesso procuratore, al quale sia stato conferito mandato con unico atto, e ciò anche in ipotesi di simultaneus processus, dato che il difensore non può svolgere contemporaneamente attività difensiva in favore di soggetti portatori di istanze confliggenti (Cass. n. 7363/2018; Cass. n. 21350/2005; Cass. n. 15183/2005; Cass. n. 13893/2005).

E cioè, nel caso in cui tra due o più parti sussista un conflitto di interessi, è inammissibile la costituzione in giudizio a mezzo dello stesso procuratore e la violazione di tale limite, investendo i valori costituzionali del diritto di difesa e del principio del contraddittorio, è rilevabile d'ufficio (Cass. n. 1143/2020). In tale prospettiva si è ad esempio precisato che, in tema di giudizio di cassazione, ove più parti abbiano conferito mandato a distinti difensori per la proposizione congiunta di un unico ricorso, l'atto introduttivo deve essere valutato unitariamente nel suo contenuto al fine di verificare la sussistenza di un conflitto di interessi, dovendosi tenere conto non solo della posizione processuale attuale delle parti, ma anche di quella da loro rivestita nei gradi precedenti (Cass. n. 20991/2020). Né il rilievo d'ufficio dell'inammissibilità del ricorso per cassazione, perché proposto dallo stesso procuratore di due o più parti in conflitto di interessi, non deve essere preceduto dalla previa instaurazione del contraddittorio sulla questione ai sensi degli artt. 101 e 384, comma 3, c.p.c. trattandosi di questione di mero diritto, la cui prospettazione preventiva alle parti non può involgere profili difensivi non trattati (Cass. n. 17456/2022). Peraltro si è affermato che, nel giudizio di cassazione, nel caso in cui tra due o più parti sussista una situazione di conflitto di interessi e la costituzione in giudizio sia avvenuta a mezzo dello stesso procuratore, detta situazione, ove eccepita dalla controparte e non immediatamente sanata, non comporta la nullità dell'intero ricorso, ma solo di quei motivi che contengono censure svolte in maniera tale che il loro accoglimento comporterebbe un vantaggio per uno degli impugnanti a danno dell'altro (Cass. n. 24839/2022).

Abbandonato il ricorso all'applicazione analogica della disciplina processualpenalistica (art. 133 c.p.p. previgente; art. 106 c.p.p. vigente) in passato sostenuta (Cass. n. 2493/1983, e già, in epoca remota, Corte cost. n. 59/1959), la fonte del menzionato principio, la cui violazione può dar luogo ad illecito disciplinare e perfino penale (Cass. S.U., n. 14619/2002), è oggi fatta discendere recta via dagli artt. 24 e 111 Cost. in cui sono consacrati il diritto di difesa ed il principio del contraddittorio. Di qui la rilevabilità officiosa del vizio della procura anche in appello, fermo restando che, nel caso di costituzione in giudizio a mezzo dello stesso procuratore di più parti in conflitto di interessi, con conseguente difetto dello ius postulandi in capo al difensore, sempre rilevabile d'ufficio, detto difetto, ove rilevato in fase di impugnazione, non determina la rimessione degli atti al giudice di primo grado, stante la natura tassativa delle ipotesi di cui agli artt. 353 e 354 c.p.c., ma la rinnovazione ad opera del giudice d'appello degli atti del procedimento che risultano viziati (Cass. n. 26769/2023).

Conseguenza del conflitto di interessi è, secondo l'opinione prevalente, la nullità della procura rilasciata per seconda. Così, nel caso di conferimento al medesimo procuratore della procura alle liti da parte di madre e figlio nel giudizio di disconoscimento della paternità, la parte che abbia conferito per seconda la procura al procuratore nominato dall'altra deve ritenersi non costituita in giudizio (Cass. n. 14634/2015; Cass. n. 1860/1984). Talora, tuttavia, si discorre anche di nullità di tutte le procure conferite (Cass. n. 2779/1968).

Non sempre agevole, in dipendenza delle implicazioni del caso concreto, è l'individuazione della linea di demarcazione tra il conflitto di interessi non soltanto attuale, ma anche potenziale, giuridicamente rilevante, ed il conflitto di interessi meramente eventuale, irrilevante. Così, si trova affermato che nel rapporto fideiussorio, non sussiste conflitto d'interessi tra debitore principale e fideiussore, assistiti dal medesimo difensore, quando in concreto emerga il comune interesse a contestare l'esistenza della pretesa del creditore, non essendo sufficiente la mera eventualità di una contrapposizione processuale dovuta alla contestazione dell'esistenza del rapporto di garanzia ma, al contrario, dovendosi richiedere, l'esistenza di un conflitto attuale o quanto meno virtuale (Cass. n. 23056/2007). Al contrario, nel caso di controversia di lavoro instaurata contro un ente pubblico, di cui sia rappresentante legale una persona avente con l'attore un rapporto di stretta parentela (nella specie, il fratello), la S.C. ha ritenuto sussistente una situazione di conflitto di interessi che, comportando l'invalidità della rappresentanza processuale dell'ente, è ostativa alla costituzione di un valido rapporto processuale tra lo stesso ente ed il lavoratore che lo ha convenuto in giudizio: tale situazione, ancorché solo potenziale, va rimossa, secondo la S.C., in via preventiva, indipendentemente dalla sussistenza o no di sintomi indicativi dell'effettività del conflitto stesso (Cass. n. 618/1990).

Con particolare riguardo alla posizione dell'assicuratore e dell'assicurato convenuti nel giudizio risarcitorio per r.c.a., la S.C. ha escluso ogni conflitto di interessi, reale o potenziale, tra l'uno e l'altro ove essi concordino nella richiesta di rigetto totale o parziale della domanda attrice (Cass. n. 11780/1993, in Giust. civ., 1994, I, 963, con nota di Murra, Conflitto di interessi ed incompatibilità di difesa; Cass. n. 6367/1995). E' facile comprendere, tuttavia, come le posizioni delle parti — assicuratore ed assicurato — possano in tal caso sovente divaricarsi, quando il danno lamentato ecceda il massimale di polizza: in questo caso, difatti, la somma eccedente il massimale, eventualmente riconosciuta a titolo di risarcimento al danneggiato, andrà a gravare sul patrimonio del danneggiante-assicurato ovvero dell'assicuratore secondo che quest'ultimo invochi il contenimento della propria responsabilità nei limiti di polizza ovvero che l'assicurato formuli domanda — e quest'ultima si riveli fondata — di responsabilità ultramassimale per mala gestio. Ebbene, parte della giurisprudenza ha escluso la sussistenza del conflitto di interessi non soltanto nell'ipotesi in cui assicuratore ed assicurato si limitassero a chiedere entrambi il rigetto totale o parziale dell'avversa domanda, ma anche nel caso che il solo assicuratore, con riferimento alla sua specifica obbligazione, chiedesse che la stessa fosse contenuta nei limiti del massimale di polizza (Cass. n. 11780/1993; Cass. n. 6367/1995). Questa affermazione — nella più approfondita decisione resa in argomento — si appoggiava sulla distinzione tra cause vertenti su diritti disponibili ovvero su diritti indisponibili: secondo la S.C., nel caso di controversie su diritti disponibili, ciascuna delle parti, così come è libera di transigere o di rinunciare alla pretesa, può egualmente affidare la propria difesa ad un avvocato che già abbia assunto quella di un'altra parte, senza il giudice possa interferire con la scelta. Il conferimento congiunto della procura al medesimo legale — tale la conseguenza tratta dalla distinzione posta — manifesta allora la scelta dell'assicurato di non far valere nel processo, cui la materia è estranea in relazione al contenuto della domanda proposta dal danneggiato, il suo diritto di essere tenuto indenne anche oltre i limiti di massimale, il che troverebbe origine: a) nella rinuncia al diritto; b) nel riconoscimento che esso non compete; b) in un accordo che abbia regolato il rapporto tra le parti (Cass. n. 11780/1993).

Successivamente la S.C. sì è posta in consapevole contrasto con il precedente indirizzo, ma è pervenuto al medesimo risultato pratico di « salvare » la procura alle liti conferita ad un unico legale dall'assicuratore e dall'assicurato, quantunque l'assicuratore abbia eccepito il contenimento della propria responsabilità nei limiti del massimale (Cass. n. 3663/2006). È stato riconosciuto, anzitutto, che il conflitto di interessi è effettivamente sussistente nel caso in cui le richieste risarcitorie di parte danneggiante esorbitino dal limite massimo previsto dalla polizza e l'assicuratore non abbia tempestivamente messo a disposizione del danneggiato il massimale: difatti il legale dell'assicuratore e dell'assicurato — ovviamente scelto, tuttavia, dall'assicuratore — potrebbe trascurare di rivolgere al primo l'invito a mettere a disposizione il massimale e potrebbe altresì non curare di introdurre per il secondo la domanda di mala gestio propria. In tale frangente — secondo l'indirizzo in esame — non potrebbe essere condiviso l'assunto secondo cui l'accettazione di un unico difensore da parte dell'assicurato importerebbe rinuncia a far valere la domanda di mala gestio nei confronti dell'assicuratore, dal momento che una simile volontà non sarebbe desumibile dalla sottoscrizione della clausola del contratto di assicurazione concernente il patto di gestione della lite. Parimenti mancherebbe la volontà di riconoscere l'insussistenza del diritto. Ed infine, l'esistenza di un accordo tra le parti non potrebbe essere soltanto ipotizzata, ma dovrebbe sussistere effettivamente.

Tuttavia, il conflitto di interessi così delineato, se virtuale, non produrrebbe effetti sulla validità della procura, secondo la S.C., poiché circoscritto ad una parte soltanto della lite e non ad essa nel suo complesso: non potrebbe, cioè, ritenersi sufficiente ad integrare un conflitto rilevante ai fini della nullità della procura l'eventualità che il contrasto tra le parti abbia ad oggetto soltanto uno degli aspetti della vicenda giudiziaria. La pronuncia, in definitiva, ruota sulla distinzione tra conflitto di interessi riferibile all'intera lite, tale da pregiudicare la validità della procura, e conflitto di interessi soltanto parziale, ininfluente su di essa.

Particolari caratteri assume, sul piano probatorio, il problema del conflitto di interessi qualora il medesimo difensore difenda sì più parti, ma in processi diversi, come nell'ipotesi in cui il difensore agisca in giudizio prima per il conducente di un veicolo coinvolto in un sinistro stradale e poi dal figlio del conducente stesso. In tale ipotesi, benché il conflitto d'interessi possa essere non solo attuale ma anche potenziale, tale potenzialità va intesa non come astratta eventualità bensì in stretta correlazione con il rapporto esistente in concreto tra le parti i cui interessi risultino suscettibili di contrapposizione: pertanto, ove non si versi in caso di simultaneus processus, nella quale l'esistenza di siffatta contrapposizione è immediatamente percepibile dal giudice, la denuncia del conflitto non può prescindere dall'allegazione delle deduzioni svolte nei due giudizi, allegazione il cui onere grava interamente sulla parte che l'ha eccepita (Cass. n. 1550/2011).

Con riguardo al tema del conflitto di interessi, occorre infine soffermarsi sugli effetti determinati dalla novella dell'art. 182 ad opera della l. 18 giugno 2009, n. 69. L'attuale formulazione della disposizione consenta la sanatoria del « vizio che determina la nullità della procura al difensore », sicché è da credere che la norma ben possa essere applicata, consentendo alla parte che abbia conferito per seconda la procura di procedere al rilascio di una nuova procura ad un diverso difensore, se del caso attraverso la memoria prevista dall'art. 83, comma 3, come modificato dalla stessa l. 18 giugno 2009, n. 69.

I giudizi dinanzi al giudice di pace

Nello stabilire la regola dell'onere di patrocinio l'art. 82, comma 3, fa salvi i casi in cui la legge dispone altrimenti, casi che si sono man mano ridotti. Con la novella del citato art. 82 ad opera dell'art. 20 l. n. 374/1991, istitutiva del giudice di pace, anche dinanzi a quest'ultimo sussiste l'onere di patrocinio, eccezion fatta che per le cause di valore non eccedente € 516,46, nelle quali le parti possono stare in giudizio personalmente, senza richiedere autorizzazione alcuna (Cass. n. 912/1999), anche nell'ipotesi che la competenza appartenga al giudice di pace ratione materiae (Della Pietra, 645).

Il giudice di pace può altresì autorizzare le parti, ai sensi dell'art. 82, comma 3, a stare in giudizio di persona, con decreto emesso anche su istanza verbale degli interessati, in considerazione della natura ed entità della causa. L'autorizzazione non deve essere necessariamente preventiva, né richiede formalità, potendo anzi essere implicita e deducibile per facta concludentia (Cass. n. 16395/2010; Cass. n. 18159/2007), per avere ad esempio il giudice omesso di dichiarare la contumacia della parte, ovvero ammesso la medesima a svolgere attività difensiva, ovvero accolto le istanze in tal senso di essa. Si ritiene che l'autorizzazione possa essere concessa anche per singoli atti in favore della parte già dotata di un difensore (Cass. n. 512/1994).

Si discute del vizio determinato dalla mancanza dell'autorizzazione. Ha talora ritenuto la S.C. che l'osservanza dell'art. 82, attenendo alla regolare costituzione delle parti in giudizio, debba essere verificata d'ufficio dal giudice a norma dell'art. 182: con la conseguenza che la violazione del menzionato art. 82, che si verifica allorché la parte stia in giudizio davanti al giudice di pace senza ministero di difensore in causa eccedente il valore di € 516,46, dà luogo a una nullità rilevabile d'ufficio (Cass. n. 22043/2004; Cass. n. 1857/2001). Altre volte la nullità è stata qualificata come relativa, non rilevabile d'ufficio e non eccepibile per la prima volta in sede di legittimità (Cass. S.U., n. 9767/2001; Cass. n. 13363/2006; Cass. n. 112/1999).

Detta nullità, in ogni caso, è sanata ex tunc dalla successiva autorizzazione a stare in giudizio personalmente concessa dal giudice di pace (Cass. n. 17008/2004).

Bibliografia

Calamandrei, Istituzioni di diritto processuale civile, II, Padova, 1943, 258; Caponi, Rinuncia del difensore al mandato e rimessione in termini della parte, in Foro it. 1998, I, 2517; Della Pietra, Art. 82, in Vaccarella-Verde, Codice di procedura civile commentato, I, Torino, 1997; Liebman, Manuale di diritto processuale civile, I, Milano, 1992, 89; Mazzarella, Avvocato e procuratore, in Enc. giur., IV, Roma, 1988; Punzi, La difesa nel processo civile e l'assetto dell'avvocatura in Italia, in Riv. dir. proc. 2006, 814

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