Codice di Procedura Civile art. 92 - Condanna alle spese per singoli atti. Compensazione delle spese.Condanna alle spese per singoli atti. Compensazione delle spese. [I]. Il giudice, nel pronunciare la condanna di cui all'articolo precedente, può escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice [2162], se le ritiene eccessive o superflue; e può, indipendentemente dalla soccombenza, condannare una parte al rimborso delle spese, anche non ripetibili, che, per trasgressione al dovere di cui all'articolo 88, essa ha causato all'altra parte. [II]. Se vi è soccombenza reciproca ovvero nel caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti, il giudice può compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero12. [III]. Se le parti si sono conciliate, le spese si intendono compensate, salvo che le parti stesse abbiano diversamente convenuto nel processo verbale di conciliazione [1853, 1992, 4203].
[1] Comma sostituito dall'art. 13 d.l. 12 settembre 2014, n. 132, e modificato, in sede di conversione, dalla l. 10 novembre 2014, n. 162. A norma del comma 2, del medesimo articolo, la disposizione si applica ai procedimenti introdotti a decorrere dal trentesimo giorno successivo all'entrata in vigore della legge di conversione. Il testo precedente era stato sostituito dall'art. 2 l. 28 dicembre 2005, n. 263, con effetto dal 1° marzo 2006. Successivamente il comma è stato ulteriormente modificato dall'art. 45, comma 11, l. 18 giugno 2009, n. 69. Il testo dopo la riforma del 2009 recitava: «Se vi è soccombenza reciproca o concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti», mentre quello della riforma del 2005 era: «Se vi è soccombenza reciproca o concorrono altri giusti motivi, esplicitamente indicati nella motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti». [2] La Corte costituzionale, con sentenza 19 aprile 2018, n. 77 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente comma «nel testo modificato dall'art. 13, comma 1, del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132 (Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell'arretrato in materia di processo civile), convertito, con modificazioni, nella legge 10 novembre 2014, n. 162, nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni». InquadramentoLa disposizione completa e illumina sotto diversi aspetti la disciplina generale posta in tema di soccombenza dall'art. 91. Non v'è dubbio, tuttavia, che il punto centrale della previsione sia stato costituito per decenni dalla previsione che, secondo la giurisprudenza dell'epoca, consentiva al giudice, pressoché indiscriminatamente, di disapplicare il principio della soccombenza, facendo sì che le spese rimanessero a carico di ciascuna delle parti, in considerazione delle più disparate ragioni, che non v'era obbligo neppure di esplicitare. Sicché il legislatore è intervenuto reiteratamente, in modo da ridurre la discrezionalità della compensazione, fino, da ultimo, a tipizzare rigidamente i casi in cui la compensazione può essere disposta. E, tuttavia, sulla materia, come vedremo, è da ultimo intervenuto il giudice delle leggi, con sentenza Corte cost. n. 77/2018, dichiarando l'illegittimità costituzionale del presente comma «nel testo modificato dall'art. 13, comma 1, d.l. n. 132/2014 (Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell'arretrato in materia di processo civile), convertito, con modificazioni, nella l.10 novembre 2014, n. 162, nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni». La norma si suddivide in tre commi i quali pongono distinte previsioni in tema di spese eccessive e superflue, di violazione del dovere di lealtà e probità di cui all'art. 88, di compensazione. Le spese eccessive o superflueIl comma 1 dell'art. 92 disciplina due ipotesi distinte. Anzitutto pone un limite, un'attenuazione all'applicazione del principio di soccombenza, escludendo che esso possa operare con riguardo alle spese eccessive o superflue. In secondo luogo detta un'eccezione al principio di soccombenza medesimo, introducendo un'ipotesi di condanna anche del vincitore, in caso di violazione del dovere di lealtà e di probità di cui all'art. 88, al rimborso delle spese in favore del soccombente. Quanto al primo aspetto, si è già osservato nel commento all'art. 91 che, secondo l'opinione prevalente, l'esclusione dall'ambito della ripetizione delle spese eccessive o superflue si pone in correlazione con la natura non sanzionatoria, bensì compensativa della disciplina delle spese di lite: se, infatti, il vincitore potesse ripetere anche le spese eccessive o superflue finirebbe non già per rimanere indenne dal carico delle spese, bensì per conseguire un arricchimento in pregiudizio della controparte. Il giudizio di superfluità o parziale superfluità, che equivale ad eccessività, va operato in relazione alle concrete vicende della causa, tenendo presente l'epoca in cui fu compiuto, ossia secondo un giudizio ex ante (Grasso, in Comm. Allorio, 1973, 1002; Annechino, 702). Si tratta, come è stato riassuntivamente evidenziato, «delle spese che la parte avrebbe potuto evitare senza con ciò modificare l'esito della lite, sempre che si rivelino — all'esame del giudice — esorbitanti al lume delle normali esigenze di una diligente ed oculata difesa» (Annechino, 702). In proposito la giurisprudenza, nel sottolineare che il giudizio circa la necessita o meno delle spese giudiziali sostenute dalla parte, ai fini della ripetibilità delle stesse, costituisce un apprezzamento di merito non suscettibile di sindacato in sede di cassazione (Cass. n. 1391/1965), pone in evidenza come possano essere eccessive o superflue, sia pure in una prospettiva risarcitoria, anche le spese sostenute anteriormente alla fase giudiziale (Cass. n. 14594/2005; Cass. n. 9400/1999). Quanto alle spese sopportate in sede giudiziale, possono essere eccessive o superflue quelle di trasferta (Cass. S.U., n. 9913/1990; Cass. n. 7061/2002) nonché quelle di consulenza tecnica di parte (Cass. n. 6056/1990). Sono state ritenute superflue, nel giudizio di cassazione, le spese per la procura conferita alla parte intimata vittoriosa, che non abbia svolto attività difensive (Cass. n. 11499/1995), e, nel processo di esecuzione, le spese per la reiterazione del pignoramento dello stesso bene nei confronti dello stesso debitore esecutato (Cass. n. 23847/2008). Un cenno va fatto, infine, alla questione della ripetibilità delle spese per atti nulli. Da alcuni si è ritenuto che le spese sostenute per un atto nullo non possano essere equiparate a quelle superflue «solo perché è stata omessa in qualche misura l'osservanza delle regole relative al suo compimento» (Grasso, in Comm. Allorio, 1973, 1003). D'altronde — si aggiunge — poiché le spese per la rinnovazione gravano ai sensi dell'art. 162 sul soggetto, cancelliere, ufficiale giudiziario o difensore, responsabile della nullità, se le spese per gli atti nulli fossero considerati al pari di quelle superflue, si perverrebbe al paradossale risultato di escludere tout court le medesime dall'ambito della rimborsabilità. In senso opposto, però, risulta essersi pronunciata la S.C. nell'unico precedente edito che in proposito sembra rinvenirsi (Cass. n. 786/1962). La condanna per violazione del dovere di lealtà e di probitàLa seconda parte del comma 1 dell'art. 92 risulta nella pratica di applicazione assai rara. La peculiarità della disposizione, come si diceva, sta in ciò, che la condanna, può essere in tal caso pronunciata anche nei confronti del vincitore: la disposizione si pone così in posizione di eccezione rispetto alla regola generale della soccombenza posta dall'art. 91, in ossequio alla quale, come si è avuto modo di sottolineare, mai e in nessuna misura le spese di lite possano essere poste a carico del vincitore. Dunque, il principio per cui le spese di giudizio non possono essere poste a carico della parte anche solo parzialmente vittoriosa soffre deroga soltanto con riferimento alle spese che la stessa parte abbia causato all'altra per trasgressione del dovere di lealtà di cui all'art. 88 (Cass. n. 1743/1996). Il fondamento (sanzionatorio) della disposizione risiede nella violazione del dovere di lealtà e di probità stabilito in via generale dall'art. 88, sempre che la violazione — secondo la S.C., la quale trae argomento dalla testuale formulazione dell'art. 88 citato, che sancisce il dovere di comportarsi con lealtà e probità «in giudizio» — abbia avuto luogo nel processo e non all'infuori di esso (Cass. n. 3845/1975; Cass. n. 15353/2000; Cass. n. 6635/2007). Questa impostazione, fondata sull'esile riferimento testuale menzionato, risulta tuttavia in concreto talvolta disattesa (Cass. n. 13427/2003). La questione ha in effetti un rilievo concettuale che va al di là dei modesti esiti applicativi che si vanno scrutinando. Si è visto nel commento all'art. 91 che una parte della dottrina fonda l'intera disciplina delle spese sulla violazione del dovere di lealtà e probità di cui all'art. 88, e che un'ampia corrente giurisprudenziale pone al centro della disciplina delle spese il principio di causalità — del quale la soccombenza viene considerata mero sintomo — e, con esso, la condotta posta in essere da colui il quale, lasciando insoddisfatta una pretesa riconosciuta fondata o azionando una pretesa accertata come infondata, abbia dato causa al processo. Va da sé che, nella misura in cui la condotta anche preprocessuale della parte diviene elemento decisivo ai fini dell'attribuzione del carico delle spese, risulta scarsamente plausibile l'esclusione dall'ambito di applicazione dell'art. 92, comma 1, seconda parte, delle violazioni preprocessuali del dovere di lealtà e probità sancito dall'art. 88. Al dovere di lealtà e probità gravante parimenti sulle parti e sui loro avvocati la prevalente dottrina riserva un ambito alquanto angusto. Rinviando al commento all'art. 88, può qui osservarsi che è pressoché unanimemente ritenuto che la parte e il difensore non abbiano obbligo alcuno di dire il vero e possano dunque mentire, il che, secondo la relazione al progetto definitivo del codice di rito, troverebbe giustificazione nella «tradizionale correttezza del ceto forense italiano» (la citazione è tratta da Andrioli, 1956, 244). Gli avvocati, poi, secondo la dottrina, sarebbero completamente liberi tanto nell'allegazione degli argomenti giuridici e nella formulazione delle eccezioni fatte valere nell'interesse del cliente, quand'anche strampalate, quanto nell'allegazione dei fatti storici attinenti alla controversia (Scarselli, 252 ss.). Secondo la S.C. costituisce violazione del dovere di lealtà e probità delle parti così come disciplinato dall'art. 88 la condotta processuale di una parte caratterizzata dalla ripetuta contestazione della giurisdizione del giudice adito in simmetrica opposizione alle scelte di controparte, unita alla richiesta, accolta, di sospensione del giudizio ai sensi dell'art. 295, trattandosi di un comportamento processuale idoneo a pregiudicare il diritto fondamentale della parte ad una ragionevole durata del processo ai sensi dell'art. 111: pertanto tale condotta può determinare l'applicazione dell'art. 92, comma 1, ultima parte, secondo il quale, il giudice, a prescindere dalla soccombenza può condannare una parte al rimborso delle spese che, in violazione dell'art. 88, ha causato all'altra parte (Cass. S.U., n. 18810/2010). È stata giudicata contraria ai doveri di lealtà e probità la condotta della parte che, avendo già ottenuto una sentenza di condanna generica alla corresponsione di una determinata prestazione previdenziale, introduca un separato giudizio avente ad oggetto il risarcimento del maggior danno subito a causa del ritardato pagamento (Cass. n. 3175/1995). Allo stesso modo è stato giudicato il comportamento di un difensore che, all'esito di un giudizio, avendo ricevuto in pagamento un assegno da una compagnia di assicurazione per conto del proprio cliente, aveva nondimeno intrapreso l'esecuzione forzata in base ad un titolo precedentemente ottenuto, adducendo a giustificazione la mancanza del potere di riscuotere in capo al difensore, così comportandosi in modo palesemente teso a lucrare anche le spese dell'esecuzione (Cass. n. 11379/2006). La compensazione delle spese in generaleLa parte soccombente, secondo la regola espressa dall'art. 91, ha l'obbligo di rimborsare a quella vincitrice le spese che questa ha sopportato per la sua difesa. Il giudice può però escludere in tutto o in parte questo obbligo, in applicazione dell'art. 92: la compensazione, dunque, si risolve nell'esenzione dall'obbligo del rimborso delle spese di lite a carico del soccombente ed in favore del vincitore, sicché le spese da questi anticipate, ai sensi dell'art. 90, rimangono definitivamente a suo carico. Si discute, in dottrina, del rapporto tra l'art. 91 e l'art. 92. In breve, coloro i quali ritengono che la soccombenza rilevi nella sua oggettività guardano alla compensazione come ad un'eccezione al principio generale della soccombenza, orientato dal contrapposto principio di causalità; viceversa quanti ritengono che la causalità sia la chiave di volta della disciplina delle spese considerano la compensazione delle spese di lite alla stregua di un'applicazione del principio generale (per tutti, nel primo senso, Scarselli, 213 ss.; nel senso opposto Cordopatri, 341 ss.). La norma in commento ammette la compensazione, totale o parziale, in due distinti casi: a) quello di «soccombenza reciproca»; b) quello — su cui come accennato è intervenuta la Corte costituzionale — di novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti. In proposito la giurisprudenza ha avuto anzitutto modo di chiarire che la compensazione può essere disposta nei confronti della parte totalmente vittoriosa (Cass. n. 4234/1995; Cass. n. 4997/1998; Cass. n. 10308/2003. Né, secondo la S.C., è incostituzionale che la parte totalmente vittoriosa possa dover sopportare le spese di lite. L'eccezione di illegittimità costituzionale dell'art. 92, comma 2, nella parte in cui rende ammissibile la compensazione delle spese anche nel caso di soccombenza totale di una delle parti, prospettate sull'assunto che la ratio della condanna al pagamento delle spese processuali risieda nell'esigenza di rendere effettiva l'aspettativa economica della parte vittoriosa, onde evitarne il depauperamento, sono state ritenute manifestamente infondate, in quanto la ragione della disciplina del carico delle spese processuali andrebbe rinvenuta nell'esigenza di stimolare la parte ad un uso cosciente del proprio diritto di difesa e di evitare abusi per fini dilatori (Cass. n. 18857/2004). Anche in caso di decisione non di merito sussiste pur sempre una soccombenza di colui che ha agito con un atto dichiarato ad esempio inammissibile o improcedibile, sicché è consentito al giudice di compensare parzialmente o totalmente le spese, esercitando un suo potere discrezionale che, nel caso specifico considerato, ha come suo unico limite il divieto di condanna della parte vittoriosa (Cass. n. 14023/2002; Cass. n. 14576/1999). Non osta dunque alla compensazione la circostanza che il giudice abbia pronunziato solo su una questione pregiudiziale, quale quella della procedibilità del ricorso, non affrontando il merito, atteso che l'art. 91 impone la pronunzia sulle spese quando il giudice pronunzia sentenza che chiude il giudizio dinanzi a sé, prescindendo dal contenuto della sentenza (Cass. n. 319/2000; Cass. n. 9537/2005). Quanto al sindacato della compensazione in sede di appello, è stato affermato che il giudice d'appello è tenuto a sindacare il provvedimento di compensazione delle spese processuali adottato dal giudice di primo grado, anche d'ufficio, ove riformi in tutto o in parte la sentenza impugnata, in quanto il relativo onere va attribuito e ripartito in relazione all'esito complessivo della lite, ed inoltre (in caso di conferma) quando il relativo capo della decisione di prime cure abbia costituito oggetto di specifico motivo d'impugnazione (Cass. n. 15557/2006). Tale orientamento si colloca nella linea del fermo principio secondo cui il potere del giudice d'appello di procedere d'ufficio ad un nuovo regolamento delle spese processuali, quale conseguenza della pronunzia di merito adottata, sussiste in caso di riforma in tutto o in parte della sentenza impugnata, dovendo il corrispondente onere essere attribuito e ripartito in ragione dell'esito complessivo della lite, mentre in caso di conferma della sentenza impugnata, la decisione sulle spese può essere dal giudice del gravame modificata soltanto se il relativo capo della sentenza abbia costituito oggetto di specifico motivo d'impugnazione (Cass. n. 30417/2017). Va da sé che in presenza del rigetto dei contrapposti gravami non è automatico (e, quindi, doveroso) il disporre la compensazione delle spese di lite, atteso che nella ricerca della soccombenza quale regola di ripartizione delle spese va dato rilievo a una serie di parametri che hanno a oggetto, tra gli altri, il principio della causalità nel determinare l'inizio della lite e il contenuto dei reciproci appelli (Cass. n. 20544/2017). La compensazione non opera per le spese di registrazione della sentenza (Cass. S.U., n. 8533/1990; Cass. n. 485/1991; Cass. n. 5707/1991; Cass. n. 24047/2010). Va qui esaminato, inoltre, il tema della sorte delle spese di consulenza tecnica d'ufficio in caso di compensazione delle spese processuali. In proposito si rinvengono indirizzi giurisprudenziali contrastanti. In generale le spese di consulenza tecnica d'ufficio di possono compensare, anche in presenza di una parte totalmente vittoriosa (Cass. n. 11068/2020;Cass. n. 26849/2019; Cass. n. 17739/2016). Secondo una prima opinione, una volta disposta la compensazione, il giudice deve spiegare perché pone le spese di Ctu a carico di una delle parti (Cass. n. 1247/1983; Cass. n. 6831/1991). Secondo questa opinione anche in caso di compensazione il giudice può dunque motivatamente escludere da essa le spese di Ctu, ponendole a carico di una delle parti: altrimenti tali spese rimangono coperte dalla compensazione. In altre decisioni si trova invece affermato che, anche se il giudice compensa le spese processuali, quelle di Ctu non si possono addossare nemmeno in parte al vincitore (Cass. n. 6228/1992; Cass. n. 3237/2000; Cass. n. 6432/2002; Cass. n. 6301/2007). Questa soluzione costituisce espressione della regola generale, posta secondo l'opinione comune dall'art. 91, secondo cui le spese di lite non possono neppure in parte gravare sul vincitore, poiché ciò costituirebbe negazione del principio di soccombenza. Inoltre, non viola l'art 92 il giudice di merito che, dopo avere dichiarato la compensazione delle spese fra le parti, pone a carico dell'attore quelle della consulenza tecnica di ufficio, in quanto tale pronuncia sta solo ad indicare che la compensazione ha natura parziale (Cass. n. 22868/2019). Alcune altre pronunce affermano che anche quando il giudice compensa le spese processuali quelle di Ctu si possono ripartire tra le parti secondo opportunità, giacché siffatta statuizione, lungi dal dar luogo ad una condanna sia pur parziale del vincitore, determina solo l'esclusione del rimborso ove le stesse spese siano già state sostenute in favore dell'ausiliare (Cass. n. 2858/1999; Cass. n. 315/2002; Cass. n. 633/2003; Cass. n. 17953/2005). Si è ancora precisato che, una volta disposta la compensazione, le spese di Ctu rimangono interamente a carico del soccombente che le ha anticipate (Cass. n. 5976/2001; Cass. n. 26920/2009). È importante infine rammentare, nello scrutinare le problematiche di ordine generale che riguardano la compensazione, che, secondo un fermo insegnamento della S.C., la valutazione delle proporzioni della soccombenza reciproca e la determinazione delle quote in cui le spese processuali debbono ripartirsi o compensarsi tra le parti, ai sensi dell'art. 92, comma 2, rientrano nel potere discrezionale del giudice di merito, che resta sottratto al sindacato di legittimità, non essendo egli tenuto a rispettare un'esatta proporzionalità fra la domanda accolta e la misura delle spese poste a carico del soccombente (Cass. n. 30592/2017). La soccombenza reciprocaLa prima delle ipotesi previste dal comma 2 dell'art. 92, quella della soccombenza reciproca, altro non costituisce che esplicazione del principio stesso di soccombenza: ed infatti, in caso di soccombenza reciproca, le rispettive condanne alle spese, disposte in applicazione della regola generale, finirebbero oggettivamente per elidersi e risultare in definitiva superflue. Tale la ragione per cui, in buona sostanza, in caso di soccombenza reciproca, qualora sia disposta la compensazione, ciascuno sopporta in via definitiva le proprie spese. Ciò non esclude, beninteso, che, in caso di soccombenza reciproca, il giudice ponga le spese di lite per intero a carico dell'uno o dell'altro dei contendenti, la cui soccombenza ritenga prevalente (Cass. n. 13/1988; Cass. n. 12879/1999). Il potere del giudice di disporre la compensazione delle stesse per soccombenza reciproca ha quale unico limite quello di non poter porne, in tutto o in parte, il carico in capo alla parte interamente vittoriosa, poiché ciò si tradurrebbe in un'indebita riduzione delle ragioni sostanziali della stessa, ritenute fondate nel merito (Cass. n. 10685/2019). È importante notare che, secondo un indirizzo giurisprudenziale rimasto fermo fino a qualche tempo fa, la nozione di soccombenza reciproca può ricorrere in due ipotesi: a) quando vi sia la contrapposta formulazione di domande; b) quando l'attore abbia proposto nei confronti del convenuto un cumulo di domande. In dette situazioni, cioè, si ha soccombenza reciproca, totale o parziale, se le contrapposte domande sono entrambe respinte in tutto o in parte ovvero se soltanto una o alcune delle domande proposte dall'attore sia stata accolta, essendo così risultato vincitore il convenuto sulle altre. Viceversa, non ricorre l'ipotesi della reciproca soccombenza quando la sola domanda proposta, quella principale avanzata dall'attore nei confronti del convenuto, risulti fondata soltanto in parte, quand'anche minima (Cass. n. 2124/1994; Cass. n. 2653/1994; Cass. n. 8532/2000; Cass. n. 12295/2001; Cass. n. 7638/2004): in tale frangente, che può definirsi di soccombenza non già reciproca, bensì soltanto parziale, dunque, la pronuncia di compensazione può eventualmente giustificarsi in forza dei residuali motivi, se gravi ed eccezionali, previsti dalla disposizione. Questa ricostruzione è stata messa in discussione da una pronuncia con la quale è stato sostenuto che vi sarebbe soccombenza parziale anche in caso di accoglimento parziale della domanda (Cass. n. 22381/2009; seguita da Cass. n. 21684/2013). Si è per questa via ritenuto che la regolazione delle spese di lite può avvenire in base alla soccombenza integrale, che determina la condanna dell'unica parte soccombente al pagamento integrale di tali spese (art. 91, ovvero in base alla reciproca parziale soccombenza, che si fonda sul principio di causalità degli oneri processuali e comporta la possibile compensazione totale o parziale di essi (art. 92, comma 2); a tale fine, la reciproca soccombenza va ravvisata sia in ipotesi di pluralità di domande contrapposte formulate nel medesimo processo fra le stesse parti, sia in ipotesi di accoglimento parziale dell'unica domanda proposta, tanto allorché quest'ultima sia stata articolati in più capi, dei quali siano stati accolti solo alcuni, quanto nel caso in cui sia stata articolata in un unico capo e la parzialità abbia riguardato la misura meramente quantitativa del suo accoglimento (Cass. n. 3438/2016). Insomma, il principio al quale si è ad un dato momento pervenuti si riassume in ciò, che, in tema di compensazione delle spese processuali, la reciproca soccombenza deve ravvisarsi sia nelle ipotesi di pluralità di domande contrapposte formulate nel medesimo processo fra le stesse parti, sia in ipotesi di accoglimento parziale dell'unica domanda proposta (Cass. n. 20526/2017). Siffatto assunto (che in dottrina è stringatamente sostenuto da Grasso, in Comm. Allorio, 1973, 1005, nota 17, e da Scarselli, 310, limitatamente alla domanda articolata per capi) produce l'effetto di eludere il precetto legislativo che oggi, a seguito della novella del secondo comma dell'art. 92, richiede per la compensazione, al di fuori dell'ipotesi di soccombenza reciproca, ragioni strettamente tipizzate: in tal modo ampliando enormemente l'area della discrezionalità che il legislatore ha inteso invece restringere, se è vero che l'accoglimento parziale della domanda è evento frequentissimo se non del tutto fisiologico. Giustamente le S.U. hanno ricondotto la nozione di soccombenza reciproca al suo reale significato; in tema di spese processuali, l'accoglimento in misura ridotta, anche sensibile, di una domanda articolata in un unico capo non dà luogo a reciproca soccombenza, configurabile esclusivamente in presenza di una pluralità di domande contrapposte formulate nel medesimo processo tra le stesse parti o in caso di parziale accoglimento di un'unica domanda articolata in più capi, e non consente quindi la condanna della parte vittoriosa al pagamento delle spese processuali in favore della parte soccombente, ma può giustificarne soltanto la compensazione totale o parziale, in presenza degli altri presupposti previsti dall'art. 92, comma 2, c.p.c. (Cass. S.U. n. 32061/2022). Il rigetto della domanda, meramente accessoria, di danni per lite temeraria ex rt. 96, a fronte dell'integrale accoglimento di quella di merito proposta dalla stessa parte, non configura un'ipotesi di parziale e reciproca soccombenza, né in primo grado né in appello, sicché non può giustificare la compensazione delle spese di lite ai sensi dell'art. 92 (Cass. n. 9532/2017; nello stesso senso da ult. Cass. n. 11792/2018; Cass. n. 18036/2022. Resta fermo inoltre che anche nel regime normativo posteriore alle modifiche introdotte all'art. 91 l. n. 69/2009, in caso di accoglimento parziale della domanda il giudice può, ai sensi dell'art. 92, compensare in tutto o in parte le spese sostenute dalla parte vittoriosa, ma questa non può essere condannata neppure parzialmente a rifondere le spese della controparte, nonostante l'esistenza di una soccombenza reciproca per la parte di domanda rigettata o per le altre domande respinte, poiché tale condanna è consentita dall'ordinamento solo per l'ipotesi eccezionale di accoglimento della domanda in misura non superiore all'eventuale proposta conciliativa (Cass. n. 1572/2018). Le altre ragioni di compensazioneL'art. 92, nella sua originaria formulazione, consentiva la compensazione, oltre che in caso di soccombenza reciproca, in ipotesi di sussistenza di «altri giusti motivi». L'interpretazione giurisprudenziale della norma riconosceva in proposito al giudice un amplissimo ed insindacabile potere discrezionale: e ciò stava a significare che egli, nel disporre la compensazione per giusti motivi, non era sottoposto, secondo un primo indirizzo pressoché totalitario, a nessun obbligo di motivazione, sicché neppure era tenuto ad indicare quali fossero i motivi giustificativi adottati a fondamento della compensazione (in tal senso v. ancora Cass. n. 17457/2006; Cass. n. 14964/2007). E, naturalmente, il provvedimento di compensazione così disposto non era assoggettabile ad alcun controllo in sede di legittimità. L'esigenza di evitare che la discrezionalità potesse sconfinare nell'arbitrio aveva poi indotto parte della giurisprudenza ad ammettere la sindacabilità della statuizione sulle spese quando il giudice avesse esplicitato i giusti motivi di compensazione ed essi fossero risultati illogici od incongrui (Cass. n. 22541/2006; Cass. n. 15882/2007). In seguito, in anni recenti, l'atteggiamento della giurisprudenza, sulla spinta della dottrina (v. per tutti Grasso, in Comm. Allorio, 1973, 1001) e del giudice delle leggi (Corte cost. n. 395/2004) è mutato. Si è così giunti ad affermare che solo il diniego di compensazione può non essere motivato: e cioè che, se il giudice applica il principio della soccombenza, avuto riguardo all'oggettivo esito della lite, non è tenuto a spiegare perché non ritiene di compensare le spese. In tale prospettiva è stato ribadito che, in tema di spese processuali solo la compensazione deve essere sorretta da motivazione e non già l'applicazione della regola della soccombenza cui il giudice si sia uniformato. Deve escludersi, pertanto, che sia censurabile in sede di legittimità il mancato esercizio del potere di disporre la compensazione delle spese di lite e l'assenza di motivazione al riguardo (Cass. n. 26366/2017; Cass. n. 11329/2019). Viceversa, è stato stabilito che l'esercizio del potere di compensazione, per non risolversi in mero arbitrio, deve essere necessariamente motivato (Cass. S.U., n. 20598/2008). Sulla materia è nel frattempo intervenuto il legislatore. L'art. 2, comma 1, lett. a, l. n. 263/2005, entrato in vigore il 1° marzo 2006 ed applicabile ai soli procedimenti successivamente instaurati, nel lasciare inalterato il riferimento ai «giusti motivi» ha aggiunto che essi dovessero essere «esplicitamente indicati nella motivazione». Una successiva riforma del codice di procedura civile (art. 45, comma 11, l. n. 69/2009, applicabile ai procedimenti instaurati dopo il 4 luglio 2009), ha ulteriormente modificato la norma, la quale richiede ora non più «giusti motivi», ma «gravi ed eccezionali ragioni». In proposito è stato detto che le «gravi ed eccezionali ragioni», da indicarsi esplicitamente nella motivazione, che ne legittimano la compensazione totale o parziale, devono riguardare specifiche circostanze o aspetti della controversia decisa e non possono essere espresse con una formula generica (nella specie, la particolarità della fattispecie), inidonea a consentire il necessario controllo (Cass. n. 14411/2016; Cass. n. 11222/2016 ); Cass. n. 10042/2018; Cass. n. 9186/2018). Si è in breve formato, riguardo a detta formulazione della norma, l'indirizzo secondo cui l'art. 92, comma 2, c.p.c. nella parte in cui consente al giudice di disporre la compensazione delle spese di lite allorché occorrano gravi ed eccezionali ragioni, è norma elastica, che il legislatore ha previsto per adeguarla ad un dato contesto storico - sociale o a speciali situazioni, non esattamente ed efficacemente determinabili a priori, ma da specificare in via interpretativa da parte del giudice di merito, con un giudizio censurabile in sede di legittimità, in quanto fondato su norme giuridiche (Cass. n. 22333/2017). Si è detto che tra le gravi ed eccezionali ragioni rientra la situazione di obiettiva incertezza sul diritto controverso (Cass. n. 21157/2019, il che restituisce al giudice una discrezionalità pressoché totale in ordine alla compensazione). Ma si è anche affermato che le gravi ed eccezionali ragioni indicate esplicitamente nella motivazione per giustificare la compensazione totale o parziale ex art. 92, comma 2, c.p.c., non possono essere illogiche o erronee, altrimenti configurandosi un vizio di violazione di legge denunciabile in sede di legittimità (Cass. n. 14036/2024, che ha cassato la decisione impugnata che, dichiarata la cessazione della materia del contendere per il riconoscimento in corso di causa della pretesa previdenziale da parte dell'Inps, aveva disposto esclusivamente per tale mero fatto la compensazione delle spese, non tenendo conto del c.d. principio di causalità nell'insorgere della lite, della necessità di ricorrere al giudice per ottenere il riconoscimento della prestazione e della necessità dell'attività defensionale svolta nel processo sino a tale momento). Peraltro, in materia di lavoro, la soddisfazione della pretesa avanzata col ricorso, intervenuta tra il deposito e la notifica dello stesso con conseguente cessazione della materia delcontendere, può integrare le condizioni ― fermo l'obbligo di adeguata motivazione ― per disporre la compensazione, parziale o per intero, delle spese di lite (Cass. n. 4823/2024). Dopodiché con l'ultima novella si è giunti alla compensazione nel caso di novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti. Insomma, la parabola della compensazione, a partire dalla totale discrezionalità, è stata orientata dal legislatore verso la quasi-eliminazione dell'istituto. Ma, come si diceva, la norma così congegnata non ha superato il vaglio di costituzionalità. La questione che la Corte costituzionale (Corte cost. n. 77/2018) è stata chiamata a dirimere concerne difatti l'art. 92, comma 2, (nel testo modificato dall'art. 13, comma 1, d.l. 12 settembre 2014, n. 132 conv. con modif. nella l. 10 novembre 2014, n. 162). I dubbi di legittimità costituzionale sono stati prospettati per la mancata previsione, in caso di soccombenza totale, del potere del giudice di compensare le spese di lite tra le parti anche in casi ulteriori rispetto a quelli ivi previsti. Tali dubbi sono stati ritenuti fondati, sotto il profilo del contrasto con il principio di ragionevolezza e di uguaglianza (art. 3 Cost.), con il canone del giusto processo (art. 111, comma 1, Cost.) e del diritto alla tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.). Dopo una premessa sulla ratio della regolamentazione delle spese processuali nell'ambito del processo civile, ratio individuata nella regola generale victus victori (il vitto al vincitore) fissata dall'art. 91, comma 1, sicché alla soccombenza si accompagna, di regola, la condanna al pagamento delle spese di lite, in ossequio ad un principio di autoresponsabilità, che impone a colui il quale ha avuto torto in giudizio di farsi carico di dette spese, la Consulta ha rammentato tuttavia che, alla luce dei propri precedenti, «l'istituto della condanna del soccombente nel pagamento delle spese ha bensì carattere generale, ma non è assoluto e inderogabile» (Corte cost. n. 196/1982). Ampia è la discrezionalità di cui gode il legislatore nel dettare norme processuali: e, però la rigidità della delimitazione della compensazione al caso della ricorrenza delle due sole menzionate ipotesi tassative costituisce violazione del principio di ragionevolezza e di eguaglianza, giacché esclude altre analoghe fattispecie riconducibili alla stessa ratio giustificativa. L'ipotesi del «mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti» è connotata dal fatto che, in sostanza, risulta modificato, in corso di causa, il quadro di riferimento della controversia: analoga situazione può però rinvenirsi anche in altri casi (norme di interpretazione autentica, ius superveniens, dichiarazione di illegittimità costituzionale; decisioni della Corte europea; nuova regolamentazione da parte del diritto dell'Unione europea). Simili situazioni, ove concernenti una questione dirimente al fine della decisione della controversia, sono connotate da pari «gravità» ed «eccezionalità» e, non potendo essere ricondotte ad un rigido catalogo, necessariamente debbono essere rimesse alla prudente valutazione del giudice. Le medesime considerazioni, secondo la Corte costituzionale, si estendono anche al caso dell'«assoluta novità della questione». In definitiva la norma è incostituzionale laddove ha escluso dalle fattispecie nominate le analoghe ipotesi di sopravvenienze relative a questioni dirimenti e a quelle di assoluta incertezza, che presentino la stessa, o maggiore, gravità ed eccezionalità di quelle tipiche espressamente previste dalla disposizione censurata. La norma è in definitiva costituzionalmente illegittima nella parte in cui non prevede che il giudice, in caso di soccombenza totale, possa non di meno compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni. Certamente la decisione della Corte costituisce un'inversione di tendenza rispetto alla soluzione introdotta dal legislatore: non sembra però che si possa parlare così e semplicemente di un pieno ritorno al passato, giacché sembra che la sentenza debba essere intesa nel senso che le ulteriori ragioni di compensazione individuabili debbano essere comunque ricondotte alle rationes che sostengono la duplice previsione normativa.
Si è in proposito osservato che, ai sensi dell'art. 92, come risultante dalle modifiche introdotte dal d.l. n. 132/2014 e dalla sentenza n. 77/2018 della Corte costituzionale, la compensazione delle spese di lite può essere disposta (oltre che nel caso della soccombenza reciproca), soltanto nell'eventualità di assoluta novità della questione trattata o di mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti o nelle ipotesi di sopravvenienze relative a tali questioni e di assoluta incertezza che presentino la stessa, o maggiore, gravità ed eccezionalità delle situazioni tipiche espressamente previste dall'art. 92, comma 2 (Cass. n. 4696/2019). Sicché, le «gravi ed eccezionali ragioni» ― che, ai sensi dell'art. 92, comma 2, c.p.c., nel testo risultante dalle modifiche introdotte dal d.l. n. 132 del 2014 e dalla sentenza della Corte costituzionalen. 77 del 2018, giustificano la compensazione delle spese di lite ― non ricorrono per il sol fatto che la domanda sia stata rigettata per ragioni processuali (Cass. n. 6424/2024). La compensazione per conciliazione della liteNon v'è molto da dire sull'ultimo comma dell'art. 92, secondo cui, in caso di conciliazione, le spese si intendono compensate, salvo non sia stato diversamente convenuto nel verbale di conciliazione. La previsione è difatti ovvia, dal momento che, in presenza della conciliazione non può che prevalere la volontà delle parti, rimanendo invece inoperante quella del giudice, sempre che l'eventuale convenzione sulle spese risulti dal verbale di conciliazione. BibliografiaAnnechino, Art. 90-97, in Vaccarella e Verde, Codice di procedura civile commentato, I, Torino, 1997; Balena, La nuova pseudo-riforma della giustizia civile, in Giusto proc. civ. 2009, 749. Bianchi D'Espinosa, Il difensore come soggetto autonomo di rapporti processuali, in Riv. trim. proc. dir. civ. 1957, 277; Cecchella, Le relazioni tra le parti i difensori e il giudice, in judicium.it, 2004; Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1934; Cipriani, Condanna in solido del difensore per le spese di giudizio?, in La previdenza forense 2008, 318; Cordopatri, Spese giudiziali, in Enc. dir., 1990, XLIII, Milano; De Stefano, La distrazione delle spese, Milano, 1957; Ficarelli, La condanna del difensore al pagamento delle spese processuali in presenza di una valida procura alle liti: una interpretazione evolutiva dell'art. 94 c.p.c., in Giur. it. 2009, 152; Gualandi, Spese e danni nel processo civile, Milano, 1962; Lega, La libera professione, Milano, 1952; Maccario, L'art. 96 c.p.c. e la condanna al risarcimento solo “su istanza dell'altra parte”: ombre di incostituzionalità (e recenti modifiche normative), in Giur. it. 2009, 2243-2246; Menchini, Art. 91, in Balena, Caponi, Chizzini e Menchini, La riforma della giustizia civile. Commento alle disposizioni della legge sul processo civile n. 69 del 2009, Torino, 2009; Pajardi, Sulla condanna alle spese processuali di un soggetto che non fu parte del processo, in Giur. it. 1973, I, 1614-1616; Perfetti, La deontologia delle funzioni giudiziarie. un argine agli abusi del processo, in consiglionazionaleforense.it 2008; Ricca Barberis, Preliminari e commento al Codice di Procedura Civile, Torino, 1946; Santoro-Passarelli, Professioni intellettuali, in Nss. D.I., XIV, Torino 1967. Scarselli, Le spese giudiziali civili, Milano, 1998; Vecchione, Spese giudiziali (Diritto processuale civile), in Nss. D.I., XVII, Torino, 1970. |