Codice di Procedura Civile art. 94 - Condanna di rappresentanti o curatori.

Mauro Di Marzio

Condanna di rappresentanti o curatori.

[I]. Gli eredi beneficiati [484 c.c.], i tutori [348 c.c.], i curatori [392, 424 c.c.] e in generale coloro che rappresentano o assistono la parte in giudizio [75 2-4] possono essere condannati personalmente, per motivi gravi che il giudice deve specificare nella sentenza, alle spese dell'intero processo o di singoli atti, anche in solido con la parte rappresentata o assistita.

Inquadramento

Alla norma, nel significato in prevalenza attribuitogli, non può che essere riconosciuto un rilievo assai modesto, come è testimoniato dal limitatissimo numero di pronunce giurisprudenziali nella materia. Resterà da vedere se le più recenti letture della disposizione determineranno una sua rivitalizzazione.

La previsione ammette che, quando la parte sta in giudizio a mezzo di rappresentanti o curatori, ovvero degli altri soggetti ivi indicati, la condanna alle spese possa essere pronunciata non già nei confronti della parte in senso sostanziale, bensì del rappresentante o curatore, purché detta pronuncia sia giustificata da gravi motivi.

La disposizione trova giustificazione nella considerazione che i rappresentanti e curatori, sebbene non siano parti del processo in senso sostanziale, svolgono in prima persona l'attività processuale venendosi così a trovare in posizione assimilabile a quella del vero e proprio soccombente.

Al di là del dibattito concernente la definizione dei gravi motivi che l'ammissibilità della condanna ufficiosa, il punto centrale in questo momento controverso, a seguito della pronuncia di alcune decisioni di merito, attiene all'applicabilità della disposizione al difensore.

La responsabilità processuale di rappresentanti e curatori

La norma in commento, di impiego non frequente, contempla un'ipotesi di responsabilità processuale di rappresentanti e curatori, nonché degli altri soggetti ivi indicati, con conseguente loro condanna al rimborso delle spese di lite in favore della parte vincitrice. L'applicazione dell'art. 94 presuppone una condanna alle spese, ex art. 91, la quale è rivolta non già nei confronti della parte in senso sostanziale, bensì del rappresentante o curatore: va da sé che qualora la condanna alle spese manchi, ed esse, ai sensi dell'art. 90, rimangano a carico di chi le ha anticipate (in caso di estinzione del giudizio, conciliazione o compensazione), la condanna di rappresentanti e curatori non potrà trovare applicazione.

La previsione, così ricostruita, si spiega con il rilievo che i rappresentanti e curatori, pur non essendo parti in senso sostanziale del processo, svolgono autonomamente l'attività processuale posta in essere in detta qualità, il che avvicina la loro posizione a quella del vero e proprio soccombente.

Si discute se la disposizione ponga una deroga al criterio della soccombenza, facendo ricadere il carico delle spese non sulla parte bensì sul rappresentante o curatore. In giurisprudenza si trova affermato, in una delle non molte pronunce in materia, che l'art. 94 trova la sua ratio nella considerazione che i predetti, pur non assumendo nel processo la veste di parte, esplicano, tuttavia, anche se in nome altrui, un'attività processuale in maniera autonoma onde anche per essi si è ravvisato valido ed operante il principio generale della soccombenza (Cass. n. 649/1963).

Certo è, tuttavia, che, a fronte del funzionamento oggettivo del principio della soccombenza, l'art. 94 impronta la regolamentazione delle spese, secondo un'impostazione comune all'art. 96, ad un criterio di «responsabilità personale di chi commette l'atto imprudente» (Scarselli, 151). In tal senso la norma costituisce deroga al principio per cui i soggetti attivi e passivi del rimborso delle spese giudiziali sono le parti in senso sostanziale della lite (p. es., di recente, Luiso, 2009, 420). Più volatile è la questione se la disposizione costituisca o no deroga al principio della soccombenza. Si è visto nel commento all'art. 91 che la dottrina è divisa sul rilievo di tale principio in relazione a quello di causalità, mentre la giurisprudenza adopera ugualmente, volta per volta, i due concetti, senza assumere un definitivo punto di vista riguardo ad una disputa di contenuto essenzialmente dottrinale: sicché la relazione tra il principio di soccombenza e l'art. 94 riceve risposte diverse secondo la posizione assunta nei riguardi del primo.

Si discute altresì del significato del precetto normativo secondo cui la condanna può essere pronunciata «anche in solido con la parte rappresentata o assistita». La condanna personale del rappresentante, indubbiamente, può essere pronunciata sia in solido col rappresentato che in esclusiva (Cass. n. 554/1962).

Secondo alcuni, una volta pronunciata la condanna solidale della parte e del rappresentante o curatore, la prima, dopo aver pagato, potrebbe ripetere dal rappresentante o curatore l'esborso sostenuto. Ciò sull'assunto che la norma non sia diretta tanto a risarcire il vincitore delle spese, che sono state a lui cagionate dall'attività del rappresentante, quanto ad esonerare dal carico delle spese la parte i cui interessi sono stati mal curati (Grasso, in Comm. Allorio, 1973, 1021).

Non sembra esservi un qualche indice normativo dal quale desumere che la previsione di solidarietà sia posta a tutela del vincitore, onde far sì che questi non venga a trovarsi esposto all'insolvenza del rappresentante o curatore: del resto, se l'art. 94 stabilisce che le spese debbano essere poste a carico del rappresentante o curatore in dipendenza della sua condotta, non potendo per contro gravare sulla parte «ignara e incolpevole» (Scarselli, 151), non pare conseguente ritenere che la parte ignara e incolpevole, debba poi nondimeno sopportare il carico delle spese di lite. Sembra piuttosto da credere, allora, che la condanna del rappresentante o curatore in esclusiva, ovvero in solido con la parte, sia da porre in relazione con la responsabilità per aver intentato la lite nonostante gravi motivi militassero in senso opposto: il giudice, perciò, potrà porre le spese di lite esclusivamente a carico del rappresentante o curatore nella misura in cui ritenga soltanto sua la responsabilità della lite proposta, potrà graduare le responsabilità di rappresentante o curatore e parte e, infine, potrà condannare solidalmente entrambi, rimanendo in tal caso regolato il rapporto tra di loro ai sensi dell'art. 1298 c.c.

Quanto alla condanna del rappresentante o curatore al rimborso delle spese di singoli atti compiuti dal vincitore, la previsione è stata ricondotta al dettato dell'art. 92, sicché l'art. 94 regolerebbe i casi in cui il rappresentante ha usato della rappresentanza secondo gli interessi della parte, ma non ha agito con lealtà e probità verso l'avversario, ed è giusto quindi che risponda in proprio verso di lui del comportamento mantenuto (Grasso, in Comm. Allorio, 1973, 1022).

Quando venga pronunciata la condanna di cui all'art. 94, poi, il rappresentante o curatore diviene parte in causa, sia pure limitatamente al profilo della condanna alle spese, sicché è legittimato ad impugnare la sentenza che ha pronunciato la condanna in proprio, con esclusivo riguardo, naturalmente, al capo concernente le spese.

Estensione soggettiva della disposizione

La norma è ritenuta applicabile estensivamente ai rappresentanti di persone giuridiche, giacché nel linguaggio dei codici vigenti, sia sostanziale che di rito, con il termine «rappresentanza» viene designato non soltanto il fenomeno rappresentativo in senso proprio, contemplato dagli artt. 1387 ss. c.c., ma anche quello della cosiddetta immedesimazione organica (Cass. n. 674/1973).

Le disposizioni contenute nell'art. 94 che contemplano la condanna alle spese, eventualmente in solido con la parte, del soggetto che la rappresenta, devono dunque ritenersi applicabili anche agli organi della persona giuridica che rappresentano quest'ultima in giudizio (Cass. S.U., n. 5398/1988; Cass. n. 20878/2010): sicché l'amministratore di una società per azioni può essere, di conseguenza, condannato al pagamento delle spese in solido con la società da esso rappresentata in giudizio (Trib. Como 9 dicembre 1994, Dir. fall., 1995, II, 276). Parimenti è stato ritenuto possa essere condannato personalmente ai sensi dell'art. 94 il soggetto che agisca in giudizio in qualità di legale rappresentante di una società già estinta (App. Milano 12 marzo 2003, Giur. mil., 2004, 111).

La norma, inoltre, non si riferisce né al sostituto processuale, che agisce per definizione in nome proprio, né al falsus procurator, «che è, a tutti gli effetti, parte del processo che instaura» (Grasso, in Comm. Allorio, 1973, 1019).

Ritiene in prevalenza la dottrina che la formula «coloro che rappresentano la parte in giudizio» non possa intendersi riferita a chi svolge funzioni di rappresentanza tecnica della parte, ossia agli avvocati (Andrioli, 1956, 265; Gualandi, 103; Grasso, in Comm. Allorio, 1973, 1019; Pajardi, 1614; Bianchi D'Espinosa, 277).

In tal senso anche il giudice delle leggi ha talora affermato che l'art. 94 concerne l'istituto — del tutto distinto dalla rappresentanza tecnica — della parte in senso formale, che assume la qualità di parte per rappresentare quella sostanziale o per integrarne la capacità (Corte cost. n. 405/2007).

La soluzione negativa si fonda anzitutto sul richiamo ai lavori preparatori al codice di procedura civile (per tutti Grasso, in Comm. Allorio, 1973, 1020) e, più in generale, sulla considerazione che ciò che è imputabile sia pur per colpa al difensore va, sul piano delle spese, imputato oggettivamente alla parte in applicazione del principio della soccombenza. Si sostiene cioè che il difensore proprio perché, come dice la parola stessa, difende la parte, non può mai essere confuso con la parte, né tanto meno essere condannato alle spese, delle quali, nei confronti della controparte, non può che rispondere la parte (Cipriani, 323).

Altri pervengono all'opposta conclusione valorizzando la formulazione letterale della norma ed in particolare la locuzione «assistenti», intesa come riferita all'assistente tecnico, ossia al difensore (così Vecchione, 1137; analoga conclusione in Ricca Barberis, 160; Cecchella, 2004), nonché sulla ratio della previsione, con la quale il legislatore «ha fatto la scelta non della responsabilità oggettiva della parte ma della responsabilità personale di chi commette l'atto imprudente» (Scarselli, 152). «Si è così sottolineato che, al di là della soluzione desumibile dal dato testuale, esigenze di razionalità del sistema di giustizia sostanziale inducono... a coinvolgere direttamente ogni soggetto — difensore compreso — quale inevitabile responsabile della propria condotta, superando così la scelta classista del legislatore di voler escludere (a danno della parte) da questi soggetti gli avvocati che patrocinano i loro clienti dinanzi all'autorità giudiziaria» (Scarselli, 153).

L'assunto secondo cui l'art. 94 si riferisce anche al difensore non sembra poter trovare decisiva smentita nei lavori preparatori, atteso il modesto rilievo ermeneutico, meramente sussidiario, che essi, in generale, posseggono. E, d'altro canto, la considerazione secondo cui le spese ricadrebbero sulla parte in dipendenza del rapporto di mandato intercorrente con il difensore non pone nel debito conto la peculiarità di tale rapporto, evidenziato nel commento agli artt. 82 e 83, ove si è visto che non di vero e proprio mandato si tratta, sia perché la parte è sottoposta alla regola dell'onere di patrocinio, sia perché i poteri di gestione della lite sono esercitati in esclusiva dal difensore — con i limiti degli atti di disposizione del diritto in contesa — nella massima autonomia e discrezionalità. Va da sé che la ratio posta a fondamento dell'art. 94 — ossia la considerazione che i soggetti indicati dalla norma esplicano, anche se in nome altrui, un'attività processuale in maniera autonoma — si estende con piena ragione ai difensori.

Né l'applicazione della norma ai difensori può ritenersi preclusa in ragione del, peraltro discusso, carattere eccezionale della disposizione, la quale costituirebbe un'eccezione al principio della soccombenza (ma non manca chi ritiene che l'art. 94 sia espressione del principio di causalità, che innerverebbe l'intera disciplina delle spese di lite, tra i quali Cordopatri, 348), giacché l'interpretazione prospettata, limitandosi a sfruttare nella sua più ampia dilatazione la portata semantica del testo di legge, è semmai esempio di interpretazione estensiva, ma non certo di analogia, oggetto del divieto di cui all'art. 14 disp. prel. c.c.. Ciò con la precisazione che per i fini del menzionato risultato ermeneutico nulla rileva la rubrica della disposizione, riferita ai soli rappresentanti e curatori, giacché rubrica legis non est lex.

Sicché, in definitiva, non vi è alcun ostacolo ad intendere l'espressione «coloro che rappresentano o assistono la parte in giudizio» come riferita anche ai difensori, espressamente tenuti del resto in prima persona al dovere di lealtà e probità sancito dall'art. 88.

La soluzione che precede è stata accolta nella giurisprudenza di merito (Trib. Reggio Emilia 12 luglio 2007, Giur. it., 2009, 152; Trib. Cagliari 19 giugno 2008, Giusto proc. civ., 2011, 181). La seconda pronuncia ha tra l'altro evidenziato che:

i) il codice di rito si riferisce «in genere», ossia senza porre ulteriori distinzioni, a «tutti coloro che rappresentano o assistono la parte in giudizio», caratterizzandosi così per «l'estensione massima dell'ambito soggettivo della responsabilità per le spese di lite»;

ii) parte della dottrina ha tratto dal riferimento al «giudizio» l'inclusione dei difensori entro l'ambito di applicabilità della norma;

iii) tale interpretazione si pone in armonia col principio di causalità, ispiratore della disciplina delle spese di lite;

iv) la medesima lettura si armonizza con la previsione dell'art. 88, secondo cui anche i difensori sono tenuti a comportarsi in giudizio con lealtà e probità.

Più d'uno si è in proposito sollevato denunciando con indignazione siffatta «visione a dir poco paternalistica e autoritaria del processo civile» (Cipriani, 323; Perfetti, 19). Viceversa, dinanzi all'esigenza sempre più avvertita di stretta osservanza del principio di ragionevole durata del processo, la norma in commento avrebbe potenzialità deflative importanti. La verità, insomma, è che importa poco o nulla quale fosse il dibattito sulla condanna del difensore alle spese di lite nel vigore dei codici preunitari, di quello del 1865 ed in vista di quello ancora vigente. Il principio di ragionevole durata del processo, accolto nella Costituzione, ha attribuito a numerose norme del codice di rito un significato che prima non avevano. Ciò è quanto potrebbe accadere con riguardo all'art. 94.

In proposito, non è superfluo rammentare che la parte la quale intenda agire o resistere in giudizio non è normalmente in grado di comprendere se l'iniziativa che si avvia ad intraprendere abbia o non abbia, in iure, un qualche fondamento tale da giustificare una fiduciosa attesa dell'esito del processo: proprio per questo — come si è visto nel commento all'art. 82 — è imposto l'onere di patrocinio. Ed è il caso di sottolineare che il difensore è sottoposto ad un vero e proprio obbligo di raccogliere il «consenso informato» del cliente, ponendolo sull'avviso dei possibili esiti della vertenza (Cass. n. 314597/2004), consenso informato che non solo si riflette, in generale, nel «dovere di chiarimento ed informazione al cliente intorno alle possibilità di successo» (Santoro-Passarelli, 25) ovvero nell'«obbligo di illuminare il cliente» in funzione della sua autodeterminazione (Lega, 234), ma che trova un preciso riscontro nel Codice deontologico forense, dotato di valore normativo primario (Cass. S.U., n. 26810/2007), il quale stabilisce che l'avvocato, oltre a dover rifiutare incarichi che eccedono la sua competenza, non deve consapevolmente consigliare azioni inutilmente gravose e deve informare il cliente, all'atto dell'incarico, sulle caratteristiche della controversia e sulle soluzioni possibili.

In questo quadro le scelte della difesa tecnica ricadono esclusivamente sull'avvocato, quali che siano state le indicazioni provenienti dal cliente. Se, in altre parole, quest'ultimo sollecita una scelta sbagliata, l'avvocato può tutt'al più rinunciare al mandato, ma non può mai abdicare al proprio dovere di informare il cliente della retta strada da perseguire.

Ecco, allora, che tale lettura dell'art. 94 può costituire una leva sensibile che è in grado di contribuire a ridefinire il ruolo dell'avvocato nel processo e nella società (Ficarelli, 154).

Ammissibilità della condanna officiosa

È discusso, in dottrina, se la condanna personale del rappresentante possa essere pronunciata d'ufficio ovvero sia sottoposta alla regola dell'art. 112 (in senso favorevole Grasso, in Comm. Allorio, 1973, 1019; contra Andrioli, 1956, 265).

La S.C. pone in evidenza come, a differenza di quanto previsto dall'art. 96 per la condanna della parte per responsabilità aggravata, la quale va esplicitamente richiesta, l'art. 94 del codice di rito contempli il potere del giudice di condannare, per gravi motivi, il rappresentante o il curatore della parte alle spese dell'intero processo o di singoli atti anche indipendentemente da una specifica richiesta della controparte, giacché inerisce pur sempre al potere-dovere del giudice di regolare le spese processuali sostenute dalle parti con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, secondo quanto previsto dall'art. 91 (Cass. n. 3977/2003; nello stesso senso, in motivazione, Cass. S.U., n. 5398/1988).

Viene del resto sottolineato come appaia arduo sostenere che la controparte, sulla base di un eventuale interesse a che si sia assegnato quale obbligato il rappresentante, piuttosto che l'uno o l'altro rappresentato, abbia il potere di provocare una pronuncia del giudice sulla condanna del primo rilevando il cattivo esercizio della rappresentanza; il che implicherebbe il potere di impugnare la sentenza per quel caso, in caso di rigetto dell'istanza (Grasso, in Comm. Allorio, 1973, 1022).

Quanto alla parte, quest'ultima, al fine di chiedere in prima persona la condanna dei soggetti elencati dall'art. 94, ha l'onere di intervenire, eventualmente munendosi di un curatore speciale exart. 78 se non ha la capacità di stare in giudizio di persona.

I gravi motivi

Ai fini della condanna, inoltre, occorre il concorso dell'ulteriore requisito dei gravi motivi, i quali vanno scrutinati in dipendenza della valutazione soggettiva del condotta dei rappresentanti o curatori Si è ritenuto che tale valutazione debba essere compiuta in termini di violazione del dovere di probità e lealtà, previsto dall'art. 88, ovvero, altrimenti, di mancanza della normale prudenza cui fa riferimento il comma 2 dell'art. 96 (Cass. n. 649/1963; Cass. S.U., n. 5398/1988; Cass. n. 20878/2010; Cass. n. 9203/2020).

Questa affermazione non sembra tuttavia del tutto persuasiva. Il comma 2 dell'art. 96 trova difatti applicazione con riguardo alle iniziative giudiziarie ivi indicate ove compiute senza la «normale prudenza», cioè anche con colpa lieve in ragione della intrinseca potenzialità lesiva delle iniziative medesime in caso di inesistenza del diritto fatto valere. La colpa lieve, cioè, diviene qui elemento soggettivo sufficiente per il fatto che esso si associa a condotte ad elevata potenzialità lesiva: il che non sembra pertinente alla disposizione dettata dall'art. 94. Sembra allora da credere che la previsione di quest'ultima disposizione debba essere piuttosto accostata al primo comma dell'art. 96 e che, dunque, la condanna del rappresentante o curatore possa aver luogo, oltre che in caso di trasgressione dei doveri di probità e lealtà, in ipotesi di mala fede o colpa grave. D'altronde, il margine di valutazione della fondatezza di un'iniziativa giudiziaria possiede sempre per definizione un'estensione ampia ed incerta: sicché l'allontanamento dalla regola generale, secondo cui il rapporto concernente le spese di lite intercorre tra le parti in senso sostanziale del processo, merita di essere derogata, per l'appunto, per motivi gravi e non per un qualche generico errore di previsione che, seppur non giustificabile sul piano soggettivo, non meriti particolare censura.

Se così non fosse, per di più, l'art. 94 finirebbe per rappresentare un ostacolo troppo forte all'esercizio dei diritti spettanti a quelle parti tenute ad agire a mezzo di rappresentanti o curatori, i quali potrebbero essere indotti a trascurare ogni iniziativa giudiziaria per il troppo elevato pericolo di vedersi addossare le spese di lite.

È dunque da escludere che la condanna di rappresentanti o curatori possa aver luogo non solo nell'ipotesi «nelle quali questi ultimi abbiano intentato una lite da ritenersi palesemente infondata» (Scarselli, 151), ossia dinanzi ad iniziative giudiziarie completamente fuori bersaglio, ma anche in caso di lite meramente «inopportuna, od ancora evitabile» (Scarselli, 151).

In giurisprudenza è stato ravvisato comportamento perpetrato in violazione del dovere di lealtà e probità di cui all'art. 88, costituente pertanto grave motivo ai sensi dell'art. 94, la condotta di un avvocato che, costituitosi quale procuratore (in senso sostanziale) della parte, aveva negato contro verità la già intervenuta definizione transattiva della lite con specifico riguardo al credito ivi in contestazione, dando così luogo alla «inutile protrazione del giudizio per oltre un anno» (Cass. n. 3977/2003).

È stata invece esclusa la sussistenza dei gravi motivi in caso di proposizione di un regolamento preventivo di giurisdizione sulla considerazione che esso, pur proposto in violazione di un indirizzo giurisprudenziale univoco, investiva per la prima volta le disposizioni della l. n. 430/1986 e presentava quindi «un qualche margine di opinabilità tale da giustificare da parte della società l'uso dello strumento regolamentare sia pure ai fini dilatori, ma non marcatamente e spudoratamente utilitaristici, come risulta confermato dallo sforzo dialettico compiuto dal patrocinatore» (Cass. S.U., n. 5398/1988). È appena il caso di osservare che l'atteggiamento benevolo che traspare dalla pronuncia mal si accorda con l'ampio indirizzo che ha ritenuto sanzionabile ai sensi dell'art. 96 la proposizione del regolamento preventivo di giurisdizione in fattispecie già univocamente risolte dalla giurisprudenza (tra le molte Cass. S.U., n. 1280/1982;Cass. S.U. , n. 2472/1982; Cass. S.U., n. 766/1983; Cass. n. 3306/1987).

È stata parimenti esclusa l'applicabilità dell'art. 94 nel caso del legale rappresentante di una società che aveva agito in rappresentanza della società estintasi, perché cancellata, ma aveva fatto ciò in un arco temporale in cui la giurisprudenza riteneva che l'estinzione della persona giuridica conseguisse soltanto all'effettiva liquidazione di tutti i rapporti giuridici ad essa facenti capo (Cass. n. 20878/2010).

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