Codice di Procedura Civile art. 106 - Intervento su istanza di parte 1 .

Rosaria Giordano

Intervento su istanza di parte 1.

[I]. Ciascuna parte può chiamare nel processo un terzo al quale ritiene comune la causa o dal quale pretende essere garantita [32, 108, 269; 1485, 1586 2, 1777 2, 1917 4 c.c.].

 

[1] In tema di rito speciale per le controversie in materia di licenziamenti, v. art. 1, commi 47-68, in particolare il comma 54, l. 28 giugno 2012, n. 92Per la disapplicazione delle disposizioni di cui ai commi da 48 a 68 dell'art. 1 della l. 92/2012 vedi l'art. 11 del d.lg. 23/2015, in tema di licenziamenti applicabili ai contratti di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti.

Inquadramento

Vi sono delle ipotesi nelle quali può sussistere l'interesse delle parti a chiamare in causa un terzo, al fine di opporre allo stesso il giudicato formatosi nel processo.

La chiamata c.d. in garanzia è volta a tutelare il diritto di una delle parti ad essere tenuta indenne per il caso di sua soccombenza nel processo da un altro soggetto (Tarzia, 2002, 144).

La garanzia può essere propria ed impropria e la differenza, rilevante ai fini dello spostamento di competenza per ragioni di connessione ex art. 32, si sostanzia nel senso che la legge che disciplina il rapporto prevede un collegamento tra la posizione sostanziale vantata dall'attore e quella del chiamato in garanzia (Cass. S.U., n. 13968/2004).

La nozione di «comunanza di causa», alla quale fa riferimento la norma in esame, è molto ampia, comprendendo al suo interno le più diverse ipotesi nelle quali, per motivi di connessione, è opportuna la presenza di un terzo nel processo (Luiso, 2015, 305).

Nell'ipotesi in cui un terzo sia stato chiamato in causa dal convenuto come soggetto effettivamente e direttamente obbligato alla prestazione pretesa dall'attore, la domanda di quest'ultimo si estende automaticamente ad esso senza necessità di una istanza espressa, costituendo oggetto necessario del processo, nell'ambito di un rapporto oggettivamente unico, l'individuazione del soggetto effettivamente obbligato, mentre analoga estensione non si verifica nel caso di chiamata del terzo in garanzia (Cass. n. 12317/2011).

L'ordinanza avente ad oggetto l'istanza diretta alla chiamata in causa di un terzo ha natura di provvedimento processuale attinente alla regolarità del contraddittorio od alla opportunità che il terzo partecipi al giudizio, è priva di qualsiasi contenuto decisorio, ed è, pertanto, insuscettibile di impugnazione con il regolamento di competenza (Cass. VI, n. 11223/2022).

Il provvedimento del giudice di merito che concede o nega l'autorizzazione a chiamare in causa un terzo ai sensi dell'art. 106 c.p.c., coinvolge valutazioni assolutamente discrezionali che, come tali, non possono formare oggetto di appello e di ricorso per cassazione (Cass. II, n. 2331/2022).

Chiamata in garanzia

La chiamata c.d. in garanzia è volta a tutelare il diritto di una delle parti ad essere tenuta indenne per il caso di sua soccombenza nel processo da un altro soggetto (Tarzia, 2002, 144). Si distingue comunemente tra garanzia propria e garanzia impropria.

In accordo con la giurisprudenza tradizionale la differenza è dovuta al fatto che soltanto nella prima ipotesi vi è un'identità o una connessione obiettiva dei titoli posti a fondamento della domanda principale e della domanda di garanzia (Cass., n. 19050/2003; Cass., n. 11711/2002).

Secondo parte della dottrina, invece, si avrebbe piuttosto garanzia propria nelle ipotesi in cui la legge che disciplina il rapporto prevede un collegamento tra la posizione sostanziale vantata dall'attore e quella del chiamato in garanzia e, per questo, la partecipazione del terzo al giudizio può essere ricondotta ad una previsione legislativa (Luiso I, 321; Tarzia, 144).

Tale orientamento aveva ricevuto, poi, l'avallo delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, le quali hanno sancito che si ha garanzia propria nei casi in cui la legge disciplinatrice del rapporto preveda un collegamento tra la posizione sostanziale vantata dall'attore e quella del terzo chiamato in garanzia di guisa che la partecipazione del terzo al giudizio instaurato dall'attore possa ricondursi ad una previsione legislativa (Cass.  S.U., n. 13968/2004, Foro it., 2005,I, 2385, con nota di Gambineri).

La distinzione tra garanzia propria ed impropria ai fini pratici ciò rileva soprattutto sotto il profilo della competenza per territorio, in quanto, secondo giurisprudenza costante, l'art. 32 che prevede la possibilità di effettuare lo spostamento della competenza territoriale nelle cause di garanzia dinanzi al giudice competente per la causa principale si applica soltanto nei casi di garanzia c.d. propria (Cass. n. 9774/2004).

In accordo con la giurisprudenza tradizionale la differenza tra garanzia propria ed impropria si fondava sulla circostanza che soltanto nella prima ipotesi vi è un'identità o una connessione obiettiva dei titoli posti a fondamento della domanda principale e della domanda di garanzia (Cass. n. 19050/2003).

Tuttavia sulla questione sono intervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, rivedendo la propria giurisprudenza pregressa, ed attribuendo valenza meramente descrittiva alla tradizionale distinzione tra garanzia propria ed impropria, mediante l'affermazione del principio per il quale in caso di chiamata in causa in garanzia dell'assicuratore della responsabilità civile, l'impugnazione - esperita esclusivamente dal terzo chiamato avverso la sentenza che abbia accolto sia la domanda principale, di affermazione della responsabilità del convenuto e di condanna dello stesso al risarcimento del danno, sia quella di garanzia da costui proposta - giova anche al soggetto assicurato, senza necessità di una sua impugnazione incidentale, indipendentemente dalla qualificazione della garanzia come propria o impropria, che ha valore puramente descrittivo ed è priva di effetti ai fini dell'applicazione degli artt. 32, 108 e 331, dovendosi comunque ravvisare un'ipotesi di litisconsorzio necessario processuale non solo se il convenuto abbia scelto soltanto di estendere l'efficacia soggettiva, nei confronti del terzo chiamato, dell'accertamento relativo al rapporto principale, ma anche quando abbia, invece, allargato l'oggetto del giudizio, evenienza, quest'ultima, ipotizzabile allorché egli, oltre ad effettuare la chiamata, chieda l'accertamento dell'esistenza del rapporto di garanzia ed, eventualmente, l'attribuzione della relativa prestazione (Cass. S.U., n. 24707/2015, in Riv. dir. proc., 2016, n. 3, 827, con nota di Tiscini ed in Giur. it., 2016, 586, con note di Carratta e di Consolo, Baccaglino, Godio).

Analogamente, in dottrina, si era già in precedenza evidenziato, in senso critico rispetto alla giurisprudenza tradizionale che attribuiva rilevanza, quanto alla disciplina processuale, alla distinzione tra garanzia propria e garanzia impropria, che in entrambe le ipotesi tutto ruota intorno al fenomeno della connessione per pregiudizialità-dipendenza, poiché nella garanzia vi è un'azione avente ad oggetto un diritto condizionato nell'esistenza e nell'ammontare al diritto oggetto originario del giudizio (Gambieri, 160 ss.).

Sotto un distinto profilo, le Sezioni Unite della S.C. hanno chiarito che la procura alle liti conferita in termini ampi ed omnicomprensivi è idonea, in base ad un'interpretazione costituzionalmente orientata della normativa processuale attuativa dei principi di economia processuale, di tutela del diritto di azione nonché di difesa della parte ex artt. 24 e 111 Cost., ad attribuire al difensore il potere di esperire tutte le iniziative atte a tutelare l'interesse del proprio assistito, ivi inclusa la chiamata del terzo in garanzia cd. impropria (Cass. S.U.,  n. 4909/2016, in Ilprocessocivile.it, con nota di Di Marzio).

E' stato di recente puntualizzato che la chiamata del terzo in garanzia ex art. 106 c.p.c. - mediante la quale colui che abbia adempiuto ad un obbligo esercita il diritto a rivalersi dei relativi effetti pregiudizievoli nei confronti di altro soggetto a lui non legato da vincolo di solidarietà - si differenzia dall'azione di regresso, che invece tale vincolo presuppone, mirando a redistribuire pro quota, nel rapporto interno fra i condebitori, il peso dell'obbligazione adempiuta da uno solo di essi; ne discende che la questione della gravità delle colpe e dell'entità delle conseguenze che ne sono derivate, rilevando nelle sole obbligazioni solidali, può essere delibata solo se uno dei condebitori abbia esercitato l'azione di regresso nei confronti degli altri o, in vista del regresso, abbia chiesto espressamente tale accertamento in funzione della ripartizione interna della responsabilità nei loro confronti e non già laddove la chiamata in causa del terzo, da parte di colui che sia stato convenuto in giudizio dal danneggiato, sia finalizzata alla radicale esclusione della propria responsabilità (Cass. n. 30952/2023).

Chiamata del terzo al quale la causa è comune

La nozione di «comunanza di causa», alla quale fa riferimento la norma in esame, è molto ampia, comprendendo al suo interno le più diverse ipotesi nelle quali, per motivi di connessione, è opportuna la presenza di un terzo nel processo (Luiso, 2015, 305).

 La funzione di tale chiamata è evidente utilità nei casi di connessione particolarmente intensa, ossia qualora il convenuto affermi che il terzo è il vero titolare del diritto in contesa, il vero obbligato o responsabile (Tarzia 2002, 143). In quest'ultima situazione, per es., l'attore può essere interessato a chiamare in causa il terzo per evitare, rigettata la domanda in accoglimento dell'eccezione del convenuto che afferma di non essere il vero obbligato, di essere costretto ad instaurare un altro processo nei confronti del soggetto indicato quale vero obbligato dal convenuto, rischiando peraltro di ottenere un nuovo rigetto della propria domanda sull'assunto della responsabilità del primo convenuto (Luiso, 2015, 306 ss.). Diversamente, una volta chiamato in causa, il soggetto indicato dal convenuto quale vero obbligato sarà una parte a tutti gli effetti, con la conseguenza che la sentenza farà stato anche nei suoi confronti e potrà essere idonea ad accertare definitivamente chi è il vero obbligato.

Domanda nei confronti del terzo

Nell'ipotesi in cui un terzo sia stato chiamato in causa dal convenuto come soggetto effettivamente e direttamente obbligato alla prestazione pretesa dall'attore, la domanda di quest'ultimo si estende automaticamente ad esso senza necessità di una istanza espressa, costituendo oggetto necessario del processo, nell'ambito di un rapporto oggettivamente unico, l'individuazione del soggetto effettivamente obbligato, mentre analoga estensione non si verifica nel caso di chiamata del terzo in garanzia, stante l'autonomia sostanziale dei due rapporti, ancorché confluiti in un unico processo (Cass. n. 22050/2018; Cass. n. 6623/2016; Cass. n. 12317/2011).

In caso di chiamata in causa del terzo, questi assume, per effetto della stessa chiamata, la posizione di contraddittore nei confronti della domanda originaria solo se viene chiamato in causa quale soggetto effettivamente e direttamente obbligato (o, in caso di azione risarcitoria, quale unico responsabile del fatto dannoso) e non anche se viene chiamato in causa dal convenuto per esserne garantito: in quest'ultimo caso, se l'attore vuole proporre domanda anche nei confronti del terzo chiamato, deve formulare nei confronti dello stesso una espressa ed autonoma domanda, che può trovare fondamento in fatti anche diversi rispetto a quelli posti a base del rapporto di garanzia, avvalendosi della facoltà disciplinata dall'art. 183, comma 4 (Cass. n. 27525/2009  sostanzialmente nello stesso senso, da ultimo, Cass. n. 516/2020).

Nell'ipotesi in cui un convenuto chiami in causa un terzo per ottenere la declaratoria della sua esclusiva responsabilità e la propria liberazione dalla pretesa dell'attore, la causa è unica ed inscindibile, potendo la responsabilità dell'uno comportare l'esclusione di quella dell'altro, ovvero, nel caso di coesistenza di diverse, autonome responsabilità, ponendosi l'una come limite dell'altra, sicché si determina una situazione di litisconsorzio processuale che, pur ove non sia configurabile anche un litisconsorzio di carattere sostanziale, dà luogo alla formazione di un rapporto che, nel giudizio di gravame, soggiace alla disciplina propria delle cause inscindibili (Cass. n. 8486/2016). In sostanza, la chiamata in garanzia determina un litisconsorzio necessario processuale tra il terzo chiamato e le parti originarie, con conseguente inscindibilità delle cause ex art. 331 c.p.c., sicché l'attore che impugna la sentenza a sé sfavorevole è tenuto ad evocare nel giudizio di appello oltre che il responsabile anche il garante, e anche quando il chiamato non abbia contestato la fondatezza della domanda proposta dall'attore nei confronti del proprio chiamante e l'attore (appellante) non abbia proposto domande nei confronti del chiamato (Cass. n. 9013/2022; per la differente soluzione nell'ipotesi di garanzia impropria v., invece, Cass. n. 21366/2020).

Invero, in materia di procedimento civile, con la chiamata in causa del terzo quale unico responsabile si realizza un'ipotesi di dipendenza di cause, in quanto la decisione della controversia fra l'attore ed il convenuto, essendo alternativa rispetto a quella fra l'attore ed il terzo, si estende necessariamente a quest'ultima, sicché i diversi rapporti processuali diventano inscindibili, legati da un nesso di litisconsorzio necessario processuale ( per dipendenza di cause o litisconsorzio alternativo ) che, permanendo la contestazione in ordine all'individuazione dell'obbligato, non può essere sciolto neppure in sede d'impugnazione. (Cass. n. 4722/2018: nella specie la S.C. ha annullato la sentenza definitiva rilevando che la Corte di Appello, dopo avere estromesso con sentenza non definitiva la parte individuata dall'attore come l'unica passivamente legittimata, aveva proseguito il giudizio in assenza di quest'ultima, benchè la sentenza non definitiva fosse stata cassata).

Diversamente, nelle ipotesi di chiamata in garanzia,  non opera la regola della automatica estensione della domanda al terzo chiamato, atteso che la posizione assunta dal terzo nel giudizio non contrasta, ma anzi coesiste, con quella dell'originario convenuto.

In forza di tale principio, si ritiene ad esempio,  che qualora il convenuto in un giudizio di risarcimento dei danni, chiami in causa un terzo indicandolo come soggetto (cor)responsabile della pretesa fatta valere dall'attore e chieda di essere manlevato in caso di accoglimento della pretesa attorea, senza porre in dubbio la propria legittimazione passiva rispetto all'azione risarcitoria, salvo che l'attore danneggiato proponga nei confronti del chiamato, quale coobbligato solidale, una nuova autonoma domanda di condanna (cfr. Cass. n. 30601/2018: nella fattispecie, la S.C., in applicazione del principio di cui in massima, ha confermato la decisione di merito, che aveva considerato non operante la regola della automatica estensione al terzo chiamato della domanda risarcitoria principale relativamente ad un'ipotesi in cui l'Azienda Ospedaliera convenuta aveva chiamato in causa il proprio dipendente medico-chirurgo, limitandosi a svolgere nei suoi confronti domanda di rivalsa condizionata all'accoglimento della pretesa attorea e senza che l'attore avesse proposto in via autonoma una domanda di condanna nei confronti del chiamato).

Inoltre, si è di recente chiarito, che, in tema di responsabilità per rovina e gravi difetti dell'opera, poiché la responsabilità extracontrattuale di cui all'art. 1669 c.c. trova applicazione non solo a carico del costruttore, ma anche di coloro hanno collaborato nella realizzazione dell'opera, sia in fase di progettazione che in quella di direzione dell'esecuzione, sempre che la rovina o i difetti siano ricollegabili a fatto loro imputabile, la chiamata in causa del progettista e del direttore dei lavori da parte dell'appaltatore convenuto in giudizio per rispondere ai sensi dell'art. 1669 c.c. dell'esistenza di gravi difetti dell'opera, effettuata non solo a fini di garanzia, ma anche per rispondere della pretesa dell'attore, comporta che la domanda originaria, pur in mancanza di espressa istanza, si estende automaticamente al terzo, trattandosi di individuare il responsabile nel quadro di un rapporto oggettivamente unico (Cass. n. 29251/2024).

Casistica

Qualora il convenuto in un giudizio di risarcimento dei danni chiami in causa un terzo con il quale non sussiste alcun rapporto contrattuale, indicandolo come il vero legittimato passivo, non si versa in un'ipotesi di chiamata in garanzia impropria (o manleva), la quale presuppone la non contestazione della suddetta legittimazione, ma di chiamata del terzo responsabile, con conseguente estensione automatica della domanda al terzo, che il giudice può e deve esaminare senza necessità che l'attore ne faccia esplicita richiesta (Cass. n. 5580/2018).

Spese

Secondo l'orientamento assolutamente dominante in giurisprudenza, la lata accezione mediante la quale il termine è assunto nell'art. 91,il rimborso delle spese processuali sostenute dal terzo chiamato in garanzia dal convenuto deve essere posto a carico dell'attore, ove la chiamata in causa si sia resa necessaria in relazione alle tesi sostenute dall'attore stesso e queste siano risultate infondate, a nulla rilevando che l'attore non abbia proposto nei confronti del terzo alcuna domanda, mentre il rimborso rimane a carico della parte che abbia chiamato o abbia fatto chiamare in causa il terzo qualora l'iniziativa del chiamante si riveli palesemente arbitraria (v., tra le altre, Cass. n. 2492/2016, nonché Cass. n. 25541/2015, la quale ha precisato, in particolare, che le spese del giudizio sostenute dal terzo chiamato in garanzia, una volta che sia stata rigettata la domanda principale vanno poste a carico della parte che, rimasta soccombente, abbia provocato e giustificato la chiamata, trovando tale statuizione adeguata giustificazione nel principio di causalità che governa la regolamentazione delle spese di lite).

A riguardo si è di recente creato un contrasto nella giurisprudenza di legittimità.

Secondo una prima tesi, infatti, le spese processuali sostenute dal terzo chiamato in causa dal convenuto, che sia risultato totalmente vittorioso nella causa intentatagli dall'attore, sono legittimamente poste, in base al criterio della soccombenza, a carico del chiamante, la cui domanda di garanzia o di manleva sia stata giudicata infondata. La Corte ha precisato che la domanda di manleva, spiegata dal convenuto con la chiamata in causa di un terzo, non necessariamente deve essere valutata "manifestamente infondata" o "palesemente arbitraria" ai fini della condanna del chiamante al rimborso delle spese processuali sostenute dal chiamato (Cass. n. 4195/2018).

Per altra impostazione, invece, in forza del principio di causalità - che, unitamente a quello di soccombenza, regola il riparto delle spese di lite - il rimborso delle spese processuali sostenute dal terzo chiamato in garanzia dal convenuto deve essere posto a carico dell'attore qualora la chiamata in causa si sia resa necessaria in relazione alle tesi sostenute dall'attore stesso e queste siano risultate infondate, a nulla rilevando che l'attore non abbia proposto nei confronti del terzo alcuna domanda; il rimborso rimane, invece, a carico della parte che ha chiamato o fatto chiamare in causa il terzo qualora l'iniziativa del chiamante, rivelatasi manifestamente infondata o palesemente arbitraria, concreti un esercizio abusivo del diritto di difesa (Cass. n. 31889/2019).

In senso analogo, si è precisato, inoltre, che in sede di regolamentazione delle spese in caso di rinuncia agli atti del giudizio, il rimborso delle spese processuali sostenute dal terzo chiamato in garanzia dal convenuto deve essere posto a carico dell'attore rinunciante, ove la chiamata in causa si sia resa necessaria in relazione alle tesi sostenute dall'attore stesso, a nulla rilevando che l'attore non abbia proposto nei confronti del terzo alcuna domanda (Cass. n. 21933/2006).

È minoritaria, invece, la tesi affermata da una parte della giurisprudenza di merito per la quale sebbene non sia revocabile in dubbio che la domanda di autorizzazione a chiamare in causa le proprie compagnie di assicurazione sia stata proposta dal convenuto ed autorizzata dal Giudice come forma di difesa in ragione dell'azione nei suoi confronti dall'attore proposta, non si vede come la domanda di manleva non possa non costituire una sorta di difesa per cui l'accertata non fondatezza della domanda espone l'attore a tutte le forme di risarcimento connesse con la propria azione dimostratasi infondata, ivi compresa la forma di risarcimento del ristoro delle spese processuali sopportate per la difesa. Nell'ambito di dette spese processuali sopportate per la propria difesa dal convenuto rientrano di certo le spese per la chiamata in causa della compagnia di assicurazione, spese che è giusto addebitare all'autore della azione proposta e dimostratasi infondata o direttamente con pagamento dell'importo a favore del convenuto o indirettamente con il pagamento degli importi a favore degli enti assicurativi (App. Milano I, 13 maggio 2006, n. 1170, Giust. a Milano, 2006, n. 7, 51).

Tuttavia, sebbene sia dominante il già richiamato principio per il quale attesa la lata accezione con cui il termine “soccombenza” è assunto nell'art. 91, il rimborso delle spese processuali sostenute dal terzo chiamato in garanzia dal convenuto deve essere posto a carico dell'attore, ove la chiamata in causa si sia resa necessaria in relazione alle tesi sostenute dall'attore stesso e queste siano risultate infondate, a nulla rilevando che l'attore non abbia proposto nei confronti del terzo alcuna domanda, la S.C. ha evidenziato che il rimborso rimane a carico della parte che abbia chiamato o abbia fatto chiamare in causa il terzo qualora l'iniziativa del chiamante si riveli palesemente arbitraria (Cass. n. 12301/2005). Tale situazione si verifica, ad es., nell'ipotesi in cui il diritto dell'assicurato-convenuto nei confronti dell'assicuratore-terzo chiamato sia prescritto (Cass. n. 8363/2010).

Diversamente, se è accolta la domanda di garanzia proposta dal convenuto nei confronti di un terzo, il giudice non può limitarsi a condannare questi al pagamento di quanto dal primo dovuto all'attore anche per spese processuali, dovendo invece liquidare anche le spese occorse per la chiamata in causa (Cass. n. 8166/1997).

Per altro verso, è stato chiarito che ove il convenuto, chiamando in causa un terzo, domandi nei suoi confronti non solo l'estensione dell'accertamento del rapporto principale, ma anche l'accertamento dell'esistenza del rapporto di garanzia (chiamata in garanzia oggettivo-soggettiva), il valore della causa, ai fini della liquidazione delle spese a carico del soccombente, deve essere determinato secondo il valore dell'oggetto del contendere tra le parti principali, atteso che in tale ipotesi unico diventa l'accertamento richiesto al giudice nei confronti di tutte le parti e, per effetto di tale estensione oggettiva e soggettiva, si viene a creare un litisconsorzio necessario (Cass. n. 11742/2018).

In caso di rinuncia agli atti del giudizio, il rimborso delle spese processuali sostenute dal terzo chiamato in garanzia dal convenuto deve essere posto a carico dell'attore rinunciante, ove la chiamata in causa si sia resa necessaria in relazione alle tesi sostenute dall'attore stesso, a nulla rilevando che l'attore non abbia proposto nei confronti del terzo alcuna domanda, operando, al riguardo, il principio di causalità della lite, senza che il giudice debba compiere alcuna delibazione sulla soccombenza virtuale, né valutare se la domanda attorea si estendesse o meno al terzo, essendo a tal fine sufficiente soltanto stabilire se l'instaurazione del rapporto processuale fra il chiamante e il chiamato fosse giustificata dal contenuto della domanda proposta dall'attore verso il convenuto (Cass. n. 25781/2013).

Modalità processuali della chiamata in causa del terzo

L'art. 269, nel testo sostituito a seguito della riforma operata dalla l. n. 353/1990, dopo aver disposto, al comma 1, che alla chiamata del terzo ex art. 106 la parte provvede mediante citazione all'udienza fissata dal giudice istruttore nel rispetto dei termini di cui all'art. 163-bis, detta una disciplina diversa per il convenuto e per l'attore (Attardi, 109).

Più in particolare, il convenuto è tenuto a dichiarare la propria intenzione di chiamare in causa il terzo nella comparsa di risposta depositata, a pena di decadenza, entro venti giorni dalla data fissata per la prima udienza ed a chiedere contestualmente al giudice di differire lo svolgimento di una tale udienza in modo che il terzo possa essere citato in giudizio nel rispetto dei termini di cui all'art. 163-bis. Si ritiene comunemente che il giudice non abbia alcun potere discrezionale in ordine alla decisione di chiamare in causa il terzo e, pertanto, che non possa negare la stessa (Capponi (- Vaccarella - Cecchella), 136).

Non si può trascurare a riguardo che la stessa Corte Costituzionale (Corte cost., n. 80/1997), investita della questine di legittimità costituzionale dell'art. 269,  comma 2, nella parte in cui non prevede, diversamente da quanto previsto per l'attore, la necessità di alcuna autorizzazione per la chiamata in causa ad istanza del convenuto, ha ritenuto infondata la questione prospettata dinanzi a sé, chiarendo che l'insindacabile facoltà per il convenuto di estendere l'ambito soggettivo del processo si riconnette alla circostanza che l'attore per primo ha la facoltà di convenire in giudizio qualunque soggetto, senza limitazioni di sorta, di talché le parti sarebbero in una condizione di perfetta parità.

Maggiori dubbi sono state manifestati con riferimento alla sussistenza della possibilità per il convenuto, qualora sia nei termini di cui all'art. 163-bis, di citare direttamente il terzo in giudizio, senza effettuare l'apposita istanza al giudice. In realtà ci sembra che una tale possibilità, pur nel silenzio del legislatore sul punto, possa sussistere, in quanto discende direttamente dalla richiamata premessa, cioè a dire dall'assenza di un potere discrezionale del giudice rispetto alla tempestiva decisione del convenuto di chiamare in causa un terzo (Capponi (-Vaccarella - Cecchella), 136).

Peraltro, a riguardo non può trascurarsi che nella più recente giurisprudenza di legittimità è stato posto in dubbio che il giudice sia sempre tenuto a differire la prima udienza ove il convenuto richieda di chiamare un terzo e ciò in virtù del principio di ragionevole durata del processo. In ogni caso, si è evidenziato anche da ultimo, poi il provvedimento del giudice di merito che concede o nega l'autorizzazione a chiamare in causa un terzo ai sensi dell'art. 106 c.p.c., coinvolge valutazioni assolutamente discrezionali che, come tali, non possono formare oggetto di appello e di ricorso per cassazione(Cass. II, n. 2331/2022).

L'attore può invece chiamare in causa un terzo soltanto ove una tale esigenza sia sorta in virtù delle difese spiegate dal convenuto (in tal senso v. anche, in sede di merito, Trib. Roma 15 novembre 1996, Banca borsa tit. cred., 1998, II, 197, secondo la quale la disciplina processuale introdotta dalla riforma, operata dalla l. n. 353/1990, agli artt. 183, comma 4, e 269, comma 3, preclude all'attore la possibilità di chiamare in causa un terzo a meno che la necessità della chiamata non scaturisca dalle difese del convenuto oppure si tratti di litisconsorzio necessario).

A ciò consegue, come evidenziato in dottrina, che in questo caso la chiamata in causa deve essere autorizzata dal giudice, il quale dovrà valutare la sussistenza dei presupposti di cui all'art. 106, nonché del «nesso genetico» tra l'interesse dell'attore alla chiamata del terzo e le difese svolte dal convenuto (Balena, 248). A tal proposito si è sottolineato che tale nesso sussiste nell'ipotesi in cui l'esigenza di chiamare in causa il terzo si ricolleghi ad una circostanza dedotta dal convenuto a fondamento di una sua eccezione nei confronti dell'attore, di talché non sarà sufficiente che si tratti di una circostanza cui pure il convenuto faccia riferimento nella comparsa di risposta, ma priva di rilievo, in sé, per l'accoglimento o il rigetto della domanda dello stesso attore (v., con varie esemplificazioni, Attardi, 109). Tale nesso genetico (Tarzia, 143) può derivare, innanzitutto, da una contestazione della propria legittimazione passiva da parte del convenuto ovvero della titolarità del diritto fatto valere in giudizio in capo allo stesso attore. Infine dalle difese del convenuto potrebbe sorgere l'interesse dell'attore a proporre una domanda in garanzia.

Proprio l'istanza di chiamata in causa del terzo proveniente dall'attore, regolata dai commi 3 e 5 dell'art. 269, è quella che ha determinato maggiori problemi interpretativi a seguito della riforma realizzata dalla l. n. 353/1990, della c.d. controriforma di cui alla l. n. 534/1995, nonché dopo la novella di cui alla l. n. 80/2005. Sul punto occorre evidenziare che, soprattutto dopo la c.d. controriforma del 1995, si è sviluppato un dibattito avente ad oggetto il termine ultimo entro il quale l'attore può domandare al giudice di essere autorizzato a chiamare in causa il terzo (cfr. Marelli, 334).

Infatti, ai sensi dell'art. 269, comma 3, l'attore deve, a pena di decadenza, chiedere al g.i. l'autorizzazione a chiamare in causa un terzo entro la «prima udienza». La norma, nonostante la necessaria distinzione tra udienza di prima comparizione ed udienza di trattazione introdotta dalla controriforma del 1995, non è mai stata modificata. Secondo una posizione rigorosa, nel nuovo sistema l'attore sarebbe stato tenuto a chiedere l'autorizzazione in questione entro l'udienza di prima comparizione (Cass., n. 6092/2000).

Si è posta tuttavia l'esigenza di un'interpretazione non letterale della locuzione «prima udienza» di cui al comma 3 dell'art. 183 in quanto il convenuto potrebbe, avvalendosi della facoltà concessa dall'art. 171, costituirsi direttamente in udienza o, comunque, spiegare solo alla prima udienza del difese dalle quali deriva l'interesse dell'attore a chiamare in causa il terzo (Balena, 249).

Pertanto, in sede applicativa, si è ritenuto che l'udienza oltre la quale l'attore decade dal potere di chiamare in causa il terzo è in ogni caso la prima udienza di trattazione e non quella di prima comparizione (cfr. Trib. Terni 29 novembre 1999, in Foro it., 2002, I, 642,Giur. it., 2001, 1879, con nota di Socci).

In dottrina si è pertanto affermato, in una prospettiva più elastica che prescinde dalla lettera del comma 3 dell'art. 269, che l'attore potrebbe chiedere al giudice l'autorizzazione a chiamare in causa un terzo in tutte le ipotesi in cui una tale esigenza derivi dalle difese non precluse spiegate dal convenuto (v., tra gli altri, Capponi, 138). Si è, d'altra parte, acutamente sottolineato che ai medesimi risultati di un'interpretazione non assoluta della locuzione in esame si perverrebbe applicando la rimessione in termini (Balena, 248). Una diversa interpretazione porterebbe invero alla contraddizione di consentire alle preclusioni di «strangolare» il processo nonché a quella di ritenere una parte decaduta dall'esercizio di un certo potere processuale prima che lo stesso sia sorto (Luiso, 238-239).

È tuttavia necessario coordinare il comma 3 dell'art. 269 con la riforma delle preclusioni del processo di cognizione ordinario in primo grado operata dalla l. n. 80/2005, di conversione del c.d. decretone competitività. Infatti in un ritorno, almeno sotto tale aspetto, a quello che era il sistema delineato originariamente dalla l. n. 353/1990, è stata eliminata la distinzione tra udienza di prima comparizione ed udienza di trattazione, dovuta alla c.d. controriforma del 1995, mossa dalla volontà di tutelare maggiormente la posizione del convenuto. Il che fa venir meno qualsivoglia dubbio in ordine alla «prima udienza» nella quale, stando alla lettera del comma 3 dell'art. 269, l'attore deve, a pena di decadenza, chiedere al g.i. l'autorizzazione a chiamare in causa il terzo, ma non risolve il maggior problema che, come si è detto, è posto da una tale disposizione, cioè a dire quello legato alla paradossale situazione che si determina ogni qual volta l'interesse dell'attore alla partecipazione del terzo al processo sorge successivamente poiché il convenuto si difende in un certo senso soltanto in un dato momento. Probabilmente l'unica soluzione offerta dall'ordinamento in simili casi, posta l'evidente iniquità del sistema, è quella della rimessione in termini (Balena, 248).

Sempre con riferimento all'intervento su istanza dell'attore, occorre considerare anche il quinto comma dell'art. 269, disposizione che cerca di risolvere i problemi derivanti, in questo caso, dallo «sdoppiamento» della prima udienza per alcuni dei soggetti che partecipano al giudizio (Marelli, 336). La norma è stata modificata dall'art. 2, n. 1, lett. p, l. 28 dicembre 2005, n. 263, al fine di un necessario coordinamento con la riforma avente ad oggetto gli artt. 180, 183 e 184 realizzata dalla l. n. 80/2005 e «corretta» dalla stessa l. n. 263/2005. Tale modifica si riconnette all'esigenza di coordinare il testo della suddetta disposizione con la più generale riforma in tema di preclusioni e, nella specie, con l'attuale necessità di chiedere i termini per le istanze istruttorie sin dall'udienza ex art. 183 e non più alla successiva udienza di cui all'art. 184. Nella prima parte la disposizione chiarisce che «per le parti originarie restano ferme le preclusioni ricollegate alla prima udienza di trattazione». Ne deriva, pertanto, che la chiamata in causa del terzo non costituisce un motivo di remissione in termini per le attività già precluse nel rapporto tra le parti originarie (Tarzia, 148).

Tale assunto è stato oggetto di una vivace critica già in sede di primo commento alla novella realizzata dalla l. n. 353/1990. Si era a riguardo evidenziata, infatti, la sussistenza di una palese incongruità del sistema complessivo (Capponi (-Vaccarella - Cecchella), 139) poiché, nell'ipotesi di chiamata in causa ad istanza del convenuto, scattano per le parti costituite meramente le preclusioni riconnesse al deposito degli atti introduttivi, mentre nel caso di chiamata ad opera dell'attore restano, per l'appunto, ferme per le stesse le preclusioni maturate sino a quel momento. Ciò potrebbe implicare che all'atto della costituzione in giudizio del terzo i «giochi» sono già irrimediabilmente chiusi per le parti originarie.

Si era, poi, affermato, sulla base delle suddette considerazioni, che il descritto sistema, per evitare censure di incostituzionalità ai sensi degli artt. 3 e 24 Cost., avrebbe dovuto funzionare nel modo seguente: a prescindere dalla lettera della norma si sarebbe dovuto invero ritenere il giudice obbligato, a seguito dell'autorizzazione alla chiamata in causa del terzo ad opera dell'attore, a rinviare la prima udienza, con salvezza delle posizioni delle parti costituite ovvero almeno privo di discrezionalità quanto alla concessione, nella fattispecie, dei termini c.d. eventuali di cui all'art. 183 (Capponi (-Vaccarella - Cecchella), 140). Una limitata possibilità per le parti originarie di replicare alle affermazioni del terzo è comunque riconosciuta poiché all'udienza di comparizione del terzo le parti possono chiedere al giudice istruttore la concessione dei termini eventuali dell'odierno comma 6 dell'art. 183.

Proprio alla luce di tale possibilità può essere percorribile anche de jure condito la seconda strada (Capponi (-Vaccarella - Cecchella), 140) in ipotesi idonea ad evitare l'incostituzionalità del sistema delineato dall'art. 269, i.e. quella tesa a negare una discrezionalità del giudice nella concessione dei termini eventuali di cui all'art. 183, comma 6, all'udienza di comparizione del terzo. Né una siffatta conclusione, alla luce del concreto enjeu, potrebbe essere posta in dubbio da quella dottrina che, in sede di primo commento alle modifiche apportate al sistema delle preclusioni dalla l. n. 80/2005, ha sostenuto, con riguardo più generale alla c.d. appendice scritta dell'udienza di trattazione, che il giudice potrebbe negare la concessione dei relativi termini, al fine di garantire la ragionevole durata del processo, almeno ove ravvisi che non sussistano le esigenze alla base delle richieste di precisazione e modificazione delle domande e delle eccezioni.

In effetti nella fattispecie in discussione si ritiene che senza dubbio sussistono tali esigenze anche perché occorre tenere presente che la ragionevole durata del processo, seppur assurta secondo la medesima Corte Costituzionale a criterio-guida per l'interpretazione delle disposizioni che regolano lo svolgimento del processo, non può portare ad un totale misconoscimento del diritto di difesa (cfr. Corte cost. n. 78/2002).

Chiamata in causa del terzo nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo

Il dibattito in ordine alle modalità mediante le quali l'opponente a decreto ingiuntivo può chiamare in causa i terzi nell'ambito del giudizio ordinario di cognizione instaurato con la proposizione dell'opposizione è da sempre oggetto di un vivace dibattito.

Le differenti posizioni emerse sulla questione si correlano principalmente all'assunto per il quale, nel procedimento promosso con la proposizione dell'opposizione a decreto ingiuntivo si realizza un'inversione formale della posizione sostanziale delle parti poiché l'opponente, pur formalmente attore, è in realtà, quanto all'onere della prova, sostanzialmente convenuto, dal momento che ha l'onere di dimostrare l'infondatezza della pretesa creditoria dell'opposto deducendo l'esistenza di fatti impeditivi, modificativi ed estintivi rispetto ad essa. Ciò comporta, con riguardo alla posizione dell'opposto che, quest'ultimo, sebbene sia formalmente convenuto, abbia in concreto l'onere di dimostrare la sussistenza dei fatti costitutivi del diritto affermato con l'instaurazione del procedimento monitorio (v., tra le molte, Cass. n. 13086/2007).

Il problema è, in particolare, se i richiamati principi, consolidati con riguardo al riparto dell'onere della prova ai sensi dell'art. 2697 c.c. tra le parti del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, trovino applicazione anche in ordine all'esercizio dei poteri processuali delle stesse ed alle relative preclusioni. Più specificamente, si tratta di valutare quali siano le modalità mediante le quali è possibile per l'opponente chiamare in causa terzi cui ritiene il giudizio comune o dai quali, come sovente avviene nella prassi, pretende di essere garantito. Infatti differenti sono le previsioni a tal fine dettate rispettivamente dal secondo e dal terzo comma dell'art. 269, a seconda che l'opponente venga in questo caso equiparato al convenuto ovvero all'attore, poiché soltanto per quest'ultimo è necessario che la chiamata venga autorizzata dal giudice sulla scorta di un nesso genetico tra le difese spiegate dal convenuto e l'esigenza di effettuare la chiamata del terzo.

Sul punto, nella giurisprudenza di legittimità, Cass. n. 8718/2000, ha affermato il principio (successivamente ribadito da Cass. n. 1185/2003, Giust. civ., 2003, I, 2399, con nota di Santangeli) per il quale in tema di procedimento per ingiunzione, per effetto dell' opposizione non si verifica alcuna inversione della posizione sostanziale delle parti nel giudizio contenzioso, nel senso che il creditore mantiene la veste di attore, l'opponente quella di convenuto, ciò che esplica i suoi effetti non solo nell'ambito dell'onere della prova, ma anche in ordine ai poteri ed alle preclusioni di ordine processuale rispettivamente previsti per ciascuna delle due parti. Ne consegue, secondo la S.C., che il disposto dell'art. 269, che disciplina le modalità della chiamata  di terzo in causa , non si concilia con il procedimento instaurato tramite l'opposizione  al decreto, dovendo in ogni caso l'opponente citare unicamente il soggetto che ha ottenuto detto provvedimento, non potendo le parti originariamente essere altri che il soggetto istante per l'ingiunzione di pagamento ed il soggetto nei cui confronti la domanda è diretta, così che l'opponente (cui è altresì preclusa, nella qualità di convenuto sostanziale, la facoltà di chiedere lo spostamento dell'udienza, nonché quella di notificare l' opposizione  a soggetto diverso dal creditore procedente in ingiunzione) deve necessariamente chiedere al giudice, con lo stesso atto di opposizione, l'autorizzazione a chiamare in giudizio il terzo al quale ritiene comune la causa  sulla base dell'esposizione dei fatti e delle considerazioni giuridiche contenute nel ricorso per decreto ingiuntivo.

L'impostazione suffragata nella giurisprudenza di legittimità è stata condivisa soltanto da una parte della giurisprudenza di merito la quale, in sostanza, ritiene inapplicabile il disposto dell'art. 269 anche all'opposizione a decreto ingiuntivo in quanto l'opponente, pur sostanzialmente convenuto, è comunque tenuto a chiedere al giudice, a pena di decadenza nell'atto di opposizione, l'autorizzazione a chiamare in causa un terzo perché non si potrebbe direttamente estendere il giudizio nei confronti di un soggetto il quale non ha partecipato alla pregressa fase monitoria (nei medesimi termini, ex ceteris, App. Roma II, 10 gennaio 2008, Guida dir., 2008, n. 17, 68; Trib. Mantova 14 febbraio 2005, Giur. mer., 2006, n. 2, 351; Trib. Napoli 13 ottobre 2004, Giur. mer., 2005, n. 4, 811; App. Milano  22 dicembre 2004, Giur. mer., 2006, n. 2, 352 Trib.  Locri 29 ottobre 2001, Giur. mer., 2002, 71).

In accordo con un diverso orientamento, invece, nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo, l'attore-opponente, rivestendo la posizione di attore in senso formale e di convenuto in senso sostanziale, qualora intenda chiamare in causa un soggetto diverso dal ricorrente in fase monitoria e convenuto-opposto, deve farlo, a pena di decadenza, citandolo direttamente per la prima udienza insieme al convenuto-opposto, nel rispetto dei termini per comparire, senza necessità di alcuna autorizzazione da parte del giudice, non essendovi alcuna norma che vieti all'opponente di evocare nel giudizio, quali convenuti in senso formale, soggetti diversi ed ulteriori rispetto alla parte che ha richiesto ed ottenuto l'ingiunzione, salvo il caso in cui l'interesse dell'attore-opponente alla chiamata in causa sia sorto a seguito delle difese svolte dal convenuto-opposto nella comparsa di risposta. In tale prospettiva Trib. Reggio Calabria II, 22 gennaio 2005, ha osservato che nel giudizio di opposizione  a decreto  ingiuntivo  l' opponente può chiamare direttamente il terzo per la stessa udienza fissata in citazione senza dover chiedere il differimento dell'udienza o l'autorizzazione alla chiamata  del terzo, non ricorrendo a suo carico la necessità che sta a fondamento della previsione dell'art. 269, comma secondo, c.p.c., e non essendo ipotizzabile un interesse dell'opponente a chiamare in causa  un terzo che scaturisca dalle difese contenute nella comparsa di costituzione e risposta dell'opposto.

Conformandosi all'orientamento per il quale l'opponente a decreto ingiuntivo, nella propria qualità di convenuto in senso sostanziale, non è tenuto a chiedere l'autorizzazione al giudice per poter chiamare un terzo in causa, Trib. Milano 16 febbraio 2006, Giur. mer., 2006, n. 10, 2177, ha criticato in motivazione la contraria posizione suffragata anche in sede di legittimità, evidenziando che tale orientamento sembra giungere ad una conclusione, circa le modalità di chiamata in giudizio del terzo da parte dell'opponente, sostanzialmente e processualmente convenuta, non in linea con le sue stesse premesse poiché l'orientamento della Corte di Cassazione parte dalla premessa che la parte opponente ha i poteri processuali propri del convenuto essendo stata proposta domanda giudiziale nei suoi confronti con il deposito del ricorso per ingiunzione che costituisce atto di esercizio dell'azione, ma perviene alla contraddittoria. conclusione secondo cui per chiamare in causa il terzo l'opponente (convenuto sostanziale e processuale) deve chiedere l'autorizzazione al giudice. Osserva Trib. Milano 16 febbraio 2006, cit., che, in realtà, l'art. 269 comma 2 prevede che il convenuto possa sempre, purché si costituisca tempestivamente, chiamare in causa il terzo, senza la necessità di alcuna autorizzazione del giudice ma solo con la richiesta dello spostamento della data della prima udienza al fine di poter, nei termini di legge per la comparizione, notificare al terzo l'atto di citazione, talché il giudice adito non ha alcun potere discrezionale, sul presupposto della sua tempestiva costituzione in giudizio, sulla chiamata del terzo da parte del convenuto, attività che rientra insindacabilmente nei poteri di questa parte che si sia costituita nei termini.

Diversamente, nell'ipotesi in cui l'iniziativa sia dell'attore, il giudice valuta e, se la ritiene fondata e/o opportuna, concede a tale parte l'autorizzazione alla chiamata in causa del terzo (ex art. 269 comma 3). La diversità dei poteri del giudice rispetto all'iniziativa della chiamata in giudizio del terzo dell'attore e del convenuto emerge dalla lettera dell'art. 269 che prevede, con riferimento al convenuto che intende chiamare in giudizio il terzo, la presentazione dell'istanza al giudice per lo spostamento della data della prima udienza e, con riferimento all'attore, la presentazione della richiesta al giudice di autorizzazione alla chiamata del terzo; la lettera della norma evidenzia in tal modo le diverse facoltà delle parti circa la chiamata in causa di un terzo e i diversi poteri del giudice: il convenuto può se si costituisce nei termini chiamare il terzo senza bisogno di autorizzazione alcuna; l'attore invece deve essere autorizzato dal giudice che a ciò provvede verificata la sussistenza dei presupposti di cui all'art. 183, comma 4 e 269 comma 3. In questo sistema e data la premessa della Corte di legittimità, secondo Trib. Milano 16 febbraio 2006, cit., l'opponente/convenuto deve procedere con le stesse modalità previste dall'art. 269 comma 2 per la chiamata in giudizio del terzo — con atto di citazione nei termini di cui all'art. 163-bis — e, quindi, con lo stesso atto di opposizione omettendo la sola formalità della richiesta di differimento della data della prima udienza che nel meccanismo di inizio del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo (su iniziativa del medesimo opponente/convenuto con atto di citazione a udienza fissa) non ha alcun senso e necessità in quanto è lo stesso opponente che fissa, quando crede, nell'atto di citazione la data dell'udienza (conf. Trib. Milano 28 novembre 2002, Giur. mer., 2003, 1412).

Maggiore coesione sussiste in giurisprudenza anche con riferimento alla distinta questione delle modalità processuali per la chiamata in causa dei terzi ad istanza dell'opposto, attore in senso sostanziale, nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo. Consolidato è invero l'orientamento, in virtù del quale la qualità di attore in senso sostanziale dell'opposto implica che la chiamata del terzo da parte dell'opposto deve essere formulata entro la prima udienza di trattazione, ai sensi degli artt. 183 e 269 e deve intendersi subordinata, altresì, alla valutazione discrezionale da parte del giudice istruttore prevista dall'art. 183 comma quarto, dovendo il giudice verificare che l'esigenza dell'estensione del contraddittorio al terzo sia derivata effettivamente dalle difese dell'opponente (convenuto in senso sostanziale). La richiesta dell'opposto deve essere esaminata in prima udienza, nel contraddittorio delle parti e risultare dipendente dalle difese dell'opponente e sia oggetto di valutazione discrezionale del giudice (cfr., tra le altre, Trib. Trani 27 aprile 2005, giurisprudenzabarese.it, 2005; Trib. Torino 29 marzo 2005; Trib. Verona 19 aprile 2003, Giur. mer., 2003, 2375, con nota di Menichelli).

Casistica

Il terzo chiamato in garanzia impropria, come è legittimato a svolgere le sue difese per contrastare non solo la domanda di manleva, ma anche quella proposta dall'attore principale, così può autonomamente impugnare le statuizioni della sentenza di primo grado relative al rapporto principale, sia pure al solo fine di sottrarsi agli effetti riflessi che la decisione spiega sul rapporto di garanzia (Cass. n. 33422/2019).

Nel caso di chiamata in garanzia, l'impugnazione del terzo chiamato avente per oggetto il rapporto principale giova anche al soggetto garantito, senza necessità di una sua impugnazione incidentale, dovendosi ravvisare un'ipotesi di litisconsorzio necessario processuale non solo se il convenuto abbia scelto di estendere nei confronti del terzo chiamato l'efficacia soggettiva dell'accertamento relativo al rapporto principale, ma anche quando abbia chiesto, nell'effettuare la chiamata, l'accertamento dell'esistenza del rapporto di garanzia e l'attribuzione della relativa prestazione. (Cass. n. 21098/2017, la quale, in applicazione del principio, ha cassato la sentenza impugnata, che aveva ritenuto coperta dal giudicato la condanna di un Comune al risarcimento del danno subìto dal conducente di un ciclomotore per effetto della caduta causata dal manto dissestato di una strada, in quanto tale ente non aveva proposto appello incidentale a seguito dell'appello principale spiegato della ditta appaltatrice, chiamata in garanzia; in proposito, la S.C. ha osservato che la Corte territoriale, la quale aveva accolto l'impugnazione principale proposta dalla terza chiamata, avrebbe dovuto estendere i relativi effetti anche nei confronti dell'amministrazione comunale, senza necessità di alcuna impugnazione incidentale).

Nell'ipotesi di chiamata in causa effettuata dall'attore nei confronti del soggetto indicato dal convenuto quale unico responsabile, qualora in sede di gravame venga dichiarata l'improcedibilità della chiamata del terzo, così riformando la sentenza di primo grado che aveva accertato la sua responsabilità, correlativamente escludendo quella dell'originario convenuto, quest'ultimo, ai fini della condanna alle spese processuali, si deve ritenere soccombente nei confronti del terzo se, costituendosi nel giudizio di appello, abbia chiesto la conferma della sentenza impugnata. (Cass. n. 28354/2017: nella specie, relativa ad una causa di risarcimento danni da infiltrazioni di acqua nell'appartamento dell'attore - conclusasi in primo grado con la condanna del terzo chiamato in causa dall'attore e, in secondo grado, con la declaratoria di improcedibilità della chiamata - la S.C. ha confermato la condanna alle spese di tutti gli appellati in solido, e fra essi anche dell'originario convenuto, pur non essendo stata accolta la domanda attorea nei suoi riguardi e non avendo egli effettuato la chiamata in causa, atteso che anch'egli aveva chiesto la conferma della sentenza impugnata dal terzo chiamato, risultando così soccombente come tutti gli altri appellati).

In caso di chiamata di terzo in garanzia, la rinuncia agli atti proposta in grado di appello dal garantito, condannato in primo grado, ed accettata dal danneggiato, non determina l'estinzione del giudizio ed il conseguente passaggio in giudicato della statuizione sul rapporto principale, ove non sia accettata dal garante, atteso che, nell'unico rapporto di impugnazione, la causa principale e quella di garanzia sono in nesso di inscindibilità, avendo la chiamata in causa determinato l'estensione al garante della legittimazione a contraddire sulla domanda principale, che continua a sussistere fino a quando sia in discussione il presupposto della domanda di garanzia (Cass. II, n. 27977/2022).

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