Codice di Procedura Civile art. 112 - Corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato.InquadramentoIl principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato comporta il divieto per il giudice di attribuire alla parte un bene non richiesto o comunque di emettere una statuizione che non trovi corrispondenza nella domanda di merito (Verde, 1989, 5). Il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.) non impedisce al giudice di ricostruire i fatti in maniera autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti, ovvero di darne una differente qualificazione giuridica, né di applicare una norma giuridica diversa da quella invocata dall'istante; esso implica, piuttosto, il divieto per il giudice di attribuire alla parte un bene della vita diverso da quello richiesto (petitum mediato) e non compreso nemmeno virtualmente nella domanda, ed il divieto di porre a base della decisione una diversa causa petendi, ossia elementi di fatto che non siano ritualmente dedotti o comunque acquisiti al processo come oggetto del contraddittorio (Cass. II, n. 11289/2018). In giurisprudenza è stato pertanto più volte affermato che tale principio deve ritenersi violato ogni qual volta il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri uno degli elementi obiettivi di identificazione dell'azione, attribuendo o negando ad alcuno dei contendenti un bene diverso da quello richiesto e non compreso, nemmeno implicitamente o virtualmente, nella domanda, ovvero, pur mantenendosi nell'ambito del petitum, rilevi d'ufficio un'eccezione in senso stretto che, essendo volta ad impugnare il diritto fatto valere in giudizio dall'attore, può essere sollevata soltanto dall'interessato, oppure ponga a fondamento della decisione fatti e situazioni estranei alla materia del contendere, introducendo nel processo un titolo (causa petendi) nuovo e diverso da quello enunciato dalla parte a sostegno della domanda (Cass., n. 7269/2015; Cass. n. 11455/2004). Peraltro, la domanda vincola il giudice con limitato riguardo ai fatti posti a fondamento dello stesso e non anche con riferimento alle norme invocate (Satta, I, 431; Verde, 1989, 5). La violazione della norma in esame, comunque sia, non comporta una nullità insanabile della stessa, ma sono denunciabili solo con gli ordinari mezzi di impugnazione (Cass. n. 26196/2011). Il rapporto tra le istanze delle parti e la pronuncia del giudice, agli effetti dell'art. 112, può dare luogo a due diversi tipi di vizi: se il giudice omette del tutto di pronunciarsi su una domanda od un'eccezione, ricorrerà un vizio di nullità della sentenza per error in procedendo, censurabile in sede di legittimità ai sensi dell' art. 360, n. 4, mentre se il giudice si pronuncia sulla domanda o sull'eccezione, ma senza prendere in esame una o più delle questioni giuridiche sottoposte al suo esame nell'ambito di quella domanda o di quell'eccezione, ricorrerà un vizio di motivazione, censurabile in cassazione ai sensi dell'art. 360, n. 5. L'erronea sussunzione nell'uno piuttosto che nell'altro motivo di ricorso del vizio che il ricorrente intende far valere in sede di legittimità, comporta l'inammissibilità del ricorso (Cass. n. 24422/2019). Profili generaliIl principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato comporta il divieto per il giudice di attribuire alla parte un bene non richiesto o comunque di emettere una statuizione che non trovi corrispondenza nella domanda di merito (Verde, 1989, 5). Il principio in esame, anche definito di disponibilità dell’oggetto del processo, si fonda su quelli, di carattere più generale, della domanda e del contraddittorio (Consolo, 44 ss.; Grasso, in Comm. Allorio, 1973, 1255; Liebman, 552; Oriani, 1 ss.). Tale vizio, pertanto, riguarda soltanto l'ambito oggettivo della pronuncia, e non anche le ragioni di diritto e di fatto assunte a sostegno della decisione (Cass. II, n. 1616/2021). In giurisprudenza è stato pertanto più volte affermato che tale principio deve ritenersi violato ogni qual volta il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri uno degli elementi obiettivi di identificazione dell'azione, attribuendo o negando ad alcuno dei contendenti un bene diverso da quello richiesto e non compreso, nemmeno implicitamente o virtualmente, nella domanda, ovvero, pur mantenendosi nell'ambito del petitum, rilevi d'ufficio un'eccezione in senso stretto che, essendo volta ad impugnare il diritto fatto valere in giudizio dall'attore, può essere sollevata soltanto dall'interessato, oppure ponga a fondamento della decisione fatti e situazioni estranei alla materia del contendere, introducendo nel processo un titolo (causa petendi) nuovo e diverso da quello enunciato dalla parte a sostegno della domanda, mentre non osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione dei fatti autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti, nonché in base all'applicazione di una norma giuridica diversa da quella invocata dall'istante (Cass. n. 11455/2004). Resta peraltro fermo il potere del giudice di ricostruire e qualificare giuridicamente i fatti in modo autonomo, anche applicando una norma giuridica diversa da quella invocata dalla parte e di applicare una norma giuridica diversa da quella indicata dall'istante (Cass. n. 6533/2024; Cass. n. 2909/2016; Cass. n. 6757/2011). Invero, la regola della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato deve leggersi in coordinamento con il principio iura novit curia, secondo il quale spetta al giudice il potere-dovere di conoscere e determinare le norme applicabili nella fattispecie senza vincoli o limitazioni scaturenti dalle indicazioni delle parti, fermo il rispetto dei fatti posti a fondamento della domanda (Cass. n. 10847/1991). Peraltro, tale lettura coordinata del principio "iura novit curia", di cui all'art. 113, comma 1, c.p.c. e del divieto di ultra o extra-petizione, sancito dalla norma in esame, è violato quando il giudice pronunzia oltre i limiti della domanda e delle eccezioni proposte dalle parti, ovvero su questioni non formanti oggetto del giudizio e non rilevabili d'ufficio, attribuendo un bene non richiesto o diverso da quello domandato, restando, in particolare, preclusa al giudice la decisione basata non già sulla diversa qualificazione giuridica del rapporto, ma su diversi elementi materiali che inverano il fatto costitutivo della pretesa (cfr. Cass. n. 12943/2012, che ha confermato la sentenza impugnata, la quale aveva ritenuto che la domanda dell'attore, in quanto basata esclusivamente sulla disciplina di cui alle l. n. 230/1962 e l. n. 56/1987, e sulle disposizioni contrattuali introdotte dall'autonomia collettiva, non potesse essere esaminata, alla stregua della disciplina, applicabile "ratione temporis" alla fattispecie, di cui all'art. 1 d.lgs. n. 368/2001, attesa la notevole diversità fra le medesime, implicante non una questione di mera qualificazione giuridica, ma la valutazione di una diversa "causa petendi"). In sostanza, la corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, che vincola il giudice ex art. 112 c.p.c., riguarda il "petitum" che va determinato con riferimento a quello che viene domandato nel contraddittorio sia in via principale che in via subordinata, in relazione al bene della vita che l'attore intende conseguire, ed alle eccezioni che, in proposito, siano state sollevate dal convenuto, ma non concerne le ipotesi nelle quali il giudice, espressamente o implicitamente, dia al rapporto controverso o ai fatti che siano stati allegati quali "causa petendi" dell'esperita azione, una qualificazione giuridica diversa da quella prospettata dalle parti (Cass., n. 11289/2018). Come osservato anche in dottrina, infatti, la domanda vincola il giudice con limitato riguardo ai fatti posti a fondamento dello stesso e non anche con riferimento alle norme invocate (Satta, I, 431; Verde, 1989, 5). Non sussiste, inoltre, violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato qualora il giudice abbia enunciato semplici considerazioni incidentali, come tali prive di contenuto decisionale e valenza vincolante, su questioni non sollevate dalle parti e non necessarie all'economia del decisum e che pertanto non integrano un capo di decisione e non sono suscettibili di formare cosa giudicata in quanto ogni affermazione eccedente la necessità logico-giuridica della decisione deve considerarsi un obiter dictum (Cons. St. V, n. 175/2013). Pertanto, ai fini del rispetto del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, il giudice, nell'esaminare le varie questioni prospettate dalle parti, è tenuto a dare priorità solo a quelle che, per loro natura e contenuto - come le pregiudiziali e le preliminari - meritano logica e giuridica precedenza mentre, negli altri casi, seppure l'opportunità di loro coordinamento logico può suggerire una considerazione prioritaria di talune questioni rispetto ad altre ed un particolare ordine di gradualità logica può apparire utile o apprezzabile, è tuttavia da escludere che il rispetto di un qualsiasi ordine prestabilito costituisca una condizione di legittimità della decisione, la quale può affrontare le varie questioni secondo la distribuzione ritenuta più opportuna. (Cass. n. 17909/2018, fattispecie nella quale la Corte ha escluso che i giudici di appello, nell'affrontare la questione della regolarità della notifica dell'atto di citazione in prime cure anteriormente a quella del rispetto dei termini a comparire, fossero incorsi in ultrapetizione, nonostante la prima questione fosse stata proposta subordinatamente alla seconda). La violazione della norma in esame, comunque sia, non comporta una nullità insanabile della decisione emanata, essendo i vizi conseguenti denunciabili solo con gli ordinari mezzi di impugnazione (Cass. n. 26196/2011). Incorre nella violazione del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato il giudice di appello che esamini una questione non espressamente prospettata nei motivi di impugnazione (Cass. n. 26305/2017). Tuttavia, il giudice ha l'obbligo di rilevare d'ufficio l'esistenza di una norma di legge idonea ad escludere, alla stregua delle circostanze di fatto già allegate ed acquisite agli atti di causa, il diritto vantato dalla parte, e ciò anche in grado di appello, senza che su tale obbligo possa esplicare rilievo la circostanza che, in primo grado, le questioni controverse abbiano investito altri e diversi profili di possibile infondatezza della pretesa in contestazione e che la statuizione conclusiva di detto grado si sia limitata solo a tali diversi profili, atteso che la disciplina legale inerente al fatto giuridico costitutivo del diritto è di per sé sottoposta al giudice di grado superiore, senza che vi ostino i limiti dell'effetto devolutivo dell'appello (Cass. n. 11287/2018). È peraltro inammissibile il ricorso per cassazione in cui sia denunciata puramente e semplicemente la “violazione o falsa applicazione di norme di diritto” ai sensi dell'art. 112 c.p.c., senza alcun riferimento alle conseguenze che l'errore (sulla legge) processuale comporta, vale a dire alla nullità della sentenza e/o del procedimento, essendosi il ricorrente limitato ad argomentare solo sulla violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (Cass. VI, n. 19124/2015). E' stato inoltre precisato che, ai fini della condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c, integra un'ipotesi di impiego pretestuoso e strumentale - e quindi di abuso - del diritto di impugnazione, l'aver prospettato, quale unico motivo di ricorso per cassazione, la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunziato con riferimento al mero accoglimento parziale di una domanda. (Cass. n. 15017/2016, la quale, in applicazione del principio ha disposto la condanna al pagamento di somma equitativamente determinata a carico del ricorrente in cassazione che aveva impugnato, per asserita violazione dell'art. 112, la pronuncia del giudice di merito - resa ai sensi dell'art. 549, nel testo anteriore alle modifiche apportate dall'art. 1, comma 20, l. n. 228/2012 - di accertamento dell'esistenza dell'obbligo del terzo per un importo inferiore al credito azionato, ravvisando in tale comportamento un semplice tentativo di procrastinare la pendenza del giudizio di accertamento e della correlata sospensione del processo di espropriazione di crediti intentato dalla creditrice). Casistica Qualora la parte vittoriosa di un procedimento a carattere contenzioso abbia chiesto la compensazione delle spese, la condanna del soccombente al relativo pagamento si pone in contrasto con l'art. 112 c.p.c. poiché tale statuizione, nonostante abbia carattere consequenziale ed accessorio e, quindi, debba essere emessa dal giudice pure in assenza di espressa istanza dell'interessato, può essere oggetto di rinunzia (Cass. n. 15326/2018). Nel giudizio di appello, come in quello di primo grado, la comparsa conclusionale di cui all'art. 190 c.p.c. ha la sola funzione di illustrare le domande e le eccezioni già ritualmente proposte, sicché, ove con tale atto sia prospettata per la prima volta una questione nuova, il giudice del gravame non può, e non deve, pronunciarsi al riguardo, senza, con ciò, incorrere nella violazione dell'art. 112 c.p.c. (Cass. I, n. 20232/2022). Nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo avente ad oggetto il pagamento di prestazioni professionali, ogni contestazione, anche generica, in ordine all'espletamento e alla consistenza dell'attività, è idonea e sufficiente ad investire il giudice del potere-dovere di verificare anche il quantum debeatur senza incorrere nella violazione dell'art. 112 (Cass. n. 230/2016). Non sussiste violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato allorché il giudice, qualificando giuridicamente in modo diverso rispetto alla prospettazione della parte i fatti da questa posti a fondamento della domanda, le attribuisca un bene della vita omogeneo, ma ridimensionato, rispetto a quello richiesto, sicché, proposta azione di risoluzione per inadempimento di contratto preliminare e di conseguente condanna del promittente venditore alla restituzione del doppio della caparra ricevuta, non pronunzia ultra petita il giudice che accerti la nullità del contratto e condanni il promittente venditore alla restituzione della caparra stessa, producendo, del resto, la risoluzione e la nullità effetti diversi quanto alle obbligazioni risarcitorie, ma identici quanto agli obblighi restitutori delle prestazioni (Cass. II, n. 19502/2015). La modificazione, da parte del giudice di appello, della qualificazione giuridica della domanda operata dal primo giudice è illegittima – per violazione del giudicato interno formatosi in ragione dell'omessa impugnazione sul punto della parte interessata – solo se detta qualificazione abbia condizionato l'impostazione e la definizione dell'indagine di merito, sicché è consentita la riqualificazione in termini di ripetizione di indebito, exart. 2033 c.c., della domanda originariamente qualificata come azione di ingiustificato arricchimento, ai sensi dell'art. 2041 c.c., quando i fatti dedotti in giudizio dalle parti siano rimasti pacificamente acclarati e non modificati (Cass. n. 14077/2018). In tema di risarcimento del danno da circolazione stradale quando la parte agisce invocando la corresponsabilità della convenuta mediante richiamo generico all'art. 2054 c.c., il giudice non è vincolato nel potere di qualificazione giuridica dei fatti costitutivi della pretesa azionata, potendo sussumerli nella fattispecie di cui al comma 1 della citata norma, in luogo di quella di cui al comma 2 della stessa, ove le condotte prospettate siano astrattamente compatibili con essa. (Cass. n. 13757/2018: nella specie, la S.C. ha annullato la sentenza di merito che aveva rigettato la domanda per assenza dei presupposti di applicabilità dell'art. 2054, comma 2, c.c., omettendo indebitamente di sussumere i fatti nella diversa ipotesi di cui al comma 1 di detto articolo, avendo l'attrice allegato che la convenuta, tenendo una condotta contraria alle regole del codice della strada, l'aveva indotta a collidere con una autovettura parcheggiata, danneggiando la propria). In tema di qualificazione giuridica dei fatti oggetto di controversia, quando la parte agisce prospettando condotte astrattamente compatibili con la fattispecie prevista dall'art. 2051 c.c., la loro riconduzione, operata dal giudice di primo grado, all'art. 2043 c.c., non vincola il giudice d'appello nel potere di riqualificazione giuridica dei fatti costitutivi della pretesa azionata (Cass. n. 11805/2016). Non viola il principio dispositivo della prescrizione ex art. 2938 c.c., né quello della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato la decisione che accolga l'eccezione di prescrizione ordinaria sulla base di una ragione giuridica diversa da quella prospettata dalla parte che l'ha formulata (Cass. n. 1149/2020). Nel giudizio di appello e in quello di cassazione, il giudice - in caso di mancata rilevazione officiosa, in primo grado, di una nullità contrattuale - ha sempre il potere di procedere a siffatto rilievo, anche quando si tratta di "nullità di protezione", da configurarsi come species del più ampio genus delle nullità negoziali, poste a tutela di interessi e valori fondamentali che trascendono quelli del singolo contraente (Cass. I, n. 20170/2022). Non sussiste violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato qualora, relativamente ad una domanda di condanna all'esecuzione dei lavori di ripristino del soffitto di un appartamento sito all'ultimo piano dell'edificio in condominio, fondata sulla lesione del diritto di proprietà configurata in concreto da pregiudizi cagionati al soffitto dall'umidità, il giudice, a seguito degli accertamenti compiuti dal consulente tecnico, alle precisazioni ed alle istanze formulate dalle parti in corso di causa, pronunzi la condanna all'esecuzione dei lavori necessari per eliminare l'umidità determinata non dalle infiltrazioni di acqua provenienti dal solaio di copertura, ma dalla condensa connessa al difettoso isolamento termico del solaio (Cass. n. 16252/2017). Non sussiste violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato allorché il giudice, a fronte di una richiesta di restituzione del doppio della caparra indebitamente cumulata con una domanda di risoluzione per inadempimento di un preliminare e conseguente risarcimento del danno, condanni la parte inadempiente alla restituzione di detta caparra, trattandosi del riconoscimento di un bene della vita omogeneo, seppure ridimensionato, rispetto a quanto "ab initio" richiesto e non sussistendo più alcun titolo della controparte a trattenere la somma versata. (cfr. Cass. VI, n. 11012/2018, la quale ha annullato la sentenza impugnata che, dopo avere correttamente escluso il diritto dell'attore, vittorioso sulla domanda di risoluzione, ad ottenere il versamento del doppio della caparra, aveva condannato la controparte al rimborso del prezzo pagato, omettendo di disporre anche la restituzione della caparra confirmatoria). Nel giudizio avente ad oggetto la richiesta di disporre il rilascio di un immobile per finita locazione, il giudice può rilevare la nullità del contratto, in quanto avente ad oggetto un alloggio di edilizia residenziale pubblica e stipulato in violazione dell'art. 26, comma 5, l. n. 513/1977, ma, al tempo stesso, attribuire all'attore il bene della vita domandato, sul rilievo della carenza di un titolo giustificativo del godimento dello stesso da parte del convenuto, atteso che il principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato non osta alla attribuzione all'attore del bene reclamato per ragioni giuridiche diverse da quelle dallo stesso prospettate (Cass. III, n. 21930/2015). In caso di domanda di risoluzione per inadempimento, che non sia stata modificata nel rispetto del regime delle preclusioni processuali, il giudice non può pronunciare la risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta, pena la violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (Cass. III, n. 6866/2018). Non sussiste violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato allorché il giudice, qualificando giuridicamente in modo diverso rispetto alla prospettazione della parte i fatti da questa posti a fondamento della domanda, le attribuisca un bene della vita omogeneo, ma ridimensionato, rispetto a quello richiesto, sicché, proposte reciproche domande di risoluzione per inadempimento contrattuale, non pronunzia "ultra petita" il giudice che dichiari risolto il contratto per impossibilità sopravvenuta di esecuzione derivante dalle scelte risolutorie di entrambe le parti ex art. 1453, comma 2, c.c., ancorché le due contrapposte manifestazioni di volontà non configurino un mutuo consenso negoziale risolutorio (Cass. III, n. 6675/2018). In tema di responsabilità sanitaria, qualora sia proposta una domanda risarcitoria nei confronti di una struttura ospedaliera e di un suo ausiliario allegando la colpa esclusiva di quest'ultimo, il giudice non è rigidamente vincolato alle iniziali prospettazioni dell'attore, stante la inesigibilità della individuazione "ex ante" di specifici elementi tecnico-scientifici, di norma acquisibili solo all'esito dell'istruttoria e dell'espletamento di una c.t.u., potendo pertanto accogliere la domanda nei confronti della struttura in base al concreto riscontro di profili di responsabilità diversi da quelli in origine ipotizzati, senza violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (Cass. III, n. 6850/2018). Appare invece controverso, nell'ambito della stessa giurisprudenza di legittimità, se possa darsi una riqualificazione della domanda di risarcimento del danno da occupazione usurpativa in quella di risarcimento da occupazione appropriativa. Le fattispecie dell ' occupazione appropriativa e dell'occupazione usurpativa si configurano, rispettivamente, nel caso di irreversibile trasformazione del fondo in assenza del decreto di esproprio, e nell'ipotesi di trasformazione in mancanza, originaria o sopravvenuta, della dichiarazione di pubblica utilità. Secondo un primo orientamento, nel caso di proposizione dell'azione di risarcimento del danno in conseguenza di occupazione usurpativa è ammissibile la riqualificazione della domanda, anche da parte del giudice, come relativa ad una occupazione appropriativa, in quanto entrambe fonte di responsabilità risarcitoria della P.A. secondo i principi di cui all'art. 2043 c.c. (Cass. n. 12846/2018). Diversamente, per altra tesi, nel giudizio risarcitorio conseguente all'occupazione illegittima di un suolo, le domande con cui si alleghino un'ipotesi di occupazione appropriativa ed una di occupazione usurpativa - caratterizzate, rispettivamente, dall'irreversibile trasformazione del bene in assenza del decreto di esproprio e dalla trasformazione dello stesso in carenza, originaria o sopravvenuta, della dichiarazione di pubblica utilità - sono tra loro differenti, per diversità di "causa petendi", sicché è inammissibile, in corso di causa, la modifica della prima nella seconda, quest'ultima comportando, attraverso la prospettazione di nuove circostanze e situazioni giuridiche, il mutamento dei fatti costitutivi del diritto originariamente azionato, introducendo nel processo un distinto tema di indagine e di decisione che altera l'oggetto sostanziale dell'azione ed i termini della controversia ( Cass. n. 13515/2014). Interpretazione della domandaAl giudice di merito è riservato il potere di interpretare la domanda al fine di accertare gli scopi pratici di colui il quale agisce in giudizio (Verde, 1989, 9). Nell’ambito di tale attività, il fatto deve essere individuato in base a criteri giuridici e non puramente materiali, identificandosi con il titolo della pretesa azionata (in quanto tale ricomprendente tutto ciò che è comunque relativo, strumentale o accessorio alla prestazione dedotta in giudizio come derivante da uno specifico contratto: Cass. n. 24656/2024). Il giudice di merito, nell'indagine diretta all'individuazione del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, non è tenuto ad uniformarsi al tenore meramente letterale degli atti nei quali le domande medesime risultino contenute, dovendo, per converso, aver riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante (Cass. n. 21087/2015; Cass. n. 23794/2011). In tale prospettiva è stato ad esempio affermato che ai fini di una corretta interpretazione della domanda, il giudice di primo grado è tenuto ad interpretare le conclusioni contenute nell'atto di citazione, alle quali si è riportato l'attore in sede di precisazione delle conclusioni, tenendo conto della volontà della parte quale emergente non solo dalla formulazione letterale delle conclusioni assunte nella citazione, ma anche dall'intero complesso dell'atto che le contiene, considerando la sostanza della pretesa, così come è stata costantemente percepita dalle parti nel corso del giudizio di primo grado, tenendo conto non solo delle deduzioni e delle conclusioni inizialmente tratte nell'atto introduttivo, ma anche della condotta processuale delle parti, nonché delle precisazioni e specificazioni intervenute in corso di causa (Cass. n. 18653/2004). Nell'indicata prospettiva, va collocato l'assunto secondo cui il giudice di merito, pertanto, deve tenere conto dei limiti oggettivi della domanda, quali risultano non soltanto dal contenuto dell'atto introduttivo del giudizio, ma anche dalle conclusioni definitive precisate dopo la chiusura dell'istruzione, poste in relazione con la citazione e con le eventuali modifiche e trasformazioni delle conclusioni originarie, mentre non può desumere il concreto contenuto della domanda giudiziale dalla comparsa conclusionale la quale, ai sensi dell'art. 190, ha un carattere meramente illustrativo delle conclusioni già fissate davanti all'istruttore (Cass. n. 5402/2019). In generale, ai fini della interpretazione della domanda giudiziale non sono utilizzabili i criteri di interpretazione del contratto dettati dall'art. 1362 ss. c.c., in quanto non esiste una comune intenzione delle parti da individuare, e può darsi rilevo alla soggettiva intenzione della parte attrice solo nei limiti in cui essa sia stata esplicitata in modo tale da consentire al convenuto di cogliere l'effettivo contenuto della domanda formulata nei suoi confronti, per poter svolgere una effettiva difesa. L'interpretazione della domanda si risolve in un giudizio di fatto riservato al giudice di merito, sindacabile in cassazione solo sotto il profilo del vizio di motivazione e non per violazione di legge (Cass. n. 4754/2004). L'interpretazione delle richieste formulate con l'atto di intervento nel processo esecutivo, analogamente a quelle formulate con la domanda giudiziale alla quale l'intervento può ricondursi, è demandata al giudice di merito, il cui giudizio si risolve in un accertamento di fatto, che deve riguardare l'intero contesto dell'atto, senza che ne risulti alterato il senso letterale e tenendo conto della sua formulazione testuale nonché del suo contenuto sostanziale, in relazione alle finalità che la parte intenda perseguire (Cass. III, n. 9011/2015, la quale, in applicazione del principio, ha confermato l'interpretazione del giudice dell'esecuzione che aveva ritenuto il richiamo all'atto di intervento operato dal sostituto d'udienza del difensore del creditore interveniente in sede di distribuzione come liberamente operato alla sola sorte del credito e non esteso anche agli interessi nel tasso ivi espressamente indicato). È peraltro consolidato l'assunto per il quale l'interpretazione della domanda giudiziale costituisce operazione riservata al giudice del merito, il cui giudizio, risolvendosi in un accertamento di fatto, non è censurabile in sede di legittimità quando sia motivato in maniera congrua ed adeguata avuto riguardo all'intero contesto dell'atto e senza che ne risulti alterato il senso letterale, tenuto conto, in tale operazione, della formulazione testuale dell'atto nonché del contenuto sostanziale della pretesa in relazione alle finalità che la parte intende perseguire, elemento rispetto al quale non assume valore condizionante la formula adottata dalla parte medesima (Cass. n. 22893/2008). Non costituisce domanda nuova, ai sensi dell'art. 345, la prospettazione, in appello, di una qualificazione giuridica del contratto oggetto del giudizio diversa da quella effettuata dalla parte in primo grado, ove basata sui medesimi fatti (Cass. n. 4384/2016). Peraltro, il potere-dovere del giudice di qualificazione della domanda nei gradi successivi al primo va coordinato con i principi propri del sistema delle impugnazioni, sicché deve ritenersi precluso al giudice dell'appello mutare d'ufficio — violando il principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunziato — la qualificazione ritenuta dal primo giudice in mancanza di gravame sul punto ed in presenza, quindi, del giudicato formatosi su tale qualificazione (Cass. II, n. 24028/2004; Cass. II, n. 15589/2002). In sostanza, il potere dovere del giudice di merito di interpretazione della domanda e di qualificazione giuridica dei rapporti dedotti in giudizio incontra, anche in appello, il limite nell'oggetto della contestazione, nel cui ambito la decisione deve essere mantenuta affinché sia rispettato il principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato di cui all'art. 112 (Cass. II, n. 16561/2013). In ogni caso, la domanda di restituzione delle somme pagate in esecuzione di una pronuncia di condanna caducata è proponibile in separato giudizio e al relativo accoglimento non osta l'erronea qualificazione giuridica della stessa operata dall'attore, competendo al giudice il potere-dovere di effettuare autonomamente tale qualificazione nei limiti dei fatti dedotti, né potendosi configurare un giudicato ostativo in ordine alla qualificazione operata dal primo giudice, ove non consti che essa abbia condizionato l'impostazione e la definizione dell'indagine di merito (Cass. VI, n. 27943/2022). Casistica Non viola il principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato il giudice che, nell'esercizio del potere di interpretazione della domanda, senza mutare gli elementi obiettivi fissati dall'attore, dispone la cessazione della turbativa anziché la reintegrazione del possesso, poiché la mera turbativa costituisce un minus rispetto allo spoglio e nella domanda di reintegrazione nel possesso è ricompresa o implicita quella di manutenzione dello stesso (Cass. II, n. 19586/2016; Cass. II, n. 7480/2015). La domanda proposta dall'erede per la riduzione di donazione lesiva di legittima si estende — attesa l'unicità dell'azione exartt. 554 e 555 c.c. — alla disposizione testamentaria prodotta in corso di causa e prima ignota all'attore, ove dal tenore della domanda risulti che questi vuole comunque conseguire la quota di riserva (Cass. II, n. 24251/2015). Qualora il lavoratore, impugnato il licenziamento, agisca in giudizio deducendo il difetto di giusta causa o giustificato motivo, l'eventuale motivo discriminatorio o ritorsivo, pur ricavabile da circostanze di fatto allegate, integra un ulteriore, e non già compreso, motivo di illegittimità del recesso, come tale non rilevabile d'ufficio dal giudice e neppure configurabile come mera diversa qualificazione giuridica della domanda (Cass. lav., n. 13673/2015). Qualora l'appaltatore, in corso d'opera, chieda la risoluzione del contratto per inadempimento del committente ed il “pagamento del prezzo” dei lavori già eseguiti, la sentenza del giudice del merito, la quale, riconosciuta la fondatezza della prima domanda, accolga anche la seconda, pur rilevandone l'impropria formulazione in termini di versamento del corrispettivo, anziché, secondo i principi della risoluzione del contratto ad esecuzione continuata o periodica, in termini di restitutio in integrum a mezzo di equivalente pecuniario, non incorre in violazione della norma in esame, trattandosi di mera qualificazione giuridica della domanda, fermi restando i fatti dedotti a suo fondamento (Cass. II, n. 13405/2015). Incorre nella violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato il giudice che, accogliendo l'appello avverso sentenza provvisoriamente esecutiva, ometta di ordinare la restituzione di quanto corrisposto in forza della decisione riformata, pur essendo stata ritualmente introdotta con l'atto di impugnazione la relativa domanda restitutoria, non potendosi utilizzare la riforma della pronuncia di primo grado, agli effetti di quanto previsto dall'art. 474, nonché dall'art. 389 per le domande conseguenti alla cassazione, come condanna implicita. (Cass. n. 8639/2016, la quale, in applicazione di tale principio, ha cassato la pronuncia impugnata che, avendo ridotto la condanna della parte convenuta al risarcimento dei danni, aveva omesso di ridurre proporzionalmente anche la condanna in manleva emessa in primo grado nei confronti della società assicuratrice della responsabilità civile, nonostante l'esplicita richiesta di quest'ultima). La domanda di rendimento del conto include la domanda di condanna al pagamento delle somme che risultano dovute, in quanto il rendiconto, ai sensi degli artt. 263, comma 2, e 264, comma 3, c.p.c., è finalizzato proprio all'emissione di titoli di pagamento; ne consegue che non viola l'art. 112 c.p.c. il giudice che, pur senza un'espressa domanda al riguardo, condanni chi rende il conto alla corresponsione delle somme dovute (Cass. VI, n. 14324/2022). Vizio di omessa pronunciaIl vizio di omessa pronuncia sussiste quando manchi, rispetto ad una domanda o eccezione della parte, un'espressa statuizione del giudice, nonché il provvedimento indispensabile per la risoluzione della controversia. Pertanto, anche in sede di giudizio di legittimità il vizio di omessa pronuncia ai sensi dell'art. 112 c.p.c. può essere dedotto anche in relazione ad un'eccezione, alla duplice condizione che essa risulti formulata inequivocabilmente, in modo da rendere necessaria una pronuncia su di essa e che sia stata riportata nel ricorso per cassazione nei suoi esatti termini con l'indicazione specifica dell'atto difensivo o del verbale di udienza in cui era stata proposta (Cass. n. 3845/2018). Ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un'espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto. Di conseguenza, il vizio di omessa pronuncia, da farsi valere a norma dell'art. 360, comma 1, n.4, c.p.c. per violazione dell'art. 112 c.p.c., deve sostanziarsi nella totale carenza di considerazione della domanda e dell'eccezione sottoposta all'esame del giudice, il quale manchi completamente di adottare un qualsiasi provvedimento, anche solo implicito di accoglimento o di rigetto, invece indispensabile per la soluzione del caso concreto, mentre il vizio di omessa motivazione presuppone, dopo la riformulazione dell'art.360, comma 1, n.5, c.p.c., che un esame della questione oggetto di doglianza vi sia stato, ma sia affetto dalla totale pretermissione di uno specifico fatto storico oppure si sia tradotto nella mancanza assoluta di motivazione, nella motivazione apparente, nella motivazione perplessa o incomprensibile o nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili (Cass. n. 27551/2024). Nell'indicata prospettiva, è stato puntualizzato che, tuttavia, la mancata statuizione, nel dispositivo della sentenza, in ordine ad un determinato capo della domanda configura il vizio di omessa pronuncia riguardo a quel capo, denunciabile ai sensi dell'art. 112 c.p.c., non potendo la esistenza della relativa decisione desumersi da affermazioni contenute nella sola motivazione (Cass. n. 272/2024). Il vizio di omessa pronuncia non è prospettabile in relazione a domande diverse da quelle di merito. Il mancato esame da parte del giudice, sollecitatone dalla parte, di una questione puramente processuale — infatti — non può dare luogo al vizio di omessa pronunzia, il quale è configurabile con riferimento alle sole domande di merito e non può assurgere a causa autonoma di nullità della sentenza, potendo profilarsi al riguardo una nullità (propria o derivata) della decisione, per la violazione di norme diverse dall'art. 112, in quanto sia errata la soluzione implicitamente data dal giudice alla questione sollevata dalla parte (Cass. II, n. 1876/1218;Cass. III, n. 21424/2014). Invero, l'omesso esame di una questione puramente processuale non integra il vizio di omessa pronuncia, configurabile soltanto con riferimento alle domande ed eccezioni di merito, dovendosi escludere che l'omesso esame di un'eccezione processuale possa dare luogo a pronuncia implicita, idonea al giudicato, venendo in rilievo la diversa questione della riproposizione dell'eccezione in appello (Cass. n. 6174/2018). Il vizio di omessa pronuncia che determina la nullità della sentenza per violazione dell'art. 112, si configura esclusivamente con riferimento a domande, eccezioni o assunti che richiedano una statuizione di accoglimento o di rigetto, e non anche in relazione ad istanze istruttorie per le quali l'omissione è denunciabile soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione (Cass. S.U., n. 15982/2001). Il dovere del giudice di pronunciare su tutta la domanda, ai sensi dell'art. 112, va riferito all'istanza con la quale la parte chiede l'emissione di un provvedimento giurisdizionale in merito al diritto sostanziale dedotto in giudizio, sicché non è configurabile un vizio di infrapetizione per l'omessa adozione, da parte del giudice, di un provvedimento di carattere ordinatorio, come quello relativo alla sospensione necessaria del giudizio ex art. 295 c.p.c. (Cass. n. 4120/2016). In caso di omessa pronuncia da parte del giudice di primo grado su un punto della domanda, l'appellante, ai fini della specificità del motivo di gravame, deve soltanto reiterare la richiesta non esaminata in prime cure, stante l'assenza di qualsivoglia motivazione sulla quale costruire la doglianza; tale soluzione, consentendo al giudice di appello di decidere sulla domanda non considerata in primo grado, risponde anche ad esigenze di economia e concentrazione processuale, posto che, ove venisse invece dichiarata l'inammissibilità dell'impugnazione (per difetto di specificità), la parte conserverebbe la facoltà di riproporre la domanda dichiarata inammissibile in un separato giudizio (Cass. n. 4388/2016). L'omessa pronuncia su alcuni dei motivi di appello - così come l'omessa pronuncia su domanda, eccezione o istanza ritualmente introdotta in giudizio - risolvendosi nella violazione della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, integra un difetto di attività del giudice di secondo grado, che deve essere fatto valere dal ricorrente non con la denuncia della violazione di una norma di diritto sostanziale ex art. 360, n.3, c.p.c., o del vizio di motivazione ex art. 360, n.5, c.p.c., in quanto siffatte censure presuppongono che il giudice del merito abbia preso in esame la questione oggetto di doglianza e l'abbia risolta in modo giuridicamente non corretto ovvero senza giustificare (o non giustificando adeguatamente) la decisione al riguardo resa, ma attraverso la specifica deduzione del relativo error in procedendo - ovverosia della violazione dell'art. 112 c.p.c., in relazione all'art. 360, n.4, c.p.c. - la quale soltanto consente alla parte di chiedere e al giudice di legittimità - in tal caso giudice anche del fatto processuale - di effettuare l'esame, altrimenti precluso, degli atti del giudizio di merito e, così, anche dell'atto di appello; pertanto, alla mancata deduzione del vizio nei termini indicati, evidenziando il difetto di identificazione del preteso errore del giudice del merito e impedendo il riscontro ex actis dell'assunta omissione, consegue l'inammissibilità del motivo (Cass. lav., n. 29952/2022). Peraltro, è stato precisato che qualora il vizio di omessa pronuncia sia erroneamente denunciato ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. e non in virtù del n. 4 della medesima disposizione normativa, il motivo proposto non è inammissibile, ove prospetti con chiarezza la questione dell'omessa pronuncia quale specifico vizio processuale della sentenza impugnata (Cass. n. 16170/2018). Tuttavia, in sede di legittimità occorre tenere distinta l'ipotesi in cui si lamenti l'omesso esame di una domanda, o la pronuncia su una domanda non proposta, dal caso in cui si censuri l'interpretazione data dal giudice di merito alla domanda stessa, poiché solo nel primo caso si verte propriamente in tema di violazione dell'art. 112, per mancanza della necessaria corrispondenza tra chiesto e pronunciato, prospettandosi che il giudice di merito sia incorso in un error in procedendo, in relazione al quale la Corte di cassazione ha il potere-dovere di procedere all'esame diretto degli atti giudiziari, onde acquisire gli elementi di giudizio necessari ai fini delle pronuncia richiestale; nel caso in cui venga invece in considerazione l'interpretazione del contenuto o dell'ampiezza della domanda, tali attività integrano un accertamento in fatto, tipicamente rimesso al giudice di merito, insindacabile in cassazione salvo che sotto il profilo della correttezza della motivazione della decisione impugnata sul punto (Cass. III, n. 3349/2010; Cass. II, n. 12259/2002). Casistica delle ipotesi nelle quali ricorre L'aver deciso la lite solo nei confronti di alcune parti in giudizio, trascurando la posizione di altre, integra il vizio di omessa pronuncia, che, in quanto incidente sulla sentenza pronunziata dal giudice, è deducibile con ricorso per cassazione, risolvendosi nella violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (Cass. n. 8266/1997). L'assorbimento "proprio" postula che la decisione della domanda assorbita divenga superflua per effetto della decisione sulla domanda assorbente, con conseguente sopravvenuta carenza di interesse all'esame della domanda rimasta assorbita; l'assorbimento "improprio" presuppone che la decisione assorbente escluda la necessità o la possibilità di provvedere sulle altre questioni, ovvero comporta un implicito rigetto della domanda formulata e dichiarata assorbita. Quale che sia la forma di assorbimento, la relativa declaratoria implica la specifica indicazione, da parte del giudice, dei presupposti in fatto e in diritto che la legittimano sicché, ove ciò non avvenga, si è in presenza di una omissione di pronuncia, comportante la nullità della decisione sul punto (Cass. n. 26507/2023). Il vizio di omessa pronuncia da parte del giudice d'appello è configurabile allorché manchi completamente l'esame di una censura mossa al giudice di primo grado, mentre non ricorre nel caso in cui il giudice d'appello fondi la decisione su una costruzione logico-giuridica incompatibile con la domanda (Cass. n. 452/2015). Incorre nel vizio di omessa pronuncia la sentenza emessa dal giudice di rinvio che non decida sulla questione espressamente dichiarata assorbita dalla sentenza di cassazione, allorquando tale questione sia stata riproposta al suo esame (Cass. n. 10493/2004). Il giudice, anche d'impugnazione, che ometta di pronunciarsi anche d'ufficio sulla possibilità che un licenziamento intimato per giusta causa possa essere qualificato in termini di licenziamento per giustificato motivo soggettivo, incorre nella censura di omessa pronuncia ex art. 112 (Cass. lav., n. 21/2016). Casistica delle ipotesi nelle quali non ricorre Non è configurabile il vizio di omesso esame di una questione (connessa ad una prospettata tesi difensiva) o di un'eccezione di nullità (ritualmente sollevata o sollevabile d'ufficio), quando debba ritenersi che tali questioni od eccezioni siano state esaminate e decise implicitamente (Cass. n. 7406/2014). Non è configurabile il vizio di omessa pronuncia (art. 112) quando una domanda non espressamente esaminata debba ritenersi rigettata — sia pure con pronuncia implicita — in quanto indissolubilmente avvinta ad altra domanda che ne costituisce il presupposto e il necessario antecedente logico-giuridico, che sia stata decisa e rigettata dal giudice (Cass. n. 17580/2014). L'omessa pronuncia, quale vizio della sentenza, può essere utilmente prospettata solo con riguardo alla mancanza di una decisione da parte del giudice in ordine ad una domanda che, ritualmente e incondizionatamente proposta, richiede una pronuncia di accoglimento o di rigetto. Tale vizio deve essere pertanto escluso in relazione a una questione esplicitamente o anche implicitamente assorbita in altre statuizioni della sentenza e che è, quindi, suscettibile di riesame nella successiva fase del giudizio, se riprospettata con specifica censura (Cass. n. 1360/2016; Cass. n. 3417/2015; v., in termini analoghi, più di recente, Cass. n. 28995/2018). In generale, invero, il vizio di omessa pronuncia causativo della nullità della sentenza per violazione dell''art. 112 non si configura allorquando il giudice di merito non abbia considerato i fatti secondari dedotti dalla parte, non concernenti, cioè, alcun fatto estintivo, modificativo od impeditivo della fattispecie costitutiva del diritto fatto valere: in tal caso, è integrato il diverso vizio di cui all'art. 360, n. 5 nella misura in cui il giudice abbia omesso la considerazione di fatti rilevanti ai fini della ricostruzione della "quaestio facti" in funzione dell'esatta qualificazione e sussunzione "in iure" della fattispecie (Cass. n. 22799/2017). Non è configurabile il vizio di omessa pronuncia in relazione ad una domanda che il giudice di appello non sia tenuto a prendere in esame in quanto proposta in violazione del divieto di nuove domande, sancito dagli artt. 345, comma 1, e 437, comma 2 (Cass. n. 16033/2004). Il mancato esame da parte del giudice di una questione puramente processuale non è suscettibile di dare luogo ad un vizio di omissione di pronuncia, che si configura esclusivamente nel caso di mancato esame di domande od eccezioni di merito, potendo profilarsi, invece, al riguardo, un vizio della decisione per violazione di norme diverse dall'art. 112 se, ed in quanto, si riveli erronea e censurabile, oltre che utilmente censurata, la soluzione implicitamente data da detto giudice alla problematica prospettata dalla parte (Cass. n. 321/2016 ). In sostanza, il vizio di omessa pronunzia è configurabile solo nel caso di mancato esame di questioni di merito, e non anche di eccezioni pregiudiziali di rito. (Cass. n. 25154/2018, in una fattispecie relativa al mancato esame, da parte della sentenza impugnata, di una eccezione di inammissibilità dell'intervento del terzo per asserita "errata costituzione" di quest'ultimo). Il vizio di omessa pronuncia che determina la nullità della sentenza per violazione dell'art. 112, rilevante ai fini di cui all'art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., si configura esclusivamente con riferimento a domande attinenti al merito e non anche in relazione ad istanze istruttorie per le quali l'omissione è denunciabile soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione (Cass. VI, n. 13716/2016). Nel caso di declinatoria parziale di giurisdizione pronunciata dal giudice ordinario a fronte di una domanda risarcitoria, non incorre nel vizio di omessa pronuncia il giudice di appello che, riformando la decisione in ragione della sussistenza della giurisdizione su tutta la controversia, rimetta quest'ultima al giudice di prime cure onde consentirne una cognizione unitaria (Cass. n. 20965/2016). La richiesta di rinvio alla Corte di giustizia su una questione pregiudiziale di interpretazione del diritto dell'Unione Europea, non è configurabile come autonoma domanda, rispetto alla quale, nel caso di omessa specifica pronuncia, possa farsi questione del rispetto del principio di cui all'art. 112, ponendo tale richiesta una questione di diritto preliminare alla decisione sulla domanda di merito proposta dalla parte (Cass. n. 5842/2010). La mancata decisione sulla richiesta di attribuzione di quote (nella specie, della divisione ereditaria formulata da due coeredi) indirizzata al consulente tecnico d'ufficio, non configura il vizio di omessa pronunzia exart. 112, trattandosi di domanda implicante l'attribuzione di un bene della vita, da rivolgere direttamente al giudice e non all'ausiliario, che può essere destinatario solo di istanze relative allo svolgimento di particolari accertamenti o specifiche indagini (Cass. II, n. 17519/2016). Vizio di ultrapetizioneIl potere-dovere del giudice di qualificare giuridicamente l'azione e di attribuire il nomen iuris al rapporto giuridico sostanziale dedotto in giudizio, anche in difformità rispetto alle deduzioni delle parti, trova un limite — la cui violazione determina il vizio di ultrapetizione — nel divieto di sostituire l'azione proposta con una diversa, perché fondata su fatti diversi o su una diversa causa petendi, con la conseguente introduzione di un diverso titolo accanto a quello posto a fondamento della domanda, e di un nuovo tema di indagine (Cass. n. 29200/2018; Cass. III, n. 18868/2015; cfr. Cass. n. 20870/2019, per il quale è inammissibile il mutamento in appello del titolo di credito posto a base della domanda da contratto d'appalto a contratto d'opera giacché, in tal modo, si immuta la causa petendi che viene a fondarsi su presupposti di fatto e situazioni giuridiche non prospettate in primo grado) (cfr. Cass. III, n. 18868/2015). Pertanto, tale vizio ricorre nell'ipotesi di mancata corrispondenza tra chiesto e pronunciato in ordine all'effetto giuridico e al comando dà luogo al vizio di ultra-extrapetizione (Grasso, in Comm. Allorio, 1973, 1264). Il potere di qualificazione della domanda nei gradi successivi al primo va, inoltre, coordinato con i principi propri del sistema delle impugnazioni, sicché, ad esempio, con riferimento all'appello, deve ritenersi precluso al giudice di secondo grado di mutare d'ufficio, in mancanza di gravame sul punto, la qualificazione operata dal primo giudice (Cass. n. 3980/2004). È stato precisato, poi, che in materia di ricorso per cassazione, il motivo con cui il ricorrente lamenti che la sentenza di appello sia incorsa nel medesimo vizio di ultrapetizione dal quale sarebbe stata già affetta la sentenza di primo grado è inammissibile, allorché la deduzione di quel vizio non abbia costituito oggetto, in precedenza, di uno specifico motivo di gravame (Cass. II, n. 10172/2015). Il vizio di ultrapetizione comporta una nullità relativa della sentenza, che va fatta valere con gli ordinari mezzi d'impugnazione e non può essere rilevata d'ufficio dal giudice del gravame, la cui pronunzia, in caso contrario, incorre nel medesimo vizio (Cass. II, n. 465/2016). Casistica delle ipotesi nelle quali ricorre Nel processo civile, è affetta da vizio di ultrapetizione la decisione che dichiari l'estinzione del giudizio per una "causa petendi" diversa da quella indicata dalle parti. (Cass. n. 26733/2018 che ha ravvisato il vizio in questione nella pronuncia impugnata che aveva dichiarato cessata la materia del contendere, a fronte di un'istanza del contribuente di "rinuncia al proseguimento del contenzioso" non subordinata a quella dell'Amministrazione finanziaria al recupero del proprio credito nella misura dei due terzi conseguente al rigetto del ricorso di primo grado). Integra un vizio di ultrapetizione la sentenza che, accogliendo la domanda, vada oltre il limite indicato con la clausola di contenimento (Cass. n. 18100/2011). Quando l'attore abbia quantificato la pretesa risarcitoria in un importo determinato, così limitando l'ammontare del "quantum" richiesto, il giudice che condanni il convenuto al pagamento di una somma maggiore di quella risultante dalla quantificazione operata dall'istante incorre nel vizio di ultrapetizione (Cass. lav., n. 13876/2016). Sussiste violazione dell'art. 112 e pertanto vizio d'ultrapetizione, quando, proposte due o più domande, l'una in via principale e l'altra in via subordinata e gradata, il giudice accolga la richiesta principale e pronunci anche su quella subordinata: tale censura, tuttavia, non può essere fatta valere, per difetto d'interesse, dalla parte la cui domanda subordinata sia stata accolta unitamente a quella principale (Cass. n. 5954/2005). Incorre nel vizio di ultrapetizione la sentenza del giudice del merito che pronunci su una domanda sulla quale vi sia stata rinuncia, tanto se intervenuta nel giudizio di primo grado, quanto in quello d'appello (Cass. n. 2060/2019). Nel caso in cui il giudice di merito statuisca su una questione proposta dal ricorrente in primo grado in via incidentale, ritenendola, invece, quale domanda autonoma, sussiste violazione della disposizione in esame, sicché la sentenza deve essere cassata per essere incorsa in vizio di ultrapetizione (Cass. lav., n. 8872/2015, la quale ha ritenuto che le richieste del direttore amministrativo di un conservatorio di condanna della Pubblica Amministrazione. a bandire una procedura concorsuale per la copertura del posto e, in via strumentale, di accertare e dichiarare l'illegittimità della già avvenuta nomina di un nuovo direttore amministrativo con contratto individuale, costituissero un'unica domanda). Se una sentenza di condanna al risarcimento del danno viene impugnata dal soccombente soltanto nella parte in cui se ne afferma sussistere la responsabilità, incorre nel vizio di ultrapetizione il giudice del gravame il quale, senza modificare le statuizioni sulla responsabilità, modifichi la quantificazione del danno. (Cass. n. 25933/2018, la quale ha cassato senza rinvio la sentenza della corte d'appello che aveva riformato la statuizione avente ad oggetto l'entità del risarcimento del danno spettante al lavoratore per licenziamento illegittimo, nonostante il datore di lavoro non avesse, sul punto, formulato specifico motivo di gravame). Sussiste il vizio di ultrapetizione qualora il giudice d'appello respinga la domanda dell'attore per una ragione rilevata d'ufficio e completamente estranea al dibattito svoltosi tra le parti in primo e in secondo grado, in quanto in tal caso la corte pronuncia oltre l'ambito del giudizio di appello, quale definito dalle domande ed eccezioni delle parti, violando i limiti dell'effetto devolutivo dell'appello, desumibili dagli artt. 345 e 346, che configurano detta impugnazione — con riferimento alla disciplina previgente dell'appello, applicabile al caso di specie — non come un iudicium novum ma come una revisio prioris istantiae (Cass. n. 8501/2003). Incorre nel vizio di ultrapetizione la sentenza d'appello che dichiari la nullità per genericità del ricorso introduttivo della lite in primo grado, mai richiesta dalla parte appellata, né dedotta nel giudizio di secondo grado, atteso che l'ambito del giudizio di appello, data la sua natura di revisio prioris instantiae, è rigorosamente circoscritto alle questioni specificamente dedotte con i motivi di impugnazione, principale o incidentale, ovvero con la riproposizione delle domande o eccezioni non accolte o rimaste assorbite (Cass. lav., n. 18542/2015). Il principio dell'automatica estensione delle domande al terzo che il convenuto abbia chiamato in causa, indicandolo come effettivo e diretto obbligato, non opera quando il terzo non abbia partecipato al giudizio in tale veste, ma sia in esso intervenuto per far affermare la propria qualità di titolare, in luogo dell'attore, del diritto da questi fatto valere a fondamento della domanda di risarcimento del danno. Incorre, pertanto, nel vizio di ultrapetizione il giudice che condanni, in questo caso, il terzo intervenuto al risarcimento del danno in solido con il convenuto (Cass. S.U., n. 15756/2007). Le domande di risarcimento del danno da responsabilità aquiliana e da responsabilità contrattuale si fondano su elementi di fatto diversi sia sotto il profilo oggettivo sia sotto quello soggettivo in relazione non solo all'accertamento della responsabilità, ma anche alla determinazione dei danni: incorre, pertanto, in vizio di ultrapetizione il giudice d'appello che, in mancanza di gravame sul punto, operi d'ufficio la riqualificazione in termini contrattuali di una domanda risarcitoria spiegata in via extracontrattuale al fine di ritenere applicabile al caso il termine ordinario della prescrizione (Cass. n. 1547/2004). Rappresenta una violazione del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato — sancito dall'art. 112 — il provvedimento di condanna alla risarcimento del danno per lesione della riservatezza contenuto in una sentenza riguardante una controversia nella quale l'attore s'è limitato a domandare il risarcimento del danno patrimoniale (Cass. n. 14008/2014). La liquidazione del danno da parte del giudice trasforma l'obbligazione risarcitoria da obbligazione di valore in obbligazione di valuta, con la conseguenza che il giudice non può riconoscere gli interessi per il periodo successivo alla decisione fino al saldo, in mancanza di specifica domanda della parte in tal senso (Cass. n. 13666/2003). In tema di risoluzione del contratto, incorre in ultrapetizione il giudice che, a fronte di una domanda di risoluzione per inadempimento, pronunci la risoluzione consensuale (Cass. n. 4493/2014). La proprietà superficiaria è diritto ontologicamente diverso da quello di piena proprietà, di talché il giudice di merito, in difetto di domanda, non può accertare l'uno in luogo dell'altro non sussistendo, peraltro, tra tali diritti neppure un rapporto di continenza (Cass. n. 1518/2024). È viziata da ultrapetizione la sentenza che, pronunciando sulla violazione dell'art. 1102 c.c., non si limiti a decidere su quanto espressamente richiesto dalle parti ma, andando oltre la domanda, disponga la rimozione di altre opere, seppure astrattamente illegittime, per le quali non è stato domandato nulla (Cass. n. 237/2010). Qualora l'attore abbia chiesto in modo inequivoco la condanna del convenuto ad eliminare le cause di alcune infiltrazioni, il giudice che verifichi il sopravvenuto venir meno del fenomeno infiltrativo, e con esso dell'interesse dell'attore in ordine a tale domanda, è tenuto a dichiararne l'inammissibilità, senza poter emettere una pronuncia di accertamento della responsabilità del convenuto per le infiltrazioni, ricorrendo altrimenti un vizio di ultrapetizione per violazione dell'art. 112, in quanto tale pronuncia di accertamento presuppone una specifica richiesta di parte e la sussistenza di un suo interesse, concreto ed attuale, non ricollegabile né alla liquidazione delle spese di lite, che deve avvenire sulla base del criterio di mera soccombenza virtuale, né alla proposizione di future azioni risarcitorie, la quale è meramente eventuale (Cass. n. 26896/2014). Casistica delle ipotesi nelle quali non ricorre Il vizio di ultrapetizione ricorre quando il giudice pronuncia oltre i limiti delle pretese e delle eccezioni fatte valere dalla parti ovvero su questioni estranee all'oggetto del giudizio e non rilevabili d'ufficio, attribuendo un bene della vita non richiesto o diverso da quello domandato; al di fuori di tali specifiche previsioni, il giudice, nell'esercizio della sua "potestas decidendi", resta libero non solo di individuare l'esatta natura dell'azione e di porre a base della pronuncia adottata considerazioni di diritto diverse da quelle all'uopo prospettate, ma anche di rilevare, indipendentemente dall'iniziativa della controparte, la mancanza degli elementi che caratterizzano l'efficacia costitutiva od estintiva di una data pretesa, attenendo ciò all'obbligo inerente all'esatta applicazione della legge. (Cass. II, n. 11304/2018, fattispecie nella quale, la S.C. ha escluso fosse incorsa nel summenzionato vizio la sentenza della corte territoriale che aveva ritenuto una richiesta di tutela possessoria di una servitù di passaggio non limitata all'accesso alla pubblica via, ma estesa pure alla prosecuzione del detto passaggio fino al fondo dominante). Nello stesso giudizio possono essere proposte, in forma alternativa o subordinata, due diverse richieste tra loro incompatibili, senza che con ciò venga meno l'onere della domanda ed il dovere di chiarezza che l'attore è tenuto ad osservare nelle proprie allegazioni: ne consegue che non incorre nel vizio di ultrapetizione il giudice che accolga una delle domande come sopra proposte, in quanto il rapporto di alternatività o di subordinazione tra esse esistente non esclude che ciascuna di esse rientri nel "petitum" (Cass. II, n. 2331/2022). Non incorre nel vizio di ultrapetizione il giudice che esamini una questione non espressamente formulata, tuttavia da ritenersi tacitamente proposta per essere in rapporto di necessaria connessione con quelle espressamente formulate, delle quali costituisca l'antecedente logico e giuridico (Cass. n. 17897/2019 ; Cass. n. 5134/2004). In detta prospettiva, si è recentemente affermato che non incorre nel vizio di ultrapetizione il giudice d'appello che, a fronte dell'impugnazione della sentenza di divorzio sul capo relativo alla quantificazione dell'assegno di mantenimento per i figli, provveda, in mancanza di una specifica impugnazione sul punto, anche in relazione alle spese di viaggio necessarie a consentire il diritto di visita del genitore non collocatario, atteso che tali spese rientrano tra gli esborsi destinati ai bisogni ordinari dei figli e sortiscono l'effetto di integrare l'assegno di mantenimento, cosicché la questione ad esse relativa deve intendersi tacitamente proposta in necessaria connessione con la domanda espressamente formulata (Cass. I, n. 28483/2022). Poiché per capo autonomo della sentenza suscettibile di formare oggetto di giudicato interno deve intendersi solo quello che risolve una questione dotata di una propria individualità ed autonomia, non incorre nel vizio di ultrapetizione il giudice di appello, che, investito — in tema di risarcimento del danno — del riesame della liquidazione del complessivo contenuto del danno, determini la decorrenza del danno biologico permanente, pur in assenza di specifica impugnazione sul punto (Cass. n. 3806/2004). Quando l'attore, con l'atto introduttivo del giudizio, rivendichi, per lo stesso titolo, l'attribuzione di una somma determinata, ovvero dell'importo, non quantificato, eventualmente maggiore, che sarà accertato all'esito del giudizio, non incorre in ultrapetizione il giudice che condanna il convenuto al pagamento di una somma maggiore di quella risultante dalla formale quantificazione inizialmente operata dall'istante, ma acclarata come a quest'ultimo spettante in base alle emergenze acquisite nel corso del processo (Cass. n. 7068/2002). L'obbligo di risarcimento del danno da fatto illecito, contrattuale o extracontrattuale, ha per oggetto l'integrale reintegrazione del patrimonio del danneggiato e, pertanto, nella domanda di risarcimento del danno deve ritenersi implicitamente inclusa la richiesta di compenso per il pregiudizio subito dal creditore a causa del ritardato conseguimento dell'equivalente monetario del danno, non incorrendo nel vizio di ultrapetizione il giudice che, in mancanza di espressa domanda, liquidi il conseguente danno da lucro cessante (Cass. n. 25775/2013). Gli interessi sulla somma liquidata a titolo di risarcimento del danno da fatto illecito hanno fondamento e natura diversi da quelli moratori, regolati dall'art. 1224 c.c., in quanto sono rivolti a compensare il pregiudizio derivante al creditore dal ritardato conseguimento dell'equivalente pecuniario del danno subito, di cui costituiscono, quindi, una necessaria componente; ne consegue che nella domanda di risarcimento del danno per fatto illecito è implicitamente inclusa la richiesta di riconoscimento degli interessi compensativi, che il giudice di merito, anche in sede di giudizio di rinvio, deve attribuire, senza per ciò solo incorrere nel vizio di ultrapetizione (Cass. n. 12140/2016). In tema di risarcimento del danno, rientra nei poteri discrezionali del giudice del merito attribuire al danneggiato il risarcimento per equivalente, anziché in forma specifica come domandato dall'attore, costituendo il risarcimento per equivalente un "minus" rispetto al risarcimento in forma specifica e intendendosi, perciò, la relativa richiesta implicita nella domanda di reintegrazione, con la conseguenza che non incorre nella violazione dell'art. 112 il giudice che pronunci d'ufficio una condanna al risarcimento per equivalente (Cass. n. 29245/2024). Non ricorre il vizio di ultrapetizione nell'accertamento, in sede di opposizione a decreto ingiuntivo, della pretesa fatta valere con il ricorso per ingiunzione (Cass. n. 12222/2003). In tema di rivendicazione, il giudice può riconoscere l'esistenza di una proprietà pro quota pure laddove si assuma esistere una proprietà esclusiva, senza con ciò trasmodare dai limiti della domanda, ricorrendo il vizio di ultrapetizione soltanto allorché dalla pronunzia derivino effetti giuridici più ampi di quelli richiesti dall'attore (Cass. II, n. 12853/2015). In tema di nullità negoziale, non è viziata da ultrapetizione la decisione del giudice che, in caso di domanda di accertamento della simulazione di un contratto di compravendita, abbia dichiarato la nullità (nella specie, per violazione del divieto di patto commissorio) della più ampia operazione negoziale cui tale contratto appartiene (nella specie, riconducibile allo schema del sale and lease back), essendo tale decisione giustificata dall'obbligo di rilevare di ufficio ogni possibile causa di nullità, ferma la previa necessaria indicazione alle parti del thema decidendum, ai sensi dell'art. 101, comma 2 (Cass. III, n. 21775/2015). Poiché il potere-dovere del giudice di inquadrare nella esatta disciplina giuridica i fatti e gli atti che formano oggetto della contestazione incontra il limite del rispetto del "petitum" e della "causa petendi", sostanziandosi nel divieto d'introduzione di nuovi elementi di fatto nel tema controverso, sicché il vizio di "ultra" o "extra" petizione ricorre quando il giudice di merito, alterando gli elementi obiettivi dell'azione ("petitum" o "causa petendi"), emetta un provvedimento diverso da quello richiesto ("petitum" immediato), oppure attribuisca o neghi un bene della vita diverso da quello conteso ("petitum" mediato), così pronunciando oltre i limiti delle pretese o delle eccezioni fatte valere dai contraddittori, non integra il vizio di ultrapetizione della sentenza con la quale il giudice di merito, a fronte di una domanda di restituzione "pro quota" delle somme custodite in un deposito bancario di cui gli attori assumevano di essere contitolari con il convenuto, l'ha accolta dopo avere accertato che i medesimi attori erano in realtà eredi di uno degli originari contitolari del detto deposito (Cass. n. 9002/2018). Non incorre nel vizio di ultrapetizione il giudice che, a fronte di una domanda di risoluzione per inadempimento del contratto e conseguente restituzione dell'acconto versato, adotti la statuizione restitutoria in relazione alla diversa fattispecie del legittimo recesso della parte, trattandosi pur sempre di pronuncia consequenziale all'accertamento dell'avvenuto scioglimento del rapporto, fondato sulle circostanze di fatto originariamente dedotte, senza che sia stato introdotto un nuovo tema di indagine (Cass. III, n. 23820/2022). Non integra ultrapetizione, ai sensi dell'art. 112, la fissazione d'ufficio di un termine per l'adempimento della controprestazione nella sentenza costitutiva degli effetti del contratto non concluso, giacché, non prevedendo l'art. 2932, comma 2, c.c. alcun termine per essa, lo stesso deve essere necessariamente stabilito dal giudice secondo la previsione dell'art. 1183, comma 1, c.c. (Cass. n. 9395/2011). Vizio di extrapetizioneIl vizio di extrapetizione ricorre quando il giudice abbia pronunciato oltre i limiti delle pretese e delle eccezioni fatte valere dalle parti, ovvero su questioni estranee all'oggetto del giudizio e non rilevabili d'ufficio, attribuendo ad una di esse un bene della vita non richiesto (o diverso da quello domandato), mentre spetta al giudice di merito il compito di definire e qualificare, entro detti limiti, la domanda proposta dalla parte. La diversa qualificazione giuridica del rapporto controverso da parte del giudice d'appello rispetto a quanto ritenuto dal giudice di primo grado non costituisce vizio di extrapetizione, rientrando tale potere-dovere nelle attribuzioni del giudice dell'impugnazione, senza necessità, quindi, di specifica impugnazione o doglianza di parte, purchè egli operi nell'ambito delle questioni riproposte con il gravame e lasci inalterati il petitum e la causa petendi, non introducendo nel tema controverso nuovi elementi di fatto (Cass. I, n. 16213/2015). Occorre considerare che, da ultimo, Cass. I, n. 9811/2021, ha rimesso al Primo Presidente, ai fini dell’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, la soluzione del contrasto giurisprudenziale creatosi sulla natura della nullità della consulenza tecnica d'ufficio per extrapetizione. Casistica delle ipotesi nelle quali ricorre In tema di impugnativa del licenziamento, la pronuncia giudiziale che, a fronte di una richiesta di tutela reale ai sensi dell'art. 18 st. lav. per nullità del licenziamento e, in via subordinata, di tutela obbligatoria di cui all'art. 8 l. n. 604/1966 per carenza di giusta causa o giustificato motivo, esclusa la nullità del recesso datoriale, ordini la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, incorre in violazione dell'art. 112, in quanto riconosce una tutela più ampia di quella richiesta dalla parte con il ricorso introduttivo (Cass. lav., n. 17300/2016). La disciplina sulle distanze delle costruzioni dalle vedute, di cui all'art. 907 c.c., ha natura giuridica, presupposti di fatto e contenuto precettivo diversi da quella delle distanze tra costruzioni, di cui all'art. 873 c.c., poiché la prima mira a tutelare il proprietario del bene dall'indiscrezione del vicino, mentre la seconda è volta ad evitare la formazione di intercapedini dannose, sicché incorre nel vizio di extrapetizione il giudice che, a fronte di una domanda che denuncia la violazione delle distanze tra le costruzioni, condanni il convenuto per la violazione dell'art. 873 c.c. (Cass. II, n. 16808/2016). In materia di procedimento civile, ove sia proposta in primo grado domanda personale di rilascio, ovvero anche domanda petitoria di rivendicazione, è preclusa al giudice del gravame provvedere alla qualificazione giuridica della stessa domanda in termini di regolamento di confini, costituendo tale qualificazione una inammissibile mutatio libelli, non potendo il giudice pronunciare oltre i limiti della domanda e delle eccezioni proposte dalle parti, mutando i fatti costitutivi o quelli estintivi della pretesa, ovvero decidendo su questioni che non hanno formato oggetto del giudizio e non sono rilevabili d'ufficio, attribuendo un bene non richiesto o diverso da quello domandato (Cass. II, n. 15368/2022). Il giudice di appello incorre nel vizio di extrapetizione allorché pronunci oltre i limiti delle richieste e delle eccezioni fatte valere dalle parti, ovvero su questioni non dedotte e che non siano rilevabili d'ufficio, attribuendo alle parti un bene della vita non richiesto o diverso da quello domandato, mentre non è precluso allo stesso giudice l'esercizio del potere-dovere di attribuire al rapporto controverso una qualificazione giuridica diversa da quella prospettata dalle parti, purché essa non si fondi su elementi di fatto nuovi rispetto a quelli che hanno formato oggetto del dibattito processuale, dovendosi riconoscere al giudice di appello la possibilità di definire, anche con riferimento alla individuazione della causa petendi, l'esatta natura del rapporto dedotto in giudizio onde precisarne il contenuto e gli effetti, in relazione alle norme applicabili (Cass. n. 15764/2004). Casistica delle ipotesi nelle quali non ricorre Il vizio di extrapetizione ricorre soltanto ove il giudice modifichi, a prescindere dalla richiesta delle parti, il "petitum" e/o la "causa petendi", sicché lo stesso non sussiste in presenza di un "obiter dictum", in quanto inidoneo ad incidere su tali elementi costitutivi della domanda giudiziale (Cass. n. 14444/2018). La sentenza di condanna ad un facere è diversa da quella costitutiva, prevista dall'art. 2932 c.c., perché, a differenza di quest'ultima, non produce di per se stessa l'effetto traslativo invocato dalla parte, ma impone alla controparte di svolgere l'attività negoziale necessaria alla produzione di quell'effetto: tuttavia, la condanna a contrarre non eccede i limiti della cognizione del giudice adito con la domanda di esecuzione in forma specifica dell'obbligo di contrarre, ponendosi rispetto a questa come minore a maggiore, onde non incorre nel vizio di extrapetizione il giudice di merito che, sull'istanza formulata ai sensi dell'art. 2932 c.c., pronunci condanna allo svolgimento dell'attività negoziale necessaria alla produzione del richiesto effetto traslativo (Cass. n. 27479/2022; Cass. n. 4184/2013). Nella domanda di condanna al pagamento di una determinata somma di danaro deve ritenersi sempre implicita la richiesta della condanna al pagamento di una somma minore, con la conseguenza che la pronuncia del giudice del merito di condanna ad una somma minore di quella richiesta non è viziata da extrapetizione (Cass. n. 28660/2013). La diversa quantificazione della pretesa, fermi i fatti costitutivi di essa, non comporta prospettazione di una nuova causa petendi in aggiunta a quella dedotta in primo grado e, pertanto, non dà luogo ad una domanda nuova, inammissibile in appello, né comporta una pronunzia extra petita, quando manchi una limitazione quantitativa della domanda e l'attore, dopo avere indicato un importo, fa riferimento alla somma maggiore o minore che risulterà dovuta in corso di causa (Cass. I, n. 7137/2015). Non sussiste il vizio di extra petita (art. 112) se il giudice dell'opposizione a decreto ingiuntivo — giudizio di cognizione non solo per accertare l'esistenza delle condizioni per l'emissione dell'ingiunzione, ma anche per esaminare la fondatezza della domanda del creditore in base a tutti gli elementi, offerti dal medesimo e contrastati dall'ingiunto — revoca il provvedimento monitorio ed emette una sentenza di condanna di questi per somma anche minore rispetto a quella ingiunta, perché mentre l'opponente chiede di accertare l'inesistenza dell'obbligazione ingiuntagli, il creditore, sia con ricorso per ottenere in breve tempo — con forme speciali — un titolo esecutivo per il pagamento del suo credito sia con la domanda di rigetto dell'opposizione, esercita invece un'azione di condanna (Cass. n. 24021/2004). Non sussiste il vizio di extra petita (art. 112), qualora il giudice abbia determinato l'indennità di espropriazione, con riferimento all'intero periodo durante il quale si è protratta l'occupazione legittima, non essendo vincolato all'erronea prospettazione difensiva, che ne individui la cessazione alla data di realizzazione dell'opera pubblica, invece che in quella successiva di scadenza del termine (nel caso di specie, quinquennale e poi prorogato per legge) previsto nell'ordinanza sindacale di autorizzazione all'immissione in possesso, dal momento che ogni occupazione temporanea e d'urgenza ingenera un'obbligazione diretta a compensare il mancato godimento del bene per tutta la durata della sua indisponibilità (Cass. n. 714/2011). In tema di prestazioni assistenziali, il giudice investito della domanda di pensione di inabilità, per la quale risulti carente il requisito sanitario, qualora, per la percentuale accertata, ricorrano le condizioni per l'attribuzione dell'assegno di invalidità, può riconoscere, pur in mancanza di esplicita richiesta dell'interessato, quest'ultima prestazione se sussistano i necessari requisiti socio-economici, in quanto implicitamente compresa nella più ampia domanda di pensione (Cass. n. 3027/2016). EccezioniL'eccezione è l'istanza per una decisione negativa sulla situazione giuridica altrui, fondata sul presupposto di una domanda alla quale l'eccezione si contrappone (Grasso, in Comm. Allorio, 1973, 1269; Oriani, 5 ss.). Le eccezioni di merito sono costituite, in particolare, da quelle che consistono nell'allegazione di un fatto impeditivo, modificativo o estintivo rispetto ai fatti costitutivi posti a fondamento dell'avversa domanda: tali eccezioni si distinguono in eccezioni in senso stretto, nelle quali la deduzione del fatto impeditivo, estintivo o modificativo è riservata alla parte ed eccezioni in senso lato che possono essere rilevate anche d'ufficio dal giudice ove i fatti siano stati allegati ritualmente al processo (Picardi, 2010, 144). Le eccezioni in senso lato sono rilevabili d'ufficio o proponibili dalla parte interessata anche in appello, ove i fatti sui quali si fondano, sebbene non precedentemente allegati dalla stessa parte, emergano dagli atti di causa (Cass. n. 5249/2016). Ne consegue che in presenza di una eccezione in senso lato il giudice può esercitare anche i propri poteri officiosi al fine di ammettere le prove indispensabili, cioè quelle idonee ad elidere ogni incertezza nella ricostruzione degli eventi (Cass. n. 25434/2019). Sulla questione, anche nella recente giurisprudenza di legittimità è stato ribadito che costituiscono eccezioni in senso stretto, rilevabili ad istanza di parte, quelle che possono essere sollevate soltanto dalle parti per espressa disposizione di legge ovvero quelle il cui fatto integratore corrisponde all'esercizio di un diritto potestativo azionabile in giudizio dal titolare e, quindi, presuppone una manifestazione di volontà di quest'ultimo per essere produttivo di effetti modificativi, impeditivi o estintivi del rapporto giuridico (Cass. n. 15591/2018). Eccezioni in senso stretto: casistica Le eccezioni non rilevabili d'ufficio sono solo quelle nelle quali la manifestazione della volontà della parte sia strutturalmente prevista quale elemento integrativo della fattispecie difensiva, ovvero quando singole disposizioni espressamente prevedano come indispensabile l'iniziativa di parte, dovendosi in ogni altro caso ritenere la rilevabilità d'ufficio dei fatti modificativi, impeditivi o estintivi risultanti dal materiale probatorio legittimamente acquisito (Cass. n. 409/2012). L'inammissibilità della domanda riconvenzionale che non comporti spostamento di competenza non è rilevabile d'ufficio, ma solo su tempestiva eccezione della parte riconvenuta (Cass. II, n. 8814/2015). L'eccezione di pagamento è rilevabile d'ufficio poiché l'estinzione del debito, ove sia provata, va accertata dal giudice anche in assenza di richiesta da parte del debitore, sicché la questione può essere sollevata per la prima volta anche in appello (Cass. n. 9965/2016). L'intervenuta cessazione della materia del contendere non forma oggetto di un'eccezione in senso stretto, sicché essa può rilevarsi anche d'ufficio, purché emerga dalle risultanze processuali ritualmente acquisite (Cass. n. 8903/2016). L'eccezione di prescrizione costituisce un'eccezione in senso proprio, e come tale deve essere sollevata dalla parte, alla quale soltanto spetta di specificare i fatti che ne costituiscono il fondamento, ivi compresa la data di inizio del decorso prescrizionale (Cass. n. 3578/2004). L'applicazione all'eccezione di prescrizione — la cui essenza è rappresentata dalla richiesta di accertamento dell'estinzione del diritto vantato dalla controparte per il decorso del tempo — del principio secondo cui la parte ha l'onere nel giudizio di allegare i fatti su cui si basano le sue domande o le sue eccezioni ma non anche quello di specificare le norme applicabili (che possono essere individuate dal giudice anche in maniera diversa rispetto alle eventuali deduzioni delle parti) comporta che, nel caso in cui sia eccepita la prescrizione ordinaria decennale. (alla quale va equiparata l'ipotesi di mancata specificazione del tipo di prescrizione) il giudice può fare applicazione di quella prescrizione più breve che sia effettivamente configurabile (salva l'ipotesi della previsione di una disciplina particolare riguardo ai fatti interruttivi o sospensivi), poiché pone a base della decisione un fatto compreso in quello dedotto (decorso di un periodo di tempo più breve di quello fatto valere dalla parte), mentre, in caso di deduzione di una prescrizione breve (già in primo grado, oppure in appello, con ammissibile ridimensionamento della originaria deduzione della prescrizione ordinaria), il giudice, se la stessa non sia effettivamente applicabile, non può applicare una prescrizione di maggiore durata, poiché altrimenti valorizzerebbe un fatto diverso da quello dedotto, con violazione del principio dispositivo (Cass. n. 12146/1999). L'eccezione di prescrizione è validamente proposta quando la parte ne abbia allegato il fatto costitutivo, ossia l'inerzia del titolare, senza che rilevi l'erronea individuazione del termine applicabile, ovvero del momento iniziale o finale di esso, trattandosi di questione di diritto sulla quale il giudice non è vincolato dalle allegazioni di parte (Cass. I, n. 15631/2016). In tema di prescrizione estintiva, elemento costitutivo della relativa eccezione è l'inerzia del titolare del diritto fatto valere in giudizio, mentre la determinazione della durata di questa, necessaria per il verificarsi dell'effetto estintivo, si configura come una quaestio iuris concernente l'identificazione del diritto stesso e del regime prescrizionale per esso previsto dalla legge. Ne consegue che la riserva alla parte del potere di sollevare l'eccezione implica che ad essa sia fatto onere soltanto di allegare il menzionato elemento costitutivo e di manifestare la volontà di profittare di quell'effetto, non anche di indicare direttamente o indirettamente (cioè attraverso specifica menzione della durata dell'inerzia) le norme applicabili al caso di specie, l'identificazione delle quali spetta al potere-dovere del giudice (Cass. S.U., n. 10955/2002). Più di recente, le medesime Sezioni Unite hanno precisato che, in tema di prescrizione estintiva, l'onere di allegazione gravante sull'istituto di credito che, convenuto in giudizio, voglia opporre l'eccezione di prescrizione al correntista che abbia esperito l'azione di ripetizione di somme indebitamente pagate nel corso del rapporto di conto corrente assistito da apertura di credito, è soddisfatto con l'affermazione dell'inerzia del titolare del diritto, unita alla dichiarazione di volerne profittare, senza che sia necessaria l'indicazione delle specifiche rimesse solutorie ritenute prescritte (Cass. S.U., n. 15895/2019). L'eccezione di estinzione del credito per remissione rientra nel novero di quelle che devono essere proposte dalla parte, sulla quale grava pertanto l'onere di allegare e provare il fatto estintivo dell'obbligazione (Cass. n. 11749/2006). La rinuncia al credito fatto valere in giudizio non può essere rilevata di ufficio dal giudice poiché, conseguendo ad una potestà dispositiva del diritto, è estranea alla fattispecie costitutiva da accertare in forza dell'azione intrapresa e postula la cognizione di fatti estintivi che costituiscono oggetto di una eccezione in senso proprio o sostanziale, rispetto alla quale l'onere di allegazione e di prova grava sulla parte nei cui confronti il diritto è fatto valere (Cass. n. 8155/1990). La questione dei limiti soggettivi del giudicato penale nel giudizio civile in cui si controverta sulla sussistenza degli stessi fatti deve essere eccepita dalla parte interessata, se già non costituisce oggetto di domanda (Cass. III, n. 18324/2015). La contestazione circa l'inefficacia del patto di esclusione della garanzia, che l'art. 1490, comma 2, c.c., commina in ipotesi di vizi taciuti in mala fede, costituisce un'eccezione in senso stretto, preclusa in appello, in quanto, con essa, la parte intende far valere l'esistenza di raggiri impiegati per indurla ad accettare la clausola esonerativa di responsabilità, sicché, denunciando la violazione dell'obbligo di comportarsi secondo buona fede al momento della conclusione del contratto, necessita di una manifestazione di volontà di chi intenda avvalersene (Cass. I, n. 2313/2016). La convivenza triennale « come coniugi », quale situazione giuridica di ordine pubblico ostativa alla delibazione della sentenza canonica di nullità del matrimonio, essendo caratterizzata da una complessità fattuale strettamente connessa all'esercizio di diritti, adempimento di doveri e assunzione di responsabilità di natura personalissima, è oggetto di un'eccezione in senso stretto, non rilevabile d'ufficio, né opponibile dal coniuge, per la prima volta, nel giudizio di legittimità (Cass. S.U., n. 16379/2014). L'esenzione dalla revocatoria ordinaria, prevista per l'adempimento di un debito scaduto, integra un'eccezione in senso stretto, presupponendo l'allegazione in giudizio di fatti impeditivi non rilevabili d'ufficio, sicché non incorre nel vizio di omessa pronuncia il giudice di merito che ometta l'esame di documenti prodotti ai sensi dell'art. 345, c.p.c., a sostegno dell'eccezione di cui all'art. 2901, comma 3, c.c., sollevata per la prima volta in grado di appello e, pertanto, preclusa (Cass. III, n. 16793/2015). L'art. 754 c.c., per il quale gli eredi rispondono dei debiti del de cuius in relazione al valore della quota nella quale sono stati chiamati a succedere, si interpreta nel senso che il coerede convenuto per il pagamento di un debito ereditario ha l'onere di indicare al creditore la sua condizione di coobbligato passivo, entro i limiti della propria quota, sicché, integrando tale dichiarazione gli estremi dell'istituto processuale della eccezione propria, la sua mancata proposizione consente al creditore di chiedere legittimamente il pagamento per l'intero (Cass. III, n. 6431/2015). Eccezioni in senso lato: casistica La carenza di titolarità, attiva o passiva, del rapporto controverso è rilevabile di ufficio dal giudice se risultante dagli atti di causa (Cass. S.U., n. 2951/2016; conf. Cass. n. 11744/2018, la quale ha ritenuto, di conseguenza, in una fattispecie relativa ad un contratto di trasporto di cose, che l'eccezione ex art. 1692 c.c., sollevata per la prima volta in sede di gravame dal mittente per contestare la titolarità passiva dell'obbligazione relativa al costo del servizio svolto dal vettore, costituisse una mera difesa, in quanto tale non preclusa neppure in appello e rilevabile anche d'ufficio, non implicando un ulteriore accertamento di fatto – ossia quello della differenza tra la persona del mittente e quella del destinatario del trasporto presupposta dalla norma – atteso che nella specie quest'ultimo profilo risultava inequivocabilmente ammesso dalla controparte, laddove aveva qualificato il rapporto come contratto a favore di terzo). In caso di sinistro causato da veicolo con targa straniera risultata rubata, non costituisce eccezione in senso stretto, ma mera difesa, proponibile anche nella comparsa conclusionale d'appello, l'eccezione di difetto di legittimazione passiva sostanziale sollevata dal convenuto Fondo di Garanzia delle Vittime della Strada, ai sensi del d.lgs. n. 209/2005, nel testo anteriore alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 198/2007, assumendo che il predetto veicolo debba considerarsi non già "sconosciuto", bensì "abitualmente stazionante" nel territorio dello Stato membro dell'Unione europea che ha rilasciato la targa (alla stregua dell'interpretazione dell'art. 1, § 4, della Direttiva 72/166/CEE, modificata dalla Direttiva 84/5/CEE, fornita dalla Corte di giustizia CE 12 novembre 1992, C-73/89), sicché il risarcimento dei danni derivanti dal sinistro compete all'Ufficio Centrale Italiano, ai sensi dell'art. 1 del d.m. 12 ottobre 1972 (Cass. n. 12729/2016). Il potere del giudice di rilievo d'ufficio dell'eccezione non implica il superamento del divieto della scienza privata, occorrendo pur sempre che determinati fatti modificativi, impeditivi o estintivi risultino acquisiti agli atti (Cass. n. 5923/2014). Il giudice innanzi al quale sia stata proposta domanda di nullità contrattuale deve rilevare di ufficio l'esistenza di una causa di quest'ultima diversa da quella allegata dall'istante, essendo quella domanda pertinente ad un diritto autodeterminato, sicché è individuata indipendentemente dallo specifico vizio dedotto in giudizio. (Cass. I, n. 15408/2016, la quale ha cassato con rinvio la sentenza di merito che non aveva esaminato in quanto erroneamente ritenuti tardivi perché contenuti nella citazione in riassunzione alcuni motivi di nullità di una clausola relativa al regolamento di un prestito obbligazionario). Il rilievo officioso della nullità contrattuale da parte del giudice di legittimità non attiene soltanto alle azioni di impugnativa negoziale ma investe anche la domanda di risarcimento danni per inadempimento contrattuale che sia stata proposta, in via autonoma, da quella di impugnazione del presupposto contratto. (Cass. n. 12996/2016, la quale ha enunciato il principio con riferimento ad un giudizio in cui non era stata proposta azione di risoluzione ex art. 1453 c.c., ma la sola azione risarcitoria per inadempimento di un contratto di cure odontoiatriche intercorso con un odontotecnico, come tale, pertanto, nullo per contrarietà a norma imperativa). Il principio per cui il giudice innanzi al quale sia stata proposta domanda di nullità contrattuale deve rilevare d'ufficio (o, comunque, a seguito di allegazione di parte successiva all'editio actionis), ove emergente dagli atti, l'esistenza di un diverso vizio di nullità, essendo quella domanda pertinente ad un diritto autodeterminato, è suscettibile di applicazione estensiva anche nel sottosistema societario, nell'ambito delle azioni di impugnazione delle deliberazioni assembleari, benché non assimilabili ai contratti, atteso che, per la naturale forza espansiva riconnessa al principio generale, va riconosciuto al giudice il potere di rilevare d'ufficio la nullità di una delibera anche in difetto di un'espressa deduzione di parte o per profili diversi da quelli enunciati, purché desumibili dagli atti ritualmente acquisiti al processo e previa provocazione del contraddittorio sul punto, trattandosi di potere volto alla tutela di interessi generali dell'ordinamento, afferenti a valori di rango fondamentale per l'organizzazione sociale, che trascendono gli interessi particolari del singolo. (Cass. n. 8795/2016, la quale ha ritenuto non viziata da ultrapetizione la decisione del giudice di rigetto della domanda di pagamento del prezzo di un pacchetto azionario su un vizio radicale della rappresentazione economico-finanziaria della società emergente dalla delibera di approvazione del bilancio annessa al contratto di compravendita, ancorché originariamente non contestato dall'acquirente). Il vincolo derivante dal giudicato, partecipando della natura dei comandi giuridici, non costituisce patrimonio esclusivo delle parti ma, mirando a evitare la formazione di giudicati contrastanti, conformemente al principio ne bis in idem, corrisponde a un preciso interesse pubblico. L'esistenza del giudicato esterno, pertanto, al pari di quella del giudicato interno, è rilevabile di ufficio anche se il giudicato si è formato in seguito ad una sentenza della Corte di cassazione (Cass. n. 19730/2011). La cessazione della materia del contendere per intervenuta transazione non costituisce oggetto di eccezione in senso proprio ed è, pertanto, rilevabile di ufficio dal giudice e non è soggetta alle preclusioni previste per detto tipo di eccezioni (Cass. n. 18195/2012). Il giudice innanzi al quale sia stata proposta domanda di nullità integrale del contratto deve rilevarne di ufficio, anche in sede di gravame, la sua nullità solo parziale, ma non può dichiararla in sentenza ove le parti, all'esito di tale indicazione, omettano di proporre, anche, per la prima volta, con l'appello, un'espressa, corrispondente domanda di verificazione, mancando la quale, l'accertamento contenuto nella sentenza che rigetta la domanda di nullità totale è idoneo a produrre l'effetto di un giudicato preclusivo anche con riguardo alla nullità parziale (Cass. n. 2910/2016, la quale, nella specie, a fronte di un'originaria domanda di nullità del contratto di conto corrente bancario, per difetto di forma ed illiceità delle clausole di determinazione degli interessi passivi e di capitalizzazione trimestrale, aveva ritenuto inammissibile, stante il divieto dei nova, la domanda, proposta per la prima volta in appello, di nullità parziale del medesimo contratto in relazione alla clausola di commissione di massimo scoperto). In tema di risarcimento del danno, il fatto colposo del creditore che abbia contribuito al verificarsi dell'evento dannoso — ipotesi regolata dall'art. 1227, comma 1, c.c. — è rilevabile d'ufficio, per cui la sua prospettazione non richiede la proposizione di un'eccezione in senso proprio, costituendo mera difesa, a differenza dell'aggravamento del danno derivante dal comportamento colposo successivo del danneggiato, previsto dal comma 2 della medesima disposizione (Cass. n. 23734/2009). In materia di responsabilità da cose in custodia, la sussistenza del caso fortuito (nella specie, incendio di cassonetto dolosamente provocato dal terzo), idoneo ad interrompere il nesso causale, forma oggetto di un onere probatorio che grava sul custode, soggiacendo, pertanto, alle relative preclusioni istruttorie, ma non anche di un'eccezione in senso stretto, sicché la relativa deduzione non incorre nella preclusione fissata, per il primo grado, dall'art. 167, comma 2 (Cass. n. 13005/2016). In tema di danni cagionati da animali, la ricorrenza del caso fortuito, quale causa di esclusione della responsabilità del proprietario, attiene al profilo probatorio, sicché, non costituendo oggetto di eccezione in senso proprio, è rilevabile d'ufficio (Cass. n. 12392/2016). L'eccezione di interruzione della prescrizione, che è una contro-eccezione, integra un'eccezione in senso lato e non in senso stretto, che può essere rilevata d'ufficio dal giudice sulla base di elementi probatori ritualmente acquisiti agli atti (Cass. n. 9810/2023; Cass. n. 18250/2009). In virtù di tale assunto, è stato recentemente precisato che l'eccezione di interruzione della prescrizione, può essere rilevata anche d'ufficio dal giudice, in qualsiasi stato e grado del processo, purché sulla base delle allegazioni e di prove ritualmente acquisite o acquisibili al processo e quindi, nelle controversie soggette al rito del lavoro, anche all'esito dell'esercizio dei poteri istruttori d'ufficio di cui all'art. 421, comma 2, legittimamente esercitabili dal giudice, tenuto all'accertamento della verità dei fatti rilevanti ai fini della decisione, ancor più nelle controversie in cui, venendo in considerazione la scissione oggettiva tra ente impositore e concessionario della riscossione, può rilevare l'acquisizione da quest'ultimo di ogni documento relativo ad atti della procedura di riscossione da cui derivino conseguenze di rilievo nei rapporti tra creditore e debitore, con il solo limite dell'avvenuta allegazione dei fatti. (Cass. n. 14755/2018: nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva dichiarato prescritto il credito per contributi previdenziali ritenendo di non poter utilizzare, a fini probatori dell'intervenuta interruzione della prescrizione, la relata di notifica della cartella esattoriale, che aveva preceduto la notifica dell'intimazione di pagamento, in ragione della tardiva costituzione del concessionario nel giudizio di primo grado). In tema di estinzione delle obbligazioni, se la reciproca relazione di debito-credito trae origine da un unico rapporto, si è in presenza di una ipotesi di compensazione cd. impropria, in cui l'accertamento contabile del saldo finale delle contrapposte partite può essere compiuto dal giudice anche d'ufficio, diversamente da quanto accade nel caso di compensazione cd. propria che, per operare, postula l'autonomia dei rapporti e richiede l'eccezione di parte (Cass. n. 12302/2016). La simulazione - che, in virtù del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, deve essere allegata dalle parti - se è fatta valere in via d'azione deve essere dedotta, a pena di inammissibilità, nel giudizio di primo grado, mentre, se è formulata come eccezione, può essere riproposta anche in appello (Cass. n. 4933/2016). In tema di fideiussione, il giudice di merito deve esaminare la questione della nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi, anche se la parte abbia censurato solo l'inosservanza degli artt. 1955 e 1956 c.c.: il principio dispositivo non può, difatti, limitare il rilevo di ufficio, sulla base dei fatti allegati e provati od emergenti ex actis , della nullità contrattuale, tesa alla tutela di interessi generali non sacrificabili, fermo l'obbligo di sollecitare, al riguardo, l'attivazione del contraddittorio (Cass. n. 25841/2013). In tema di vizi della cosa venduta, l'ignoranza incolpevole del venditore, agli effetti dell'art. 1494 c.c., integra un'eccezione in senso lato, rilevabile d'ufficio, purché risultante ex actis (Cass. II, n. 21524/2015). La sussistenza del potere rappresentativo in capo a chi ha speso il nome altrui è elemento costitutivo della pretesa che il terzo contraente intenda far valere in giudizio, sulla base del negozio, sicché non costituisce eccezione in senso stretto la deduzione della inefficacia del contratto concluso dal falsus procurator e, pertanto, che ove il difetto di rappresentanza risulti dagli atti, il giudice deve tenerne conto anche in mancanza di specifica richiesta della parte interessata (Cass. I, n. 16162/2015). Nel giudizio promosso per il rilascio di un'abitazione, costituisce eccezione in senso lato, rilevabile d'ufficio anche in appello, l'eccezione con cui il convenuto deduca il diritto di permanere nella detenzione dell'immobile per averne ricevuto l'assegnazione con un provvedimento giudiziale emesso in sede di separazione coniugale, derivando da tale provvedimento la sua efficacia impeditiva (Cass. II, n. 16574/2016). L'art. 1006 c.c., stabilendo che l'usufruttuario può ripetere solo alla fine dell'usufrutto le spese fatte in luogo del nudo proprietario, implica che, prima di tale momento, l'usufruttuario è carente di azione; quale mancanza di una condizione dell'azione, l'improponibilità della domanda di rimborso in pendenza dell'usufrutto può essere rilevata d'ufficio dal giudice (Cass. II, n. 22703/2015). In tema di contratto stipulato da un falsus procurator , la deduzione del difetto o del superamento del potere rappresentativo e della conseguente inefficacia del contratto, da parte dello pseudo rappresentato, integra una mera difesa, atteso che la sussistenza del potere rappresentativo in capo a chi ha speso il nome altrui è un elemento costitutivo della pretesa del terzo nei confronti del rappresentato, come tale rilevabile anche d'ufficio, salvo che lo pseudo rappresentato agisca in giudizio formulando una domanda che presupponga l'efficacia del contratto concluso in suo nome dal rappresentante senza poteri, ovvero si costituisca e difenda nel merito tenendo un comportamento da cui risulti in maniera univoca la volontà di fare proprio tale contratto (nella specie, formulando richieste di risarcimento del danno per dolo contrattuale ex art. 1440 c.c. e di rescissione del contratto ai sensi dell'art. 1448 c.c.), dovendosi ritenere, in tal caso, l'originaria carenza dei poteri rappresentativi superata in virtù di una ratifica, sia pure tacita, del negozio, e, dunque, senza possibilità di rilievo officioso (Cass. S.U. n. 11377/2015; Cass. I, n. 20564/2015). Non costituisce eccezione in senso stretto la contestazione concernente l'opponibilità alla curatela fallimentare della quietanza di pagamento del prezzo di vendita di un bene, rilasciata al debitore dalla società in bonis poi fallita e munita di data certa, poiché riguardava la valutazione come prova del documento (Cass. n. 15591/2018). In tema di licenziamento illegittimo, il cd. aliunde perceptum non costituisce oggetto di eccezione in senso stretto, pertanto, allorquando vi sia stata la rituale allegazione dei fatti rilevanti e gli stessi possano ritenersi incontroversi o dimostrati per effetto di mezzi di prova legittimamente disposti, il giudice può trarne d'ufficio (anche nel silenzio della parte interessata e se l'acquisizione possa ricondursi ad un comportamento della controparte) tutte le conseguenze cui essi sono idonei ai fini della quantificazione del danno lamentato dal lavoratore illegittimamente licenziato (Cass. lav., n. 19163/2022). BibliografiaAndrioli, Prova (dir. proc. civ.), in Nss. D.I., XIV, Torino, 1967, 260 ss.; Calamandrei, Il significato costituzionale delle giurisdizioni di equità (1921), in Opere giuridiche, III, Napoli, 1968, 3 ss.; Cappelletti, Il giudizio di equità e l'appello, in Riv. dir. proc. 1952, II, 143 ss.; Cappelletti, La testimonianza della parte nel sistema dell'oralità, I-II, Milano, 1962; Cavallone, La divulgazione della sentenza civile, Milano, 1964; Cavallone, Oralità e disciplina delle prove nella riforma del processo civile, in Riv. dir. proc. 1984, 686 ss.; Comez, L'equità integrativa del conciliatore, ovvero « lo scandalo dell'equità », in Giust. civ. 1989, I, 2385 ss.; Consolo, Domanda giudiziale, in Dig. civ. 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