Codice di Procedura Civile art. 132 - Contenuto della sentenza.Contenuto della sentenza. [I]. La sentenza [35 att.] è pronunciata in nome del popolo italiano e reca l'intestazione: Repubblica italiana. [II]. Essa deve contenere: 1) l'indicazione del giudice che l'ha pronunciata; 2) l'indicazione delle parti e dei loro difensori; 3) le conclusioni del pubblico ministero e quelle delle parti; 4) la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione 1. 5) il dispositivo, la data della deliberazione e la sottoscrizione del giudice [1612, 4291, 4312; 1191-2 att.]. [III]. La sentenza emessa dal giudice collegiale è sottoscritta soltanto dal presidente e dal giudice estensore. Se il presidente non può sottoscrivere per morte o per altro impedimento, la sentenza viene sottoscritta dal componente più anziano del collegio, purché prima della sottoscrizione sia menzionato l'impedimento; se l'estensore non può sottoscrivere la sentenza per morte o altro impedimento è sufficiente la sottoscrizione del solo presidente, purché prima della sottoscrizione sia menzionato l'impedimento2.
[1] Numero così sostituito dall'art. 45, comma 17, l. 18 giugno 2009, n. 69, con effetto a decorrere dal 4 luglio 2009. V. le disposizioni transitorie di cui al successivo art. 58, comma 2 che così dispone: « 2. Ai giudizi pendenti in primo grado alla data di entrata in vigore della presente legge si applicano gli articoli 132, 345 e 616 del codice di procedura civile e l'articolo 118 delle disposizioni per l'attuazione del codice di procedura civile, come modificati dalla presente legge ». Il testo del numero era il seguente: « 4) la concisa esposizione dello svolgimento del processo e dei motivi in fatto e in diritto della decisione ». [2] Comma così sostituito dall'art. 6 l. 8 agosto 1977, n. 532. InquadramentoLa sentenza è il provvedimento decisorio per eccellenza (Picardi, 249), sebbene per alcuni provvedimenti decisori il codice di rito contempli una forma diversa (p. es. decreto ingiuntivo, decreto di equa riparazione, ordinanza di convalida di sfratto). In essa si cristallizza la volontà dell'organo giurisdizionale dello Stato (Cormio, in Comm. Allorio, 1973, 1399). Con riferimento al contenuto delle sentenze si distinguono in sentenze di merito e sentenze di rito (Fazzalari, 1245): nel primo caso esse accolgono o rigettano in tutto o in parte la domanda; nel secondo caso incidono soltanto sul processo (Cormio, in Comm. Allorio, 1973, 1401). Altra distinzione è quella tra sentenza di mero accertamento, di condanna e costitutive. La sentenza di mero accertamento si limita a rimuovere una situazione di incertezza giuridica (Cormio, in Comm. Allorio, 1973, 1404), a condizione che sussista in proposito in capo all'attore l'interesse di cui all'art. 100 (al cui commento si rinvia); la sentenza di condanna non si limita ad accertare il diritto, ma pone le premesse della sua realizzazione in concreto mediante l'esecuzione forzata, assicurando così l'attuazione della legge (Cormio, 1404); la sentenza costitutiva, dopo aver accertato il diritto ad una modificazione giuridica, la determina, dando luogo al nuovo stato giuridico conforme a diritto (Cormio, in Comm. Allorio, 1973, 1408). Ulteriore distinzione è quella tra sentenze definitive e non definitive, a seconda che chiudano o meno il giudizio (v. sub art. 279). Contenuto della sentenzaLa disposizione in esame individua il contenuto della sentenza. Essa deve essere pronunciata in nome del popolo italiano. Peraltro, in relazione al contenuto della sentenza, la mancata intestazione «Repubblica Italiana» e l'assenza della frase «in nome del popolo italiano», costituiscono mere omissioni materiali di espressioni che l'art. 132, comma 1, prevede siano inserite in ogni sentenza, senza incidere sulla validità del provvedimento e sulla sua decisorietà e definitività (Cass. n. 25635/2008; Cass. n. 249/2010; Cass. n. 10853/2010). La sentenza deve poi contenere l'indicazione del giudice che l'ha pronunciata, intendendosi con ciò sia l'ufficio giudiziario cui appartiene il magistrato, sia l'identità di quest'ultimo ovvero dei singoli componenti del collegio. L'erronea menzione del giudice che ha pronunciato la sentenza non determina però la nullità della medesima, se non sorge il dubbio sulla provenienza della decisione da parte di quel magistrato, potendo l'errore essere corretto con l'apposita procedura di cui all'art. 287. Si trova in proposito ribadito che la sentenza, nella cui intestazione risulti il nominativo di un magistrato, non tenuto alla sottoscrizione, diverso da quello indicato nel verbale dell'udienza collegiale di discussione, deve presumersi affetta da errore materiale, come tale emendabile con la procedura di correzione di cui agli artt. 287-288 , considerato che detta intestazione è priva di autonoma efficacia probatoria, esaurendosi nella riproduzione dei dati del verbale d'udienza, e che, in difetto di elementi contrari, si devono ritenere coincidenti i magistrati indicati in tale verbale come componenti del collegio giudicante non quelli che in concreto hanno partecipato alla deliberazione della sentenza medesima (Cass. S.U., n. 11853/1991; Cass. n. 3268/1995; Cass. n. 3258/2003; Cass. n. 2691/2010; Cass. n. 4875/2015; Cass. n. 2318/2016). Occorre pur sempre, tuttavia, che dal verbale emerga il nome del giudice. Perciò, la sentenza di un giudice collegiale è nulla allorquando la partecipazione del terzo giudice (diverso dal presidente e dall'estensore) non sia desumibile in alcun modo dalla sentenza stessa e dal verbale d'udienza, oppure allorquando risulti la non coincidenza dei giudici che hanno partecipato alla discussione con quelli che hanno preso parte alla deliberazione (Cass. n. 9898/1998). Inoltre, alla luce della norma, dalla formulazione dell'atto deve potersi individuare con certezza il giudice decidente (monocratico o collegiale), tanto da desumersene l'esatta collocazione gerarchica e territoriale nella struttura organizzativa dell'autorità giudiziaria ordinaria e il nome delle persone fisiche in concreto deliberanti (Cass. n. 3877/2019). Tuttavia, in senso diverso è stato affermato che l'omessa indicazione, nell'epigrafe di una sentenza collegiale, del nome del terzo giudice componente il collegio, oltre al relatore/estensore ed al presidente, non è causa di nullità della sentenza medesima, essendo tale nominativo evincibile dal decreto che il presidente redige trimestralmente, ex art. 113 disp. att., indicando le date delle camere di consiglio e la composizione dei relativi collegi (Cass. n. 2658/2016). Anche l'omessa o inesatta indicazione delle parti e dei loro difensori non dà luogo a nullità se dal contesto dell'atto è possibile individuare il soggetto in modo in equivoco (Cass. n. 7242/2001; Cass. n. 2657/2005). Ed anzi, l'omessa o inesatta indicazione del nome di una delle parti nell'intestazione della sentenza va considerata un mero errore materiale, emendabile con la procedura di cui agli artt. 287-288, quando dal contesto della sentenza risulti con sufficiente chiarezza l'esatta identità di tutte le parti (Cass. n. 19437/2019). Al contrario, l'omessa o inesatta indicazione, nell'intestazione della sentenza, del nome di alcuna delle parti produce nullità della sentenza stessa qualora riveli che il contraddittorio non si è regolarmente costituito a norma dell'art. 101, o generi incertezza circa i soggetti ai quali la decisione si riferisce (Cass. n. 7242/2001; Cass. n. 10790/2000, ove si precisa che il vizio non è qualificabile in termine di inesistenza; da ult. Cass. n. 19437/2019 ). Quanto alle conclusioni, la loro mancata trascrizione non dà luogo a nullità, ma può rilevare come vizio di motivazione su un punto decisivo o come omessa pronunzia su un capo di domanda, qualora dalla motivazione stessa non risulti che il giudice abbia portato il proprio esame sul contenuto delle conclusioni non trascritte (Cass. n. 3869/1989; Cass. n. 6143/1996; Cass. n. 8569/1997; Cass. n. 801/1999; Cass. n. 13785/2004; Cass. n. 12864/2015; Cass. n. 2237/2016). E cioè, l'omessa trascrizione delle conclusioni delle parti non è di per sé causa di nullità della sentenza, assumendo rilevanza solo se ed in quanto accompagnata dalla mancata considerazione delle stesse da parte del giudice (Cass. n. 11150/2018). Con riguardo alla motivazione, occorre dire che essa risponde ad un'esigenza contemplata dalla Costituzione (art. 111, comma 6, Cost.) ed è volta a consentire il controllo della medesima sotto il duplice profilo logico e giuridico (Evangelista, 154). Più specifico, secondo una nota classificazione, si può parlare di funzione impugnatoria, di controllo ed extraprocessuale della sentenza. La funzione impugnatoria si rivolge alle parti processuali; la motivazione costituisce la giustificazione della decisione adottata alla stregua dell'ordinamento giuridico, di modo che, ove le parti dissentano dalle ragioni addotte a sostegno della decisione, possono contrastarle, così da ottenere la riforma della sentenza. La funzione di controllo si rivolge al giudice dell'impugnazione, rendendo possibile la verifica, di merito o di sola legittimità, del provvedimento impugnato. La funzione extraprocessuale della motivazione si rivolge all'opinione pubblica ed al pubblico dei fruitori del diritto, garantendo così l'esigenza di un controllo diffuso e attento sul modo di amministrare la giustizia, che la Costituzione vuole avvenga in nome del popolo (Taruffo, 239). La l. n. 69/2009 ha eliminato il riferimento precedentemente contenuto della norma allo svolgimento del processo, che può ora essere omesso. La disposizione si combina con il precetto posto dall'art. 118 disp. att., secondo cui la motivazione della sentenza consta nella succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento a precedenti conformi. Per i fini della motivazione il giudice del merito non deve dare conto del fatto di aver valutato analiticamente tutte le risultanze processuali, né deve confutare ogni singola argomentazione prospettata dalle parti, essendo sufficiente che egli, dopo averli vagliati nel loro complesso, indichi gli elementi e circostanze su cui intende fondare il suo convincimento e l'iter logico seguito, implicitamente disattendendo gli argomenti incompatibili con la decisione adottata (Cass. n. 24331/2007; Cass. n. 12123/2013). Può anche adottare una motivazione per relationem riferita ad altra causa, purché la motivazione sia «autosufficiente», riproducendo i contenuti mutuati e rendendoli oggetto di autonoma valutazione critica nel contesto della diversa controversia (Cass. n. 107/2015). È dunque necessario che il rinvio sia effettuato in modo tale da rendere possibile il controllo della motivazione per relationem (Cass. n. 10007/2013; Cass. n.14786/2016; ; Cass. n. 20883/2019 ). Con riguardo al giudizio di appello, deve considerarsi nulla la sentenza motivata per relationem alla sentenza di primo grado, qualora la laconicità della motivazione non consenta di appurare che alla condivisione della decisione di prime cure il giudice d'appello sia pervenuto attraverso l'esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame, previa specifica ed adeguata considerazione delle allegazioni difensive, degli elementi di prova e dei motivi di appello (Cass. n. 22022/2017). La sentenza di merito, in particolare, può essere motivata mediante rinvio ad altro precedente dello stesso ufficio, in quanto il riferimento ai «precedenti conformi» contenuto nell'art. 118 disp. att. non deve intendersi limitato ai precedenti di legittimità, ma si estende anche a quelli di merito, ricercandosi per tale via il beneficio di schemi decisionali già compiuti per casi identici o per la risoluzione di identiche questioni, nell'ambito di un più ampio disegno di riduzione dei tempi del processo civile; in tal caso, la motivazione del precedente costituisce parte integrante della decisione, sicché la parte che intenda impugnarla ha l'onere di compiere una precisa analisi anche delle argomentazioni che vi sono inserite mediante l'operazione inclusiva del precedente, alla stregua dei requisiti di specificità propri di ciascun modello di gravame, previo esame preliminare della sovrapponibilità del caso richiamato alla fattispecie in discussione (Cass. n. 17640/2016). Resta fermo che il giudice non può copiare dagli atti di parte: la sentenza motivata mediante la trascrizione delle deduzioni di una parte, consistenti nel rinvio a tutte le argomentazioni svolte nel ricorso introduttivo, è nulla, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 4, per violazione degli artt. 132, comma 2, n. 4, in quanto non consente d'individuare in modo chiaro, univoco ed esaustivo le ragioni, attribuibili al giudicante, su cui si fonda la decisione (Cass. n. 22652/2015). L'obbligo motivazionale rimane inevaso qualora il giudice si limiti a richiamare principi giurisprudenziali, senza formulare alcuna specifica valutazione sui fatti di causa e, dunque, senza ricostruire la fattispecie concreta ai fini della sussunzione in quella astratta (Cass. n. 22242/2015). Ed inoltre, è affetta da nullità insanabile, non emendabile per mezzo del procedimento per la correzione dell'errore materiale, l'ordinanza emessa dalla Corte di cassazione che, per evidente svista, rechi l'intestazione riferita alle parti effettive della causa, e la motivazione ed il dispositivo relativi alle parti di altra causa, atteso che, in tale ipotesi, a differenza di quel che si verifica nella correzione dell'errore materiale, non è possibile ricostruire il decisum e la ratio decidendi, con la conseguenza che la decisione manca del tutto e la Corte è tenuta a procedere alla rinnovazione dell'intero giudizio (Cass. n. 16497/2019). L'indicazione della data di deliberazione della sentenza non è (a differenza dell'indicazione della data di pubblicazione, che ne segna il momento di acquisto della rilevanza giuridica) elemento essenziale dell'atto processuale, e la sua mancanza non integra, pertanto, gli estremi di alcuna ipotesi di nullità deducibile con l'impugnazione, costituendo, per converso, fattispecie di mero errore materiale emendabile ex artt. 287, 288 (Cass. n. 13505/1999; Cass. n. 21806/2017). Per altro verso la data di deliberazione possiede un rilievo decisivo giacché costituisce il crinale rispetto al quale verificare se il giudice sia o meno dotato di potestas iudicandi. L'accertamento della sussistenza in capo al magistrato della potestas iudicandi, che lo legittima all'adozione di un provvedimento giurisdizionale, va difatti compiuto al momento della deliberazione della decisione, e non a quello del deposito della minuta, in quanto la decisione è presa quando si delibera in camera di consiglio, mentre le successive fasi dell'iter formativo dell'atto (e cioè la stesura della motivazione, la sua sottoscrizione e la pubblicazione) non incidono sulla sostanza della pronuncia. Pertanto, ai fini dell'esistenza, validità ed efficacia della sentenza, è irrilevante che, dopo la decisione, uno dei componenti di un organo collegiale venga collocato fuori ruolo o a riposo (Cass. n. 23423/2014). Passando alla sottoscrizione del giudice, occorre considerare che tale vizio è ulteriormente previsto dal comma 2 dell'art. 161, in forza del quale la mancanza della sottoscrizione non rimane automaticamente sanata per effetto di mancata impugnazione sul punto, con la conseguenza che la nullità derivante dalla mancanza di sottoscrizione è insanabile e rilevabile d'ufficio. Va subito detto che l'esigenza della sottoscrizione si pone nei medesimi termini in caso di ordinanza avente valore di sentenza, sicché sussiste l'interesse a ricorrere per cassazione al fine di sentire dichiarare la nullità dell'ordinanza di estinzione del giudizio pronunciata nel giudizio di appello, per il fatto di recare solo la firma del presidente che non è anche relatore della causa ed estensore del provvedimento, in quanto essa va comunque considerata sentenza, a nulla rilevando che possano essere contestualmente esperiti altri rimedi, ivi compresa l'opposizione all'esecuzione laddove la sentenza di primo grado sia stata fatta valere come titolo esecutivo, in quanto coperto da un inesistente giudicato (Cass. n. 16446/2024 ove si chiarisce appunto che il provvedimento, emesso in forma di ordinanza, con il quale il giudice collegiale di appello dichiari l'estinzione del processo, ha natura sostanziale di sentenza ed è pertanto necessario, ai fini della sua validità, che esso sia sottoscritto dal presidente e dal giudice relatore, salvo che il presidente sia anche il relatore e l'estensore del provvedimento). In caso di mancanza della sottoscrizione la cd. inesistenza giuridica o la nullità radicale di una sentenza può essere fatta valere o mediante un'autonoma azione di accertamento negativo (actio nullitatis) esperibile in ogni tempo, oppure attraverso gli ordinari mezzi di impugnazione dinanzi al giudice sovraordinato (secondo i casi, appello o ricorso per cassazione), i quali, tuttavia, come rimedi alternativi all'actio nullitatis, devono essere esperiti secondo le regole loro proprie, e, quindi, tempestivamente, nel rispetto dei termini di cui agli artt. 325 e 327 (Cass. n. 9910/2021, che ha dichiarato inammissibile il ricorso per cassazione proposto, dopo il decorso dei termini di decadenza per l'impugnativa, al fine di ottenere la declaratoria di nullità della sentenza di appello, derivata dalla nullità radicale della sentenza di primo grado, asseritamente priva della sottoscrizione del giudice). Il requisito della sottoscrizione della sentenza da parte del giudice che l'ha pronunciata, la cui mancanza comporta la nullità insanabile e rilevabile d'ufficio ex art. 161, capoverso, va verificato con riferimento alla sentenza completa di motivazione e di dispositivo, con irrilevanza, per quanto concerne le sentenze dei giudici di merito in giudizi soggetti al rito del lavoro, della sussistenza o insussistenza della sottoscrizione del dispositivo letto in udienza, ritualmente inserito in un verbale di cui il segretario d'udienza abbia attestato la regolarità formale (Cass. n. 4471/2011). Nel caso di sentenza emessa ai sensi dell'art. 281- sexies, qualora dall'intestazione del processo verbale d'udienza risulti il nominativo di un giudice, mentre la motivazione ed il dispositivo rechino la sottoscrizione di un giudice diverso, la sentenza è nulla, perché, costituendo essa parte integrante del processo verbale in cui è contenuta ed in cui il giudice ha inserito la redazione della motivazione e del dispositivo, la formulazione dell'atto, complessivamente considerato, non consente di individuare con certezza quale giudice, raccolta la precisazione delle conclusioni, abbia contestualmente pronunciato la (Cass. n. 24842/2014). Si riteneva in passato insanabilmente nulla, trattandosi di decisione collegiale, la sentenza mancante della sottoscrizione di uno dei due giudici tenuti a sottoscrivere (Cass. n. 11892/1992). La nullità insanabile della sentenza collegiale derivante dall'omessa sottoscrizione della stessa da parte di uno dei magistrati tenuti a sottoscriverla ai sensi dell'art. 132 si giudicava sussistente (con conseguente rimessione della causa allo stesso giudice che ha emesso la decisione) anche nell'ipotesi in cui la firma di tale magistrato fosse stata apposta su ciascun foglio della sentenza ma non in calce alla stessa, atteso che la disposizione di cui all'art. 132, nel prevedere la «sottoscrizione» del giudice, esige che la firma sia apposta in calce al documento, in quanto unicamente in tal modo la firma stessa individua il magistrato quale autore del provvedimento nella sua globalità (Cass. n. 4564/1995; Cass. n. 260/2001). Successivamente tale indirizzo è stato modificato con l'affermazione del principio secondo cui la sentenza emessa dal giudice in composizione collegiale priva di una delle due sottoscrizioni (del presidente del collegio ovvero del relatore) è affetta da nullità sanabile ai sensi dell'art. 161, comma 1, trattandosi di sottoscrizione insufficiente e non mancante, la cui sola ricorrenza comporta la non riconducibilità dell'atto al giudice, mentre una diversa interpretazione, che accomuni le due ipotesi con applicazione dell'art. 161, comma 2, deve ritenersi lesiva dei principi del giusto processo e della ragionevole durata (Cass. S.U., n. 11021/2014). ). Nella prospettiva si è dunque ribadito che la sentenza emessa dal giudice in composizione collegiale, sottoscritta solo dall'estensore e non dal presidente del collegio, è affetta da nullità sanabile ai sensi dell'art. 161, comma 1, c.p.c., trattandosi di sottoscrizione insufficiente e non mancante, sicché il relativo vizio si converte in motivo di impugnazione ed è preclusa al medesimo giudice la possibilità di rinnovare l'atto viziato (Cass. n. 14359/2024). La sentenza è d'altro canto inesistente per omessa sottoscrizione solo quando questa sia del tutto mancante, con conseguente non riconducibilità dell'atto al giudice, e non anche quando la stessa sia solo insufficiente, come nel caso della sottoscrizione con firma illeggibile, ricorrendo, in detta ipotesi, una mera nullità (Cass. n. 7546/2017),che ha ritenuto affetta da nullità la sentenza con sottoscrizione illeggibile, in quanto riconducibile al giudice in forza dell'intestazione e della dicitura «il giudice» sulla quale era stata apposta la sottoscrizione). Al difetto del requisito della sottoscrizione del giudice, previsto dal n. 5 dell'art. 132, è cioè equiparata la sottoscrizione illeggibile, allorché nella sentenza non risulti neppure indicato il giudice che l'abbia pronunciata, onde rimanga impedita ogni possibilità di individuazione del decidente (Cass. n. 28281/2011).Il provvedimento giurisdizionale firmato con un segno grafico indecifrabile e privo di capacità identificativa della persona fisica del giudice è stato però equiparato a quello mancante di sottoscrizione, a meno che il segno non sia riconducibile ad un autore determinato tramite l'esame di altre parti dello stesso atto (Cass. n. 8129/2024). In sintesi, al difetto del requisito della sottoscrizione del giudice, previsto dall'art. 132, n. 5, comma 2, c.p.c. (che deve ritenersi estendibile anche a quello della sottoscrizione – imposto dall'art. 134, comma 1, c.p.c. - delle ordinanze, incluse anche quelle di tipo decisorio, tra le quali rientra l'ordinanza di cui all' art. 186-quater c.p.c.) è equiparato anche il caso della sottoscrizione illeggibile, allorché dal contenuto delprovvedimento, non rilevando eventuali elementi ab estrinseco, non emerga alcuna idonea indicazione della persona del giudice che l'abbia pronunciata, onde rimanga impedita ogni possibilità di identificabilità del decidente stesso (Cass. n. 35032/2023). La mancanza della sottoscrizione o della sigla in alcuna delle pagine che compongono la sentenza non integra violazione dell'art. 132, comma 3, n. 5, il quale richiede la sottoscrizione del giudice solo come sigillo conclusivo del testo in cui è documentata la decisione, in funzione di verifica analitica della corrispondenza del testo scritto, in ogni sua parte, a quello steso dal relatore ed approvato dal presidente (Cass. n. 11860/2006). In tema di decisione collegiale, merita aggiungere che sussiste il vizio di costituzione del giudice, che determina la nullità insanabile della decisione, quando l'intestazione di un provvedimento del tribunale in composizione collegiale reca l'indicazione dei nominativi di due soli giudici e dal resto dell'atto non risulta che la statuizione sia stata comunque adottata con la partecipazione di tre magistrati (Cass. n. 1252/2021). La sentenza redatta in formato elettronico dal giudice e recante firma digitale dello stesso, a norma dell'art. 15 d.m. 21 febbraio 2011, n. 44, non è nulla per mancanza di sottoscrizione poiché è garantita l'identificabilità dell'autore, l'integrità del documento e l'immodificabilità del provvedimento, se non dal suo autore e sempre che non sia intervenuta la pubblicazione, e, inoltre, la firma digitale è equiparata alla sottoscrizione autografa in base ai principi del d.lgs. n. 82/2005, resi applicabili al processo civile dall'art. 4 d.l. n. 193/2009, convertito dalla l. n. 24/2010, ratione temporis applicabile (Cass. n. 22871/2015; Cass. n. 21285/2015). Come è stato ribadito, cioè, la sentenza redatta in formato elettronico, recante la firma digitale del giudice a norma dell'art. 15 del d.m. 21 febbraio 2011, n. 44, è stato stabilito che non è affetta da nullità per difetto di sottoscrizione, attesa l'applicabilità al processo civile e ai documenti informatici adottati nel suo ambito del d.lgs. n. 82 del 2005 (cd. "Codice dell'amministrazione digitale"), sicché, in applicazione dell'art. 23 d.lgs. cit., deve ritenersi provata fino a querela di falso la sottoscrizione da parte del giudice della sentenza redatta in formato elettronico, quando su ogni pagina della copia estratta su supporto analogico vi siano i segni grafici (coccarda e stringa) che attestano la presenza della firma digitale (Cass. n. 11306/2021). Per conseguenza, la corrispondenza tra le persone del presidente e del relatore o del giudice monocratico con i firmatari, per esteso o mediante sigla, oppure telematicamente, del provvedimento giurisdizionale, essendo attestata con l'atto pubblico, costituito dalla pubblicazione del cancelliere, può essere contestata solo con la querela di falso (Cass. n. 7626/2024). Inoltre, non costituisce ragione di invalidità della sentenza firmata digitalmente il fatto che nelle "proprietà" del file che la contiene sia riportato un "autore" del documento diverso dal giudice, perché la paternità di un atto giudiziario telematico dipende esclusivamente dalla sua sottoscrizione con firma digitale e la menzione di un "autore" risultante dalle "proprietà" non vale ad indicare l'estensore materiale del provvedimento (Cass. n. 4430/2022). La sentenza che, regolarmente sottoscritta dal presidente, anche in qualità di estensore, non rechi i nominativi dei giudici costituenti il collegio deliberante, con conseguente impossibilità di desumerne l'identità, è nulla per vizio di costituzione del giudice, ai sensi dell'art. 158, e non per difetto assoluto di sottoscrizione ex art. 161, sicché la corte d'appello, rilevata anche d'ufficio tale nullità, è tenuta a trattenere la causa e a deciderla nel merito, senza rimetterla al primo giudice, non ricorrendo nella specie alcuna delle ipotesi di rimessione tassativamente previste dall'art. 354 (Cass. n. 19214/2015). Con riguardo alla seconda parte del comma 3, Si deve rammentare che, in tema di sottoscrizione delle sentenze civili, in caso di collocamento in pensione, dimissioni, o comunque in tutte le ipotesi (diverse dal trasferimento ad altra sede o ad altro incarico) in cui il magistrato abbia cessato di fare parte dell'ordine giudiziario, la sottoscrizione della sentenza da parte del medesimo — pur non sussistendo un impedimento assoluto alla sua materiale apposizione — non è coercibile, e ben può essere rifiutata, senza che egli ne debba rispondere penalmente o disciplinarmente. Alla norma di cui all'art. 132, u. c. (secondo cui, se il giudice non può sottoscrivere la sentenza «per morte o altro impedimento», questa è sottoscritta dal componente più anziano del collegio) non può, infatti, riconoscersi natura eccezionale, risultando, pertanto, senz'altro consentita l'applicazione analogica ed estensiva dell'ipotesi di «altro impedimento» ivi contemplata, la quale deve considerarsi integrata anche dal collocamento a riposo del magistrato. Ne consegue che, ove il presidente del collegio, che ha emesso la sentenza, venga successivamente a cessare dal servizio o rifiuti per qualsiasi motivo di porre in essere gli adempimenti di competenza in ragione delle funzioni già esercitate (verifica della conformità dell'originale della sentenza alla minuta e della rispondenza dei principi indicati nella motivazione della sentenza a quelli affermati nel corso della camera di consiglio; sottoscrizione della sentenza), non è nulla, né tanto meno inesistente, la sentenza sottoscritta dal giudice componente anziano del collegio giudicante, che a tale stregua ne esplichi le relative incombenze, con l'annotazione di avere sottoscritto in vece del presidente «impedito», senza che sia peraltro necessario indicare la causa dell'impedimento, sufficiente essendo che egli ne attesti l'esistenza, con una statuizione non censurabile nei successivi gradi di giudizio, non risultando al riguardo prevista alcuna possibilità di impugnazione (Cass. n. 4326/2012). Nel consentire al giudice anziano la firma in sostituzione del presidente, la norma in commento postula, a pena di nullità del provvedimento, non soltanto l'esistenza di un impedimento tale da rendere impossibile od eccessivamente difficoltoso l'incombente, ma anche l'esplicita (ancorché generica) menzione della natura dell'impedimento stesso contestualmente all'apposizione della firma sostitutiva. Ne consegue, da un canto, l'insufficienza della semplice annotazione, in calce alla sentenza, della dicitura, precedente la firma, che si limiti a richiamare, senza ulteriore specificazione, il cit. art. 132, e, dall'altro, l'impossibilità di porre riparo a tale insufficienza in epoca successiva al deposito della sentenza, anche nell'ipotesi in cui (come in caso di morte pregressa del presidente) l'impedimento stesso risulti obbiettivamente rilevabile e si sottragga ad ogni possibilità di valutazione ed apprezzamento (Cass. n. 20960/2019). Non sono nulle le sentenze scritte a mano e scarsamente leggibili. In tema di provvedimenti giudiziari, in caso di mera difficoltà di comprensione del testo, stilato dall'estensore con scrittura manuale, non è configurabile la nullità della sentenza attesa l'assenza di una espressa comminatoria (Cass. n. 4947/2016; Cass. n. 5869/2018; Cass. n. 6553/2018, secondo cui, nel caso ivi esaminato, non si era in presenza di una assoluta illeggibilità del testo, ma si prospettava la difficoltà di comprendere il senso solo di alcune parole, situazione questa che consentiva di escludere la sussistenza della più radicale ipotesi di assoluta carenza della motivazione per totale inidoneità dei segni grafici utilizzati a dare contezza dell'iter motivazionale fatto proprio dal giudice) e la facoltà della parte di richiedere alla cancelleria, ex artt. 743 e 746, copia conforme dattiloscritta, che deve essere leggibile (Cass. n. 18663/2016). Nondimeno, la motivazione della sentenza è assente non solo quando sia stata assolutamente omessa o quando il testo di essa, scritto a mano, sia assolutamente indecifrabile, ma anche quando la sua scarsa leggibilità renda necessario un processo interpretativo del testo con esito incerto, tanto da prestarsi ad equivoci o anche a manipolazioni delle parti che possono, in tal modo, attribuire alla sentenza contenuti diversi (Cass. n. 4683/2016). È appena il caso di aggiungere che il precetto dettato dall'art. 132, laddove richiede che la sentenza contenga l'esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione, appare essere sempre più spesso utilizzato allo scopo di appoggiarvi, dopo la riscrittura del n. 5 dell'art. 360 c.p.c., la formulazione di motivi di ricorso per cassazione: occorre tuttavia tenere a mente che simile manovra è sovente destinata all'insuccesso, avendo la S.C. stabilito che è denunciabile in cassazione solo l'anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella «mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico», nella «motivazione apparente», nel «contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili» e nella «motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile», esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di «sufficienza» della motivazione (Cass. S.U. n. 8053/2014). È dunque nulla, per violazione dell'art. 132, n. 4, e dell'art. 118 disp. att. la sentenza in cui sia totalmente omessa, per materiale mancanza, la parte della motivazione riferibile ad argomentazioni rilevanti per individuare e comprendere le ragioni, in fatto e in diritto, della decisione (Cass. n. 12864/2015 ). La motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perché affetta da error in procedendo , allora, quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all'interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Cass. S.U., n. 22232/2016). BibliografiaAndrioli, Diritto processuale civile, I, Napoli, 1979; D'Onofrio, Commento al codice di procedura civile, Torino, 1957; Evangelista, Motivazione della sentenza civile, in Enc. dir., XXVII, Milano, 1977, 154; Fazzalari, Sentenza civile, in Enc. dir., Xli, Milano, 1989; Lancellotti, Ordinanza, in Nss. D.I., XII, Torino, 1965; Liebman, Manuale di diritto processuale civile, Milano, 1984; Picardi, Manuale del processo civile, Milano, 2013; Taruffo, La fisionomia della sentenza in Italia, in Materiali per un corso di analisi della giurisprudenza, a cura di Bessone e Guastini, Padova, 1994. |