Codice di Procedura Civile art. 228 - Confessione giudiziale.

Antonio Scarpa

Confessione giudiziale.

[I]. La confessione giudiziale è spontanea [229] o provocata mediante interrogatorio formale [230; 2730 ss. c.c.].

Inquadramento.

La confessione è definita dall’art. 2730 c.c. come la dichiarazione che una parte fa della verità di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli all’altra parte.

La confessione si distingue tra giudiziale e stragiudiziale, a seconda che sia resa in giudizio, ovvero fuori o prima del processo, e cioè in difetto di un rapporto processuale attuale tra il confidente e la controparte.

La confessione giudiziale può poi essere spontanea o provocata mediante interrogatorio formale.

Profili soggettivi e di contenuto della confessione.

 

Da un punto di vista soggettivo, la confessione è dichiarazione che deve provenire da chi sia parte del giudizio, e il suo contenuto va valutato alla stregua degli interessi della controparte del dichiarante.

Da un punto di vista oggettivo, invece, la confessione deve connotarsi per il suo contenuto contrario alla posizione difensiva assunta dal medesimo dichiarante (Cass. S.U., n. 7381/2013). 

Giacché in realtà la confessione verte comunque su fatti storici, i quali sono contraddistinti da intrinseca neutralità, la dichiarazione di un dato fatto in un dato giudizio assume carattere confessorio se posta in relazione con la concreta fattispecie di lite e con l'onere della prova ripartito dall'art. 2697 c.c.

Esula dall'ambito della confessione, quindi, la qualificazione giuridica del fatto (Cass. lav., n. 11881/2003) o il titolo sotteso a un rapporto di credito (Cass. III, n. 656/24); come l'ammissione che un certo evento sia ascrivibile a propria colpa, trattandosi di un giudizio a formare il quale concorrono valutazioni di ordine giuridico (Cass. III, n. 11266/2002).

Per fatto sfavorevole al dichiarante e favorevole all'altra parte deve in sostanza intendersi quello che, avuto riguardo all'oggetto della controversia ed ai termini della contestazione, sia in concreto idoneo a produrre conseguenze giuridiche svantaggiose per colui che volontariamente e consapevolmente ne riconosce la verità (Cass. III, n. 16669/2024).

È perciò confessione la dichiarazione dell'attore che ammetta l'inesistenza di un fatto costitutivo del diritto da lui azionato, ovvero l'esistenza di un fatto impeditivo, modificativo o estintivo dedotto dal convenuto; è parimenti confessione la dichiarazione del convenuto che riconosca la sussistenza di un fatto costitutivo della pretesa dell'attore, oppure l'inesistenza di un fatto posto a base di una propria eccezione. In tale prospettiva, la confessione è mezzo di eliminazione della controversia, per la sua efficacia di piena prova del fatto posto esclusivamente a fondamento delle difese della controparte: ciò a differenza dell'ammissione, la quale opera soltanto come mezzo di fissazione del fatto controverso, verificandosi allorché una parte rappresenta come presupposto delle proprie difese un fatto già posto a fondamento delle domande o eccezioni avversarie.

Non può, quindi, essere oggetto di atto avente valore confessorio l'esistenza del diritto di proprietà o (al di fuori dei casi previsti) di altri diritti reali (Cass. II, n. 13625/2007). E' così inidonea a costituire una servitù prediale la confessione del proprietario del fondo servente circa l'esistenza della stessa, occorrendo, piuttosto, che il riconoscimento della fondatezza della pretesa del titolare del fondo dominante si concreti in un negozio idoneo a far sorgere la servitù stessa in via convenzionale (Cass. II, n. 2853/2016).

La confessione ha quindi sempre ad oggetto un fatto implicato dalla situazione sostanziale controversa (Cass. III, n. 11635/1997). Ai sensi dell'art. 2720 c.c., l'efficacia probatoria dell'atto ricognitivo, avente natura confessoria, si esplica soltanto in ordine ai fatti produttivi di situazioni o rapporti giuridici sfavorevoli al dichiarante.

Laddove la dichiarazione sia volta a riconoscere non già l'esistenza di un fatto produttivo di una situazione giuridica, quanto l'esistenza di un diritto di credito, essa vale come ricognizione di debito, a norma dell'art. 1988 c.c., la quale non costituisce autonoma fonte di obbligazione, ma determina soltanto un'astrazione meramente processuale della causa debendi, comportante una semplice relevatio ab onere probandi: conseguentemente, il dichiarante può in ogni caso fornire la prova contraria riguardante la sussistenza o meno dei fatti, costitutivi, modificativi od estintivi del rapporto fondamentale.

Viceversa, alcun valore probatorio riveste la dichiarazione ricognitiva dell'esistenza di un diritto di proprietà o di altri diritti reali.

La confessione deve poi vertere su fatti relativi a diritti disponibili (art. 2733, comma 2, c.c.) e deve pertanto provenire da persona capace di disporre del diritto correlato ai fatti confessati (art. 2731 c.c.).

La capacità di disposizione del confidente condiziona l'efficacia probatoria della confessione: giacché la confessione, quale prova legale, produce effetti sostanzialmente equivalenti agli atti di disposizione del diritto; in tale senso la disponibilità del diritto al quale si riferiscono i fatti confessati va desunta dalla possibilità per il soggetto di regolamentare negozialmente gli interessi implicati dalla confessione. In dottrina, da alcuni si assume che la capacità di disposizione incida sulla validità della confessione resa da persona incapace; la giurisprudenza generalmente attribuisce invece ad essa valore meramente indiziario.

La confessione deve inoltre riferirsi a diritti oggettivamente disponibili, e cioè diritti patrimoniali esclusivamente privatistici, e mai dunque può coinvolgere diritti indisponibili, ovvero diritti attribuiti al soggetto per soddisfare un interesse generale e superiore a quello dei singoli. Non ha perciò alcuna efficacia la confessione su fatti inerenti allo stato e alla capacità delle persone, alle cause matrimoniali, alla filiazione, ai diritti familiari, ai diritti della personalità, agli obblighi alimentari. È quindi inammissibile, con riferimento ad una domanda di addebitabilità della separazione personale di coniugi, la confessione in ordine alla violazione dei doveri nascenti dal matrimonio, proprio perché si verte in materia in cui i diritti e i doveri sono indisponibili. Ancora una volta, alle ammissioni in ordine a diritti indisponibili, una volta negato il valore di confessione in senso stretto, e quindi di prova legale, può tuttavia accordarsi portata di presunzioni ed indizi liberamente valutabili in unione con altri elementi probatori, sempre che esprimano non opinioni o giudizi o stati d'animo personali, ma fatti obiettivi, suscettibili, in quanto tali, di essere valutati giuridicamente come indice della violazione di specifici doveri coniugali (Cass. I, n. 7998/2014). Non hanno, così, valore confessorio le dichiarazioni rese dal mandatario del titolare del diritto in contesa (Cass. I, n. 4509/2019).

Parimenti, le ammissioni delle parti in cause aventi ad oggetto diritti familiari non possono assumere valore di confessione in senso stretto e, quindi, di prova legale, il che non esclude, tuttavia, che il giudice possa utilizzare dette ammissioni quali presunzioni ed indizi liberamente valutabili in unione con altri elementi probatori (Cass. I, n. 15248/2022).

La confessione non può poi supplire alla mancanza della forma documentale scritta richiesta ad substantiam (Cass. III, n. 3869/2004), come, ad esempio, in tema di simulazione relativa oggettiva, ai fini della prova della controdichiarazione scritta del contratto dissimulato (Cass. II, n. 10933/2022),mentre, a differenza del giuramento, essa può vertere anche su fatti illeciti.

E' tuttavia ammissibile l'interrogatorio formale avente ad oggetto la simulazione di contratti di compravendita di immobili, che esigono la forma scritta "ad substantiam", in quanto sia diretto a provocare la confessione del soggetto cui è deferito e a dimostrare la simulazione, poiché, in tal caso, oggetto del mezzo di prova è l'inesistenza della compravendita (Cass. n. 8804/2018).

Pur essendo la confessione un mero atto giuridico non negoziale, avente ad oggetto fatti obbiettivi (atteso che non rileva per il contenuto di volontà e per gli effetti che tale volontà sia ammessa a produrre nell'ordinamento), essa postula altresì un elemento psicologico, definito come animus confitendi, e consistente nella consapevolezza e volontà di ammettere e/o di riconoscere la verità del fatto a sé sfavorevole e vantaggioso per l'altra parte, indipendentemente dal fine per il quale la dichiarazione sia stata resa ed indipendentemente dalla consapevolezza delle conseguenze giuridiche che ne possano derivare (Cass. III, n. 19165/2005).

Le ammissioni sprovviste di animus confitendi hanno unicamente valenza indiziaria. Ad esempio, il riconoscimento di un fatto a sé sfavorevole e favorevole alla altra parte, costituente l'oggetto di una delle reciproche concessioni contenute in un contratto di transazione, non avrà mai natura confessoria, poiché non integra una dichiarazione di scienza fine a se stessa, ma è strumentale rispetto al raggiungimento dello scopo dell'accordo transattivo, il che fa venir meno ogni essenziale animus confitendi nella rappresentazione interna che l'autore si forma della propria dichiarazione.

Efficacia probatoria della confessione.

La confessione di per sé supera tutte le prove contrarie derivanti da testimonianze, presunzioni o documenti, ecc.; mentre cessa di avere valore di prova legale, laddove le dichiarazioni rese dal confitente siano rafforzate e valutate alla luce delle risultanze di altri mezzi di prova.

Per poter affermare che la confessione faccia piena prova dei fatti ammessi, è necessario che tutta la dichiarazione resa dal confidente sia relativa a fatti a lui sfavorevoli. Il nostro ordinamento elabora al riguardo il principio della cosiddetta inscindibilità della confessione, sancito dall'art. 2734 c.c., secondo cui le “dichiarazioni aggiunte alla confessione”, relative a fatti o circostanze tendenti ad infirmare, modificare o estinguere gli effetti del fatto confessato, fanno piena prova nella loro integrità ove non contestate dalla controparte, restando altrimenti rimesso al giudice l'apprezzamento dell'efficacia probatoria delle dichiarazioni stesse. L'efficacia probatoria della dichiarazione complessa è quindi strettamente correlata al comportamento della controparte.

L'ampiezza della formula adoperata dal legislatore nell'art. 2734 c.c. consente di disciplinare unitariamente sia l'ipotesi della cosiddetta confessione complessa, che sussiste allorché le aggiunte si riferiscono a fatti distinti da quello confessato, tali da estinguere o modificarne gli effetti ab estrinseco, che quella della cosiddetta confessione qualificata, che ricorre se i vari fatti dichiarati siano strettamente connessi, tanto che l'uno si profili come la necessaria conseguenza dell'altro, ovvero incidano sulla reciproca essenza e si riflettano sulla rispettiva efficacia. Il principio dell'unitarietà della confessione vincola peraltro il giudice a prendere posizione rispetto alla confessione complessa o qualificata. Il criterio di inscindibilità in ogni caso torna applicabile solo alle confessioni giudiziali, ovvero alle ammissioni fatte dalle parti in sede di interrogatorio formale, e non anche alle dichiarazioni rese in sede di interrogatorio libero, le quali rimangono per contro soggette nella loro totalità al libero apprezzamento del giudice.

Nei procedimenti a litisconsorzio necessario, di natura sostanziale o anche di natura meramente processuale, la confessione resa da una solo dei litisconsorzi è liberamente apprezzata dal giudice, ai sensi dell'art. 2733, comma 3, c.c. (Cass. VI, n. 2482/2019). Tale ultima norma costituisce una deroga a ciò che dispone il comma 2 dello stesso art. 2733 c.c., escludendo la valenza di piena prova della confessione, e relegandola al rango di elemento che il giudice apprezza liberamente, e ciò, per come di recente affermato dalla giurisprudenza, non solo nei confronti degli altri litisconsorti, ma anche nei confronti del medesimo confitente. La negazione dell'efficacia di prova legale alla confessione resa da uno soltanto dei litisconsorzi opera in tutti i casi di litisconsorzio necessario, tanto ove l'esigenza di una decisione unitaria della controversia sia dovuta alla natura del rapporto controverso, quanto ove sia dettata da semplici ragioni di opportunità processuale. Ad esempio, nei giudizi proposti ai sensi dell'art. 144 d.lgs. n. 209/2005, poiché gli stessi fatti che determinano la responsabilità e la condanna del danneggiante costituiscono la fonte dell'obbligazione risarcitoria dell'assicuratore, comportando una situazione di litisconsorzio necessario tra entrambi tali soggetti e il terzo danneggiato,  la dichiarazione confessoria, contenuta nel modulo di constatazione amichevole di incidente, resa dal responsabile del danno proprietario del veicolo assicurato, non ha valore di piena prova nemmeno nei confronti del solo confitente, ma deve essere liberamente apprezzata dal giudice, dovendo trovare applicazione la norma di cui all'art. 2733, comma 3, c.c. (Cass. n. 3567/2013).

Così, ogni valutazione sulla portata confessoria del modulo di constatazione amichevole d'incidente (cosiddetto C.I.D.) deve ritenersi preclusa dall'esistenza di un'accertata incompatibilità oggettiva tra il fatto come descritto in tale documento e le conseguenze del sinistro come accertate in giudizio (Cass. III, n. 2438/2024;Cass. III, n. 8451/2019).

Nelle ipotesi invece di litisconsorzio facoltativo per identità di titolo, la confessione mantiene la sua efficacia di piena prova, sia pure unicamente in relazione al rapporto imputabile al soggetto che l'ha resa, e non rispetto agli altri diritti cumulativamente trattati con quello cui la confessione si riferisce. Così, in relazione alla cosiddetta “chiamata in garanzia impropria”, compiuta dal convenuto in un giudizio risarcitorio, il quale non neghi la propria legittimazione passiva, ma chieda di essere tenuto indenne dal terzo chiamato in caso di accoglimento della domanda attorea, realizzandosi una fattispecie di litisconsorzio facoltativo, non dovrebbe attribuirsi valore di prova legale nei confronti del garante alla confessione resa dal danneggiante i favore del danneggiato. Parimenti, in tema di risarcimento del danno derivante dalla circolazione dei veicoli a motore, la confessione proveniente da un soggetto litisconsorte facoltativo, qual è il conducente danneggiante non proprietario del veicolo, rispetto all'assicuratore ed al proprietario dello stesso, é liberamente apprezzabile dal giudice nei riguardi di costoro in applicazione dell'art. 2733, comma 3, c.c., mentre ha valore di piena prova nei confronti del medesimo confidente, come previsto dall'art. 2733, comma 2, c.c. (Cass. VI, n. 24187/2014), con la conseguenza che correttamente il giudice può accogliere la domanda nei confronti del conducente non proprietario del veicolo, e rigettarla nei confronti dell'assicuratore della r.c.a. (Cass. VI, n. 3875/2014).

La risposta data dalla parte all'interrogatorio deferitole, come non può fornire la prova di fatti favorevoli alla parte stessa, così non è idonea neppure ad invertire, in relazione a tali fatti, l'onere probatorio, il quale continua a gravare su detta parte, la quale, se intende far derivare dalle proprie affermazioni conseguenze giuridiche in proprio favore, deve pertanto dare la dimostrazione dei fatti da essa affermati, senza poter pretendere che, per effetto di dette affermazioni, debba essere la controparte a fornire la prova dell'inesistenza degli stessi (Cass. III, n. 200/2002).

Confessione giudiziale e stragiudiziale.

La confessione si distingue tra giudiziale e stragiudiziale, a seconda che sia resa in giudizio, ovvero fuori o prima del processo, e cioè in difetto di un rapporto processuale attuale tra il confidente e la controparte.

La confessione stragiudiziale  che sia contenuta in un documento va provata con la produzione in giudizio del documento stesso.

La confessione stragiudiziale resa alla parte o a chi la rappresenta fa piena prova contro colui che l'ha fatta, così come quella giudiziale (art. 2733 e 2735 c.c.), e quindi rende inammissibile la prova testimoniale diretta a contrastare le risultanze della confessione (Cass. lav., n. 3975/2001).

 Le dichiarazioni rese dall'imputato nel dibattimento penale sono soggette al libero apprezzamento del giudice civile e non possono integrare una confessione giudiziale nel giudizio civile, atteso che questa ricorre soltanto nei casi in cui sia spontanea o provocata in sede di interrogatorio formale, quindi all'interno del giudizio civile medesimo (Cass. VI, n. 20255/2019; Cass. VI, n. 15464/2013).

Il creditore, il quale rilascia quietanza al debitore, ammette il fatto del ricevuto pagamento e rende confessione stragiudiziale alla parte, con piena efficacia probatoria, ai sensi degli artt. 2733 C.C. e 2735 c.c. (Cass. I, n. 32458/2018). 

Il creditore, perciò, non può impugnare la quietanza se non dimostrando, a norma dell'art. 2732 c.c., che essa è stata determinata da errore di fatto o violenza, essendo insufficiente la prova della non veridicità della dichiarazione (Cass. III, n. 5945/2023).

La quietanza, in quanto dichiarazione di scienza del creditore assimilabile alla confessione stragiudiziale del ricevuto pagamento, può tuttavia essere superata dall'opposta confessione giudiziale del debitore, che ammetta, nell'interrogatorio formale, di non aver corrisposto la somma quietanzata. L'art. 2726 c.c.  limita, infatti, quanto al fatto del pagamento, la prova per testimoni e per presunzioni, non anche la prova per confessione (Cass. II, n. 23971/2013;Cass. III, n. 19283/2022).

Viceversa, si è ritenuto che le dichiarazioni, a sé sfavorevoli, rese dalla persona offesa alla P.G. ed al P.M. nella fase delle indagini preliminari possono essere ricondotte nel novero della confessione stragiudiziale ed utilizzate ai fini della decisione in sede civile (Cass. II, n. 3689/2021).

Alle dichiarazioni a sé sfavorevoli rese dalla parte al CTU si attribuisce la stessa valenza probatoria che è riconosciuta dall'art. 2735, comma 1, seconda parte, c.c. alle dichiarazioni confessorie stragiudiziali fatte al terzo, le quali non hanno efficacia di "piena prova", ma possono concorrere, con le altre risultanze di causa, alla formazione del convincimento del giudice (Cass. III, n. 24468/2020 ).

Le ammissioni del consulente tecnico di parte non hanno l'efficacia della confessione, dovendo questa per il suo contenuto dispositivo, provenire dalla parte, come richiede l'art. 2730 c.c. (Cass. II, n. 34508/2022).

La deposizione "de relato ex parte", con cui si riferiscano circostanze sfavorevoli alla parte medesima, ha la natura giuridica di prova testimoniale di una confessione stragiudiziale fatta a un terzo, se supportata dal relativo elemento soggettivo, in quanto tale liberamente apprezzabile dal giudice, ai sensi dell'art. 2735, comma 1, secondo periodo, c.c. Al contrario, qualora verta su circostanze apprese dalle parti, la deposizione in parola ha una rilevanza probatoria sostanzialmente nulla, poiché attiene al fatto della dichiarazione di una parte del giudizio e non a quello oggetto dell'accertamento (Cass. III, n. 7746/2020).

Il riconoscimento da parte dell'appaltatore dei vizi e delle difformità dell'opera, agli effetti dell'art. 1667, comma 2, c.c. non richiede, invece, la confessione giudiziale o stragiudiziale della sua responsabilità (Cass. II, n. 2733/2013).

Hanno efficacia probatoria di confessione stragiudiziale rese ad un terzo le dichiarazioni del danneggiato riportate nel referto di pronto soccorso (Cass. III, n. 20879/2024).

Si è affermato che la dichiarazione confessoria contenuta in un testamento, consentita dall’art. 2735, comma 1, seconda parte, c.c., diviene parte del «regolamento» post mortem degli interessi del testatore, acquisendo efficacia nel momento in cui il testatore confitente avrà cessato di vivere e, dunque, con l’apertura della successione (Cass. II, n. 18550/ 2022). Diversa soluzione in ordine al momento dell’efficacia della confessione contenuta in un testamento può prescegliersi allorché la scheda testamentaria viene consegnata dal disponente al beneficiario, perché acquisti immediata conoscenza del fatto confessato. Una dichiarazione è qualificabile come confessione ove sussistano un elemento soggettivo, consistente nella consapevolezza e volontà di ammettere e riconoscere la verità di un fatto a sé sfavorevole e favorevole all'altra parte, ed un elemento oggettivo, che si ha qualora dall'ammissione del fatto obiettivo, il quale forma oggetto della confessione escludente qualsiasi contestazione sul punto, derivi un concreto pregiudizio all'interesse del dichiarante e, al contempo, un corrispondente vantaggio nei confronti del destinatario della dichiarazione (Cass. S.U.,  n. 7381/2013). Anche la dichiarazione confessoria contenuta in un testamento deve, quindi, consistere nella rappresentazione di un fatto, che assume rilievo probatorio in relazione all’interesse di ciascuno dei contendenti. Questa valutazione va operata al momento in cui la confessione testamentaria è divenuta efficace, e quindi dopo l’apertura della successione per cui è causa, avendo riguardo all'oggetto della controversia ed ai termini della contestazione. Il tratto peculiare della dichiarazione confessoria contenuta in un testamento, avente, per quanto detto, efficacia post mortem, è che essa assume necessariamente rilevanza probatoria non contro il de cuius, quanto, all’interno del giudizio in cui è dedotto il rapporto giuridico di cui il confitente era parte, contro l’erede che in tale rapporto sia subentrato. Nella controversia promossa dai legittimari che agiscono in riduzione e per l'accertamento di una donazione dissimulata compiuta dal de cuius in favore di altro legittimario istituito erede, la dichiarazione contenuta nel testamento, con la quale il medesimo testatore assuma di aver donato il bene apparentemente venduto, deve quindi essere assimilata ad una confessione stragiudiziale, trattandosi di affermazione vantaggiosa per i legittimari e sfavorevole per l’erede, al quale il valore confessorio di tale dichiarazione può essere opposto in quanto subentrante nella medesima situazione del proprio dante causa.  Tale dichiarazione, ai sensi dell’art. 2735, comma 1, seconda parte, c.c., pur non avendo efficacia di prova legale, non è valutabile alla stregua di un mero indizio, idoneo unicamente a fondare una presunzione ovvero ad integrare una prova manchevole, ma è mezzo di prova diretta, su cui il giudice può basare anche esclusivamente il proprio convincimento in esito al libero apprezzamento (Cass. II, n. 18550/ 2022).

Bibliografia

Luiso-Sassani, La riforma del processo civile, Milano, 2006.

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