Codice di Procedura Civile art. 276 - Deliberazione 1 .Deliberazione1. [I]. La decisione è deliberata in segreto nella camera di consiglio. Ad essa possono partecipare soltanto i giudici che hanno assistito alla discussione [158; 114 att.]. [II]. Il collegio, sotto la direzione del presidente, decide gradatamente le questioni pregiudiziali proposte dalle parti o rilevabili d'ufficio e quindi il merito della causa [277, 279 2]. [III]. La decisione è presa a maggioranza di voti. Il primo a votare è il relatore, quindi l'altro giudice e infine il presidente. [IV]. Se intorno a una questione si prospettano più soluzioni e non si forma la maggioranza alla prima votazione, il presidente mette ai voti due delle soluzioni per escluderne una, quindi mette ai voti la non esclusa e quella eventualmente restante, e così successivamente finché le soluzioni siano ridotte a due, sulle quali avviene la votazione definitiva. [V]. Chiusa la votazione, il presidente scrive e sottoscrive il dispositivo. La motivazione è quindi stesa dal relatore, a meno che il presidente non creda di stenderla egli stesso o affidarla all'altro giudice [118-119 att.]. [1] Per le disposizioni per l'esercizio dell'attività giurisdizionale nella vigenza dell'emergenza epidemiologica da Covid-19, vedi l'art. 23, comma 9, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modif. in legge 18 dicembre 2020, n. 176, che dispone che: « nei procedimenti civili e penali le deliberazioni collegiali in camera dì consiglio possono essere assunte mediante collegamenti da remoto individuati e regolati con provvedimento del direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia. Il luogo da cui si collegano i magistrati è considerato Camera di consiglio a tutti gli effetti di legge ». Da ultimo v. art. 16, comma1, d.l. 30 dicembre 2021, n. 228, con modif., in l. 25 febbraio 2022, n. 15, che stabilisce che «Le disposizioni di cui all'articolo 221, commi 3, 4, 5, 6, 7, 8 e 10 del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77, nonche' le disposizioni di cui all'articolo 23, commi 2, 6, 7, 8, primo, secondo, terzo, quarto e quinto periodo, 8-bis, primo, secondo, terzo e quarto periodo, 9, 9-bis e 10, e agli articoli 23-bis, commi 1, 2, 3, 4 e 7, e 24 del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, in materia di processo civile e penale, continuano ad applicarsi fino alla data del 31 dicembre 2022»; v. anche art. 16, comma 2, d.l. n. 228, cit. Per la proroga del termine di applicazione, v. da ultimo, art. 8, commi 8, 9 d.l.29 dicembre 2022, n. 198, conv., con modif., in l. 24 febbraio 2023, n. 14. InquadramentoGli artt. 275 e 276 disciplinano la fase del passaggio della causa alla decisione del collegio ed il procedimento di deliberazione della sentenza. La prima norma, in particolare, prevede il termine per il deposito della sentenza, decorrente dal termine per il deposito delle memorie di replica di cui all'art. 190, nonché il sistema della doppia richiesta necessaria per procedere alla discussione orale dinanzi al collegio. La secondo disposizione stabilisce la composizione del collegio giudicante, l'ordine logico delle questioni da seguire nella decisione, le modalità di redazione del provvedimento. Dispositivo redatto in camera di consiglioIl dispositivo redatto in camera di consiglio ex art. 276, ultimo comma, non ha rilevanza giuridica esterna ma solo valore interno poiché l'esistenza della sentenza civile è determinata — salvo che nelle controversie assoggettate al rito del lavoro ovvero a riti ad esso legislativamente equiparati o specialmente disciplinati — dalla sua pubblicazione mediante deposito nella cancelleria del giudice che l'ha pronunciata, sicché è valida la sentenza ancorché agli atti non risulti la presenza di un dispositivo, sottoscritto dal presidente, mancando, tanto più, la previsione di un corrispondente vizio nella citata norma (Cass. I, n. 22113/2015). Immodificabilità del collegio giudicanteA mente dell'art. 276 la decisione della causa è adottata dai giudici che hanno assistito alla discussione, sicché la composizione del collegio giudicante è immodificabile solo dal momento dell'inizio della discussione (Cass. III, n. 8066/2007; Cass. VI, n. 22238/2017; Cass. VI-2, n. 15660/2020). Al fine di individuare i magistrati che abbiano materialmente partecipato alla deliberazione della sentenza hanno rilevanza probatoria non le indicazioni riportate nell'intestazione della sentenza, ma quelle del verbale dell'udienza collegiale di discussione, che fa fede fino a querela di falso: ne consegue che, in caso di discrepanza tra il nominativo del magistrato sottoscrittore della sentenza e quello dei tre giudici indicati nell'epigrafe del documento quali componenti del collegio, il verbale dell'udienza di discussione costituisce l'unica fonte cui attingere la prova della partecipazione del magistrato predetto alla decisione della causa (Cass. I, n. 11785/2007; Cass. III, n. 15879/2010). La decisione di primo grado deliberata in camera di consiglio da un collegio diverso, in uno o più membri, da quello che ha assistito alla discussione della causa, in violazione dell'art. 276, comma 1, è causa di nullità della sentenza, riconducibile al vizio di costituzione del giudice ai sensi dell'art. 158 ed è soggetta al relativo regime, con la conseguenza che il giudice d'appello che rilevi anche d'ufficio detta nullità è tenuto a trattenere la causa e a deciderla nel merito, provvedendo alla rinnovazione della decisione come naturale rimedio contro la rilevazione della nullità e non deve, invece, rimettere la causa al primo giudice che ha pronunciato la sentenza affetta da nullità, in quanto non ricorre nella specie alcuna delle ipotesi di rimessione tassativamente previste dall'art. 354 (Cass. I, n. 9369/2012). Pur costituendo principio generale — desumibile dal combinato disposto degli artt. 132 e 276 — che la paternità della decisione deve essere attribuita esclusivamente al giudice o al collegio che ha elaborato la decisione stessa e che nell'epigrafe della sentenza deve essere riportato il nominativo dei giudici o del giudice che ha assunto la decisione medesima, nell'ipotesi in cui risulti che uno dei membri del collegio indicato nell'intestazione della sentenza non compaia tra i nominativi di coloro che hanno assistito all'udienza di discussione ed hanno trattenuto la causa in decisione, si versa in un caso di irregolarità dell'intestazione (a cui non è riconoscibile un'autonoma efficacia probatoria), la quale non comporta effetti sulla validità della pronuncia, posto che essa non viola il principio dell'identità dell'organo presente all'udienza di discussione con quello deliberante (Cass. L, n. 14113/2006). E' stato così evidenziato che, dal combinato disposto degli artt. 132 e 276, è agevole ricavare il principio secondo cui la paternità della decisione deve essere attribuita esclusivamente al giudice o al collegio che ha elaborato la decisione stessa, occorrendo che nell'epigrafe della sentenza-documento venga riportato il nominativo del giudice o dei giudici che abbiano assunto la decisione. È poi necessario che i membri del collegio nominativamente indicati nell'intestazione della sentenza coincidano con i nomi di coloro che hanno assistito all'udienza di discussione (ovvero di coloro che sono comunque individuabili sulla base del decreto del capo dell'ufficio giudiziario redatto ai sensi degli artt. 113 e 114 disp. att. c.p.c., o dei criteri prefissati nella tabella di organizzazione) ed hanno trattenuto la causa in decisione, stante il principio dell'identità dell'organo presente all'udienza di discussione con quello deliberante. La nullità della sentenza deliberata da giudici diversi da quelli che hanno assistito alla discussione può quindi essere dichiarata solo quando vi sia la prova della diversità tra il collegio deliberante e quello che abbia, invece, assistito alla discussione della causa. Il verbale dell'udienza di discussione ingenera, perciò, la presunzione della deliberazione della decisione da parte degli stessi giudici che hanno partecipato all'udienza collegiale, ulteriormente avvalorata dalla circostanza che, ai sensi dall'art. 276, tra i compiti del presidente del collegio vi è quello di controllare che i giudici presenti nella camera di consiglio siano quelli risultanti dal verbale dell'udienza di discussione, restando la composizione del collegio altrimenti comunque individuabile alla stregua delle regole dettate dagli artt. 113 e 114 disp. att. c.p.c. Viceversa, la data della deliberazione della sentenza in camera di consiglio, come la data del decreto che designa presidente e componenti del collegio, attengono ad atti interni, le cui incongruenze possono dar luogo soltanto ad irregolarità formali e non determinano alcun vizio della decisione sotto il profilo della immodificabilità del collegio giudicante rispetto a quello che ha assistito alla discussione (Cass. II, n. 28914/2022). Si è affermato altresì che l'identità della motivazione di sentenze pronunciate da diversi collegi, appartenenti al medesimo ufficio giudiziario, con riferimento a fattispecie analoghe, simili o addirittura identiche, non rappresenta un motivo sufficiente per ritenere che la decisione sia stata deliberata in camera di consiglio da un collegio diverso da quello che ha assistito alla discussione della causa, né infirma l'attribuibilità, ai rispettivi giudici che le abbiano emesse, delle decisioni e delle ragioni che le sostengono né, ancora, lascia ragionevolmente supporre alcuna indebita influenza sul procedimento di formazione della volontà espressa nelle pronunce adottate, dovendo la paternità della decisione essere attribuita esclusivamente al collegio che abbia elaborato la decisione stessa, quale emergente dall'epigrafe della sentenza-documento, ove il nominativo dei giudici ivi riprodotto coincida con quello, risultante dal verbale di udienza - fidefacente fino a querela di falso - di coloro che abbiano assistito all'udienza di discussione ed abbiano trattenuto la causa in decisione (Cass. II, n. 8782/2020 ). Sostituzione del relatoreIl provvedimento col quale il presidente di un collegio giudicante sostituisce al giudice che ha istruito la causa altro giudice come relatore, può risultare anche da una semplice annotazione sul ruolo di udienza, non rilevando la mancanza di motivazione, perché il provvedimento stesso è rimesso all'apprezzamento discrezionale del presidente (Cass. II, n. 6158/1979). La composizione del collegio giudicante è, infatti, immodificabile solo dopo l'inizio della discussione, mentre prima di tale momento, la sostituzione del giudice relatore può essere liberamente disposta, senza comunicazione; né tale ultima evenienza pregiudica il diritto di difesa, potendo la parte, cui non sia noto il nome dei giudici chiamati a trattare o decidere la causa, proporre istanza di ricusazione prima dell'inizio della trattazione o della decisione, ex art. 52, comma 2, (Cass. II, n. 7285/2018). La presunzione di coincidenza delle figure del relatore e dell'estensore della sentenza — posta dall'art. 276 e ribadita dall'art. 119, comma 2, disp. att. — può essere vinta solo dalla dimostrazione, in base alla documentale formulazione della stessa sentenza, dell'intervenuta sostituzione, nella posizione di estensore, del giudice autore della relazione con il presidente, o con altro giudice (Cass. lav., n. 11831/2003). Il procedimento di deliberazione della sentenzaIl momento della pronuncia della sentenza — nel quale il magistrato deve essere legittimamente preposto all'ufficio per potere adottare un provvedimento giuridicamente valido — va identificato con quello della deliberazione della decisione collegiale: le successive fasi dell'iter formativo dell'atto, e cioè la stesura della motivazione, la sua sottoscrizione e la conseguente pubblicazione, non incidono, pertanto, sulla sostanza della pronuncia. Di tal che, anche un magistrato che abbia cessato di appartenere all'ufficio presso cui è insediato l'organo deliberante può redigere la motivazione della sentenza e sottoscriverla. Il collegio, sotto la direzione del presidente, affronta le questioni secondo l'ordine voluto dalle parti, essendo vincolato all'effettivo contenuto del dibattito processuale ed alle reali conclusioni dei contendenti, tranne che non si tratti di questioni rilevabili d'ufficio. Peraltro, è ravvisabile il vizio di ultrapetizione della sentenza unicamente allorché il collegio, con il dispositivo emesso, trascenda i limiti fissati dalle contrapposte richieste ed eccezioni delle parti, e non quando sia meramente violato l'ordine logico di esame delle questioni di fatto e di diritto da porre a base della sentenza. Qualora una domanda o un'eccezione, per la quale sussista una questione pregiudiziale di rito impeditivi del suo accoglimento, venga tuttavia anche esaminata nel merito, sia pure al solo scopo di affermarne l'infondatezza, un siffatto esame costituisce attività giurisdizionale svolta in carenza di potere, di per sé insuscettibile di arrecare nocumento alla parte. Occorre, in ogni caso, distinguere il caso in cui la motivazione ulteriore sia volta a sorreggere con più argomenti (anche su piani gradati) la decisione di un medesimo aspetto della domanda o dell'eccezione — in relazione al quale il gravame avverso la sentenza deve contrapporsi a tutti quegli argomenti, ciascuno dei quali si pone come autonoma ed autosufficiente ratio decidendi — dalla ipotesi in cui la motivazione ad abundantiam attiene, viceversa, ad altri aspetti, cioè ad altre domande od eccezioni non solo diverse da quella delibata in via principale ma il cui esame è per di più precluso al giudice proprio in ragione della natura della questione (di rito) decisa in via principale. Ad esempio, ove sia esaminata dapprima e decisa in senso affermativo una questione pregiudiziale di inammissibilità della domanda o del gravame, le considerazioni di merito, che comunque il collegio poi provveda a svolgere, restano fuori dalla decisione, in quanto valutazioni che provengono da un giudice che, con la pregiudiziale declaratoria di inammissibilità, si è già spogliato della potestas iudicandi in relazione al merito della fattispecie controversa. Dunque, in presenza di argomentazioni sul merito che il giudice affronti in sentenza, subordinatamente ad una statuizione di inammissibilità, o ad una declinatoria di sua giurisdizione o competenza, la parte soccombente non ha l'onere, né l'interesse, ad impugnare, sicché ammissibile l'impugnazione che si rivolga alla sola statuizione pregiudiziale ed è viceversa inammissibile l'impugnazione nella parte in cui pretenda un sindacato anche in ordine alla motivazione sul merito svolta, per quanto detto, ad abundantiam nella sentenza gravata (Cass. S.U., n. 3840/2007). In tal senso, la giurisprudenza, affondando l'ordine delle questioni da decidere, avvalora la tesi dottrinale del doppio oggetto di giudizio, secondo la scansione rito-merito: la duplicità o pluralità delle autonome rationes decidendi, che allerta l'onere per il soccombente delle contemporanee impugnazioni di tutte, postula comunque l'analisi di più questioni omogenee, ossia o tutte pregiudiziali di rito o tutte attinenti al merito della domanda. Si discute in dottrina circa l'effettivo valore precettivo dell'art. 276, comma 2, allorché viene segnata la traccia normativa dell'ordine di trattazione delle questioni nella struttura della deliberazione della sentenza. Vanno analizzate pertanto quali siano le conseguenze di ordine processuale incidenti sulla sentenza che sia il frutto di una violazione dell'ordine logico-giuridico di esame delle questioni imposto dalla disposizione in esame. Ad esempio, è controverso se il giudice, in presenza di una complessa eccezione di rito e di un'agevole difesa di merito provenienti dal convenuto, entrambe ostative all'accoglimento della domanda dell'attore, possa legittimamente pervenire ad un rigetto della domanda stessa unicamente sulla base della questione di merito. A coloro che sostengono che in tal caso il giudice debba limitare la propria attività decisoria alla valutazione della questione pregiudiziale e senz'altro definire il giudizio in rito, si replica soppesando l'utilità di una sentenza che, nel solco dell'art. 111, comma 2, Cost., persegua la primaria finalità della piena realizzazione del diritto delle parti ad ottenere una risposta finale nel merito alle loro domande di giustizia, diritto cui è funzionale ogni opzione semplificatoria ed acceleratoria delle situazioni processuali che a tale risposta conducono. Si osserva che l'unica controindicazione a professare l'autonomia del giudice nella scelta dell'ordine delle questioni sarebbe data dalla possibilità che il convenuto appellato sia costretto a sollevare di nuovo la questione di rito, semmai nelle forme di un appello incidentale condizionato. Mentre vi sarebbe il vantaggio di una pronuncia sulla sostanza del problema, che può essere di notevole impatto pratico nel disincentivare un'impugnazione (Biavati, 1301). Così pure in caso di una pluralità di questioni di merito o pregiudiziali di rito, dovendosi ritenere il giudice libero di decidere la lite prescegliendo quella dirimente che appaia di più facile soluzione. La giurisprudenza ha raggiunto analoga consapevolezza, affermando che, in applicazione del principio processuale della «ragione più liquida» — desumibile dagli artt. 24 e 111 Cost. — deve ritenersi consentito al giudice esaminare un motivo di merito, suscettibile di assicurare la più agevole definizione del giudizio, anche in presenza di una questione pregiudiziale, sostituendo il profilo dell'evidenza decisoria a quello dell'ordine delle questioni da trattare ai sensi dell'art. 276 (Cass. S.U. , n. 9936/2014; Cass. V, n. 11458/2018; Cass. V, n. 363/2019; Cass. VI-3, N. 30745/2019). È stato peraltro sottolineato ancora di recente che l'art. 276, comma 2, impone al giudice di esaminare preliminarmente le questioni di rito (proposte dalle parti o rilevabili d'ufficio), dal momento che la relativa soluzione è astrattamente suscettibile di precludere la decisione nel merito della causa (Cass. III, n. 21859/2024). BibliografiaBiavati, Appunti sulla struttura della decisione e l'ordine delle questioni, in Riv. trim. dir. proc. CIV. 2009, 1301; Bove, Sentenze non definitive e riserva d'impugnazione, in Riv. trim. dir. proc. CIV. 1998, 415; Califano, Le Sezioni unite civili ripropongono l'indirizzo formale in tema di sentenze non definitive su una fra più domande cumulate nel medesimo processo, in Giust. CIV. 2000, 1, 63; Damiani, La precisazione delle conclusioni e il “collo di bottiglia” nel processo civile, in Riv. trim. dir. proc. CIV. 2005, 1313; Menichelli, La sospensione del giudizio di primo grado a seguito d'appello immediato avverso sentenza non definitive, in Giust. CIV. 2005, 1, 230; Merlin, Condanna generica e opposizione del convenuto alla liquidazione del quantum in separato giudizio, in Riv. dir. proc. 1987, 207; Prendini, Osservazioni in tema di condanna generica e poteri del giudice, in Resp. CIV. prev. 2000, 968; Proto Pisani, In tema di condanna generica e precisazioni delle conclusioni, in Foro it. 1986, I, 1533; Scarselli, Considerazioni sulla condanna generica (nella evoluzione giurisprudenziale e dopo la riforma), in Corr. giur. 1998, 714; Vitale, Condanna generica e separazione dei giudizi, in Giust. CIV. 1999, 4, 1095. |