Codice di Procedura Civile art. 279 - Forma dei provvedimenti del collegio 1 .Forma dei provvedimenti del collegio 1. [I]. Il collegio pronuncia ordinanza quando provvede soltanto su questioni relative all’istruzione della causa, senza definire il giudizio, nonché quando decide soltanto questioni di competenza. In tal caso, se non definisce il giudizio, impartisce con la stessa ordinanza i provvedimenti per l’ulteriore istruzione della causa 2. [II]. Il collegio pronuncia sentenza [131, 132]: 1) quando definisce il giudizio, decidendo questioni di giurisdizione [37] 3; 2) quando definisce il giudizio, decidendo questioni pregiudiziali attinenti al processo o questioni preliminari di merito [187 2-3]; 3) quando definisce il giudizio, decidendo totalmente il merito [277 1]; 4) quando, decidendo alcune delle questioni di cui ai numeri 1, 2 e 3, non definisce il giudizio e impartisce distinti provvedimenti per l'ulteriore istruzione della causa [340, 356, 361; 125-bis, 129, 129-bis, 133-bis att.]; 5) quando, valendosi della facoltà di cui agli articoli 103, secondo comma, e 104, secondo comma, decide solo alcune delle cause fino a quel momento riunite, e con distinti provvedimenti dispone la separazione delle altre cause e l'ulteriore istruzione riguardo alle medesime, ovvero la rimessione al giudice inferiore delle cause di sua competenza. [III]. I provvedimenti per l'ulteriore istruzione, previsti dai numeri 4 e 5, sono dati con separata ordinanza [280]. [IV]. I provvedimenti del collegio, che hanno forma di ordinanza, comunque motivati, non possono mai pregiudicare la decisione della causa; salvo che la legge disponga altrimenti [308 2], essi sono modificabili e revocabili dallo stesso collegio, e non sono soggetti ai mezzi di impugnazione previsti per le sentenze [323]. Le ordinanze del collegio sono sempre immediatamente esecutive. Tuttavia, quando sia stato proposto appello immediato contro una delle sentenze previste dal numero 4 del secondo comma, il giudice istruttore, su istanza concorde delle parti, qualora ritenga che i provvedimenti dell'ordinanza collegiale siano dipendenti da quelli contenuti nella sentenza impugnata, può disporre con ordinanza non impugnabile che l'esecuzione o la prosecuzione dell'ulteriore istruttoria sia sospesa sino alla definizione del giudizio di appello [125-bis att.]. [V]. L'ordinanza è depositata [in cancelleria] insieme con la sentenza4.
[1] Articolo così sostituito dall'art. 23 l. 14 luglio 1950, n. 581. [2] Comma così sostituito dall'art. 46, comma 9, lett. a), della l. 18 giugno 2009, n. 69 (legge di riforma 2009), con effetto a decorrere dal 4 luglio 2009, per i giudizi instaurati dopo la data della sua entrata in vigore. Il testo precedente recitava: «Il collegio quando provvede soltanto su questioni relative all'istruzione della causa, senza definire il giudizio, pronuncia ordinanza». [3] Numero così modificato dall'art. 46, comma 9, lett. b), della l. 18 giugno 2009, n. 69 (legge di riforma 2009), con effetto a decorrere dal 4 luglio 2009, per i giudizi instaurati dopo la data della sua entrata in vigore. [4] Comma modificato dall'art. 3, comma 2, lett. dd) d.lgs. 31 ottobre 2024, n. 164, che ha soppresso le parole: «in cancelleria»; ai sensi dell’art. 7, comma 1, del medesimo decreto, le disposizioni di cui al d.lgs. n. 164/2024 cit. si applicano ai procedimenti introdotti successivamente al 28 febbraio 2023. Inquadramento.L’art. 279 prescrive quale debba essere la forma dei provvedimenti del collegio quando pronunci su questioni relative all’istruzione, senza definire il giudizio, e quando invece definisca il giudizio, ovvero ancora quando, pur non definendo il giudizio, decida solo su alcune delle questioni, o su alcune delle cause fino a quel momento riunite. La forma dei provvedimenti del collegioL'art. 279 contempla le diverse forme dei provvedimenti in cui si sostanzia la fase decisoria. La giurisprudenza, a base della distinzione tra le sentenze e le ordinanze, pone comunque attenzione non alla forma adottata, quanto al contenuto del provvedimento: si riconosce cioè natura di sentenza (con conseguente soggezione ai mezzi di impugnazione) all'atto del giudice che rivesta comunque il carattere della decisorietà e della definitività, e non invece alla pronuncia che contenga l'ambito dei suoi effetti soltanto all'interno del processo. È perciò sentenza quella in cui il giudice esamina, in via definitiva o non definitiva, il merito della controversia, ovvero la sussistenza dei presupposti o delle condizioni della domanda; appartiene invece al genus dei provvedimenti meramente ordinatori l'atto con cui il giudice si limiti a disporre circa il contenuto e le modalità delle attività consentite alle parti, nell'ambito dei poteri di regolazione del procedimento (Cass. S.U., n. 3816/2005). Circa però il regime impugnatorio di un provvedimento avente forma non coerente col proprio contenuto, si sostiene altresì che il rilievo attribuito alla sostanza trova temperamento nel principio secondo il quale l'individuazione del mezzo d'impugnazione esperibile contro un provvedimento giurisdizionale va fatta, a tutela dell'affidamento della parte e quindi in ossequio al principio dell'apparenza, in base alla qualificazione data dal giudice con il provvedimento impugnato all'azione proposta, alla controversia e alla decisione, a prescindere dalla sua esattezza. Si tratta, del resto, dell'unica opzione interpretativa conforme ai principi fondamentali della certezza dei rimedi impugnatori e dell'economia dell'attività processuale, evitando l'irragionevolezza di imporre di fatto all'interessato di tutelarsi proponendo impugnazioni a mero titolo cautelativo, nel dubbio circa l'esattezza della qualificazione operata dal giudice a quo (Cass. S.U., n. 8949/2007; Cass. I, n. 2948/2015; Cass. I. n. 2811/2018; Cass. VI, n. 7243/2017). Si afferma, così, che per stabilire se un provvedimento costituisca sentenza o ordinanza endoprocessuale, è necessario avere riguardo non alla sua forma esteriore o all'intestazione adottata, bensì al suo contenuto e, conseguentemente, all'effetto giuridico che esso è destinato a produrre, sicché hanno natura di sentenze - soggette agli ordinari mezzi di impugnazione e suscettibili, in mancanza, di passare in giudicato - i provvedimenti che, ai sensi dell' art. 279, contengono una statuizione di natura decisoria (sulla giurisdizione, sulla competenza, ovvero su questioni pregiudiziali del processo o preliminari di merito), anche quando non definiscono il giudizio (Cass. I, n. 3945/2018). Ciò equivale a dire altrimenti che, quando la legge prevede un potere del giudice, il cui esercizio si concreti nell'adozione di un provvedimento avente una determinata forma ed un determinato contenuto, la pronuncia del provvedimento con quel contenuto e con l'espressa indicazione del suo fondamento normativo, il quale legittima il relativo potere di emissione, comporta che, nel giudizio di impugnazione previsto in ordine a tale provvedimento, il giudice dell'impugnazione debba valutare lo stesso considerandolo reso in forza dell'esercizio di quel potere attribuito dalla disposizione citata nell'atto, restando preclusa la possibilità di riqualificarlo secondo la forma legale che avrebbe potuto o dovuto essere rivestita ai sensi di altro precetto, semmai inerente a facoltà giurisdizionale di analogo contenuto, ma basata su diversi presupposti o su distinte motivazioni (a meno che proprio le argomentazioni esplicitate nel provvedimento inducano a ritenere che il giudice abbia soltanto per errore invocato una norma, ed in concreto esercitato un potere concessogli da altra). Non è comunque determinante per distinguere tra ordinanze e sentenze l'adempimento dell'obbligo motivazionale. Anche perciò nel rendere con ordinanza i provvedimenti per l'ulteriore istruzione, previsti dai numeri 4 e 5 del comma 2 dell'art. 279 , valutando ammissibilità e rilevanza delle deduzioni probatorie, il collegio deve congruamente motivare, incidendo sul diritto alla prova costituzionalmente garantito dall'art. 24 Cost. Si è ritenuta comunque impugnabile mediante regolamento ex art. 42 la decisione declinatoria della competenza, seppure assunta con sentenza e non con ordinanza, in violazione dell'art. 279, comma 1, attesa l'irrilevanza, trattandosi di provvedimenti di analogo contenuto decisorio, dell'inosservanza del requisito di forma (Cass. VI, n. 1400/2016). Sentenze definitive e non definitiveIl comma 2 dell'art. 279 elenca cinque ipotesi tipiche in cui il giudice pronuncia sentenza. I nn. 1), 2) e 3) prevedono ipotesi di sentenze definitive, allorché il collegio decida questioni di giurisdizione, questioni pregiudiziali di rito, questioni preliminari di merito, ovvero risolva totalmente il merito stesso della lite. Identicamente, è da qualificarsi come definitiva la sentenza con cui il giudice, ai sensi del n. 5) del comma 2, valendosi della facoltà di separazione in sede decisoria, decida alcuna delle cause fino a quel momento riunite, mentre per le altre, che impongano un ulteriore corso, rimetta le parti in sede istruttoria. È invece non definitiva la sentenza con cui il giudice, secondo quanto previsto dal n. 4) del comma 2 dell'art. 279, dopo aver rimesso anticipatamente in decisione la causa per decidere una questione di giurisdizione, o una questione pregiudiziale di rito, o ancora una questione preliminare di merito, rigetti le rispettive eccezioni, ritenendole inidonee ad assorbire il merito della lite, disponendo pertanto il prosieguo istruttorio. Allorquando sia resa pronuncia non definitiva, ai sensi dell'art. 279, comma 2 n. 4, ed il giudizio continui per l'ulteriore istruzione della causa, il frazionamento della decisione comporta tuttavia l'esaurimento dei poteri decisori per la parte della controversia definita con la sentenza interlocutoria: pertanto, la prosecuzione del giudizio non può riguardare altro che le questioni non coperte da quella prima pronuncia. In pratica, il giudice che abbia emesso la sentenza non definitiva - seppure essa non sia passata in giudicato - resta da essa vincolato nel successivo corso del giudizio davanti a sé quanto alle questioni ormai definite, sia quanto a quelle da queste stesse dipendenti che debbano essere esaminate e risolte sulla base dell'intervenuta pronuncia, a meno che tale ultima sia poi stata riformata con sentenza passata in giudicato a seguito di impugnazione immediata. L'eventuale violazione del giudicato interno derivante dalla sentenza non definitiva, che non sia stata immediatamente impugnata, né fatta oggetto di riserva. Sulla natura di sentenze non definitive dei provvedimenti che, ai sensi dell'art. 279, contengono una statuizione di natura decisoria (sulla giurisdizione, sulla competenza, ovvero su questioni pregiudiziali del processo o preliminari di merito), anche quando non definiscono il giudizio, ancorché qualificati ordinanza, con la conseguenza che la statuizione ivi contenuta non può essere, neppure implicitamente, revocata o modificata dalla sentenza (definitiva), atteso l'esaurimento del potere giurisdizionale per la parte della controversia decisa, Cass. VI, n. 12065/2022. Il punto di più accesso contrasto attiene in realtà alla natura da riconoscere alla sentenza che risolva solo alcuna o alcune fra le più domande cumulate dall'attore in un unico processo; e, conseguentemente, alla condivisibilità del cd. criterio formale, il quale attribuisce valore dirimente all'esistenza di un provvedimento di separazione, espresso o per lo meno implicito, della domanda decisa da quella rimessa al prosieguo del giudizio. Non è chiaro, in primo luogo, il combinato disposto dei n. 3 e 4 del comma 2 dell'art. 279. Tre diverse costruzioni si contendono il campo. L'interpretazione letterale vuole che la disposizione ammetta sentenze non definitive su ogni questione di merito, anche diverse da quelle c.d. preliminari di cui ai n. 2 e 4 della medesima norma. Altri propendono per una lettura non tecnica del termine «questioni» di cui al n. 4 dell'articolo in esame, quando combinato col numero immediatamente precedente. Sicché la pronuncia ivi contemplata avrebbe ad oggetto vere e proprie domande cumulate in un unico processo con altre che non siano state ritenute sufficientemente istruite per la (contemporanea) decisione. In conseguenza, la disposizione farebbe implicito riferimento al provvedimento previsto dall'art. 277, comma 2, che resterebbe così soggetto al regime di impugnazione di cui agli art. 340 e 361. V'è, poi, chi ha ritenuto che l'art. 277 cpv. operi « in una serie di ipotesi nelle quali non vi può essere concorrenza con la separazione: cumulo determinato da intervento, da rapporto di accessorietà, garanzia, pregiudizialità, da sentenza di riunione exart. 40 c.p.c. »; ammettendo, in ogni altro caso, anche l'applicazione dell'art. 279, n. 5 (Califano, 63). Invero, già nel 1990 le Sezioni Unite della Cassazione avevano affermato che, nel caso di cumulo di domande fra gli stessi soggetti, la sentenza, che decida una o più di dette domande, con prosecuzione del procedimento per le altre, ha natura non definitiva, e come tale può essere oggetto di riserva d'impugnazione differita, qualora non disponga la separazione, ai sensi dell'art. 279 comma 2, n. 5, e non provveda sulle spese relative alla domanda od alle domande decise, rinviando all'ulteriore corso del giudizio, esigendo la definitività della sentenza un espresso provvedimento di separazione, ovvero la pronuncia sulle spese, che chiude la contesa cui si riferisce e quindi necessariamente implica la separazione medesima (Cass. S.U., n. 1577/1990). Il criterio formale era stato, anche di seguito a Cass. S.U., n. 1577/1990, contestato da altre pronunce della S.C., propense piuttosto a riaffermare il criterio sostanziale, secondo cui una sentenza deve essere considerata definitiva o non definitiva in ragione del suo effettivo contenuto, senza che rilevi l'emanazione o meno di un provvedimento di separazione o di pronuncia sulle spese; nel senso che sarebbe definitiva la sentenza che esaurisce l'oggetto della controversia, senza necessità di ulteriori pronunce, mentre è non definitiva quella che riguarda solo un aspetto della controversia e che rinvia alla prosecuzione del giudizio il riconoscimento o meno del bene in contestazione; sicché, ancora, sempre non definitiva sarebbe la sentenza che pronuncia soltanto su alcune delle domande cumulate, se tra queste sussista vincolo di connessione. Nel 1999, così, nuovamente le Sezioni Unite della Cassazione furono chiamate a ribadire l'adesione al criterio formale nella qualificazione della sentenza come definitiva o non definitiva, ispirato da preminenti esigenze di certezza a tutela della parte soccombente, enunciando il seguente principio: « È da considerarsi non definitiva agli effetti della riserva di impugnazione differita, la sentenza con la quale, in ipotesi di domande cumulate tra gli stessi soggetti, il giudice decide una o più delle domande proposte, con prosecuzione del procedimento per le altre senza disporre la separazione ai sensi dell'art. 279, comma 2, n. 5, e senza provvedere sulle spese in ordine alla domanda o alle domande decise, ma rinviandone la liquidazione all'ulteriore corso del giudizio» (Cass. S.U., n. 711/1999). In presenza, invece, di cumulo nello stesso processo di domande nei confronti di soggetti diversi, qualora il giudice si pronunci sul merito di una domanda avanzata verso una parte e, adottando un espresso e formale provvedimento di separazione ai sensi dell'art. 279, comma 2, n. 5, dichiari la necessità di ulteriore istruzione in relazione alla pretesa rivolta verso l'altra, la sentenza assume il carattere di pronuncia definitiva nei confronti del primo soggetto e, come tale, è impugnabile da quest'ultimo solo in via immediata e sottratta alla riserva di impugnazione differita ex artt. 340 e 361 (Cass. III, n. 22854/2019). La più convincente dottrina osserva in ogni caso come il distinguo tra sentenza definitiva e sentenza non definitiva non possa spiegarsi semplicisticamente sulla base di un criterio o meramente formale o meramente ontologico, semmai differenziando la pronuncia su una “domanda” dalla pronuncia su una “questione”. Può del resto aversi altresì una sentenza non definitiva su “domanda” (Bove, 1998, 415). Si ricordi, da ultimo, come, ai sensi dell'art. 360, comma 3, nel testo sostituito dal d.lgs. n. 40/2006, art. 2, comma 1, non sono immediatamente impugnabili con ricorso per cassazione le sentenze che decidono di questioni insorte senza definire, neppure parzialmente, il giudizio. Il ricorso per cassazione avverso tali sentenze può essere proposto, senza necessità di riserva, allorché sia impugnata la sentenza che definisce, anche parzialmente, il giudizio. Questa disposizione è stata emanata in attuazione della delega di cui alla l. n. 80/2005, art. 2, comma 1, e dello specifico principio e criterio direttivo determinato dalla lettera a) del successivo comma 3. Il legislatore delegato ha, pertanto, codificato la distinzione tra le “sentenze non definitive su questioni”, assoggettandole all'impugnazione per cassazione necessariamente differita, e le “sentenze non definitive su domanda o parziali”, assoggettandole invece all'impugnazione per cassazione immediata ovvero, in alternativa, all'impugnazione differita con onere di formulazione della riserva di ricorso, come previsto dall'art. 361. In pratica, una sentenza non definitiva, che si limiti, ad esempio, a decidere, in base all'art. 279, comma 2, n. 4, una questione preliminare di merito astrattamente idonea a definire il giudizio, quale, ad esempio, la questione della prescrizione del diritto azionato, rigettando tale eccezione, non è immediatamente ricorribile per cassazione (si veda di recente Cass. VI, n. 2263/2016). La Cass. S.U., n. 25774/2015, ha peraltro chiarito come al riguardo come sia immediatamente impugnabile con ricorso per cassazione la sentenza con cui il giudice d'appello, nei casi previsti dagli artt. 353 e 354, riforma o annulla la sentenza di primo grado, rimettendo la causa al giudice a quo, trattandosi di sentenza definitiva, che, in quanto tale, essa non ricade nel campo di applicazione del divieto, dal comma 3 del novellato art. 360, di separata impugnazione in cassazione delle sentenze non definitive su mere questioni, per tali intendendosi le sentenze su questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito che non chiudono il processo davanti al giudice che le ha pronunciate, essendo la trattazione della causa destinata a proseguire dinanzi allo stesso giudice in vista della decisione definitiva. In caso di sentenza che non definisce l'intero giudizio, accertare se essa debba qualificarsi, o meno, come non definitiva, rileva, peraltro, solo allo scopo di valutare la validità dell'eventuale riserva di impugnazione e non al fine dell'ammissibilità dell'impugnazione immediatamente proposta, che resta sempre consentita (Cass. VI, n. 19836/2014). Si consideri come, quanto in particolare al procedimento di decisione sulle questioni di giurisdizione e di competenza o su altre questioni pregiudiziali di rito, il giudice, il quale intenda decidere le stesse separatamente dal merito, sia obbligato ad invitare le parti a precisare le conclusioni ed a rimettere la causa in decisione (qualora si tratti di causa da decidersi dal tribunale in composizione monocratica, nei modi alternativamente stabiliti dagli artt. 281-quinquies o 281-sexies): sicché, quando l'istruttore, investito da un'eccezione di incompetenza, pronunci un semplice provvedimento ordinatorio che disponga la prosecuzione del giudizio, riservandosi di decidere sull'incompetenza unitamente al merito (pur dopo le modifiche degli artt. 42 e ss., sulla forma dell'ordinanza, introdotti dalla l. n. 69/2009), si reputa inammissibile la proposizione del regolamento di competenza exart. 42 (Cass. S.U., n. 20449/2014). Si è deciso, peraltro, che, nel caso di pronuncia di sentenza non definitiva da parte del giudice di merito, ai sensi dell'art. 279, commi 2 e 4, e di prosecuzione del giudizio per l'ulteriore istruzione della controversia, lo stesso giudice non resta da questa vincolato se, in ordine alla prima pronuncia, l'altra parte eccepisca l'esistenza di un giudicato esterno, formatosi per un primo giudizio, ad esso sostanzialmente identico, la cui pronuncia sia passata in giudicato nelle more della seconda controversia (Cass. I, n. 6283/2016). Sentenza non definitiva e sospensione dell’ulteriore istruttoriaL’art. 279, comma 4, dispone che, qualora sia stato proposto appello immediato contro una sentenza non definitiva pronunziata dal collegio ex art. 279, comma 2, n. 4, il giudice istruttore, su istanza concorde delle parti, qualora ritenga che i provvedimenti dell’ordinanza collegiale siano dipendenti da quelli contenuti nella sentenza impugnata, può disporre con ordinanza non impugnabile che l’esecuzione o la prosecuzione dell’ulteriore istruttoria sia sospesa sino alla definizione del giudizio d’appello. Secondo orientamento giurisprudenziale consolidato, la sospensione del giudizio di primo grado a seguito di appello immediato avverso sentenza non definitiva può essere disposta dal giudice istruttore esclusivamente a norma del richiamato art. 279, comma 4, ovvero su richiesta concorde delle parti, e giammai dunque in applicazione analogica dell’art. 295, non essendo più configurabile un potere discrezionale di sospensione, a seguito delle modifiche volute dalla l. n. 353/1990. La ratio dell’art. 295 è d’altro canto quella di scongiurare il rischio di un conflitto tra giudicati, verificabile nell’ipotesi in cui fra due cause pendenti davanti allo stesso giudice o a due giudici diversi esista un nesso di pregiudizialità in senso tecnico - giuridico, e non già in senso meramente logico; parimenti resta esclusa la sospensione ai sensi del comma 2 dell’art. 337, per l’assorbente ragione che il giudizio è unico e che, pertanto, la sentenza resa in via definitiva è sempre soggetta alle conseguenze di una decisione incompatibile sulla statuizione oggetto della sentenza parziale (Cass. VI-2, n. 5894/2015). Va ancora tenuto altresì del fatto che, a norma dell’art. 336, la riforma o la cassazione della sentenza sull’an debeatur determina l’automatica caducazione della sentenza sul quantum, anche se su quest’ultima si sia formato un giudicato apparente, con conseguente esclusione del conflitto di giudicati. La Corte Costituzionale ha riconosciuto la ragionevolezza della sospensione facoltativa stabilita dall’art. 279, comma 4, seconda parte (Corte cost. n. 182/1996). In definitiva, la disposizione in commento non contempla affatto l’esercizio di un potere discrezionale di sospensione. Tale ultimo orientamento trova la sua giustificazione anche nel canone costituzionale della ragionevole durata del processo ex art. 111 Cost., «al quale la sospensione del processo, fuori dei casi tassativamente previsti dalla legge, apporterebbe un evidente vulnus». Del resto, la stessa ratio dell’art. 279, comma 4, non rimette al potere discrezionale e senza limiti del giudice istruttore il potere di sospendere il processo in caso d’appello immediato avverso sentenza non definitiva (Menichelli, 230). BibliografiaBiavati, Appunti sulla struttura della decisione e l'ordine delle questioni, in Riv. trim. dir. proc. CIV. 2009, 1301; Bove, Sentenze non definitive e riserva d'impugnazione, in Riv. trim. dir. proc. CIV. 1998, 415; Califano, Le Sezioni unite civili ripropongono l'indirizzo formale in tema di sentenze non definitive su una fra più domande cumulate nel medesimo processo, in Giust. CIV. 2000, 1, 63; Damiani, La precisazione delle conclusioni e il “collo di bottiglia” nel processo civile, in Riv. trim. dir. proc. CIV. 2005, 1313; Menichelli, La sospensione del giudizio di primo grado a seguito d'appello immediato avverso sentenza non definitive, in Giust. CIV. 2005, 1, 230; Merlin, Condanna generica e opposizione del convenuto alla liquidazione del quantum in separato giudizio, in Riv. dir. proc. 1987, 207; Prendini, Osservazioni in tema di condanna generica e poteri del giudice, in Resp. CIV. prev. 2000, 968; Proto Pisani, In tema di condanna generica e precisazioni delle conclusioni, in Foro it. 1986, I, 1533; Scarselli, Considerazioni sulla condanna generica (nella evoluzione giurisprudenziale e dopo la riforma), in Corr. giur. 1998, 714; Vitale, Condanna generica e separazione dei giudizi, in Giust. CIV. 1999, 4, 1095. |