Codice di Procedura Civile art. 306 - Rinuncia agli atti del giudizio.

Rosaria Giordano

Rinuncia agli atti del giudizio.

[I]. Il processo si estingue per rinuncia agli atti del giudizio quando questa è accettata dalle parti costituite [165 1, 166] che potrebbero aver interesse alla prosecuzione. L'accettazione non è efficace se contiene riserve o condizioni.

[II]. Le dichiarazioni di rinuncia e di accettazione sono fatte dalle parti o da loro procuratori speciali, verbalmente all'udienza o con atti sottoscritti [125] e notificati alle altre parti [170].

[III]. Il giudice, se la rinuncia e l'accettazione sono regolari, dichiara l'estinzione del processo [308, 310, 338, 391].

[IV]. Il rinunciante deve rimborsare le spese alle altre parti, salvo diverso accordo tra loro. La liquidazione delle spese è fatta dal giudice istruttore con ordinanza non impugnabile [177 3 n. 2].

Inquadramento

La rinuncia agli atti del giudizio è la dichiarazione dell'attore di voler porre fine al processo prima che lo stesso giunga alla pronuncia sulla domanda dallo stesso proposta (Vaccarella 1989, 960).

La rinuncia agli atti del giudizio che ha il limitato effetto di porre fine per iniziativa dello stesso attore ad un giudizio già in corso, senza rinuncia, peraltro, anche all'azione ovvero a maggior ragione al diritto sostanziale, comporta il venir meno del potere-dovere del giudice di pronunciarsi sul merito della domanda con conseguente dovere di dichiarare l'estinzione del processo.

Per i limitati effetti sul processo in corso, con salvezza dell'azione, dell'estinzione del processo per rinuncia agli atti, la stessa deve essere accettata dalle “parti costituite che potrebbero avere interesse alla prosecuzione”.

Legittimato ad accettare la rinuncia è il convenuto costituito che, nel corso del processo, ha già formulato delle richieste, in base alle quali è astrattamente possibile pervenire ad un esito di merito del processo (Sassani, 1989, 252 ss.).

Le dichiarazioni di rinuncia e di accettazione sono fatte dalle parti o dai loro procuratori speciali (non rientrando invero la rinuncia agli atti del giudizio tra i poteri ordinari del procuratore: Cass. n. 7513/1991), verbalmente all'udienza o con atti sottoscritti e notificati alle altre parti.

Premessa

La rinuncia agli atti del giudizio è la dichiarazione dell'attore di voler porre fine al processo prima che lo stesso giunga alla pronuncia sulla domanda dallo stesso proposta ed è pertanto prevista solo per quelle fasi processuali che si svolgono per impulso di parte e non è prevista, invece, nel giudizio di Cassazione, che da quell'impulso prescinde (Vaccarella, 1989, 960).

Quando si versa in ipotesi di litisconsorzio necessario la rinuncia deve provenire da tutti i litisconsorti costituiti e lo stesso si verifica nei casi d'intervento iussu iudicis (Vaccarella, 1989, 971).

La rinuncia agli atti del giudizio che ha il limitato effetto di porre fine per iniziativa dello stesso attore ad un giudizio già in corso, senza rinuncia, peraltro, anche all'azione ovvero a maggior ragione al diritto sostanziale, comporta il venir meno del potere-dovere del giudice di pronunciarsi sul merito della domanda con conseguente dovere di dichiarare l'estinzione del processo.

Peraltro, considerati i limitati effetti della rinuncia agli atti del giudizio quanto alla possibilità per il rinunciante di riproporre nuovamente domanda giudiziale volta alla tutela del medesimo diritto soggettivo, il comma 1 dell'art. 306 prevede che la rinuncia debba essere accettata dalle altre parti costituite che abbiano interesse alla prosecuzione del processo.

Diversamente, nel caso di rinuncia all'azione, producendo la stessa effetto del tutto analoghi al rigetto della pretesa nel merito non è necessaria alcuna accettazione da parte del convenuto per la produzione dell'effetto estintivo del giudizio. In tale prospettiva la S.C. ha evidenziato infatti a riguardo che la rinuncia all'azione, diversamente dalla rinuncia agli atti del giudizio, non richiede l'accettazione della controparte, poiché estingue l'azione, determina la cessazione della materia del contendere e, avendo l'efficacia di un rigetto, nel merito, della domanda, comporta che le spese del processo devono essere poste a carico del rinunciante (Cass. n. 12953/2014 ; conf., in sede di merito, Trib. Bari III, 1 dicembre 2015, n. 5331). Comportando una disposizione del diritto in contesa, la rinuncia all'azione necessita di una procura ad hoc in capo al difensore (Cass. n. 4837/2019Cass. n. 28146/2013 ; conf. Trib. Roma VI, 18 settembre 2015, n. 18596).

Si è recentemente evidenziato che nel giudizio di appello, la rinuncia all'impugnazione da parte dell'appellante equivale a rinuncia all'azione, determinando il passaggio in giudicato della sentenza impugnata ex art. 338 e pertanto non necessita, a differenza della rinuncia agli atti, di accettazione da parte dell'appellato (Cass. n. 5250/2018).

Nella recente giurisprudenza di legittimità si tende ad operare una distinzione più netta tra rinuncia all’azione e cessazione della materia del contendere, affermandosi che la rinuncia all'azione non richiede formule sacramentali, può essere anche tacita e va riconosciuta quando vi sia incompatibilità assoluta tra il comportamento dell'attore e la volontà di proseguire nella domanda proposta e presuppone il riconoscimento dell'infondatezza dell'azione, accompagnato dalla dichiarazione di non voler insistere nella medesima. Solo a queste condizioni la rinuncia all'azione determina, indipendentemente dall'accettazione della controparte, l'estinzione dell'azione e la cessazione della materia del contendere. Deve, viceversa, essere dichiarata, anche d'ufficio, cessata la materia del contendere in ogni caso in cui risulti acquisito agli atti del giudizio che non sussiste più contestazione tra le parti sul diritto sostanziale dedotto e che conseguentemente non vi è più la necessità di affermare la volontà della legge nel caso concreto (Cass. n. 19845/2019: nella specie, la S.C. ha ritenuto che la richiesta di declaratoria della cessazione della materia del contendere, sul presupposto di un "factum principis" sopravvenuto, non poteva comunque essere ritenuta equivalente alla rinuncia all'azione, in difetto di un'esplicita dichiarazione di ambo le parti attestante la loro intenzione di soprassedere all'accertamento giudiziale del diritto controverso).

Accettazione della parte che ha interesse alla prosecuzione del giudizio

Per i limitati effetti sul processo in corso, con salvezza dell'azione, dell'estinzione del processo per rinuncia agli atti, la stessa deve essere accettata dalle “parti costituite che potrebbero avere interesse alla prosecuzione”.

Sulla scorta della formulazione letterale della previsione normativa può quindi escludersi la necessità di accettazione del convenuto rimasto contumace (ferma la valenza assolutamente neutra ai fini dell'accoglimento della domanda della contumacia nel nostro sistema processuale) dell'avversa rinuncia agli atti del giudizio.

Inoltre, con riferimento alle parti costituite, la disposizione normativa in esame chiarisce che la rinuncia agli atti del giudizio deve essere accettata esclusivamente da quelle che potrebbero avere interesse alla prosecuzione dello stesso.

Legittimato ad accettare la rinuncia è il convenuto costituito che, nel corso del processo, ha già formulato delle richieste, in base alle quali è astrattamente possibile pervenire ad un esito di merito del processo (Sassani, 1989, 252 ss.).

Tale interesse, in particolare, deve essere valutato avendo riguardo al disposto dell'art. 100 secondo cui per agire o resistere in giudizio è necessario avervi interesse, inteso, per il convenuto, quale interesse a contraddire che si sostanzia nell'utilità concreta che lo stesso potrebbe ottenere da una pronuncia sul merito della controversia (Cass. n. 1168/1995). In concreto, deve ritenersi invece necessaria l'accettazione della rinuncia da parte del convenuto costituito il quale non si sia limitato a proporre mere difese o eccezioni di carattere processuale ma abbia anche proposto eccezioni di merito idonee a paralizzare l'avversa pretesa ovvero domande riconvenzionali.

Pertanto, non sussiste ad esempio interesse alla prosecuzione del giudizio in capo alla parte che si sia costituita nello stesso al solo fine di ottenere il rimborso delle spese processuali (Cass. n. 11384/1999), né la condanna al risarcimento dei danni per responsabilità processuale aggravata ai sensi dell'art. 96 (Cass. n. 5676/2003).

In una recente decisione, si è affermato che, in materia di prescrizione, ove la rinuncia agli atti segua all'insorgere della questione di estinzione del processo, il convenuto non ha un interesse tutelabile a che un tale esito sia dichiarato ai sensi dell'art. 307 piuttosto che in virtù dell'art. 306 c.p.c.; nell'un caso come nell'altro, infatti, l'estinzione conduce alla medesima e invariabile conseguenza di eliminare l'effetto permanente dell'interruzione della prescrizione previsto dall'art. 2945, secondo comma, c.c., senza incidere sull'effetto interruttivo istantaneo, che rimane fermo alla data della domanda (Cass. n. 27352/2024).

La S.C. ha  chiarito che, ai fini della declaratoria di estinzione del processo monitorio per rinuncia agli atti del giudizio, ai sensi dell’art. 306 c.p.c., l’accettazione da parte dell’ingiunto si rende necessaria solo quando questi abbia assunto la veste di parte costituita mediante opposizione, e non anche quando, pur essendo già pendente il rapporto processuale per l’intervenuta notificazione del ricorso e del decreto ingiuntivo, il contraddittorio sia soltanto eventuale, non essendo stata ancora esercitata la facoltà di proporre opposizione (Cass. n. 110/2016).

Nell'ipotesi di processo soggettivamente cumulato occorre distinguere, ai fini della necessità dell'accettazione della rinuncia, la posizione dell'interventore volontario, autonomo o litisconsortile, da quella dell'interventore adesivo dipendente, essendo in particolare tale accettazione necessaria soltanto nella prima ipotesi nella quale l'interventore fa valere una posizione di vero e proprio diritto soggettivo (Cass. n. 6309/1994).

La rinuncia agli atti del giudizio — ammissibile anche in appello — tenuta distinta dalla rinuncia all'impugnazione se interviene dopo il giudizio di primo grado, la quale è rinuncia di merito ed è immediatamente efficace anche senza l'accettazione della controparte. La rinuncia all'impugnazione determina — come la rinuncia agli atti del giudizio di appello — il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado. L'identità degli effetti, tuttavia, non comporta la piena corrispondenza dei due istituti perché mentre la rinuncia agli atti del giudizio di appello è efficace in quanto accettata o in quanto non richieda accettazione, la rinuncia alla impugnazione fa venire meno il potere-dovere del giudice di pronunciare con efficacia immediata, senza bisogno di accettazione (Cass. n. 5112/2014).

Peraltro, la rinuncia al ricorso per cassazione produce l'estinzione del processo anche in assenza di accettazione, in quanto tale atto non ha carattere «accettizio» (non richiede, cioè, l'accettazione della controparte per essere produttivo di effetti processuali), e, determinando il passaggio in giudicato della sentenza impugnata, comporta il venir meno dell'interesse a contrastare l'impugnazione, rimanendo, comunque, salva la condanna del rinunciante alle spese del giudizio (Cass. n. 3971/2015).

Forma della rinuncia e dell'accettazione

Il comma 2 dell'art. 306 stabilisce che le dichiarazioni di rinuncia e di accettazione sono fatte dalle parti o dai loro procuratori speciali (non rientrando invero la rinuncia agli atti del giudizio tra i poteri ordinari del procuratore: Cass. n. 7513/1991), verbalmente all'udienza o con atti sottoscritti e notificati alle altre parti. La Corte di Cassazione ha chiarito che, perché sia valida la rinuncia agli atti del giudizio, non è necessario che la sottoscrizione del rinunciante sia autenticata dal difensore, in quanto l'autentica non è imposta dall'art. 306, né può desumersene la necessità in via di interpretazione sistematica, posto che, per un verso, il difensore è sprovvisto di un potere certificatorio generale (potendo esercitare quello conferitogli dalla legge nelle sole ipotesi espressamente previste - artt. 83 e 390) e, per altro verso, la certezza della riferibilità della dichiarazione di rinuncia al titolare della posizione sostanziale controversa può essere diversamente acquisita anche con atto scritto extraprocessuale (Cass. n. 5905/2002).

La notificazione della rinuncia alle altre parti può essere, in accordo con i principi generali, anche sostituita da forme equipollenti, come, ad esempio, l'accettazione apposta dalle controparti alla dichiarazione di rinuncia (Cass. n. 2346/1973).

Tuttavia, anche nel caso in cui la rinuncia agli atti del giudizio non sia formulata in udienza, l'atto che la contiene non deve essere notificato al convenuto contumace, ai sensi del comma secondo dell'art. 306, non essendo compresa la rinuncia tra gli atti elencati tassativamente nell'art. 292 In tal caso l'effetto preclusivo di ulteriori attività processuali e della decisione del merito si verifica nel momento stesso del deposito dell'atto, momento nel quale, non sussistendo l'onere della notificazione al contumace, si esaurisce il procedimento di manifestazione e comunicazione della volontà abdicativa della parte istante, senza che a tal fine rilevi la data dell'accertamento dichiarativo ad opera del giudice, che interviene, successivamente, in uno dei modi previsti dall'art. 308, e senza che l'effetto estintivo della rinuncia trovi impedimento nella costituzione del convenuto o nell'intervento volontario di un terzo, successivi al deposito dell'atto di rinuncia (Cass. n. 3905/1995).

Sia la dichiarazione di rinuncia che l'accettazione alla stessa costituiscono actus legitimi che non tollerano riserve o condizioni (Cass. n. 9636/1998).

Sotto altro profilo, va evidenziato che essendo la rinuncia agli atti del giudizio e l'accettazione della medesima atti processuali e non di negozi giuridici, gli stessi non possono essere annullati per vizi della volontà.

Tuttavia, la rinuncia efficace (perché accettata o perché non bisognosa di accettazione) è revocabile prima della dichiarazione di estinzione, provando che essa è stata determinata da errore di fatto o violenza, ex art. 2732 c.c. (Micheli, 136).

Spese

Il comma 4 della disposizione in esame stabilisce che, salvo diverso accordo, le spese del processo estinto restano a carico della parte rinunciante.

E’ stato da ultimo evidenziato in sede di legittimità che sebbene nel giudizio di appello, la rinuncia all'impugnazione da parte dell'appellante equivale a rinuncia all'azione e pertanto non necessita, a differenza della rinuncia agli atti, di accettazione da parte dell'appellato, anche ad essa si applica tuttavia la regola dell'art. 306, comma 4, c.p.c., secondo cui il rinunciante deve rimborsare le spese alle altre parti, con esclusione di qualunque potere del giudice di totale o parziale compensazione (Cass. n. 5250/2018).

Sulla scorta di quanto previsto dal comma 4 dell'art. 306, si è osservato che detta norma attribuisce al giudice non il potere — discrezionale — di “provvedere” sulle spese del giudizio (compensandole o ponendole a carico di una delle parti), ma solo quello di “liquidare” le spese, le quali, in mancanza di diverso accordo tra le parti, per legge gravano sul rinunciante (Trib. Bari I, 24 aprile 2008, n. 1040).

La Corte di Cassazione in ragione della sussistenza di un mero potere del giudice di liquidare, in caso di rinuncia, le spese del giudizio ma ponendo le stesse a carico del rinunciante in applicazione del comma 4 dell'art. 306, ha affermato che l'ordinanza con cui il giudice di merito dichiari estinto il processo per rinuncia agli atti del giudizio e disponga la compensazione delle spese di lite anziché la mera liquidazione delle medesime, non limitandosi a prendere atto della rinuncia e dell'accettazione ma risolvendo la controversia sull'esistenza stessa dei presupposti dell'estinzione, ha valore di sentenza, impugnabile con i mezzi ordinari, poiché trattasi di provvedimento assunto nel contrasto delle parti, il quale fuoriesce dal paradigma di cui all'art. 306, che presuppone la concorde accettazione della rinuncia (Cass. n. 26210/2009).

Su un piano più generale, nell’ipotesi di rinuncia agli atti del giudizio effettuata prima della costituzione della controparte, il provvedimento dichiarativo dell’estinzione non deve statuire sulle spese processuali, che, ai sensi dell'art. 306, comma 4, c.p.c., vanno poste a carico del rinunciante solo ove la controparte, già costituita, abbia accettato la rinuncia, senza che, peraltro, assuma rilevanza la costituzione in causa all’esclusivo fine di ottenere il rimborso delle spese, in quanto è necessario che la parte che si oppone alla rinuncia vanti un interesse giuridicamente rilevante, ossia che possa ottenere dalla decisione sul merito un’utilità maggiore rispetto a quella derivante dall’estinzione. (Cass. n. 23620/2017).

Cessazione della materia del contendere

Costituisce jus receptum in giurisprudenza il principio per il quale la cessazione della materia del contendere è, nel processo civile, una fattispecie di estinzione del processo, creata dalla prassi giurisprudenziale, rilevabile d'ufficio dal giudice, che si verifica qualora sopravvenga una situazione che elimini la ragione del contendere delle parti, facendo venire meno l'interesse ad agire ed a contraddire ovvero l'interesse ad ottenere un risultato utile, giuridicamente apprezzabile e non conseguibile senza l'intervento del giudice, da accertare avendo riguardo all'azione proposta e alle difese svolte dal convenuto (v., tra le tante, Cass., n. 12310/2007; Cass., n. 4714/2006).

La formula “si dichiara cessata la materia del contendere” individua pertanto l'intera gamma di situazioni successive alla pendenza del processo, sia di carattere fattuale che discendenti da atti posti in essere dalla volontà di una o di entrambe le parti, idonee ad incidere sull'oggetto sostanziale della lite ed a determinare in relazione ad esso il venir meno di ogni ragione di contrasto (Trib. Napoli 31 marzo 2005 n. 8265, Guida dir., 2006, n. 18, 85).

La declaratoria di cessazione della materia del contendere, integrando una causa di estinzione preclusiva di ogni possibilità di ulteriore corso del processo, riveste carattere pregiudiziale finanche rispetto alla questione di giurisdizione, la quale è invece necessariamente strumentale alla statuizione di merito sulla domanda, in quanto volta all'individuazione del giudice munito del potere-dovere di decidere il merito della controversia (Cass. n. 4951/2023).

Ai fini della declaratoria della cessazione della materia del contendere il verificarsi delle situazioni che ne costituiscono il presupposto non è tuttavia sufficiente, in quanto è anche necessario che le parti si diano reciprocamente atto del sopravvenuto mutamento della situazione sostanziale dedotta in giudizio e sottopongano conclusioni conformi in tal senso al giudice, potendo residuare un contrasto soltanto sulle spese di lite (Cass., n. 27460/2006). Pertanto, in tali ipotesi l'intervenuta cessazione della materia del contendere, a meno che non vi sia accordo tra le parti anche con riguardo a tale profilo, non esonera il giudice del provvedere in ordine alle spese di causa, talché il giudice, sia pure al limitato fine di pronunciare su di esse, deve esaminare la fondatezza delle rispettive domande ed eccezioni, per l'accertamento della cosiddetta soccombenza virtuale. ponendo le spese a carico della parte che sarebbe rimasta soccombente sulla base delle originarie prospettazioni (v., tra le molte, Trib. Chieti 24 gennaio 2008, Guida dir., 2008, n. 19, 60; Trib. Savona  20 maggio 2005; Trib. Milano 28 marzo 2002, Giur. mer., 2003, 247).

Tuttavia la cessazione della materia del contendere si ha per effetto della sopravvenuta 

carenza d'interesse della parte alla definizione del giudizio, postulando che siano accaduti nel corso del giudizio fatti tali da determinare il venir meno delle ragioni di contrasto tra le parti e da rendere incontestato l'effettivo venir meno dell'interesse sottostante alla richiesta pronuncia di merito, senza che debba sussistere un espresso accordo delle parti anche sulla fondatezza (o infondatezza) delle rispettive posizioni originarie nel giudizio, perché altrimenti non vi sarebbero neppure i presupposti per procedere all'accertamento della soccombenza virtuale ai fini della regolamentazione delle spese che, invece, costituisce il naturale corollario di un tal genere di pronuncia, quando non siano le stesse parti a chiedere congiuntamene la compensazione delle spese (Cass. n. 30251/2023). 

Il principio di economia processuale comporta che le fattispecie astrattamente determinative della cessazione della materia del contendere possano essere allegate e documentate in tutto il corso del giudizio, anche in sede di legittimità (Cass. n. 1854/2000, anche con riguardo agli eventi successivi alla proposizione del ricorso).

Sono oggetto di dibattito gli effetti della pronuncia di cessazione della materia del contendere.

Secondo l'orientamento dominante in giurisprudenza, la sentenza che dichiara l'intervenuta cessazione della materia del contendere è inidonea ad acquisire efficacia di giudicato sostanziale sulla pretesa fatta valere, con conseguente possibilità di riproporre la domanda (Trib. Ariano Irpino agraria, 23 ottobre 2007, Giur. mer., 2008, n. 3, 733).

L'efficacia di giudicato è infatti limitata al solo aspetto del venir meno dell'interesse alla prosecuzione del giudizio, con l'ulteriore conseguenza che il giudicato può dirsi formato solo su tale circostanza, qualora la relativa pronuncia non sia impugnata con i mezzi propri del grado in cui risulta emessa (Cass. n. 2567/2007; Cass. n. 14194/2004; Cass. n. 10478/2004; Cass., n. 3122/2003, Foro it., 2004, I, 1851, con nota di Scala).

Una parte della dottrina sostiene, invece, la diversa tesi per la quale la posizione prevalente in giurisprudenza dovrebbe essere disattesa almeno a fronte di alcuni eventi causativi della cessazione della materia del contendere ed, in particolare, a seguito della rinunzia all'azione, del venir meno dell'oggetto del processo per morte della parte in azioni personali ed intrasmissibili, ovvero in situazioni riconducibili alla volontà delle parti quali l'inadempimento e la transazione (Panzarola, 228 ss.). In tali ipotesi, si è evidenziato, la sentenza di cessazione della materia del contendere costituisce una decisione di rigetto nel merito per sopravvenuta infondatezza della domanda, idonea a generare, nel caso di riproposizione della domanda rinunciata, un'exceptio rei iudicatae (Sassani, 3 ss.).

Da ultimo, nella giurisprudenza di legittimità si è ritenuto che la declaratoria di cessazione della materia del contendere, integrando una causa di estinzione preclusiva di ogni possibilità di ulteriore corso del processo, riveste carattere pregiudiziale rispetto alla questione di giurisdizione, la quale è invece necessariamente strumentale alla statuizione di merito sulla domanda, in quanto volta all'individuazione del giudice munito del potere-dovere di decidere il merito della controversia (Cass. III, n. 4951/2023).

Casistica

Ricorrente è la declaratoria di cessazione della materia del contendere per intervenuta transazione tra le parti (Cass. n. 2647/2003, in Foro it., 2004, I, 1, 1851, con nota di Scala). In tal senso, nella giurisprudenza di merito si è ritenuto, ad esempio, che la scrittura privata con la quale le parti, al di fuori del giudizio di scioglimento di comunione ereditaria, ma durante il corso dello stesso, regolano consensualmente la divisione dei beni ereditari, ha rilevanza sostanziale e non meramente processuale, con la conseguenza che, una volta acquisita la relativa prova in giudizio, il giudice non può non tenerne conto e, conseguentemente, deve dichiarare la cessazione della materia del contendere (Trib. Salerno II, 2 dicembre 2004; ancora più radicale appare la posizione espressa da Trib. Roma 19 febbraio 2003, Rass. forense, 2003, 628, secondo la quale a fronte di una definizione transattiva della controversia avvenuta nel corso del giudizio ma al di fuori dello stesso, il giudice dovrà dichiarare la cessazione della materia del contendere anche qualora le parti abbiano omesso di produrre il relativo atto di transazione).

Nell'ipotesi di pagamento avvenuto nel corso del giudizio, non si verifica la cessazione della materia del contendere (che, presupponendo il venir meno delle ragioni di contrasto fra le parti, fa venir meno la necessità della pronuncia del giudice) allorché l'obbligato non rinunci alla domanda diretta all'accertamento dell'inesistenza del debito (Cass. n. 4855/2021).

Assoluta soddisfazione dell'interesse a ricorrere di colui il quale ha proposto azione di annullamento di una delibera assembleare si realizza qualora nel corso del giudizio l'assemblea provveda ad annullare la stessa riconoscendola affetta dai denunciati vizi (Trib. Benevento 19 maggio 2004, Giur. mer., 2005, n. 2, 293) ovvero sostituisca la delibera impugnata con un'altra conforme alla legge (così, con riguardo al principio espresso dall'art. 2377 c.c. per le delibere delle s.p.a., principio ritenuto applicabile anche alle delibere condominiali, Trib. Milano 17 gennaio 2004, Giur. milanese, 2004, 410; Trib. Monza I, 19 luglio 2001, Giur. mer., 2002, 403; Trib. Monza 5 marzo 2001Giur. comm., 2002, II, 528, con nota di U.M. Carbonara, la quale ha escluso un ipotetico sindacato del giudice adito con l'impugnazione della prima delibera assembleare anche in ordine alla legittimità della seconda delibera; Trib. Ariano Irpino 14 marzo 2000, Giur. Merito, 2002, 84).

La modifica del testo delle condizioni generali di contratto, qualora intervenga nel corso del giudizio di inibitoria di clausole abusive, determina la cessazione della materia del contendere soltanto in caso di effettiva variazione del contenuto delle clausole impugnate (Trib. Roma 4 febbraio 2002, in Foro it., 2002, I, 2829, con note di De Rosaz e Palmieri).

La cessazione della materia del contendere può dipendere, sotto un distinto profilo, dalla morte o dalla sopravvenuta incapacità di una delle parti in azioni intrasmissibili. Costituisce, infatti, causa di cessazione della materia del contendere del giudizio di separazione personale la morte di uno dei coniugi nel corso del giudizio: a tal riguardo, la S.C. ha più volte evidenziato che tale situazione comporta non l'estinzione del processo, bensì il venir meno della materia del contendere, travolgendo tutte le pronunce, emanate nel corso del procedimento, e non ancora passate in giudicato, comprese quelle relative alle istanze accessorie, comunque connesse alla separazione (Cass. I, n. 5441/2008).

Sempre nell'ambito dei giudizi finalizzati allo scioglimento del vincolo matrimoniale, distinte sono le ragioni che giustificano l'affermazione, da parte di alcune decisioni di merito, del principio per il quale il passaggio in giudicato della sentenza dichiarativa della efficacia nell'ordinamento dello Stato della pronuncia ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario comporta la cessazione della materia del contendere nel processo di divorzio che sia stato instaurato successivamente all'introduzione del procedimento diretto al riconoscimento della sentenza ecclesiastica: ciò si correla, invero, all'efficacia retroattiva della pronuncia di nullità, che fa venir meno dal momento in cui è sorto il vincolo coniugale, travolgendo ogni ulteriore controversia che trova nell'esistenza e nella validità del matrimonio il proprio presupposto (Trib. Bari I, 15 aprile 2008, n. 937, giurisprudenzabarese.it).

La pronuncia di divorzio, producendo effetti sul vincolo coniugale ex nunc, ovvero soltanto dal momento del passaggio in giudicato della decisione, non comporta la cessazione della materia del contendere nel giudizio di separazione personale che sia iniziato anteriormente e sia tuttora in corso, laddove esista l'interesse di una delle parti all'operatività della pronuncia e dei conseguenti provvedimenti patrimoniali (Cass. n. 21091/2005).

Il decesso dell'interdicendo nel corso del relativo giudizio, in primo come in secondo grado, fa venire meno la ragione del procedimento, improntato alla tutela del soggetto stesso, talché va dichiarata la cessazione della materia del contendere, anche qualora l'evento si verifichi nel corso del giudizio di impugnazione (App. Roma, 16 febbraio 2005, Nuovo dir., 2005, I, 1052).

La cessazione dal servizio, per collocamento a riposo del magistrato sottoposto a procedimento disciplinare, sopravvenuta prima del passaggio in giudicato della pronunzia che applica la sanzione disciplinare, comporta, con la cessazione del rapporto di servizio del magistrato, la cessazione della materia del contendere e, quindi, l'inammissibilità, per sopravvenuto difetto di interesse, del ricorso per cassazione proposto contro la decisione della sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, con esclusione della possibilità di qualsiasi altra pronuncia (Cass. S.U., n. 7440/2005).

Poiché il procedimento ex art. 28 l. n. 300/1970 presuppone l'attualità del comportamento antisindacale, o quantomeno dei suoi effetti, atteso che il procedimento stesso è necessariamente diretto ad ottenere una pronuncia costitutiva e non di mero accertamento, laddove, al momento della decisione, il comportamento antisindacale non sia più attuale, né siano attuali i suoi effetti, occorre pronunciare la cessazione della materia del contendere (Trib. Ivrea L, 23 novembre 2005).

Deve essere dichiarata la cessazione della materia del contendere per sopravvenuta carenza d'interesse a ricorrere, qualora la clausola contrattuale esaminata dalla sentenza di accertamento pregiudiziale oggetto di ricorso per cassazione sia stata sostituita da sopravvenuto accordo d'interpretazione autentica o di modifica (Cass. n. 6113/2005).

Non ricorre cessazione della materia del contendere nell'ipotesi di esecuzione, anche spontanea, di un provvedimento del giudice, sia che si tratti di una misura cautelare che di una sentenza di condanna, che non abbia definito il giudizio, qualora a tale comportamento non si accompagni anche il riconoscimento espresso o implicito della fondatezza della domanda ovvero la rinunzia alla prosecuzione del giudizio (Cass. n. 23289/2007).

Poiché la cessazione della materia del contendere presuppone che le parti si diano reciprocamente atto del sopravvenuto mutamento della situazione sostanziale dedotta in giudizio e sottopongono al giudice conformi conclusioni in tal senso, sicché va escluso che la dichiarazione giudiziale di acquisto del bene locato, per usucapione, in favore della conduttrice determini l'estinzione del giudizio per la risoluzione del contratto di locazione medesimo (e di risarcimento danni), trattandosi, in specie in assenza di conformi conclusioni delle parti, di evenienza in sé non in grado di elidere ogni contrasto tra le stesse (Cass. n. 11813/2016).

L'esecuzione da parte del condominio di tutti i lavori manutentivi e sostitutivi individuati in una consulenza disposta d'ufficio nella fase di un giudizio cautelare per rendere l'impianto di ascensore idoneo all'uso, non giustifica la cessazione della materia del contendere nel corso del successivo giudizio di merito instauratosi, poiché, anche a fronte della contumacia del medesimo condominio, l'esecuzione delle opere da parte di quest'ultimo, in virtù della condanna di cui all'ordinanza cautelare, non implica acquiescenza alle statuizioni in essa contenute (Trib. Bari III, 27 novembre 2007, n. 2671, giurisprudenzabarese.it.).

La cessazione della materia del contendere non può essere dichiarata, nonostante l'adempimento del debito nel corso del giudizio, quando il debitore conserva un interesse all'accertamento negativo del debito e della legittimità del decreto ingiuntivo emesso a tutela di esso (Trib. Roma 24 agosto 1999, Giur. romana, 2000, 98).

Nel caso di mera sospensione dell'esecuzione, ordinata dal giudice davanti al quale è impugnato il titolo esecutivo, a differenza dell'ipotesi di caducazione del titolo stesso, va esclusa l'integrale cessazione della materia del contendere, in quanto il titolo azionato non è definitivamente posto nel nulla, ma esso, nell'ipotesi di conferma del provvedimento impugnato, riacquisterà tutta la propria efficacia ed, in tale eventualità, non solo potrà proseguire il processo esecutivo sospeso, stante la persistente validità degli atti esecutivi in precedenza compiuti, ma potrà altresì averne inizio uno nuovo, talché resta concreto ed attuale l'interesse di entrambe le parti ad una decisione sul merito dell'opposizione all'esecuzione basata su motivi diversi (v., tra le altre, Trib. Monza 9 marzo 2006, Giur. mer., 2006, n. 11, 2408; Trib. Napoli 15 ottobre 2003, ivi, 2004, 277).

Trasferimento dell'azione civile nel processo penale

L'art. 75, comma 1, c.p.p.equipara l'ipotesi di esercizio dell'azione civile in sede penale alla rinuncia agli atti del giudizio civile risarcitorio già in corso.

L'inserimento di un'azione civile nel processo penale trova fondamento nel principio della sostanziale unità della giurisdizione statuale e nell'esigenza di evitare giudicati contraddittori, così realizzandosi, tramite una misura processuale preventiva, una pluralità di rapporti processuali in un solo processo, senza che l'azione civile perda la sua originaria connotazione, come desumibile anche dall'art. 622 c.p.p., che in caso di annullamento, da parte della S.C., dei capi che riguardano l'azione civile prevede il rinvio al giudice civile.

Pertanto l'art. 75 c.p.p. del 1988 va interpretato nel senso che l'esercizio, mediante la costituzione di parte civile, della facoltà di trasferire nel processo penale l'azione civile proposta davanti al giudice civile, comporta l'estinzione del processo civile “ipso facto” per rinuncia agli atti, effetto che si produce con la rituale proposizione dell'atto di costituzione nei modi e nelle forme di cui all'art. 79, mentre l'azione civile prosegue, a seguito della “translatio iudicii”, dinanzi al giudice penale, senza che sia quindi configurabile alcuna ipotesi di litispendenza, posto che l'estinzione del giudizio civile esclude la contemporanea pendenza di due giudizi (Cass III, n. 13946/2005).

Pertanto, è costante nella giurisprudenza di legittimità l'affermazione del principio in virtù del quale il trasferimento dell'azione civile nel processo penale produce di diritto, a norma dell'art. 75, comma 1, c.p.p., la rinuncia dell'attore al giudizio civile, sicché il giudice civile deve anche d'ufficio dichiarare l'estinzione del processo, senza che sia necessaria l'accettazione della parte, alla sola condizione che dagli atti risulti l'avvenuto trasferimento, una volta accertata l'identità delle due azioni alla stregua dei comuni canoni di identificazione delle azioni: personale, petitum, causa petendi (Cass. n. 7396/2003).

Invero, il trasferimento dell'azione civile nel processo penale costituisce fatto che — sia esso qualificato come impeditivo alla prosecuzione del primo processo, ovvero estintivo dello stesso — opera di diritto ed è rilevabile d'ufficio, perché comporta, a norma dell'art. 75 c.p.p., la rinuncia agli atti del giudizio civile, sempre che si accerti l'identità delle due azioni alla stregua dei comuni canoni di identificazione (personale, petitum e causa petendi) delle medesime (Cass. III, n. 7633/2012).

E' stato precisato che nel caso in cui, dopo aver incardinato una causa civile, l'attore trasferisca in sede penale l'azione civile ex art. 75 c.p.p., si determina l'estinzione del processo civile ipso facto per evidente rinuncia agli atti in quest'ultima sede ex art. 622 c.p.c.: di conseguenza, è esclusa la reviviscenza del procedimento innanzi al giudice civile, anche nel caso di revoca della costituzione di parte civile in sede penale, atteso che il semplice deposito dinanzi al giudice civile dell'atto di revoca non può in alcun modo produrre la prosecuzione del giudizio civile, che deve inesorabilmente ritenersi già estinto per rinuncia agli atti ex art. 306 c.p.c. (Trib. Livorno, 7 aprile 2016, n. 12).

Tale peculiare disciplina è stata ritenuta legittima anche dalla Corte Costituzionale la quale ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 75, comma 1, c.p.p., sollevata, in riferimento agli artt. 3,24 e 25 Cost., nella parte in cui non prevede, analogamente all'art. 306, comma primo, che il trasferimento della azione civile nel processo penale avvenga solo se vi è l'accettazione delle parti costituite che potrebbero avere interesse alla prosecuzione del giudizio, evidenziando che l'esigenza di consentire alla parte non rinunciante di ottenere una pronuncia che realizzi le proprie pretese — posta a base della regola sancita dall'art. 306 — viene ad essere necessariamente soddisfatta nell'ipotesi di trasferimento della azione civile della sede propria a quella penale, posto che in tale evenienza è la stessa azione a proseguire in altra sede, addirittura con possibilità difensive maggiori per l'imputato-convenuto (Corte cost. n. 211/2002).

È stato tuttavia precisato che, poiché il trasferimento dell'azione civile in sede penale, a norma dell'art. 75 c.p.p., non è un vero e proprio fatto estintivo, ma piuttosto un fatto ostativo alla sua prosecuzione, la conseguente preclusione non può essere dichiarata ove, al momento della declaratoria, essa abbia già esaurito i suoi effetti, essendosi nel frattempo, il processo penale concluso senza una pronuncia sull'azione civile. (Cass. III, n. 15995/2011, la quale, nella specie ha cassato con rinvio la sentenza della corte d'appello, che aveva dichiarato inammissibile per intervenuta rinuncia agli atti del giudizio il processo civile introdotto con domanda di risarcimento dei danni trasferita nel processo penale, posto che all'epoca quest'ultimo si era già chiuso con sentenza di non luogo a procedere per non aver commesso il fatto).

Sulla ricostruzione dell'istituto del trasferimento dell'azione civile in sede penale, intervenendo da ultimo la S.C. ha sottolineato che lo stesso determina una vicenda estintiva del processo civile riconducibile al fenomeno della litispendenza e non a quello disciplinato dall'art. 306 c.p.c., in quanto previsto al fine di evitare contrasti di giudicati (sicché il provvedimento con cui il giudice civile prende atto della predetta vicenda non integra una decisione sulla competenza e non è, pertanto, impugnabile con il relativo regolamento: Cass. VI, n. 33214/2021).

Il provvedimento dichiarativo dell'estinzione ex art. 75 c.p.p. è impugnabile con reclamo ex art. 308 c.p.c., tale essendo il rimedio tipico apprestato dal legislatore per la verifica dei presupposti integrativi della fattispecie estintiva, e non con regolamento di competenza, operante per le sole ipotesi di litispendenza interne alla giurisdizione civile (Cass. n. 25176/2024).

 

Casistica

La costituzione di parte civile del curatore fallimentare nel procedimento penale per bancarotta fraudolenta a carico del fallito non determina l'estinzione del giudizio civile precedentemente introdotto ai sensi dell'art. 64 l. fall. (per la nuova disciplina v. art. 163, d.lgs. n. 14/2019 – Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza), né la sospensione di quello introdotto successivamente, neppure nel caso in cui il curatore sia stato autorizzato ad estendere la domanda risarcitoria, fondata sui medesimi fatti, al terzo convenuto nel giudizio civile, in qualità di responsabile civile, in quanto si tratta di domande diverse ed, anzi, aventi causae petendi opposte, dato che la domanda risarcitoria si fonda su di un fatto illecito-reato e l'altra riguarda un atto lecito, che può essere dichiarato inefficace anche qualora al disponente ed al beneficiario non si possa rimproverare alcunché; inoltre, il petitum dell'azione risarcitoria è rivolto a conseguire la reintegrazione del patrimonio del soggetto depauperato dall'illecito mediante la corresponsione dell'equivalente pecuniario del pregiudizio subito, mentre, nella fattispecie di cui all'art. 64 r.d. n. 267/1942 (l. fall.), l'azione ha per oggetto la sanzione di inefficacia del pagamento eseguito dal solvens e la restituzione della somma pagata assume carattere strumentale al fine della ricostituzione della massa fallimentare nella consistenza originaria (Cass. S.U., n. 6538/2010).

L'iniziativa della parte di chiedere al giudice penale di pronunciare sul merito della domanda già proposta al giudice civile, a condizione che tale trasferimento sia ammissibile (art. 75, comma 2, c.p.p.), determina l'effetto che il giudizio aperto dalla domanda per l'emissione di decreto ingiuntivo e proseguito per effetto dell'opposizione formulata dall'ingiunto non possa continuare davanti al giudice civile e si debba, dunque, arrestare con la sua dichiarazione di estinzione, cui deve correlarsi l'ordine di cancellazione dell'ipoteca iscritta sulla base di decreto provvisoriamente esecutivo, divenuto inefficace. A quest'ultimo fine non può trovare applicazione la disciplina prevista dall'art. 653 per il caso di estinzione del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo poiché, nella suddetta ipotesi del trasferimento dell'azione civile nel giudizio penale in virtù dell'opzione manifestata dalla parte creditrice opposta, è proprio quest'ultima a voler sottoporre la propria pretesa ad un accertamento condotto secondo diverse regole processuali e dovendosi del resto rilevare che, sul piano generale, l'art. 653è applicabile anche al caso della rinuncia agli atti solo quando è l'opponente a rinunciare alla propria opposizione e, quindi, ad una pronuncia di merito che rigetti la domanda proposta nei suoi confronti, mentre non trova applicazione quando è l'attore-opposto che rinuncia alla statuizione sul merito della propria domanda, sottraendo al giudice il potere di esaminarla, come accade proprio quando il creditore-opposto manifesti la sua volontà di trasferire l'azione civile nel processo penale (Cass. III, n. 24746/2006).

La costituzione di parte civile comporta il trasferimento nel processo penale dell'azione precedentemente proposta in sede civile, a norma dell'art. 75 del nuovo c.p.p., con conseguente estinzione del giudizio civile per rinuncia agli atti del giudizio, nel solo caso di effettiva coincidenza delle azioni per petitum e causa petendi: di conseguenza, non sono ravvisabili i presupposti di tale trasferimento nel caso in cui il soggetto che abbia agito in sede civile per l'abbattimento di una nuova costruzione ed il risarcimento del danno, lamentando la violazione della normativa sulle distanze tra le costruzioni, si costituisca parte civile nel giudizio penale in cui il convenuto sia imputato del reato di costruzione in difetto della prescritta concessione edilizia (Cass. II, n. 13007/2000).

Chi sia danneggiato da un reato, ai sensi dell'art. 75, comma 1, c.p.p. può trasferire nel processo penale l'azione civile, ma l'esercizio di tale facoltà comporta rinuncia agli atti del giudizio civile, e non è consentito limitare il trasferimento all'azione per il risarcimento dei danni morali, proseguendo il processo in sede civile per il risarcimento dei danni patrimoniali (Trib. Reggio Emilia 28 gennaio 2002, Giur. mer., 2003, 28; Trib. Milano, 10 febbraio 2000, in Foro ambrosiano, 2001, 24, con nota di Tassi).

Bibliografia

Bianchi D'Espinosa - Baldi, Estinzione del processo, in Enc. dir., XV, Milano, 1966, 916; Calvosa, Estinzione del processo civile, in Nss. D.I., VI, Torino 1960, VI, 980; Cavallone, Forma ed efficacia dei provvedimenti sulla estinzione del processo civile do cognizione, in Riv. dir. proc. 1965, 273; Cipriani, La declaratoria di estinzione per inattività delle parti del processo di cognizione di primo grado, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1966, 122; Giussani, Le dichiarazioni di rinuncia nel giudizio di cognizione, Milano, 1999; Marengo, Oggetto ed effetti delle pronunce sulla giurisdizione, in Riv. dir. proc. 1999, 265; Martinetto, Sulla declaratoria di estinzione del processo civile (forme e gravami), in Riv. dir. proc. 1965, 625; Massari, Rinunzia agli atti del giudizio, in Nss. D.I., XV, Torino 1968, 1156; Micheli, La rinuncia agli atti del giudizio, Padova, 1937; Oriani, Processo di cognizione e interruzione della prescrizione, Napoli, 1977; Panzarola, Cessazione della materia del contendere, in Enc. dir., Agg., VI, Milano, 2002, 224; Ruffini, Dichiarazione di estinzione del processo in un altro processo, in Giur. mer. 1984, 612 ss.; Saletti, La riassunzione del processo civile, Milano, 1981; Saletti, Estinzione del processo, in Enc. giur., XIII, Roma, 1988, 1 ss.; Santagada, La conciliazione delle controversie civili, Bari, 2008; Sassani, Impugnativa dell'atto e disciplina del rapporto, Padova, 1989; Sassani, Cessazione della materia del contendere (diritto processuale civile), in Enc. giur, Roma, 1988, 1 ss:; Satta, L'estinzione del processo, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1957, 1005; Vaccarella, Inattività delle parti ed estinzione del processo di cognizione, Napoli, 1975; Vaccarella, Rinuncia agli atti del giudizio, in Enc. dir., XL, Milano, 1989, 960.

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