Codice di Procedura Civile art. 342 - Forma dell'appello 1

Mauro Di Marzio

Forma dell'appello1

[I]. L'appello si propone con citazione contenente le indicazioni prescritte nell'articolo 163 e deve essere motivato in modo chiaro, sintetico e specifico. Per ciascuno dei motivi, a pena di inammissibilita', l'appello deve individuare lo specifico capo della decisione impugnato e in relazione a questo deve indicare:

1) le censure proposte alla ricostruzione dei fatti compiuta dal giudice di primo grado;

2) le violazioni di legge denunciate e la loro rilevanza ai fini della decisione impugnata2.

[II]. Tra il giorno della citazione e quello della prima udienza di trattazione devono intercorrere termini liberi non minori di novanta giorni se il luogo della notificazione si trova in Italia e di centocinquanta giorni se si trova all'estero.

 

[1] [1] Articolo così sostituito dall'art. 50 l. 26 novembre 1990, n. 353; successivamente modificato dall'art. 54 d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv., con modif., dalla l. 7 agosto 2012, n. 134 e, da ultimo, dall'art. 3, comma 26,  lett. a), del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149 (ai sensi dell'art. 52 d.lgs. n. 149 /2022 , il presente decreto legislativo entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale).Per la disciplina transitoria v. art. 35 d.lgs. n. 149/2022, come  sostituito  dall'art. 1, comma 380, lettera a), l. 29 dicembre 2022, n. 197, che prevede che : "1. Le disposizioni del presente decreto, salvo che non sia diversamente disposto, hanno effetto a decorrere dal 28 febbraio 2023 e si applicano ai procedimenti instaurati successivamente a tale data. Ai procedimenti pendenti alla data del 28 febbraio 2023 si applicano le disposizioni anteriormente vigenti.- 4. Le norme dei capi I e II del titolo III del libro secondo e quelle degli articoli 283, 434, 436-bis, 437 e 438 del codice di procedura civile, come modificati dal presente decreto, si applicano alle impugnazioni proposte successivamente al 28 febbraio 2023".Si riporta il testo anteriore alla suddetta sostituzione«L'appello si propone con citazione contenente le indicazioni prescritte dall'articolo 163. L'appello deve essere motivato. La motivazione dell'appello deve contenere, a pena di inammissibilità: 1) l'indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado; 2) l'indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata. Tra il giorno della citazione e quello della prima udienza di trattazione devono intercorrere termini liberi non minori di quelli previsti dall'articolo 163-bis.».

[2] Comma sostituito dall'art. 3, comma  4, lett. b),  del d.lgs. 31 ottobre 2024, n. 164. Il testo del comma era il seguente:  «L'appello si propone con citazione contenente le indicazioni prescritte nell'articolo 163. L'appello deve essere motivato, e per ciascuno dei motivi deve indicare a pena di inammissibilità, in modo chiaro, sintetico e specifico: 1) il capo della decisione di primo grado che viene impugnato; 2) le censure proposte alla ricostruzione dei fatti compiuta dal giudice di primo grado; 3) le violazioni di legge denunciate e la loro rilevanza ai fini della decisione impugnata.». Ai sensi dell'art. 7, comma 1, del medesimo decreto, le disposizioni di cui al d.lgs. n. 164/2024 cit. si applicano ai procedimenti introdotti successivamente al 28 febbraio 2023.

Inquadramento

L'art. 342 costituisce il cuore della disciplina dell'appello, giacché dalla sua formulazione discende la configurazione stessa del mezzo di impugnazione, quale strumento strettamente diretto (non già e non più a riesaminare la materia già scrutinata dal primo giudice, ma) a correggere gli eventuali errori della sentenza impugnata. La norma è stata novellata dalla riforma del 2022 (d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149), ma non sembra che la sua nuova formulazione, che pare aver introdotto modificazioni di rilievo meramente sintattico-lessicale, potrà avere effettive ricadute sul concreto funzionamento del giudizio di appello.

Altrettanto dicasi per il Correttivo (d.lgs. n. 164/2024), che ha novellato il comma 1 della disposizione in esame come segue: «L'appello si propone con citazione contenente le indicazioni prescritte nell'art. 163 e deve essere motivato in modo chiaro, sintetico e specifico. Per ciascuno dei motivi, a pena di inammissibilità, l’appello deve individuare lo specifico capo della decisione impugnato e in relazione a questo deve indicare: 1) le censure proposte alla ricostruzione dei fatti compiuta dal giudice di primo grado;

2) le violazioni di legge denunciate e la loro rilevanza ai fini della decisione impugnata». Si tratta di modifiche che la relazione ministeriale di accompagnamento al Correttivo ha definito meramente linguistiche, che non inciderebbero sul contenuto della norma, ma sarebbero dirette a chiarire che i caratteri di chiarezza, sintesi e specificità non costituiscono ex se requisiti di ammissibilità dell’appello e a specificare che ciascun motivo di appello deve essere relativo «ad uno specifico capo» della sentenza.

L'atto d'appello ha la stessa forma dell'atto introduttivo del giudizio di primo grado: ossia quella dell'atto di citazione, in caso di giudizio ordinario, ovvero di ricorso nel caso del rito del lavoro. L'adozione dell'una o dell'altra forma, tuttavia, non discende, se non indirettamente, dalla materia oggetto del giudizio di impugnazione, bensì dal rito adottato per il giudizio di primo grado.

Opera, in proposito, il principio dell'ultrattività del rito, che costituisce specificazione della regola generale secondo cui il regime della impugnabilità delle sentenze si individua in ossequio al principio dell'apparenza, vale a dire con riferimento esclusivo alla qualificazione dell'azione effettuata dal giudice nello stesso provvedimento, indipendentemente dall'esattezza di essa (Cass. n. 3338/2012; Cass. n. 12872/2016).

Ne segue che, se il giudizio si è erroneamente svolto in primo grado nelle forme del rito ordinario anziché in quelle del rito del lavoro, invece applicabile, e viceversa, l'appello va rispettivamente proposto con citazione e con ricorso Cass. n. 4068/1982; Cass. S.U., n. 5919/1982; Cass. n. 1891/1983; Cass. n. 6455/1983; Cass. n. 1493/1984; Cass. n. 10278/2002).

In ogni caso, l'impiego della citazione in luogo del ricorso, e viceversa, non produce nullità, sempre che sia osservato il termine per la proposizione dell'appello di volta in volta applicabile: perciò se l'appello è stato proposto con citazione invece che con ricorso, la tempestività dell'impugnazione va verificata in relazione alla data di deposito dell'atto di citazione; se l'appello è stato proposto con ricorso anziché con citazione, la tempestività dell'impugnazione va scrutinata in relazione alla data di notificazione del ricorso (Cass. n. 4498/2009; Cass. n. 24386/2022).

Se la stessa sentenza pronuncia congiuntamente su cause soggette al rito ordinario e a quello camerale l'appello deve essere proposto con atto di citazione (Cass. n. 4395/1995).

I requisiti di contenuto-forma dell'atto d'appello

La disposizione in commento contiene l'espresso rinvio — peraltro ritenuto superfluo, tenuto conto della norma di carattere generale dettata dall'art. 359 — alle prescrizioni dell'art. 163, concernente l'atto di citazione. Tuttavia, il rinvio ha per sua natura da essere inteso nei limiti della compatibilità. Perciò, l'atto d'appello — salvo quanto dopo si dirà con riguardo ai nn. 3 e 4 dell'art. 163, comma 1, — deve contenere:

i) l'indicazione dell'ufficio giudiziario davanti al quale l'appello è proposto (art. 163, comma 1, n. 1);

ii) il nome, il cognome, la residenza e il codice fiscale dell'appellante, il nome, il cognome, il codice fiscale, la residenza o il domicilio o la dimora dell'appellato e delle persone che rispettivamente li rappresentano o li assistono; se appellante o appellato è una persona giuridica, un'associazione non riconosciuta o un comitato l'atto d'appello deve contenere la denominazione o la ditta, con l'indicazione dell'organo o ufficio che ne ha la rappresentanza in giudizio (art. 163, comma 1, n. 2);

iii) l'indicazione specifica dei mezzi di prova dei quali l'attore intende valersi e in particolare dei documenti che offre in comunicazione (art. 163, comma 1, n. 5); tale disposizione va coordinata con l'art. 345 che, oggi, a seguito dell'abrogazione dell'inciso «che il collegio non li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero» ad opera del d.l. n. 83/2012, conv., con modif., in l. n. 134/2012, esclude l'ammissibilità di nuovi mezzi di prova e nuovi documenti, salvo che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile; può però sempre deferirsi il giuramento decisorio;

iv) il nome e il cognome del procuratore e l'indicazione della procura, qualora questa sia stata già rilasciata (art. 163, comma 1, n. 6);

v) l'indicazione (ex art. 163, comma 1, n. 6) del giorno dell'udienza di comparizione;

vi) l'invito al convenuto a costituirsi nel termine di venti giorni prima dell'udienza indicata ai sensi e nelle forme stabilite dall'art. 166, ovvero di dieci giorni prima in caso di abbreviazione dei termini, e a comparire, nell'udienza indicata, dinanzi al giudice designato ai sensi dell'art. 168-bis; non occorre l'avvertimento che la costituzione oltre i suddetti termini implica le decadenze contemplate dal citato art. 163, ovvero altre in sostituzione di esso (Cass. S.U., 9407/2013Cass. n. 341/2016, concernente anche l'avvertimento riferito all'art. 38; Cass. n. 7772/2022);

vii) la sottoscrizione a norma dell'art. 125 (art. 163, comma 2).

In mancanza degli elementi sopra elencati la citazione in appello è nulla secondo la previsione dell'art. 164.

Il petitum e la causa petendi

Una specifica seppur breve trattazione è opportuno dedicare ai nn. 3 e 4 del comma 1 dell'art. 163, cui rinvia l'art. 342, i quali si riferiscono alla determinazione della cosa oggetto della domanda ed all'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda, con le relative conclusioni.

Nella previgente formulazione dell'art. 342 il richiamo all'esigenza di determinazione della cosa oggetto della domanda nonché di esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda, ovvero alla indicazione del petitum e della causa petendi, andava ad intersecarsi, ed anzi in qualche misura a sovrapporsi, con l'ulteriore previsione secondo cui la citazione in appello doveva altresì contenere, oltre ai requisiti previsti dall'art. 163, «l'esposizione sommaria dei fatti ed i motivi specifici dell'impugnazione».

Occorre tener presente, in argomento, che l'atto introduttivo del giudizio di appello ha una funzione diversa da quella dell'atto introduttivo del giudizio di primo grado: tale funzione, infatti, è duplice, giacché l'atto d'appello contiene per un verso la manifestazione della volontà di impugnare; per altro verso, mediante la formulazione dei motivi, identifica l'oggetto dell'impugnazione. Ciò rende tale atto intrinsecamente più complesso dell'atto di citazione per il primo grado del giudizio. L'atto d'appello, cioè, per la funzione istituzionalmente perseguita, richiede che l'appellante indichi:

i) quale svolgimento abbia avuto il processo in primo grado, attraverso la sistematica ricognizione della domanda proposta dall'attore, delle difese ed eventuali controdomande avanzate dal convenuto, dell'istruttoria svolta;

ii) quale decisione abbia adottato il giudice e con quale motivazione;

iii) i motivi tali da scardinare in tutto o in parte la decisione adottata;

iv) la (ri)proposizione della domanda nei limiti derivanti dall'impugnazione proposta e, per l'effetto, la sostituzione della sentenza, travolta dall'impugnazione, con altra conforme a diritto, salvi i casi di rimessione al primo giudice.

La riscrittura dell'art. 342 ad opera del d.l. n. 83/2012, conv., con modif., in l. n. 134/2012, proseguita dalla riforma del 2022 (d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149) ha inteso migliorare, sotto l'aspetto ora in esame, la formulazione della norma. Essa, infatti, ha soppresso il riferimento all'esposizione sommaria dei fatti, soffermandosi invece su un tentativo di precisazione della nozione di specificità dei motivi. È così venuta meno la sovrapposizione tra la previsione dell'esposizione sommaria dei fatti e l'esposizione dei fatti tali da integrare la causa petendi.

Nullità e sanatoria dell'atto d'appello

L'art. 342 rinvia all'art. 163, ma non al successivo art. 164, che detta il regime della nullità e sanatoria dell'atto di citazione per il giudizio di primo grado, suddividendo i vizi che comportano nullità in due categorie, quelle dei vizi della vocatio in ius, suscettibile di sanatoria ex tunc, e quelli della editio actionis, sanabili ex nunc.

Si pone, in proposito, anzitutto il quesito se l'art. 164, non richiamato dall'art. 342, sia nondimeno per intero applicabile alla citazione in appello (non solo nei commi 1 e 4, la cui applicabilità è indiscussa, ma anche nella parte concernente il regime di sanatoria della nullità) per il tramite dell'art. 359, il quale stabilisce che nel giudizio di appello si osservano, in quanto applicabili, le norme dettate per il procedimento di primo grado davanti al tribunale.

L'applicabilità dell'art. 164, nella parte concernente la sanatoria della nullità, non può essere data per scontata e, anzi, è stata esclusa da una fondamentale decisione resa sulla questione delle conseguenze della mancanza del requisito di specificità dei motivi d'appello (Cass. S.U., n. 16/2000). Si legge nella menzionata pronuncia che l'art. 164 non è «applicabile in tema di appello in virtù del rinvio generale contenuto nell'art. 359, in quanto, al fine dell'applicabilità delle norme dettate per il procedimento di primo grado, è necessario che tali norme superino il giudizio di compatibilità... Questo giudizio di compatibilità non è superato dall'art. 164, comma 2. Scopo dell'atto di citazione di primo grado è quello di costituire il rapporto giuridico processuale. Scopi dell'atto di appello sono, oltre quello della costituzione del rapporto giuridico processuale di impugnazione, quello di evitare il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, attraverso la denuncia della sua pretesa ingiustizia».

Sulla base di tale assunto la S.C. ha in un'occasione ritenuto che la nullità della citazione in appello (si trattava della mancata indicazione dell'udienza di comparizione) comportasse automaticamente l'inammissibilità dell'impugnazione (Cass. n. 3809/2004).

Tale decisione è stata criticata dalla dottrina, che l'ha definita «sconcertante» e foriera di denegata giustizia (Balena, 2005, 183; De Cristofaro, 2004, 753; Romano, 2010, 1432).

La giurisprudenza successiva non sembra aver dubitato, ma senza adeguati approfondimenti, che l'art. 164 possa trovare applicazione anche nel giudizio di appello (Cass. n. 17474/2007; Cass. n. 16877/2007; Cass. n. 17951/2008; Cass. n. 22024/2009; Cass. n. 13128/2010; Cass. n. 7619/2011). Più di recente, viceversa, la questione, riesaminata con piena cognizione dei suoi termini, è stata in conformità all'insegnamento che esclude l'operatività della sanatoria in appello. Difatti l'omessa indicazione, nella copia notificata dell'atto di citazione in appello, della data dell'udienza di comparizione produce l'inammissibilità del gravame ed il passaggio in giudicato della sentenza impugnata, trattandosi di nullità non suscettibile di sanatoria poiché ricollegata all'assenza di un elemento necessariamente richiesto dall'art. 342 attraverso il richiamo al precedente art. 163 (Cass. n. 18868/2014). 

Ancor più di recente, sempre richiamandosi all’autorità delle Sezioni Unite, la S.C. ha escluso la sanatoria della nullità dell’atto di citazione in appello, estendendo l’applicabilità del principio alla riassunzione effettuata in seguito a cassazione con rinvio (Cass. n. 19580/2017).

Nella materia ha in seguito cercato di porre ordine, ma certo senza riuscirci, una decisione in cui la S.C. (Cass. n. 1556/2018), nel cassare la pronuncia che aveva escluso l’applicabilità della sanatoria in appello dell’atto di citazione nullo, ha osservato che i precedenti tenuti presenti dalla corte territoriale (Cass. n. 18868/2014 e Cass. S.U., n. 16/2000) sarebbero stati pronunciati in relazione a controversie regolate dal testo previgente dell’art. 164 c.p.c., applicabile alle controversie sorte entro il 3 aprile 1995, mentre, con riguardo testo vigente, la giurisprudenza della S.C. sarebbe ormai consolidata, «dopo alcune iniziali oscillazioni», nell'affermare che all'atto introduttivo del giudizio di appello «la suddetta disposizione sia integralmente applicabile». Ora, discorrere di giurisprudenza consolidata non ha senso, visto che la sanatoria è stata esclusa ancora nel 2017, per di più in una causa in cui si applicava l’attuale art. 164 c.p.c.. La decisione inoltre non spiega affatto per quali ragioni la novella del 1990 dell’art. 164 c.p.c. renderebbe inattuale il ragionamento seguito dalle Sezioni Unite nel 2000, e, d’altronde, tale ragionamento, nella decisione in esame, non è neppur rammentato, e tantomeno assoggettato a disamina critica. In realtà, la soluzione affermata dalle Sezioni Unite non è sfiorata dalla circostanza che il testo del comma 2 dell’art. 164 c.p.c. sia stato oggetto, ormai oltre trenta d’anni fa, di novellazione: esse difatti affermano che la sanatoria della nullità dell’atto di citazione in primo grado non si applica all’atto d’appello perché è incompatibile con la sua funzione, la quale non è soltanto quella di introdurre il giudizio di impugnazione, ma anche di impedire il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, la qual cosa pare del tutto indifferente al fatto che il legislatore abbia modificato, dilatandolo, il regime della sanatoria. La realtà è che nella giurisprudenza della Corte di cassazione c’è un’evidente tendenza ad ampliare le maglie dell’ammissibilità dell’appello: basti considerare la pronuncia (Cass. S.U., n. 27199/2017), sull’interpretazione dell’art. 342 c.p.c. post-2012, a leggere la quale sembrerebbe di capire che il legislatore non l’abbia nemmeno riformato. Questa è la temperie in cui si inquadra la tesi che giudica indiscriminatamente applicabile in appello la sanatoria delle nullità della citazione, anche da ultimo ribadita (Cass. n. 10926/2023, in cui si invoca ancora una volta la

fantomatica «luce del consolidato orientamento giurisprudenziale formatosi sul punto»). Ma quest’atteggiamento va in controtendenza rispetto all’indirizzo del legislatore, come si desume anche dalla previsione della riforma Cartabia che affida all’istruttore alcuni compiti, indicati nell’art. 350 c.p.c., ma non quello di ordinare la rinnovazione della citazione viziata per un elemento della c.d. vocatio in ius: rinnovazione che l’istruttore non può ordinare perché non può essere ordinata.

Può piacere o non piacere, ma il disegno del legislatore è nel complesso chiaro. Ciò che il sistema può offrire è un primo grado a cognizione piena: regolato sì da un sistema di preclusioni e decadenze, ma complessivamente tale da offrire all’attore ampia possibilità di pervenire ad una pronuncia di merito. Dopodiché l’appello può servire soltanto a correggere individuati errori della sentenza di primo grado che l’appellante abbia con esattezza denunciato. Il ricorso per cassazione, poi, a seguito della modifica del n. 5 dell’art. 360 c.p.c., non può essere impiegato per denunciare vizi di congruità della motivazione troppo spesso impiegati per far rientrare dalla finestra quel giudizio di fatto che la disciplina del processo di cassazione espelle dalla porta. Tutto ciò richiede che gli attori del processo facciano tutti per il meglio il proprio lavoro. Il senso del congegno è allora che la legge tende a favorire il sollecito passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, nell’ottica di realizzare un equilibrato compromesso tra effettività della tutela giurisdizionale concernente il merito della controversia e contenimento della durata del processo. Ovviamente, in questa prospettiva, non vale invocare, a suffragio della decisione accolta nella decisione poc’anzi ricordata, l'osservazione che il processo civile deve tendere ad una decisione di merito e non di rito, in applicazione del noto principio chiovendiano secondo cui «il processo deve dare per quanto è possibile praticamente a chi ha un diritto tutto quello e proprio quello ch'egli ha diritto di conseguire»: in primo grado, infatti, ove mancasse la previsione della sanatoria dei vizi della vocatio in ius, il rilievo di essi condurrebbe ineluttabilmente ad una pronuncia di mero rito; in grado d'appello, invece, la pronuncia d'inammissibilità dell'impugnazione va di pari passo, per l'appunto, con il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, sentenza che, d’altronde, «nel vigente sistema è da tempo assistita da una vera e propria presunzione di legittimità» (Cass. S.U., n. 3033/2013).

Resta da dire della nullità della citazione in appello per vizi non della vocatio in ius, ma della editio actionis (vizi ai quali può essere in definitiva accostato il difetto di specificità dei motivi d'appello che, ormai, comporta per espressa previsione normativa l'inammissibilità dell'impugnazione).

Alcuni autori ritengono che anche in tal caso operi la sanatoria prevista dall'art. 164, ma con efficacia ex nunc, con la conseguenza che la rinnovazione della citazione dopo il decorso dei termini per l'impugnazione non esclude l'inammissibilità dell'appello; se, disposta la sanatoria, l'appellante non proceda a rinnovare o a integrare la citazione nel termine il giudizio di impugnazione si conclude in rito con dichiarazione di nullità della citazione in appello (Chiarloni, 1995, 11; Ferri, 1995, 563; Sassani, 1999, 180). Secondo altri il rinvio all'art. 164, con la sanatoria ivi prevista, non opererebbe con riguardo ai vizi della editio actionis, al pari della mancata indicazione dei motivi dell'impugnazione, per la quale non può trovare applicazione alcuna sanatoria (Proto Pisani, 1999, 530; Mandrioli, 2009, 479).

I motivi d'appello ed il carattere di specificità

Già nel vigore del vecchio testo dell'art. 342, la fondamentale ricaduta applicativa della ricostruzione del giudizio di appello data dalla giurisprudenza della S.C. si manifestava con riguardo all'esigenza di specificità dei motivi sancita dall'art. 342, comma 1, secondo cui l'appello si proponeva con citazione contenente, tra l'altro, «i motivi specifici dell'impugnazione».

L'appello, ha da tempo precisato la S.C., non rappresenta più, nella configurazione datagli dal codice di rito attualmente vigente, il mezzo per passare da uno all'altro esame della causa, secondo il modello del novum iudicium, ma consiste in una revisio fondata sulla denunzia di specifici vizi di ingiustizia o nullità della sentenza impugnata, sicché l'appellante è tenuto a fornire la dimostrazione della fondatezza delle singole censure mosse alle singole statuizioni offerte dalla sentenza impugnata, il cui riesame è chiesto per ottenere la riforma del capo decisorio appellato.

Aveva spiegato in proposito la S.C. che l'appello deve contenere, “i motivi specifici dell'impugnazione”. Il che sta ad indicare che l'atto d'appello non può limitarsi ad individuare le “statuizioni” concretamente impugnate e cosi i capi di sentenza non ancora destinati a passare in giudicato ex art. 329, cpv., ma deve contenere anche le argomentazioni dirette a confutare la validità delle ragioni poste dal primo giudice a fondamento della soluzione delle singole questioni su cui si regge la decisione... e, quindi, non può non indicare le singole “questioni” sulle quali il giudice ad quem e chiamato a decidere..., sostituendo o meno per ciascuna di esse soluzioni diverse da quelle adottate in prime cure (Cass. S.U., n. 28498/2005). L'appello, in altre parole, è dato alla parte contro l'ingiustizia della sentenza di primo grado ed è rimessa alla stessa parte, per il principio dispositivo, la determinazione dei fatti nei quali l'ingiustizia si concreta, con la conseguenza della esigenza assoluta della motivazione, quale elemento inseparabile dalla postulazione dell'ingiustizia e con l'ulteriore conseguenza che, in difetto di tale motivazione del vizio denunciato, il giudice del gravame non può procedere alla revisio prioris instantiae (Cass. S.U., n. 16/2000 sulla qualificazione dell'appello in termini di semplice revisio v. pure Cass. n. 2855/2016).

In tale ottica, è divenuto ius receptum, nella giurisprudenza della S.C., il principio secondo cui il requisito della specificità dei motivi di cui all'art. 342 (richiesto anche in caso di mancata ammissione di mezzi istruttori: Cass. n. 5812/2016) postula che alle argomentazioni della sentenza impugnata vengano contrapposte quelle dell'appellante, finalizzate ad inficiare il fondamento logico-giuridico delle prime, non essendo le statuizioni di una sentenza scindibili dalle argomentazioni che la sorreggono. L'appello deve cioè necessariamente contenere una parte argomentativa  (da ult. tra le tante Cass. n. 12280/2016) idonea a contrastare la motivazione delle sentenza impugnata.

Né — ha più volte ribadito la giurisprudenza di legittimità — v'è la possibilità di rinviare l'esposizione delle argomentazioni ad un momento successivo del giudizio o addirittura alla comparsa conclusionale, essendo l'atto d'appello quello che fissa i limiti della controversia in sede di gravame ed esaurisce il diritto potestativo di impugnazione (Cass. S.U., n. 1151/1982; Cass. n. 6335/1998; Cass. n. 7088/2001).

L'atto d'appello, ha ripetuto la S.C., deve rivolgere alla sentenza impugnata «censure puntuali e precise», ovvero deve contenere la specificazione «sia pure in forma succinta, degli errores attribuiti alla sentenza di primo grado» (Cass. n. 875/2001; Cass. n. 11710/2002; Cass. n. 27727/2005; Cass. n. 1707/2009). Val quanto dire che la formulazione dell'atto d'appello deve consentire di individuare con chiarezza le statuizioni investite dal gravame, onde consentire all'appellato e al giudice di valutare esattamente la portata dell'impugnazione.

I motivi dell'impugnazione devono quindi non solo indicare il quantum appellatum, ma anche il quia: il motivo d'appello deve quindi individuare le parti di cui l'appellante chiede la riforma e gli errori, in iudicando o in procedendo, da cui esse sono affette. In breve, mutuando la schematizzazione operata dalla dottrina, si può dire che «il motivo di appello è specifico quando, in base ad un giudizio ex ante, l'eventuale fondatezza dell'argomentazione priverebbe di base logica la sentenza impugnata » (Poli. 2006, 1399).

È motivo specifico quello idoneo, almeno in astratto, a far cadere l'impalcatura che sorregge la sentenza impugnata: occorre che tra il motivo e la sentenza vi sia una relazione di incompatibilità, nel senso che, per dirla in linguaggio booleano, se il motivo è true, la sentenza è false. In ciò non v’è alcunché di formalistico: ciò che è rafforzato sono i poteri delle parti a discapito dei poteri officiosi del giudice, il che è perfettamente in linea con principi basilari del nostro processo civile, quali il principio dispositivo, che si realizza anche attraverso la necessaria corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, ed il principio del contraddittorio.

Guardano brevemente alla casistica, per quanto essa può rilevare anche dopo la modificazione della norma, è stato detto che non sono specifici i motivi svolti attraverso il rinvio alla comparsa conclusionale di primo grado (Cass. n. 13756/2002; Cass. n. 12140/2006; contra Cass. n. 25308/2014). Non sono specifici i motivi svolti attraverso il rinvio alle argomentazioni proposte nel precedente grado di giudizio (Cass. n. 18353/2004; Cass. n. 20987/2004; Cass. n. 21816/2006). Non è specifico il motivo con cui si lamenta che altri giudici hanno deciso diversamente in situazioni analoghe (Cass. n. 10991/2003). In generale, se l'appellante intende censurare un errore di diritto, gli è sufficiente indicare il principio di diritto applicabile (Cass. n. 7341/2009; Cass. n. 7190/2010). Non è specifico però il motivo di appello che si limita a lamentare l'esiguità dell'equo compenso dovuto al concedente in leasing (Cass. n. 18229/2003). L'appellante può censurare la sentenza che ha accolto o respinto le conclusioni del CTU, anche se non ha censurato tali conclusioni in primo grado (Cass. n. 16292/2009; in senso diverso, più perspicuamente, Cass. n. 3330/2016). Tuttavia, a fronte di una decisione fondata su una CTU medico-legale, non può limitarsi a dissentirne, ma deve evidenziare l'insufficienza logico-scientifica dell'accertamento eseguito (Cass. n. 7773/2004). Parimenti, a fronte di una decisione fondata su una CTU contabile, non può limitarsi a dissentirne dai conteggi operati dall'ausiliare e recepiti dal giudice (Cass. n. 25588/2010). Il giudice di appello non può, in mancanza di un motivo specifico, discostarsi dalla CTU cui si è conformato il primo giudice (Cass. n. 13426/2003). Se il primo giudice ha dichiarato la prescrizione del diritto azionato, l'appellante deve spiegare perché il termine di prescrizione non è decorso (Cass. n. 22473/2004). Se il primo giudice non si è pronunciato su una questione perché assorbita, l'appellante non è sottoposto, al riguardo, all'onere di formulare specifici motivi di impugnazione (Cass. n. 21641/2005). Il giudice di appello, al di fuori di una esplicita doglianza, non può rivalutare l'ammissibilità del giuramento suppletorio (Cass. n. 6571/1984; Cass. n. 2715/1994). La chiamata in causa del terzo non è sindacabile in appello (Cass. n. 984/2006).

Si è discusso, in passato, sulle conseguenze della violazione dell'art. 342, comma 2, c.p.c. Una remota pronuncia delle Sezioni Unite affermò, in sede di risoluzione di contrasto, che l'inosservanza dell'onere di specificazione dei motivi determinasse la nullità dell'atto di appello (Cass. S.U., n. 4991/1987). Non mancarono, però, pronunce successive di segno opposto, che ritennero applicabile la sanzione dell’inammissibilità dell’appello. Più di recente le stesse Sezioni Unite hanno dunque mutato indirizzo e stabilito che la violazione dell'art. 342 c.p.c. importa l'inammissibilità dell'impugnazione, la quale è pertanto rilevabile d'ufficio (Cass. SU, n. 16/2000). La soluzione adottata dalle Sezioni Unite è stata in seguito recepita dal legislatore, ed anche oggi la formulazione dell’art. 342 c.p.c. contempla l’inammissibilità quale conseguenza del difetto di specificità. La soluzione produce effetti altresì sull'appello incidentale, sia perché anche quest’ultimo è sottoposto ai medesimi requisiti di contenuto-forma, sia perché l’appello incidentale eventualmente proposto tardivamente è travolto dall’inammissibilità dell’appello principale, ai sensi dell'art. 334, comma 2, c.p.c., secondo cui se l'impugnazione principale è dichiarata inammissibile, l'impugnazione incidentale perde ogni efficacia.

In questo quadro, dopo l’intervento del 2012, la riforma Cartabia ha novellato la disposizione in commento nel senso che: «L'appello deve essere motivato, e per ciascuno dei motivi deve indicare a pena di inammissibilità, in modo chiaro, sintetico e specifico: 1) il capo della decisione di primo grado che viene impugnato; 2) le censure proposte alla ricostruzione dei fatti compiuta dal giudice di primo grado; 3) le violazioni di legge denunciate e la loro rilevanza ai fini della decisione impugnata.

Laddove richiede a pena di inammissibilità dell’appello sia «motivato», e cioè esige che l’esercizio del diritto di appellare la sentenza di primo grado si realizzi necessariamente mediante la formulazione di appositi motivi rivolti contro di essa, la norma si inserisce in una tendenza, più volte manifestatasi negli ultimi anni, e largamente adottata dalla riforma citata, ad attribuire efficacia normativa a soluzioni giurisprudenziali ritenute meritevoli di condivisione. La disposizione, dunque, chiude il dibattito sulle conseguenze del difetto di motivi connotati dal requisito della specificità. La formulazione 

della norma, in definitiva, mira anzitutto allo scopo di esplicare in modo più chiaro e completo quanto già poteva desumersi dall'assetto giurisprudenziale raggiunto in materia: ossia che l’appello richiede a pena di inammissibilità la formulazione dei motivi.

La norma introdotta nel 2012 enumerava dunque la duplice indicazione, necessaria alla «motivazione» dell’appello: a) delle «parti del provvedimento» che l’appellante intendeva impugnare e delle modifiche richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado; b) delle circostanze da cui fosse derivata la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata.

In proposito l’approccio tanto della dottrina quanto della giurisprudenza è stato per lo più desolante: in effetti, pur dopo anni dall’entrata in vigore della novella, il significato della nuova formulazione risulta essere stato del tutto trascurato. Indicativa, in tal senso, è la sentenza delle Sezioni Unite misuratasi con la questione se l’atto d’appello dovesse essere congegnato come «progetto di sentenza». Si afferma in massima che gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo vigente, vanno interpretati nel senso che l'impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata (Cass. S.U., n. 27199/2017). Ora, a parte il fatto che le stesse Sezioni Unite hanno espressamente qualificato l’appello quale impugnazione a critica vincolata già nel vigore del precedente testo dell’art. 342 c.p.c. (Cass. S.U., n. 3033/2013), in una decisione della quale la recente pronuncia sembra non essere neppure consapevole, sta di fatto che la S.C. è pervenuta alla formulazione della massima trascritta prescindendo del tutto dal nuovo testo della norma e limitandosi a mutuare esiti interpretativi formatisi sulla base di un testo normativo diverso: tanto che, a leggere la sentenza, non sembra neppure che esso sia stato modificato.

In realtà, l’art. 342, nella formulazione post-2012, ha inteso anzitutto richiedere alla parte appellante di dire quali parti della sentenza intendesse sottoporre a censura: così confermando esplicitamente la regola posta dal combinato disposto degli artt. 329 e 336 c.p.c. secondo cui sulle parti di sentenza non impugnate si forma l’acquiescenza parziale, sicché esse non possono essere di regola riviste dal giudice dell’impugnazione. In ciò la norma si conformava all’opinione dottrinale, seguita in prevalenza dalla giurisprudenza, secondo cui per parte di sentenza dovesse intendersi la decisione (non già sulla singola domanda in caso di cumulo, bensì) su ciascuna questione sulla quale il giudice avesse avuto a pronunciarsi ai fini dell’adozione della finale statuizione: altrimenti, il richiamo all’esigenza di indicare, sempre e comunque, «le parti del provvedimento che si intende appellare» non avrebbe avuto senso, giacché tale indicazione non avrebbe potuto costituire la regola, ma solo l’eccezione in caso di simultanea proposizione di più domande in cumulo oggettivo.

Dopodiché la riforma Cartabia è intervenuta mutando la dicitura «l'indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare» con quella «il capo della decisione di primo grado che viene impugnato». Può darsi si sia trattato di un surrettizio tentativo di dilatare indiscriminatamente l’effetto devolutivo e così intervenire contro la ratio complessiva della riforma, finalizzata a rendere più efficiente, i.e. più celere il processo civile, in particolare in appello, laddove il problema della irragionevole durata si fa più sentire. E però, pensare di incidere sull’effetto devolutivo, ed in buona sostanza di cambiare la fisionomia non del solo giudizio di appello, ma del complessivo sistema delle impugnazioni, attraverso la sostituzione della parola «parte» con la parola «capo» all’interno dell’art. 342 c.p.c., non ha alcun senso, né alcun effettivo impatto operativo, una volta che il congegno dell’acquiescenza parziale rimanga disciplinato dall’art. 329 c.p.c., nella lettura che la giurisprudenza ne dà: e cioè, se è scontato, come è scontato per la giurisprudenza, che l’acquiescenza parziale si forma sulle singole questioni, è ovvio che le questioni sulle quali l’appellante abbia fatto acquiescenza parziale, perché non investite da uno specifico motivo di appello, non possono essere devolute al giudice di appello, fatto eventualmente salvo l’effetto espansivo interno, ex art. 336, per il semplice fatto che quelle questioni sono coperte da giudicato interno.

L'appellante può alternativamente — ed esclusivamente — dolersi o della ricostruzione dei fatti o di violazioni di legge. E cioè, ai fini dell'ammissibilità dell'appello, possono disgiuntamente essere denunciati errori concernenti la ricostruzione dei fatti ovvero l'applicazione della legge. Quanto al primo aspetto cui il testo vigente dell'art. 342 c.p.c. si riferisce, l’appellante, con riguardo alle quaestiones facti, deve spiegare perché il giudice abbia errato nell’operare la ricostruzione del fatto e come esso avrebbe dovuto essere invece ricostruito. Quanto al secondo aspetto, il legislatore ha cancellato la precedente formulazione «circostanze da cui deriva la violazione della legge», dal momento che la violazione della legge non deriva da una qualche circostanza, ma si colloca nell’ambito del procedimento intellettuale che conduce il giudice alla decisione.

Occorre ancora che l'appellante illustri la rilevanza dell'errore commesso dal giudice ai fini della decisione impugnata. La precisazione dettata dalla norma è agevole da intendere, ed è anzi superflua, giacché è ben possibile che la sentenza erroneamente motivata in iure sia nondimeno conforme a diritto, come dimostra, con riguardo al giudizio di cassazione, l'art. 384, u.c., c.p.c.. Anche con riguardo al giudizio di appello è del resto ben fermo l'orientamento giurisprudenziale secondo cui il giudice di appello, fermi i fatti, può modificare la motivazione della sentenza impugnata, quando essa sia errata. Resta da aggiungere che, mentre l’art. 360 c.p.c. distingue tra violazione della legge sostanziale e violazione della legge processuale, l’una prevista dal n. 3 dell’art. 360 c.p.c., l’altra dal n. 4, la stessa distinzione non è contenuta nell’art. 342 c.p.c., sicché è senz’altro da ritenere che la violazione di legge cui si riferisce tale norma abbia tratto non solo agli errores in iudicando, ma anche agli errores in procedendo, anch’essi denunciabili con l’appello, sebbene entro limiti circoscritti, non potendosi far valere ― secondo l’approccio al problema che ormai emerge dall’art. 101 c.p.c. ― mere nullità processuali che non abbiano avuto ricadute sulla decisione di merito adottata.

L’art. 342 c.p.c. post-Cartabia aggiungeva, improvvidamente, che ciascuno dei motivi dovesse soddisfare a pena di inammissibilità requisiti non solo di di specificità, ma anche di chiarezza chiarezza e sinteticità.

Sul che è come si è detto intervenuto il Correttivo d.lgs. n. 164/2024, disancorando la sanzione di inammissibilità dai requisiti di chiarezza e sinteticità. Si tratta di un opportuno intervento ― che, contrariamente a quanto è detto nella relazione di accompagnamento al decreto legislativo ― ha un rilievo non soltanto lessicale, ma sostanziale, giacché la formulazione post-Cartabia era inequivoca del far discendere l’inammissibilità dalla carenza di chiarezza e sinteticità, mentre l’intervento correttivo ha rimediato a tale previsione rischiosissima, sol che si consideri che i concetti di chiarezza e sinteticità sono del tutto vaghi ed indeterminati.

 

Onere della prova in appello

La conformazione dell'atto d'appello quale revisio ed il principio di specificità dei motivi producono importanti ricadute anche sul riparto degli oneri probatori in grado d'appello.

Ha chiarito la S.C. che essi, in sede di impugnazione, non ricalcano il riparto derivante dall'applicazione, in primo grado, delle regole stabilite dal primo e dal comma 2 dell'art. 2697 c.c.: viceversa l'appellante, una volta denunciato esattamente l'errore commesso dal primo giudice, deve dare la prova della fondatezza del motivo, sicché, per questa via, egli rimane assoggettato al relativo onere probatorio indipendentemente dalla posizione ricoperta in primo grado (Cass. S.U., n. 28498/2005).

Il principio è fermo, giacché è stato nuovamente ribadito dalle Sezioni Unite (Cass. S.U., n. 3033/2013; da ult. Cass. n. 11797/2016, secondo cui l’appellante, ove si dolga dell'erronea valutazione, da parte del primo giudice, di documenti prodotti dalla controparte e da questi non depositati in appello, ha l'onere di estrarne copia ai sensi dell'art. 76 disp. att. c.p.c. e di produrli in sede di gravame).

Motivi concernenti nullità processuali occorse in primo grado

Secondo un indirizzo della S.C. ampiamente ribadito, le nullità occorse nel primo grado del giudizio (al di fuori di quelle che legittimano la rimessione al primo giudice) non possono essere oggetto di censura limitata al profilo di rito, senza investire il merito (se, ovviamente, una pronuncia di merito vi è stata). È perciò inammissibile l'impugnazione con la quale l'appellante si limiti a dedurre soltanto i vizi di rito avverso una pronuncia che abbia deciso anche nel merito in senso a lui sfavorevole solo ove i vizi denunciati comporterebbero, se fondati, una rimessione al primo giudice ai sensi degli artt. 353 e 354; nelle ipotesi in cui, invece, il vizio denunciato non rientra in uno dei casi tassativamente previsti dagli artt. 353 e 354 cit., è necessario che l'appellante deduca ritualmente anche le questioni di merito, con la conseguenza che, in tali ipotesi, l'appello fondato esclusivamente su vizi di rito, senza contestuale gravame contro l'ingiustizia della sentenza di primo grado, dovrà ritenersi inammissibile, oltre che per difetto di interesse, anche per non rispondenza al modello legale di impugnazione (Cass. n. 10389/1991; Cass. n. 10692/1997; Cass. n. 19159/2005; Cass. n. 27296/2005; Cass. n. 1505/2007; Cass. n. 6031/2007; Cass. n. 2053/2010).

Rimane dunque fermo che è inammissibile, per difetto di interesse, il motivo con cui si censuri una violazione processuale non correttamente valutata dal giudice d'appello, allorchè essa non rientri tra i casi tassativi di rimessione della causa al primo giudice e non si sia tradotta in un effettivo pregiudizio per il diritto di difesa. In tal caso, infatti, convertendosi l'eventuale nullità della sentenza in motivi di impugnazione, l'impugnante deve, a pena d'inammissibilità, indicare specificamente quale sia stato il pregiudizio arrecato alle proprie attività difensive dall'invocato vizio processuale (Cass. n. 20834/2022).

Appello contro sentenza sorretta da plurime rationes decidendi

Al principio secondo cui è inammissibile un appello che non contenga una critica anche al merito della sentenza impugnata ma chieda solo la dichiarazione di nullità della sentenza di primo grado si ricollega quello, anch'esso più volte ribadito, in forza del quale, poiché i motivi di appello devono essere idonei a rimuovere la soccombenza dell'appellante, nel caso in cui la sentenza di primo grado pronunci sulla domanda in base ad una pluralità di autonome ragioni, ciascuna di per sé sufficiente a supportare la decisione, la parte soccombente ha l'onere di censurare con l'atto di appello ciascuna delle ragioni della decisione (Cass. n. 7675/1995; Cass. n. 7809/2001).

La decisione di primo grado, infatti, può essere assistita da una motivazione multipla, fondata, cioè, su una pluralità di rationes decidendi, poste tra loro di volta in volta in rapporto di affiancamento (p. es. rigetto della domanda di pagamento del prezzo perché l'azione è prescritta e, in ogni caso, perché l'obbligazione è estinta per altra causa, quale l'adempimento, la compensazione, la novazione ecc.) ovvero di alternatività (p. es. rigetto della domanda di pagamento del prezzo perché il contratto di compravendita non si è concluso e perché, in ogni caso, dovendosi considerare concluso il contratto, l'obbligazione di pagamento dell'acquirente è venuta meno). Eguale situazione può darsi in ipotesi di domanda fondata su diverse causae petendi, ciascuna delle quali ritenuta fondata (p. es. domanda di rilascio di immobile perché detenuto senza titolo e, in subordine, per essere cessato il comodato). In ciascuna di tali ipotesi l'appello è ammissibile, sotto il profilo della specificità dei motivi, solo a condizione che ciascuna delle distinte rationes decidendi venga autonomamente censurata.

La S.C. ha tuttavia enucleato un caso in cui, pur in presenza di plurime rationes decidendi, l'appellante non è onerato dell'impugnazione di ciascuna di esse. Qualora il giudice, dopo una statuizione di inammissibilità (o declinatoria di giurisdizione o di competenza), con la quale si è spogliato della potestas iudicandi in relazione al merito della controversia, abbia impropriamente inserito nella sentenza argomentazioni sul merito, la parte soccombente non ha l'onere né l'interesse ad impugnare; conseguentemente è ammissibile l'impugnazione che si rivolga alla sola statuizione pregiudiziale ed è viceversa inammissibile, per difetto di interesse, l'impugnazione nella parte in cui pretenda un sindacato anche in ordine alla motivazione sul merito, svolta ad abundantiam nella sentenza gravata (Cass. S.U., n. 3840/2007).

Bibliografia

Adorno, Questioni rilevabili d'ufficio e poteri del giudice d'appello, in Riv. dir. proc. 2008, 838; Allorio, Sul doppio grado nel processo civile, in Riv. dir. civ. 1982, I, 317; Amato, Termine breve di impugnazione e bilateralità della notificazione della sentenza nel processo con due sole parti, in Riv. dir. proc. 1985, 330; Attardi, Note sull'effetto devolutivo dell'appello, in Giur. it. 1961, IV, 145; Attardi, Sulle impugnazioni incidentali condizionate, in Giur. it. 1991, IV, 289 Attardi, Le nuove disposizioni sul processo civile, Padova, 1991; Auletta, Forme e tempo dell'appello incidentale (una riflessione su nullità, decadenza e tecniche legislative), in Riv. dir. proc. 2005, 663; Balena, La rimessione della causa al primo giudice, Napoli 1984; Balena, Commentario alla Legge 26 novembre 1990, n. 353, in Nuove leggi civ. comm. 1992, 213; Balena, Elementi di diritto processuale civile, II, 2, Le impugnazioni, Bari, 2004; Balena, Nullità della citazione d'appello per vizi della «vocatio in ius»: un'applicazione ovvia e una disapplicazione sconcertante dell'art. 164 c.p.c., in Foro it. 2005, I, 183; Bellomia, Corte costituzionale e doppio grado di giurisdizione, in Giur. cost. 1982, I, 43; Besso, Principio di prevalenza della sostanza sulla forma e requisiti formali del provvedimento: un importante revirement della Corte di cassazione, in Giur. it. 2007, 946; Bianchi, I limiti oggettivi dell'appello civile, Padova, 2000; Bove, Sentenze non definitive e riserva di impugnazione, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1998, 423; Carbonara, Regime di impugnazione delle sentenze rese dal giudice di pace secondo equità necessaria alla luce del novellato art. 339, 3° co., (in particolare: la violazione del precedente giudicato), in Giur. it. 2007, 516; Carbone, Definitività e non definitività della sentenza, in Corr. giur. 1990, 705; Carpi, La provvisoria esecutorietà della sentenza, Milano, 1979; Carrato, L'oggetto dell'appello ed il requisito della specificità dei motivi, relazione dell'Ufficio del massimario e del ruolo del 18 settembre 2006; Carrato, La necessaria collegialità della Corte di Appello e le conseguenze delle sue possibili violazioni, in Corr. giur. 2012, 240; Cavallini, Nullità della citazione per inosservanza del termine a comparire e poteri del giudice d'appello, in Riv. dir. proc. 1998, 494; Cea, Pluralità di domande e sentenze non definitive, in Foro it. 1987, I, 145; Cea, Sentenze definitive e non definitive: una querelle interminabile, in Foro it. 1993, I, 480; Cerino Canova, Sul contenuto delle sentenze non definitive di merito, in Riv. dir. proc. 1971, 426; Cerino Canova, Le impugnazioni civili, Padova, 1973; Cerino Canova, Dell'appello avverso le sentenze non definitive, in Riv. dir. proc. 1985, 811; Cerri, Il principio del doppio grado di giurisdizione e la sua irrilevanza costituzionale, Giur. cost. 1965, 628; Chiarloni, Appello (Dir. proc. civ.),in Enc. giur., Roma, 1988; Chiarloni, in Tarzia-Cipriani (a cura di), Provvedimenti urgenti per il processo civile, Padova, 1992; Comoglio, Ferri, Taruffo, Lezioni sul processo civile, Bologna, 1998; Consolo, La rimessione in primo grado e l'appello come gravame sostitutivo (una disciplina in crisi), in Jus 1997, 79; Consolo, Alla ricerca della inibitoria, in Riv. arb. 1999, 476; Consolo, Le impugnazioni delle sentenza, Padova, 2004; Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile. Il processo di primo grado e le impugnazioni delle sentenze, III, Milano, 2009; Consolo-Luiso-Sassani, Commentario alla riforma del processo civile, Milano, 1996; Converso, Il processo di appello dinanzi alla Corte d'appello, in Giur. it. 1999, 661; Costantino, Ancora sulla distinzione tra sentenze definitive e non definitive riservabili, in Foro it. 1993, I, 2469; Costantino, L'appello nei giudizi di opposizione a sanzioni amministrative tra foro erariale ed esigenze di prossimità, in Foro it. 2011, I, 444; Danovi, Note sull'effetto sostitutivo dell'appello, in Riv. dir. proc. 2009, 1466; De Cristofaro, Sanatoria (e giustizia) negata: dell'ostinazione contra legem della Suprema Corte a considerare insanabili i vizi dell'atto d'appello concernenti la vocatio in ius, in Corr. giur. 2004, 753; De Cristofaro, Art. 358, in Consolo-Luiso (a cura di), Codice di procedura civile commentato, Milano, 2007, 2805 De Cristofaro-Tedoldi, Articolo 339, in Consolo-Luiso (a cura di), Codice procedura civile commentato, II, Milano, 2007; Denti, Ancora sull'efficacia della decisione di questioni preliminari di merito, in Riv. dir. proc. 1970, 560; Di Marzio, L'appello civile dopo la riforma, Milano, 2013; D'Onofrio, Appello (dir. proc.civ.), in Nss. D. I., I, Torino, 1957, 725; Fabbrini, L'opposizione ordinaria di terzo nel sistema dei mezzi di impugnazione, Milano, 1968; Fabiani, Sulla distinzione tra sentenze definitive e non definitive, in Foro it., 1997, I, 2147; Ferri, Appello nel diritto processuale civile, in Dig. disc. priv., sez. civ., XII, 555, 557; Finocchiaro, Appellabili le sentenze del giudice di pace, in Guida dir. 2006, 8, 56; Liebman, «Parte» o «capo» di sentenza, in Riv. dir. proc. 1964, 57; Gozzi, Difetto di rappresentanza o assistenza della parte e sanatoria in grado di appello, in Riv. dir. proc. 2011, 750; Grasso, Le impugnazioni incidentali, Milano, 1973; Impagnatiello, Proposizione di impugnazione inammissibile, conoscenza della sentenza e decorrenza del termine breve per impugnare, in Foro it. 1994, I, 439; Impagnatiello, Sulla reclamabilità dei provvedimenti d'inibitoria, in Il giusto processo civile 2007, 458; Liebman, Il giudizio d'appello e la Costituzione, in Riv. dir. proc., 1980, 401; Luiso, Appello nel diritto processuale civile, in Dig. disc. priv., sez. civ., I, Torino, 1987, 360; Luiso, Opposizione di terzo, in Enc. giur., XXI, Roma, 1991, 8; Martino, L'appello avverso le sentenze d'equità del giudice di pace, in Giusto proc. civ. 2007, 78; Montali-Corona, L'appello civile, Padova, 2007; Montesano, Cumulo di domande e sentenze non definitive, in Giust. civ. 1985, I, 3132; Montesano, Ancora su cumulo di domande e sentenze non definitive, in Giust. civ. 1986, I, 2371; Olivieri, Opposizione di terzo, in Dig. disc. priv., sez. civ., XIII, Torino, 1995; Olivieri, La rimessione al primo giudice nell'appello civile, Napoli, 1999; Oriani, Eccezioni rilevabili (e non rilevabili) d'ufficio, in Corr. giur. 2005, I, 1011; II, 1156; Pizzorusso, Doppio grado di giurisdizione e principi costituzionali, in Riv. dir. proc. 1978, 33; Poli, I limiti oggettivi delle impugnazioni ordinarie, Padova, 2002; Poli, La devoluzione di domande e questioni in appello nell'interesse della parte vittoriosa nel merito, in Riv. dir. proc. 2004, 336; Poli, L'oggetto del giudizio di appello, in Riv. dir. proc. 2006, 1410; Proto Pisani, Note sulla struttura dell'appello civile e sui suoi riflessi sulla cassazione, in Foro it. 1991, I, 113; Proto Pisani, Appunti sull'appello civile (alla stregua della L. 353/90), in Foro it. 1994, IV, 193; Provinciali, Delle impugnazioni in generale, Napoli, 1962; Rascio, L'oggetto dell'appello civile, Napoli, 1996; Ricci, Doppio grado di giurisdizione (dir. proc. civ.), in Enc. giur., XII; Romano, Sulla nullità dell'atto di citazione in appello per vizi inerenti alla vocatio in ius, in Riv. dir. proc. 2010, 1432; Ronco, Appunti sparsi in tema di mancato deposito della sentenza appellata, di improcedibilità dell'appello e di correlazione tra forma e ragione di impugnazione dei provvedimenti decisori, in Giur. it. 2000, 66; Saleti, La riassunzione del processo civile, Milano, 1983; Sassani, Appello (dir. proc. civ.), in Enc. dir., Aggiornamento, III, Milano, 1999; Tammaro, Il giudizio di appello e le controversie in unico grado, Torino, 2008; Tedoldi, L'istruzione probatoria nell'appello civile, Padova, 2000; Tarzia, Lineamenti del nuovo processo di cognizione, Milano, 2002; Vaccarella-Capponi-Cecchella, Il processo civile dopo le riforme, Torino, 1992; Valitutti-De Stefano, Le impugnazioni nel processo ordinario, Padova, 1996; Vellani, Appello (dir. proc. civ.), in Enc. dir., II, Milano, 1958; Verde, Profili del processo civile, II, Napoli, 1996; Vullo, Mancata costituzione dell'appellante e improcedibilità del gravame, in Riv. dir. proc. 2007, 478.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario