Codice di Procedura Civile art. 360 - Sentenze impugnabili e motivi di ricorso 1 .

Loredana Nazzicone
aggiornato da Mauro Di Marzio

Sentenze impugnabili e motivi di ricorso 1.

[I]. Le sentenze pronunciate in grado d'appello o in unico grado [339 1, 420-bis] possono essere impugnate con ricorso per cassazione:

1) per motivi attinenti alla giurisdizione [37];

2) per violazione delle norme sulla competenza [38], quando non è prescritto il regolamento di competenza [42];

3) per violazione o falsa applicazione di norme di diritto [113] e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro;

4) per nullità della sentenza o del procedimento [156 ss., 161];

5) per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti 2.

[II]. Può inoltre essere impugnata con ricorso per cassazione una sentenza appellabile del tribunale, se le parti sono d'accordo per omettere l'appello; ma in tale caso l'impugnazione può proporsi soltanto a norma del primo comma, n. 3.

[III]. Non sono immediatamente impugnabili con ricorso per cassazione le sentenze che decidono di questioni insorte senza definire, neppure parzialmente, il giudizio. Il ricorso per cassazione avverso tali sentenze può essere proposto, senza necessità di riserva, allorché sia impugnata la sentenza che definisce, anche parzialmente, il giudizio.

[IV]. Quando la pronuncia di appello conferma la decisione di primo grado per le stesse ragioni, inerenti ai medesimi fatti, poste a base della decisione impugnata, il ricorso per cassazione può essere proposto esclusivamente per i motivi di cui al primo comma, numeri 1), 2), 3) e 4). Tale disposizione non si applica relativamente alle cause di cui all'articolo 70, primo comma3.

[V]. Le disposizioni di cui al primo, al terzo e al quarto comma si applicano alle sentenze ed ai provvedimenti diversi dalla sentenza contro i quali è ammesso il ricorso per cassazione per violazione di legge4.

 

[1] Articolo da ultimo così sostituito dall'art. 2 d.lg. 2 febbraio 2006, n. 40, a far data dal 2 marzo 2006. Ai sensi dell'art. 272 d.lg. n. 40, cit., la disposizione si applica « ai ricorsi per cassazione proposti avverso le sentenze e gli altri provvedimenti pubblicati a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto». Precedentemente l'articolo era stato sostituito dall'art. 42 l. 14 luglio 1950, n. 581 e successivamente modificato dall'art. 59 l. 26 novembre 1990, n. 353. Il testo precedentemente in vigore recitava: «[I]. Le sentenze pronunziate in grado d'appello o in unico grado possono essere impugnate con ricorso per cassazione: 1) per motivi attinenti alla giurisdizione; 2) per violazione delle norme sulla competenza, quando non è prescritto il regolamento di competenza ;3) per violazione o falsa applicazione di norme di diritto; 4) per nullità della sentenza o del procedimento; 5) per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile d'ufficio. [II]. Può inoltre essere impugnata con ricorso per cassazione una sentenza appellabile del tribunale, se le parti sono d'accordo per omettere l'appello; ma in tal caso l'impugnazione può proporsi soltanto per violazione o falsa applicazione di norme di diritto.

[2] Numero sostituito dall'art. 54 d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv., con modif., in l. 7 agosto 2012, n. 134. Il testo recitava: «5) per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio». La disposizione si applica alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del decreto, con i limiti di applicabilità previsti dal terzo comma dello stesso art. 54 del d.l. n. 83. Ai sensi del secondo comma dell'art. 54 la disposizione si applica « ai giudizi di appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto ». V. anche il comma 3-bis dell'art. 54 d.l. n. 83, cit., ai sensi del quale tale disposizione non si applica al processo tributario di cui al d.lg. 31 dicembre 1992, n. 546. Vedi anche l'art. 62 del d.lg. n. 546).

[3] Comma inserito dall'art. 3, comma 27, lett. a) num. 1) d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149. Per la disciplina transitoria v. art. 35 d.lgs. n. 149/2022, come sostituito dall'art. 1, comma 380, lettera a), l. 29 dicembre 2022, n. 197, che prevede che : "5. Salvo quanto disposto dal comma 6, le norme del capo III del titolo III del libro secondo del codice di procedura civile e del capo IV delle disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile e disposizioni transitorie, di cui al regio decreto 18 dicembre 1941, n. 1368, come modificati dal presente decreto, hanno effetto a decorrere dal 1° gennaio 2023 e si applicano ai giudizi introdotti con ricorso notificato a decorrere da tale data.".

[4] Comma modificato dall'art. 3, comma 27, lett. a) num. 2) d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, che ha sostituito le parole: «Le disposizioni di cui al primo, al terzo e al quarto comma» alle parole: «Le disposizioni di cui al primo comma e terzo comma». Per la disciplina transitoria v. art. 35 d.lgs. n. 149/2022, come sostituito dall'art. 1, comma 380, lettera a), l. 29 dicembre 2022, n. 197, che prevede che : "5. Salvo quanto disposto dal comma 6, le norme del capo III del titolo III del libro secondo del codice di procedura civile e del capo IV delle disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile e disposizioni transitorie, di cui al regio decreto 18 dicembre 1941, n. 1368, come modificati dal presente decreto, hanno effetto a decorrere dal 1° gennaio 2023 e si applicano ai giudizi introdotti con ricorso notificato a decorrere da tale data.".

Inquadramento

Il giudizio di cassazione è di legittimità ed a critica vincolata,. La Corte non è giudice del fatto in senso sostanziale, neppure in caso della cassazione sostitutiva, ma si limita a controllare la legalità della decisione attraverso l'esame di censure che devono trovare collocazione entro un elenco tipico dettato dalla norma in commento, in vista della verifica della conformità della decisione di merito alle norme ed ai principi di diritto applicabili: se la verifica ha esito negativo la sentenza impugnata (o il diverso provvedimento oggetto dell'impugnazione) è cassato, ossia cancellato, nel qual caso, salvo che la Corte non cassi senza rinvio o decida essa stessa il merito, la causa torna al giudice del merito. Si tratta, dunque, di un giudizio rescindente cui può seguire una fase rescissoria dinanzi al giudice del rinvio.

Il giudizio così strutturato si inquadra entro la previsione dell'art. 65 r.d. n. 12/1941 sull'ordinamento giudiziario, il quale definisce la Corte di cassazione come l'«organo supremo della giustizia», cui è affidata non solo l'esatta osservanza della legge, ma anche la sua uniforme interpretazione, i.e. la funzione nomofilattica, e l'unità del diritto oggettivo nazionale, il tutto fondato sul principio costituzionale di eguaglianza (art. 3 Cost.), in forza del quale casi analoghi devono essere giudicati in modo analogo, secondo una direttrice che è alimentata dal valore della certezza del diritto (Corte cost., ord. n. 149/2013). T ale funzione è stata valorizzata nell'ambito del sistema processuale civile a seguito delle riforme del 2006 (d.lgs. n. 40/2006, entrato in vigore il 2 marzo 2006) e del 2009 (l. n. 69/2009, entrata in vigore il 4 luglio 2009), mediante l'introduzione di una serie di disposizioni (soprattutto, gli artt. 360-bis e 374) che ne disvelano la vocazione di stabilità, seppur relativa, delle decisioni. Allo stesso fine tende la riforma di cui al d.l. n. 168/2016, convertito nella l. n. 197/2016.

Normalmente è impugnabile la sentenza d'appello. In diversi casi, tuttavia, il legislatore ha optato per la soppressione dell'appello e la previsione del ricorso diretto per cassazione: si pensi, oltre che alla particolare situazione della «doppia conforme» oggi regolata dal nuovo coma 4 della norma in esame, introdotto dalla riforma del 2022 (d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149), alle impugnazioni del passivo fallimentare, al processo per la protezione internazionale degli immigrati, al processo sulla protezione dei dati personali ex art. 152 d.lgs. n. 196/2003 (v. anche Reg. (UE) 27 aprile 2016 n. 679), ed altri.

Per la sua peculiare funzione, il ricorso per cassazione non introduce un terzo grado di giudizio tramite il quale far valere la mera ingiustizia della sentenza impugnata, caratterizzandosi, invece, come un rimedio impugnatorio, a critica vincolata ed a cognizione determinata dall'ambito della denuncia attraverso il vizio o i vizi dedotti (Cass. S.U. , n. 7931/ 2013 ).

  Anche la dottrina concorda come non si possa qualificare il giudizio della Cassazione come terza istanza, non essendo esso mai giudizio sul fatto, neppure laddove, come si diceva, l'art. 384 ammette il giudizio di merito (Mandrioli-Carratta, 2015, nota 1530; Panzarola, 2005, 327). 

In sostanza, si osserva come il giudice di merito chiuda il passato di una vicenda, mentre la Corte guarda soprattutto al futuro e, così, soddisfa il principio di eguaglianza e il bisogno di “calcolabilità giuridica” (Irti, Un diritto incalcolabile, Torino, 2016; Irti, Per un dialogo sulla calcolabilità giuridica, in Riv. dir. proc., 2016, 917).

Il termine per proporre il ricorso per cassazione è sancito negli artt. 325 e 327, cui si rinvia.

Provvedimenti impugnabili

Sono impugnabili per cassazione le sentenze e non, quindi, le ordinanze o i decreti.

Interessante la fattispecie dell’inammissibilità del ricorso avverso l’ordinanza emessa dall'Ufficio centrale per il referendum, che non ha natura di atto di giurisdizione, onde ancor meno è impugnabile innanzi alla stessa Corte di cui l’ufficio è mera articolazione interna (Cass. S.U., n. 24102/2016).

Per l’impugnabilità dei provvedimenti diversi dalle sentenze, si vedano i paragrafi seguenti.

(Segue) Rilievo della forma o del rito

Anzitutto, il principio affermato  è che il mezzo di impugnazione esperibile contro un provvedimento giurisdizionale va identificato sulla base non della forma del provvedimento, ma del rito in concreto adottato, a tutela dell’affidamento della parte ed in ossequio al principio dell’apparenza (Cass. n. 11375/2018; Cass. n. 13817/2017; Cass. n. 8467/2017Cass. n. 21520/2015; Cass. n. 12872/2016; Cass. n. 2948/2015; Cass. n. 20811/2010): dunque, l’applicazione del principio c.d. di «apparenza e affidabilità» comporta necessariamente un’indagine sugli atti, al fine di accertare se l’adozione da parte del giudice di merito di quella determinata forma del provvedimento decisorio sia stata il risultato di una consapevole scelta, ancorché non esplicitata con motivazione ad hoc, nel qual caso decisiva rilevanza va attribuita alle concrete modalità con le quali si è svolto il procedimento (Cass. S.U., n. 390/2011), cosicché la forma adottata per il provvedimento non è di ostacolo all'ammissibilità del ricorso, ove non sia frutto di una meditata valutazione del decidente (Cass. n. 3672/2012).

In dottrina si afferma che il provvedimento va impugnato con il mezzo previsto in relazione al suo aspetto formale (Mandrioli-Carratta, 2015, § 70), anche se è diffusa l’opinione opposta (Ronco, 2000, 65); innovazioni al riguardo sono state introdotte nel 2006 e nel 2009 (San Giorgio, 101).

Avverso le sentenze in senso sostanziale sono proponibili, in virtù dell’ultimo comma della disposizione in commento, tutti i motivi di impugnazione e non solo quello di violazione di legge ex art. 111 Cost.

(Segue) Le sentenze in unico grado

Accanto alle sentenze d'appello, la norma menziona le sentenze in unico grado.

Tra di esse, si ricordano: l'impugnazione di lodo arbitrale; il giudizio disciplinare nei confronti dei magistrati; le sentenze del tribunale superiore delle acque pubbliche ex art. 143 r.d. n. 1775/1933 (amplius infra); le sentenze della corte d'appello ex art. 19 l. n. 865/1971; l'opposizione avverso le sanzioni amministrative comminate dalla Bit o dalla Consob agli esponenti aziendali o per le irregolarità nello svolgimento dell'attività di revisione contabile; gli artt. 420-bis  c.p.c. e 64 d.lgs. n. 165/2001.

(Segue) La sentenza di primo grado

In particolari evenienze, possono pervenire in Cassazione direttamente le sentenze di primo grado, e precisamente:

a) la sentenza di primo grado per saltum (v. infra);

b) la sentenza di primo grado nell'ipotesi dell’art. 348-ter, allorquando l’appello sia stato dichiarato inammissibile per carenza di ragionevole probabilità di accoglimento.

A quest’ultimo riguardo, alcune decisioni (Cass. S.U., n. 25208/2015; Cass. n. 13622/2015; Cass. n. 23526/2014) precisano come il ricorso debba essere proposto entro sessanta giorni decorrenti dalla comunicazione dell’ordinanza dichiarativa dell’inammissibilità del gravame, anche ove eseguita a mezzo posta elettronica certificata; e si aggiunge (Cass. n. 2594/2016) che il termine di sessanta giorni ex art. 325, comma 2, decorre dalla comunicazione dell’ordinanza, ovvero dalla sua notificazione, nel caso in cui la controparte vi abbia provveduto prima della detta comunicazione o se questa sia stata del tutto omessa dalla cancelleria, mentre il termine lungo ex art. 327 opera esclusivamente quando risulti non solo omessa la comunicazione, ma anche la notificazione; inoltre, si ricorda (Cass. n. 6140/2015)  che il ricorso deve contenere, a pena di inammissibilità, le prescrizioni dettate dall'art. 366, tra cui l’esposizione sommaria dei fatti di causa (che, come precisa Cass. n. 10722/2014, sono anche i motivi di appello e la motivazione dell’ordinanza ex art. 348-bis). È stato poi chiarito che si applicano le disposizioni di cui agli artt. 329 e 346, sicché la parte deve fornire l’indicazione che la questione sollevata in sede di legittimità era stata devoluta, sia pure nella forma propria dei motivi di appello, al giudice del gravame, dichiarato inammissibile ex art. 348-bis, a pena di inammissibilità, in quanto invero la Corte di cassazione va messa in condizione di controllare che con il ricorso contro la sentenza di primo grado non si facciano valere motivi che propongano questioni rimaste oggetto di acquiescenza con l’appello avverso di essa (Cass. n. 10157/2018, in motiv.; Cass. n. 2784/2015; Cass.  n. 8940/2014 e sino a  Cass. n. 8943/2014); e si è ancora chiarito che al ricorso per cassazione è soggetto al rispetto dell’art. 369, onde soggiace ad un duplice onere di deposito, avente ad oggetto la copia autentica sia della sentenza di primo grado sia, per la verifica della tempestività del ricorso, della citata ordinanza, con la relativa comunicazione o notificazione (Cass. S.U., n. 25513/2016; e, quindi, Cass. n. 11850/2018); per ogni altro aspetto, si rinvia al commento alla citata disposizione.

Ricorso cumulativo contro provvedimenti diversi

È inammissibile l'unico ricorso proposto cumulativamente contro più decisioni (Cass. n. 21005/2019; Cass. S.U., n. 15355/2015 ), salvi i casi di:

- sentenza non definitiva oggetto di riserva e successiva sentenza definitiva;

- sentenza revocanda e sentenza conclusiva del giudizio di revocazione, ma solo se le due impugnazioni siano rivolte contro capi identici o almeno connessi delle due pronunzie;

- sentenze di grado diverso pronunciate nella medesima causa, che investano l'una il merito e l'altra una questione pregiudiziale (Cass. n. 12958/2015; Cass. n. 10134/2007).

Come è stato ribadito, l'impugnazione di una pluralità di sentenze con un unico atto è consentita solo quando queste siano tutte pronunciate fra le medesime parti e nell'ambito di un unico procedimento, ancorché in diverse fasi o gradi (come nel caso della sentenza non definitiva oggetto di riserva di impugnazione e della successiva sentenza definitiva; della sentenza revocanda e di quella conclusiva del giudizio di revocazione; della sentenza di rinvio e di quella di rigetto della istanza di revocazione, allorché le due impugnazioni siano rivolte contro capi identici o almeno connessi delle due pronunzie, ovvero di sentenze di grado diverso pronunciate nella medesima causa, che investano l'una il merito e l'altra una questione pregiudiziale), mentre è inammissibile il ricorso per cassazione proposto, contestualmente e con un unico atto, contro sentenze diverse, pronunciate dal giudice del merito in procedimenti formalmente e sostanzialmente distinti, che concernano soggetti anch'essi parzialmente diversi (Cass. n. 33895/2019; Cass. n. 11949/2023).

In talune fattispecie di sostanziale identità, peraltro, ciò è stato ammesso, come in materia tributaria (Cass. n. 443/2015; Cass. n. 8075/2013; Cass. n. 9111/2012; Cass. n. 21955/2010Cass. n. 15582/2010 Cass. n. 10578/2010Cass. S.U., n. 3692/2009Cass. n. 309/2006), per sentenze emesse tra le stesse parti e fondate sui medesimi presupposti di fatto e diritto, perché concernenti il medesimo rapporto giuridico d'imposta (situazioni in cui la sentenza del giudice tributario che definitivamente accerti il contenuto e l'entità degli obblighi del contribuente per un determinato periodo d'imposta fa stato, quanto ai tributi dello stesso tipo da questi dovuti per gli anni successivi, per gli elementi che abbiano un valore “condizionante” Cass. n. 1837/2014Cass. n. 22941/2013). 

Motivi del ricorso

Il ricorso deve contenere la chiara enunciazione dei motivi per i quali si chiede la cassazione e delle norme su cui si fondano exart. 366, comma 1, n. 4.

I motivi, infatti, pongono questioni (da quaerere) unico oggetto del giudizio di fronte alla Cassazione, sostituendo esse domande ed eccezioni (Ricci, 2013, 53).

Quelli enumerati nella disposizione costituiscono un elenco tassativo: si tratta di un giudizio a critica rigidamente vincolata e delimitata, dovendo il vizio denunciato rientrare nelle categorie logiche previste dalla norma, le quali assumono una funzione identificativa condizionata dalla loro formulazione tecnica con riferimento alle ipotesi tassative formalizzate dal codice di rito.

Il ricorrente ha dunque l'onere di individuazione del motivo, nel novero di quelli elencati nella disposizione, che deve essere riconducibile in maniera immediata ed inequivocabile, oltre che corretta, ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l'esatta indicazione numerica (Cass. n. 10862/2018; Cass. n. 24553/2013; Cass. S.U. , n. 17931/2013), onde l'erronea indicazione della norma processuale violata nella rubrica del motivo non ne determina ex se l'inammissibilità solo se la Corte possa agevolmente procedere alla corretta qualificazione giuridica del vizio denunciato sulla base delle argomentazioni giuridiche ed in fatto svolte dal ricorrente, in quanto la configurazione formale della rubrica del motivo non ha contenuto vincolante, ma è solo l'esposizione delle ragioni di diritto della impugnazione che chiarisce e qualifica, sotto il profilo giuridico, il contenuto della censura (Cass. n. 14026/2012).

Dunque, quando non si menzioni l'ipotesi appropriata tra quelle in cui è consentito adire il giudice di legittimità, occorre però si faccia valere uno specifico vizio della decisione (Cass. n. 1370/2013), non ostando l'erronea intitolazione del motivo alla riqualificazione della sua sussunzione in altre fattispecie di cui all'art. 360, comma 1, se dall'articolazione del motivo sia chiaramente individuabile il tipo di vizio denunciato (Cass. n. 10862/2018; Cass. n. 4036/2014); in particolare, in caso di omessa pronuncia, è necessario che il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione (Cass. S.U. , n. 17931/2013, che ha risolto un contrasto al riguardo; e, quindi, Cass. n. 10862/2018; Cass. n. 4289/2018).

E, qualora il giudice che abbia ritenuto inammissibile una domanda o un capo di essa o un singolo motivo di gravame, così spogliandosi della potestas iudicandi sul merito, proceda poi comunque all’esame di quest’ultimo, è inammissibile, per difetto di interesse, il motivo di impugnazione della sentenza che ne contesti la motivazione, da considerarsi svolta ad abundantiam (Cass. S.U., n. 11849/2018, in motiv.; Cass. n. 27388/2022; Cass. n. 2037/2018; Cass. n. 17004/2015; Cass. n. 27049/2014; Cass. S.U., n. 24469/2013; Cass. S.U., n. 21110/2012; ma si veda Cass. n. 28364/2022, secondo cui, ove il giudice, pur avendo dichiarato il ricorso inammissibile, anche in dispositivo, abbia proceduto al suo esame nel merito, esprimendosi, con motivazione preponderante e diffusa, nel senso della infondatezza, è ammissibile l'impugnazione della motivazione concernente sia l'inammissibilità che il merito).

Il giudizio di cassazione è, in sostanza, un giudizio a critica vincolata, delimitato dai motivi di ricorso, che assumono una funzione identificativa condizionata dalla loro formulazione tecnica con riferimento alle ipotesi tassative formalizzate dal codice di rito; onde il motivo del ricorso per cassazione esige una precisa enunciazione, di modo che il vizio denunciato rientri nelle categorie logiche previste dall'art. 360 c.p.c.

Pertanto, è inammissibile il motivo di ricorso che:

a) proponga una critica generica della sentenza impugnata, formulata con un unico motivo sotto una molteplicità di profili tra loro confusi, inestricabilmente combinati, non collegabili alle fattispecie di vizio enucleate dal codice (Cass. n. 11603/2018; Cass. n. 19959/2014; v. pure Cass. n. 25332/2014); del pari, il mancato rispetto del dovere di chiarezza e sinteticità espositiva degli atti processuali,  fissato dall'art. 3, comma 2, c.p.a., esprime un principio generale del diritto processuale anche civile, nel senso che, ove si rendano così inintelleggibili le questioni poste, ne deriva la declaratoria di inammissibilità, ridondando nella violazione delle prescrizioni di cui ai nn. 3 e 4 dell'art. 366 c.p.c. (Cass. n. 8009/2019Cass. n. 21297/2016);

b) lamenti la violazione di una serie di norme sostanziali «in relazione all'art. 360, comma 1, c.p.c.», senza precisare se si intenda censurare la sentenza per motivi attinenti la giurisdizione o la competenza, per violazione di norme di diritto o per nullità del procedimento (Cass. n. 3248/2012);

c) prospetti una pluralità di questioni precedute unitariamente dalla elencazione delle norme che si assumono violate e dalla deduzione del vizio di motivazione, richiedendosi un inesigibile intervento integrativo della Corte (Cass. n. 21611/2013); peraltro, il cumulo dei motivi è permesso, purché la formulazione permetta di cogliere con chiarezza le doglianze prospettate onde consentirne l'esame separato, esattamente negli stessi termini in cui lo si sarebbe potuto fare se esse fossero state articolate in motivi singolarmente numerati (Cass. S.U. , n. 9100/2015; Cass., n. 9793/2013) e, nel caso fosse applicabile l'art. 366-bis, sia accompagnata dal quesito di diritto o dal momento di sintesi (Cass., n. 12248/2013; Cass. S.U. , n. 7770/2009);

d) sia basato sul mero richiamo dei motivi di appello, una tale modalità di formulazione del motivo rendendo impossibile individuare la critica mossa ad una parte ben identificabile del giudizio espresso nella sentenza impugnata (Cass. n. 1479/2018;Cass. n. 10420/2005);

e) prospetti una questione di diritto nuova, ogni volta che essa postuli indagini ed accertamenti di fatto non compiuti dal giudice di merito che, come tali, sono esorbitanti dal giudizio di legittimità (Cass. n. 18018/2024; Cass. n. 13403 /2019, in tema di protezione internazionale; Cass. n. 20694/2018, in tema di qualificazione come obbligazione propter rem, anziché di obbligazione di natura personale, del vincolo di inedificabilità assunto dal venditore; Cass. n. 15430/2018, circa la deduzione dell'obbligo, da parte dell'intermediario, di astenersi dall'esecuzione di un ordine inadeguato ex art. 29 reg. Consob n. 11522/1998; Cass n. 15196/2018, con riguardo a domanda  originaria di indebito oggettivo, che si voleva qualificare poi come domanda di risarcimento danni contrattuali o domanda di ingiustificato arricchimento), in quanto i motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena di inammissibilità, questioni che siano già comprese nel giudizio d'appello, non essendo prospettabili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase di merito (Cass. n. 907/2018; Cass. n. 23675/2013; Cass.  n. 17041/2013), salve  le questioni nuove rilevabili d'ufficio;

f) pretenda di censurare in sede di legittimità il vizio dell'atto introduttivo del giudizio, carente delle indicazioni di cui all'art. 163, n. 4 c.p.c., non censurato in appello, in quanto allora interviene sulla questione il giudicato interno (Cass. n. 1881/2018 e Cass. n. 5879/2005, entrambe con riguardo all'analogo art. 414, n. 4, c.p.c.). Sul punto, va dunque ricordato che nel giudizio di cassazione, il giudicato esterno è, al pari del giudicato interno, rilevabile d'ufficio, non solo qualora emerga da atti comunque prodotti nel giudizio di merito, ma anche nell'ipotesi in cui il giudicato si sia formato successivamente alla sentenza impugnata (Cass. n. 1534/2018Cass. n. 24531/2017Cass. n. 11112/2008); ed in tal caso la produzione del documento che lo attesta non trova ostacolo nel divieto posto dall'art. 372 c.p.c., che è limitato ai documenti formatisi nel corso del giudizio di merito, ed è, invece, operante ove la parte invochi l'efficacia di giudicato di una pronuncia anteriore a quella impugnata, che non sia stata prodotta nei precedenti gradi del processo (Cass. n. 1534/2018); 

viceversa, l'eccezione di giudicato esterno non può essere dedotta per la prima volta in cassazione se il giudicato si é formato nel corso del giudizio di merito, attesa la non deducibilità, in tale sede, di questioni nuove; se, invece, il giudicato esterno si é formato dopo la conclusione del giudizio di merito (e, cioè, dopo il termine ultimo per ogni allegazione difensiva in grado di appello), la relativa eccezione é opponibile nel giudizio di legittimità (Cass. n. 5370/2024);

g) censuri la sentenza di appello dichiarativa della cessazione della materia del contendere, in quanto erroneamente fondata sulla supposizione di un fatto in realtà insussistente, essendo invece un tale errore denunciabile con lo strumento della revocazione exart. 395 n. 4 c.p.c. (Cass. n. 6464/2018Cass. S.U., n. 5940/1992).

Quanto, poi, alla inveterata abitudine di cumulare, in un unico motivo, le censure di cui all'art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5, c.p.c., la S.C. sembra attestata in favore dell'ammissibilità (Cass. n. 8915/2018; Cass. n. 9793/2013), ma solo a condizione che la formulazione del motivo permetta di cogliere con chiarezza le doglianze prospettate, di fatto scindibili, onde consentirne l'esame separato, esattamente negli stessi termini in cui lo si sarebbe potuto fare se esse fossero state articolate in motivi diversi, singolarmente numerati (Cass. n. 39169/2021; in senso sostanzialmente conforme v. Cass., SU, n. 9100/2015; Cass. n. 7009/2017; Cass. n. 26790/2018).

Del tutto distinto è il caso in cui il motivo prospetta genericamente e cumulativamente vizi di natura eterogenea (censure motivazionali ed errores in iudicando), in contrasto con la tassatività dei motivi di impugnazione per cassazione e con l'orientamento della giurisprudenza di legittimità per cui una simile tecnica espositiva riversa impropriamente sul giudice di legittimità il compito di isolare, all'interno di ciascun motivo, le singole censure (v. Cass. n. 16448/2024; Cass. n. 4979/2024; Cass. n. 35782/2023; Cass. n. 30878/2023; Cass. n.  27505/2023; Cass. n. 4528/2023; Cass. n. 35832/2022; Cass. n. 6866/2022). In altri termini, è inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi di impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall'art. 360, comma 1, nn. 3, 4 e 5, non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quelli della violazione di norme di diritto, sostanziali e processuali, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione. Una tale impostazione, che assegna al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze della parte ricorrente al fine di decidere successivamente su di esse, finisce con il sovvertire i ruoli dei diversi soggetti del processo e rende il contraddittorio aperto a conclusioni imprevedibili, gravando l'altra parte del compito di farsi interprete congetturale delle ragioni che il giudice potrebbe discrezionalmente enucleare dal conglomerato dell'esposizione avversaria (Cass. n. 4979/2024; Cass.  n. 3397/2024; Cass. n. 35782/2023; Cass. n. 30878/2023; Cass. n. 27505/2023).

Infine, è utile ricordare che viene integrata la fattispecie della condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c., in caso di abuso del diritto di impugnazione mediante la proposizione del ricorso per cassazione, ogni volta che sia riscontrabile il mancato doveroso impiego di quella diligenza che consenta di avvertire agevolmente l'ingiustizia della propria domanda, come per: la  proposizione di un ricorso per revocazione di una sentenza della corte di cassazione ove si prospetti come vizio revocatorio un preteso error in iudicando , datala consolidata giurisprudenza che lo esclude (Cass. n. 2040/2018); la proposizione di un ricorso per cassazione basato su motivi manifestamente incoerenti con il contenuto della sentenza impugnata o completamente privo di autosufficienza oppure contenente una mera complessiva richiesta di rivalutazione nel merito della controversia o, ancora, fondato sulla deduzione del vizio di cui all'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., ove sia applicabile, ratione temporis, l'art. 348-ter, comma 5, c.p.c., che ne esclude la invocabilità (Cass. n. 10327/2018); la pretestuosità dell'azione per contrarietà al diritto vivente ed alla giurisprudenza consolidata, ovvero per la manifesta inconsistenza giuridica o la palese e strumentale infondatezza dei motivi di impugnazione (Cass. S.U., n. 9912/2018; Cass. n. 28657/2017).

Mentre poi si è applicato pure l'art. 94 c.p.c., al fine di reputare responsabile direttamente il difensore della parte, il quale risponde personalmente delle conseguenze economiche scaturenti dalla proposizione di una lite temeraria (Trib. Udine 25 giugno 2011, in Giur. it., 2012, 1395; Trib. Cagliari 19 giugno 2008, in Giusto processo civ., 2011, 181; Trib. Reggio Emilia 12 luglio 2007, in Giur. it., 2009, 152).

Giurisdizione

Il ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione è contemplato dagli artt. 37, 360, comma 1, n. 1, e 362, oltre che dall'art. 41 c.p.c. sul regolamento di giurisdizione e dall'art. 11 l. n. 218/1995 nei confronti dello straniero; pure ai commenti a dette ulteriori disposizioni codicistiche dunque si rinvia.

Attiene al potere del giudice ordinario italiano di decidere la causa e sulla questione di giurisdizione decidono le Sezioni Unite.

Si è precisato da parte delle Sezioni Unite (Cass.S.U. , n. 24883/2008; cui adde Cass. S.U., n. 22550/2014;Cass. S.U., n. 772/2014; Cass.S.U. , n. 5704/2012; Cass. S.U., n. 2067/2011;Cass. S.U., n. 26129/2010) che l'esame della questione di giurisdizione resta precluso per effetto del giudicato interno formatosi sulla pronuncia che o abbia esplicitamente risolto tale questione, ovvero, nel provvedere su alcuni capi della domanda, abbia necessariamente statuito per implicito sulla medesima.

Non è necessaria la specifica indicazione delle norme violate o erroneamente applicate dal giudice ed è sufficiente la deduzione dei principi relativi al riparto, di cui si denunci il malgoverno (Cass. S.U. , n. 9690/2013): infatti, la norma non parla di violazione, ma di motivi attinenti (Ricci, 2013, 97).

In ordine a tali questioni, le Sezioni unite della Corte di cassazione sono anche giudice del fatto, avendo il potere-dovere di esaminare le risultanze processuali (Cass. S.U.  n. 28332/2019; Cass. S.U.  n. 8074/2015;Cass.S.U. , n. 8095/2007). Per conseguenza le Sezioni Unite possono e devono esaminare l'atto negoziale la cui valutazione incida sulla determinazione della giurisdizione, anche quando tale titolo sia già stato apprezzato col provvedimento impugnato, perché la decisione sulla corretta individuazione del giudice munito di competenza giurisdizionale dipende da quella circostanza fattuale (Cass. S.U., n. 567/2024).

L'attore che abbia incardinato la causa dinanzi ad un giudice e sia rimasto soccombente nel merito non è legittimato ad impugnare la pronuncia di quel giudice, da lui adito, per denunciarne il difetto di giurisdizione (in tal senso, Cass. S.U., n. 27844/2019 ; Cass. S.U., n. 22439/2018Cass. S.U., n. 21260/2016.

In passato, si era invece affermato che la questione potesse essere posta anche dalla stessa parte che avesse intrapreso la causa, esponendosi però alla  condanna alle spese ex art. 88: Cass. S.U., n. 7097/2011 ; Cass. S.U., n. 26129/2010 ).

Le sentenze sulla giurisdizione (o competenza) rese in sede di regolamento o di ricorso ordinario dalla S.C. producono effetti anche nei successivi processi tra le stesse parti se aventi ad oggetto la medesima domanda (c.d. efficacia panprocessuale).

Il regolamento preventivo di giurisdizione, che è inammissibile dopo che il giudice di merito abbia emesso una sentenza, anche se solo limitata alla giurisdizione o ad altra questione processuale, può essere convertito in ricorso per cassazione per violazione di legge ove ne ricorrano i presupposti (Cass. S.U., n. 10243/2021; Cass. S.U., n. 14952/2007).

Competenza

Si impone una delimitazione con il regolamento di competenza: la regola è che le pronunce che decidono soltanto sulla competenza e sulle spese, di primo o di secondo grado – ad eccezione delle sentenze del giudice di pace (art. 46 c.p.c.) – devono essere impugnate esclusivamente con il regolamento necessario di cui all'art. 42. Peraltro, ove sia stato proposto, invece, il ricorso ordinario, opera la conversione in istanza di regolamento di competenza se ne ricorrano i requisiti e lo stesso sia proposto nel termine di trenta giorni, decorrente dalla notificazione ad istanza di parte o dalla comunicazione del provvedimento ad opera della cancelleria (Cass. n. 9268/2015; Cass. n. 5598/2014; Cass. n. 6105/2006; Cass. n. 3077/2006).

La sentenza di secondo grado che neghi la competenza del giudice di pace, il quale abbia respinto l'eccezione di incompetenza sollevata dal convenuto, e pronunci, su istanza di una delle parti, anche nel merito, si compone di due distinte statuizioni, quella sulla competenza, che, in quanto emanata in grado d'appello, è impugnabile con il ricorso per cassazione, e quella di merito che, in quanto resa in primo grado, è invece impugnabile con l'appello (Cass. n. 1876/2013; Cass. n. 12248/2007); mentre la sentenza del tribunale che decida, in sede di appello, unicamente sulla competenza del giudice di pace va impugnata esclusivamente mediante regolamento necessario (Cass. n. 20304/2015; Cass. n. 18734/2015).

Violazione di norme di diritto

La violazione di legge in senso stretto attiene all'individuazione ed all'interpretazione della norma, mentre la falsa applicazione alla ricognizione dell''ambito applicativo di una norma ed alla sussunzione del fatto concreto nella corretta disposizione normativa (Amoroso, 2012, 236), ma è distinzione in fin dei conti priva di rilevanza pratica (Nappi, 2011, 115; Ricci, 2013, 125).

Il n. 3 fa riferimento al concetto di «falsa applicazione» in congiunzione con quello di «violazione» di legge, ma ha natura esplicativa di un'unica nozione, come rivela il fatto che l'art. 111, comma 7, Cost. menziona solo la violazione di legge (Cass. n. 13747/2018).

Invero, una norma di diritto può essere violata dal giudice: a) perché ne interpreta o ne legge erroneamente un elemento testuale; b) perché legge bene tutti gli elementi testuali della disposizione, ma, nell'enucleare la norma che risulta dal senso complessivo delle espressioni testuali, la individua in modo erroneo, rispetto a come avrebbe dovuto secondo i canoni del procedimento interpretativo di cui all'art. 12 preleggi, in tal modo pervenendo ad un risultato ultimo errato del procedimento esegetico di una disposizione; c) o perché, pur conclusi esattamente i due passaggi e dovendo applicare il risultato esatto dell'esegesi alla fattispecie concreta, erra nel ricondur re una vicenda concreta ad una fattispecie astratta, pur correttamente individuata, o la riconduce invece ad altra o esclude che posa essere ricondotta ad essa come a qualsiasi altra fattispecie giuridica (Cass. n. 13747/2018).

(Segue) Tecniche di formulazione del motivo

Con riguardo alla tecnica di formulazione del motivo, quanto al vizio in esame, il ricorrente ha l’onere di indicare puntualmente, a pena di inammissibilità, le norme asseritamente violate e l’esatto capo della pronunzia impugnata, prospettando altresì le argomentazioni intese a dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto, contenute nella sentenza gravata, siano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie, secondo l’interpretazione delle stesse fornita dalla dottrina e dalla prevalente giurisprudenza di legittimità, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni (ex multis, Cass. n. 635/2015; Cass. n. 26307/2014; Cass. n. 16038/2013; Cass. n. 22348/2007; Cass. n. 5353/2007; Cass. n. 4178/2007; Cass. n. 828/2007); in questa linea si colloca il ribadito principio secondo cui il vizio di violazione e falsa applicazione di legge dev'essere dedotto, a pena d'inammissibilità, non solo con l'indicazione delle norme che si assumono violate, ma anche mediante la specifica indicazione delle affermazioni, contenute nella sentenza impugnata, che si assumono in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l'interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni (Cass. n. 20870/2024);

ove rilevanti, inoltre, vanno indicati anche gli elementi fattuali in concreto condizionanti gli ambiti di operatività della violazione, ai fini di consentire alla Corte la corretta sussunzione del fatto nelle norme che si assumono violate o erroneamente applicate (Cass. n. 16872/2014; Cass. n. 15910/2005).

Dunque, resta inammissibile il ricorso, laddove si denunzi la violazione di un intero corpo di norme (Cass. S.U., n. 17555/2013).

Del pari inammissibile il ricorso, per violazione dell’onere di specificità dei motivi, allorché il ricorrente si limiti alla trascrizione e al richiamo delle norme asseritamente violate o alla sintetica rassegna di precedenti giurisprudenziali (Cass. n. 26561/2017).

Il vizio di violazione di legge deve essere dedotto non solo con l’indicazione delle norme che si assumono violate, ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni, intellegibili ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo date affermazioni in diritto, contenute nella sentenza impugnata, debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. S.U., n. 25392/2019).

Il rigore è temperato ove si afferma che, in virtù del principio iura novit curia, l’erronea individuazione della norma che si assume violata resta senza conseguenze quando dalla descrizione del vizio, che si ascrive alla sentenza impugnata, possa inequivocabilmente risalirsi alle norme ed ai principi di diritto asseritamente trasgrediti (Cass. n. 4439/2014; Cass. n. 25044/2013; Cass. n. 4233/2012), ferma restando la necessità che si resti nell’àmbito dei fatti prospettati dalle parti (Cass. n. 3437/2014; Cass. n. 6935/2007).

Nozione di "norme di diritto”

La censura che attenga alle  norme può avere, in sostanza, ad oggetto: a) la normativa di rango costituzionale che sia di diretta applicazione; b) la normativa primaria sulla quale la Corte costituzionale esercita il controllo di costituzionalità (leggi ordinarie, decreti legge, decreti legislativi e leggi delle Regioni e delle Province autonome); c) la normativa subprimaria, sulla quale la Corte di cassazione esercita anche il controllo di costituzionalità diffuso, al pari degli altri giudici comuni; d) la normativa comunitaria, per la quale vige il principio del primato del diritto UE e quindi di non applicazione di norme interne in contrasto con il diritto UE direttamente applicabile; e) le Convenzioni e i Trattati internazionali (a partire dalle Convenzioni ONU e dalla CEDU) regolarmente ratificate e rese esecutive; f) la legislazione straniera rilevante nelle diverse fattispecie.

Il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un'erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta ed implica un problema interpretativo della stessa; viceversa, l'allegazione di un'erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all'esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito (Cass. n. 8315/2013;Cass. n. 7394/2010).

Una delle tematiche da sempre dibattute, in tutte le sue varianti, è la distinzione tra giudizio di fatto e giudizio di diritto in cassazione, il primo precluso ed il secondo ad essa proprio (per indicazioni chiarificatrici, Rordorf, 2015, passim).

In particolare, in presenza di clausole generali e concetti elastici o indeterminati, spetta al giudice di legittimità verificare se il fatto, interamente ricostruito in sede di merito, sia stato correttamente ricondotto alla norma poi applicata: essendo stato il discrimine individuato nella distinzione tra ricostruzione storica e giudizi di valore (onde ogni qual volta un giudizio apparentemente di fatto si risolva, in realtà, in un giudizio di valore, si è in presenza di diritto) e nella teoria teleologica per la quale il giudice di legittimità può esercitare il proprio sindacato nei casi in cui i giudizi sussuntivi gli consentano di formulare principi generali suscettibili di essere utilizzati come precedenti in futuro, allorché cioè il caso concreto presenti caratteri sufficientemente tipici (Cass. n. 25608/2014).

Così, costituisce giudizio di diritto: la violazione dei canoni ermeneutici ex art. 1362 ss. c.c. in materia di interpretazione del contratto (Cass. n. 2465/2015), cui è equiparato il contratto collettivo di diritto comune (Cass. n. 25728/2013; Cass. n. 9070/2013); l'errore nell'individuare la regola giuridica in base alla quale accertare la sussistenza del nesso causale (Cass. n. 4439/2014; Cass. n. 26997/2005); la violazione dell'art. 2697 c.c., quando il giudice abbia attribuito l'onere della prova ad una parte diversa da quella che ne risultava per legge gravata (Cass. n. 15107/2013); il controllo sulla sussistenza degli estremi cui l'art. 2729 c.c. subordina l'ammissione della presunzione, non solo allorché (ipotesi rara) il giudice abbia affermato che la prova presuntiva possa basarsi su indizi che non siano gravi, precisi e concordanti, ma anche quando egli abbia fondato la presunzione su indizi privi di tali caratteri sussumendo sotto la previsione fatti che ne siano privi, incorrendo in falsa applicazione della norma (Cass.S.U. , n. 8053/2014); l'individuazione del mercato rilevante ai fini della condotta di abuso di posizione dominante (Cass. n. 11564/2015); l'interpretazione delle domande, eccezioni e deduzioni delle parti, ma solo ove si assuma che essa abbia determinato un vizio riconducibile alla violazione del principio di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato exart. 112 o del tantum devolutum quantum appellatum ex art. 345  (Cass. n. 21421/2014; Cass. n. 17109/2009; v. Cass.S.U. , n. 8077/2012, a composizione di contrasto sulla possibilità che il giudice di cassazione svolga un esame diretto degli atti); il superamento dei limiti minimi e massimi della tariffa forense nella liquidazione delle spese (Cass. n. 22983/2014).

Costituisce, invece, giudizio di fatto, precluso in sede di legittimità, ad esempio: il risultato ermeneutico in sé della interpretazione del contratto, con conseguente inammissibilità di ogni critica alla ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca in una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto da questi esaminati (Cass. n. 2465/2015); la riconduzione di un contratto nella categoria  dell'intermediazione finanziaria, anziché in quella assicurativa (Cass. n. 10333/2018); l'esistenza dei requisiti di una violenza morale sul contraente (Cass. n. 19974/2017); l'accertamento del nesso causale tra la condotta e l'evento dannoso (Cass. n. 4809/2013); l'apprezzamento del concorso di colpa ai sensi dell'art. 1227 c.c. (Cass. n. 24204/2014); l'accertamento del presupposto ex art. 1226 c.c.dell'impossibilità o rilevante difficoltà di provare il danno nel suo esatto ammontare (Cass. n. 23233/2013Cass. n. 6285/2004); la valutazione della congruità dei termini a disposizione del convenuto ai fini del riconoscimento di sentenze straniere (Cass. n. 16272/2014); il requisito dell'originalità in tema di diritto d'autore (Cass. n. 13524/2014); la valutazione delle prove (Cass. n. 15107/2013); il disconoscimento di una scrittura privata  (Cass. n. 1537/2018).

Occorre poi interpretare la locuzione “norme di diritto”, che, secondo la dottrina, si riferisce alle fonti primarie e secondarie, dunque a quelle indicate all'art. 1 preleggi, nonché il diritto straniero e comunitario (Ricci, 2013, 128).

La violazione delle norme costituzionali non può essere prospettata direttamente col motivo di ricorso in esame, ma solo mediante l'eccezione di illegittimità costituzionale della norma ordinaria (Cass. n. 5135/2004;  Cass. n. 3708/2014 ed ancora, fra le tante, Cass. S.U., n. 24850/2019). Si è però di recente affermato che la violazione o falsa applicazione delle norme costituzionali può essere prospettata direttamente come motivo di ricorso per cassazione ex art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. quando tali norme siano di immediata applicazione, non essendovi disposizioni di rango legislativo di cui si possa misurare la conformità ai precetti della Carta fondamentale(Cass. S.U., n. 11167/2022). È invece ammissibile la denunzia di violazione del diritto comunitario (Cass. n. 15032/2014, nella specie conseguente ad una sentenza della corte di giustizia sopravvenuta alla decisione di primo grado, operante analogamente allo ius superveniens, essendo tenuto il giudice di ultima istanza a tale controllo; Cass. n. 11642/2010) ed, in generale, rientra nella sfera istituzionale delle competenze della alla S.C. anche l'interpretazione della legge straniera, al pari di quella nazionale, nell'esercizio della funzione di nomofilachia (Cass. n. 21712/2015).

L'atto amministrativo, non essendo un atto normativo, non può mai essere assunto come parametro di una censura di violazione di legge, ma solo di vizio di motivazione, purché ne sussistano i presupposti (così, incidenterCass. S.U., n. 9679/2019).

Sono tali i decreti ministeriali, che dunque, come negli altri casi, spetta alla parte produrre (Cass. n. 25995/2019; Cass. n. 15065/2014; Cass. S.U., n. 9941/2009). Del pari, le circolari della p.a. sono atti interni destinati ad indirizzare e disciplinare in modo uniforme l'attività degli organi inferiori e, quindi, hanno natura non normativa, ma di atti amministrativi, sicché la loro violazione non è denunciabile in cassazione ai sensi dell'art. 360, n. 3 (Cass. n. 16644/2015; Cass. n. 11449/2005; Cass., n. 1793/1999; Cass. n. 9471/1997; Cass. n. 1496/1994); lo stesso le deliberazioni e i regolamenti comunali (Cass. n. 1391/2014, che evidenzia la necessità di trascriverne il testo nel ricorso; Cass. n. 1893/2009;Cass. n. 18661/2006).

Non sono norme di diritto quelle contenute nel «Manuale dell'Alto Commissariato O.N.U. sulle procedure e sui criteri per la determinazione dello status di rifugiato», integrando esso una mera raccolta di indicazioni fondate sull'esperienza (Cass. n. 24384/2019).

I codici deontologici non hanno carattere normativo, quale insieme di regole che gli organi di governo si siano date per attuare i valori caratterizzanti la propria professione (Cass.S.U. , n. 15873/2013, in tema di codice forense), precisandosi che, pertanto, la violazione del codice deontologico forense rileva in sede giurisdizionale solo quando si colleghi all' incompetenza, all ' eccesso di potere o alla violazione di legge, cioè ad una delle ragioni per le quali l'art. 36 della l. n. 247 del 2012 consente il ricorso alle S.U. per censurare un uso del potere disciplinare da parte degli ordini professionali per fini diversi da quelli per cui la legge lo riconosce (Cass. S.U., n. 13168/2021).

La mancata applicazione, nella liquidazione del danno non patrimoniale, delle «tabelle di Milano» può essere fatta valere come vizio di violazione di legge, quale parametro della valutazione equitativa ai sensi dell'art. 1226 c.c. (Cass. n. 4447/2014), occorrendo però che la questione sia stata sollevata nel giudizio di merito e l'interessato abbia depositato copia delle suddette tabelle al più tardi in grado di appello (Cass. n. 24205/2014;Cass. n. 23778/2014Cass. n. 12408/2011). Ciò, in seguito al rilievo assunto dalle tabelle predette come parametro equitativo preferibile nella liquidazione del danno alla persona (dopo Cass. n. 14402/2011 Cass., n. 12408/2011).

Anche la violazione o falsa applicazione dei contratti collettivi nazionali è stata dal d.lgs. n. 40/2006 parificata sul piano processuale a quella delle norme di diritto: di conseguenza non occorre indicare, a pena di inammissibilità, il criterio ermeneutico violato e la cassazione può enunciare il principio di diritto e pervenire alla decisione nel merito ai sensi dell'art. 384 (Cass. n. 19507/2014; Cass. n. 6335/2014; contra, Cass. n. 9070/2013 e Cass., n. 9054/2013; al riguardo, si veda Curzio, passim); diversamente per i contratti collettivi aziendali, non contemplati nella norma in commento (Cass. n. 2757/2014; Cass. n. 2625/2010).La possibilità di valutare la conformità alla legge e al C.C.N.L. del settore pubblico di un contratto integrativo - che non può, come tale, essere direttamente interpretato in sede di legittimità - è condizionata alla specifica produzione e indicazione di quest'ultimo quale contratto su cui si fonda il ricorso, atteso che lo stesso, stipulato dalle amministrazioni pubbliche sulle singole materie, nei limiti stabiliti dai contratti collettivi nazionali, se pure applicabile al territorio nazionale in ragione della p.a. interessata, ha una dimensione decentrata rispetto al comparto e non è pubblicato nella G.U., ai sensi dell'art. 47, comma 8, d.lgs. n. 165/2001 (Cass. n. 7981/2018;Cass. n. 19227/2011).

La menzione dei contratti collettivi di lavoro nazionali esclude i contratti provinciali, anche delle province autonome, la cui violazione non può essere denunciata quale violazione o falsa applicazione di legge (Cass. n. 551/2021)

Vero è che tali contratti collettivi nazionali hanno base negoziale e difettano del requisito, proprio della legge, della conoscibilità mediante un sistema legale di pubblicità: ma anche per la dottrina ora sono parificati a legge e non si tratta di controllo sul fatto (Ricci, 2013, 134; Roselli, 243).

La denuncia di violazione del giudicato esterno si risolve in quella della violazione della norma sostanziale dell'art. 2909 c.c., censurabile ex art. 360, comma 1, n. 3, costituendo il giudicato la regola del caso concreto e conseguentemente una questione di diritto, e l'interpretazione del giudicato deve essere accostata, per la sua intrinseca natura e per gli effetti che produce, all'interpretazione ed applicazione delle norme giuridiche (Cass. n. 321/2015;Cass. n. 8402/2014; v. sulla sua interpretazione, Cass. n. 24952/2015); essa investe il giudice di legittimità con riferimento alla sola cognizione degli estremi legali per l'efficacia del giudicato nel processo in corso e non anche del suo contenuto sostanziale, se non nei limiti di eventuali vizi di motivazione dell'interpretazione datane dal giudice a quo (Cass. n. 1514/2007;Cass. n. 7891/1995). Ma la sua interpretazione, da parte del giudice di legittimità, è possibile solo se la sentenza da esaminare venga messa a disposizione mediante trascrizione nel corpo del ricorso, derivandone in mancanza l'inammissibilità del motivo (Cass. n. 16227/2014; v. pure Cass. n. 26627/2006).

Anche per la dottrina la violazione del giudicato esterno va inquadrata nel vizio del n. 3, mentre la violazione del giudicato interno andrà dedotta ex n. 4 (Ricci,2013, 150).

Si è chiarito che, non dovendo l'errore essere necessariamente imputabile al giudice, ma consistendo nell'oggettivo contrasto tra il provvedimento giurisdizionale e la norma applicabile ratione temporis al rapporto, il vizio può concernere pure la violazione dello ius superveniens alla pubblicazione della sentenza impugnata, ove sia retroattivo (Cass. S.U.,  n. 21691/2016).

(Segue) Il preteso contrasto del provvedimento impugnato con la Costituzione

Come si è già accennato, la S.C. ha affermato, e ribadito, che la pretesa violazione delle norme costituzionali, da parte del provvedimento impugnato per Cassazione, non può essere prospettata direttamente con un motivo ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.: infatti, semmai il contrasto tra la decisione impugnata e i parametri costituzionali, realizzandosi sempre per il tramite dell'applicazione di una norma di legge, deve essere portato ad emersione mediante l'eccezione di illegittimità costituzionale della norma applicata (Cass. S.U., n. 25573/2020Cass. n. 15879/2018;  Cass. n. 3708/2014).

(Segue) Falsa applicazione

La fattispecie della falsa applicazione della norma di diritto attiene al c.d. vizio di sussunzione, ossia a deduzione del vizio di violazione di legge consistente nella erronea riconduzione del fatto materiale nella fattispecie legale volta a dettarne la disciplina.

Essa attiene alla applicazione della norma, una volta correttamente individuata ed interpretata, consistendo o nell'assumere il fatto entro una norma che non vi si addice, o nel trarre dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che contraddicano la pur corretta sua interpretazione (Cass. n. 640/2019; nonché es. Cass. n. 23851/2019; Cass. n. 21772/2019).

Dunque, spetta al giudice di legittimità verificare se il fatto, come ricostruito in sede di merito, sia stato correttamente sussunto, ossia ricondotto alla norma applicata (Cass. n. 25608/2014).

La deduzione del vizio in esame postula che l'accertamento in fatto operato dal giudice di merito sia considerato fermo ed indiscusso: sicché, è estranea alla denuncia del vizio di sussunzione ogni critica che investa la ricostruzione del fatto materiale (Cass. n. 6035/2018; Cass. n. 19651/2024) il quale invece palesemente sconfina nell'apprezzamento dei fatti e nel tentativo di sottoporre alla corte di legittimità un'inammissibile questione di merito.

Qualche contrasto si riscontra, presso la S.C., nella individuazione dei limiti del vizio in esame.

Ed invero, ad esempio,  nelle cause di responsabilità professionale nei confronti degli avvocati, la valutazione prognostica compiuta dal giudice di merito circa il probabile esito dell'azione giudiziale con negligenza intrapresa o proseguita, sebbene abbia contenuto tecnico-giuridico, è stata ora ritenuta costituire comunque valutazione di un fatto (Cass. n. 3355/2014), ora vizio di sussunzione nelle norme sul nesso causale della valutazione prognostica del legame tra la condotta omissiva del professionista e l'evento di danno lamentato dal cliente (Cass. n. 10320/2018).

Pur restando  riservata al giudice del merito la valutazione dei fatti e l'apprezzamento delle risultanze istruttorie, la Cassazione può verificare l'estrinseca correttezza del giudizio di fatto sotto il profilo della manifesta implausibilità del percorso che lega la verosimiglianza delle premesse alla probabilità delle conseguenze e, pertanto, può sindacare la manifesta fallacia o non verità delle premesse o l'intrinseca incongruità o contraddittorietà degli argomenti, onde ritenere inficiato il procedimento inferenziale ed il risultato cui esso è pervenuto, per escludere la corretta applicazione della norma entro cui è stata sussunta la fattispecie (Cass.  n. 16502/2017).

E,  in tema di giusta causa del licenziamento, si chiarisce come l'integrazione di detta clausola generale avviene valutando una molteplicità di elementi fattuali, la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, ove si denunci che la combinazione ed il peso dei dati fattuali, come definiti ed accertati dal giudice di merito, non ne consentono la riconduzione alla nozione legale: laddove, invece, l'omesso esame di un parametro avente valore decisivo, nel senso che l'elemento trascurato avrebbe condotto ad un diverso esito della controversia, va denunciato come vizio di cui all'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (Cass. n. 18715/2016).

Al riguardo,  D'Ascola, passim.

In tema di prove, ad esempio, il vizio è integrato ove il giudice del merito abbia fondato la presunzione su indizi privi dei caratteri ex art. 2729 c.c. sussumendo sotto la previsione fatti che ne siano privi, incorrendo in falsa applicazione della norma (Cass. S.U. , n. 8053/2014).

Naturalmente, se la Cassazione annulla la sentenza impugnata con rinvio avendo riscontrato un vizio di sussunzione, la decisione è idonea a dispiegare efficacia di principio di diritto: nel senso che, avendo allora negato che il fatto accertato integri l'ipotesi normativa individuata dal giudice di merito, in tal modo essa ha enunciato un principio sotto la specie della c.d. falsa applicazione della norma di diritto (Cass. n. 13747 /2018, che ha ritenuto i fatti erroneamente sussunti sotto la figura giuridica della ratifica, espressa o tacita).

Error in procedendo

È vizio di attività, sostanziandosi nel compimento di un'attività deviante rispetto ad un modello legale rigorosamente prescritto dal legislatore.

Deve trattarsi di vizi della sentenza di secondo grado, o anche di primo grado, solo però qualora questi ultimi siano stati dedotti in appello ed ivi erroneamente trattati, salvo per le nullità insanabili (Ricci, 2013, 143).

Suole affermarsi che, laddove vengano denunciati errores in procedendo, la Corte è anche giudice del fatto, potendo accedere direttamente all'esame degli atti processuali del fascicolo di merito sui quali il ricorso si fonda, purché la censura sia stata ritualmente formulata, rispettando, in particolare, il principio di autosufficienza del ricorso secondo le disposizioni di cui agli artt. 366, comma 1, n. 6, e 369, comma 2, n. 4 (ex plurimisCass. n. 21346/2024, ove si sostiene che il rispetto del principio di autosufficienza «impone la trascrizione essenziale degli atti e dei documenti per la parte d'interesse»; Cass. n. 29495/2020; Cass. n. 23834/2019; Cass. n. 20924/2019; Cass. S.U., n. 20181/2019; Cass. n. 6014/2018; Cass. n. 21397/2014; Cass. n. 8008/2014; Cass. n. 896/2014; Cass. n. 12664/2012; Cass. S.U. , n. 8077/2012 ).

Dunque, ad esempio, per valutare se sussista il giudicato interno dopo la proposizione dell'appello, la S.C. non è vincolata all'interpretazione compiuta dal giudice di appello, ma ha il potere-dovere di valutare direttamente gli atti processuali per stabilire se, rispetto alla questione su cui si sarebbe formato il giudicato: tuttavia, a tal fine occorre che il ricorrente indichi elementi atti ad individuare, nei suoi termini esatti, il contenuto dell'atto di appello ( Cass. n. 7499/2019 ).

Peraltro, l'onere del ricorrente non si ferma qua. Infatti, la denuncia di vizi fondati sulla violazione di norme processuali – nel rispetto dei principi di economia processuale, di ragionevole durata del processo e di interesse ad agire – non tutela l'interesse all'astratta regolarità dell'attività giudiziaria, onde è inammissibile l'impugnazione che lamenti un mero vizio del processo, senza prospettare anche le ragioni per le quali l'erronea applicazione della regola processuale abbia comportato, per la parte, una lesione del diritto di difesa o altro pregiudizio per la decisione di merito, dovendo il ricorrente indicare lo specifico e concreto danno derivatogli (Cass. n. 26831/2014; Cass. n. 26157/2014; Cass. n. 15676/2014; Cass. n. 6330/2014; Cass. n. 22289/2013; Cass. n. 3712/2012 da ult. Cass. n. 20834/2022). 

Insomma, la censura concernente la violazione dei principi regolatori del processo deve avere carattere decisivo, cioè incidente sul contenuto della decisione e, dunque, arrecante un effettivo pregiudizio a chi la denuncia (Cass. n. 26087/2019; Cass. n. 22341/2017). 

Pertanto, si è ribadito (Cass. n. 2626/2018) che i vizi dell'attività del giudice sono posti a garanzia dell'eliminazione del pregiudizio concretamente subito dal diritto di difesa,  sicché, quando venga dedotto il vizio della sentenza per avere il tribunale deciso una questione preliminare di merito senza aver prima assegnato i termini di cui all'art. 183, comma 6, il ricorrente, a pena di inammissibilità, deve specificare quale sarebbe stato il fatto rilevante sul quale il giudice di primo grado si sarebbe dovuto pronunciare e quali prove sarebbero state dedotte, ove fosse stata consentita la chiesta appendice scritta.

Si consideri, però, che quest’indirizzo è stato contraddetto, con l’affermazione, dotata di evidente forza espansiva, secondo cui la parte che proponga l'impugnazione della sentenza d'appello deducendo la nullità della medesima per non aver avuto la possibilità di esporre le proprie difese conclusive ovvero per replicare alla comparsa conclusionale avversaria non ha alcun onere di indicare in concreto quali argomentazioni sarebbe stato necessario addurre in prospettiva di una diversa soluzione del merito della controversia; e cioè la violazione determinata dall'avere il giudice deciso la controversia senza assegnare alle parti i termini per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, ovvero senza attendere la loro scadenza, comporta di per sé la nullità della sentenza per impedimento frapposto alla possibilità dei difensori delle parti di svolgere con completezza il diritto di difesa, in quanto la violazione del principio del contraddittorio (Cass. S.U., n. 36596/2021; v. successivamente nella linea per diverse fattispecie Cass. n. 838/2023; Cass. n. 2067/2023; Cass. n. 6795/2023; Cass. n. 4667/2024; Cass. n. 17717/2024). Rimane fermo tuttavia, secondo le stesse Sezioni Unite, che «le norme processuali hanno natura servente, sicché la deduzione dei vizi derivanti dalla loro inosservanza … non serve a tutelare l'astratta regolarità dell'attività giudiziaria ma a eliminare i pregiudizi conseguenti all'esercizio delle facoltà in cui sì esprime il diritto di difesa». E dunque è stato ad esempio anche da ultimo ribadito che il soccombente non ha interesse a far valere, col ricorso per cassazione, la mancata integrazione del contraddittorio nei confronti dei litisconsorti necessari pretermessi nel giudizio di appello, se dalla loro partecipazione al processo non avrebbe tratto alcun vantaggio (Cass. n. 17893/2024).

Si tenga inoltre presente che l'interpretazione di una norma processuale consolidata può essere abbandonata solo in presenza di forti ed apprezzabili ragioni giustificative, indotte dal mutare di fenomeni sociali o del contesto normativo, oppure quando l'interpretazione consolidata risulti manifestamente arbitraria e pretestuosa o dia luogo a risultati disfunzionali, irrazionali o ingiusti, atteso che l'affidabilità, prevedibilità e uniformità dell'interpretazione delle norme processuali costituisce imprescindibile presupposto di uguaglianza tra i cittadini e di "giustizia" del processo (Cass. n. 16006/2024).

Ogni qual volta l'indagine sia diretta ad accertare se il giudice di merito sia incorso in un error in procedendo, inoltre, in cui la Corte di cassazione è giudice anche del fatto, è necessario non solo che la parte ricorrente indichi gli elementi individuanti e caratterizzanti il “fatto processuale” di cui richiede il riesame e, quindi, che il corrispondente motivo contenga tutte le precisazioni e i riferimenti necessari a comprendere la dedotta violazione, ma anche che illustri la corretta soluzione rispetto a quella erronea praticata dai giudici di merito, in modo da consentire alla Corte investita della questione, secondo la prospettazione alternativa del ricorrente, la verifica della sua esistenza e l'emenda dell'errore denunciato. (Cass. n. 20181/2019)

Poiché le norme poste dal codice civile in materia di onere della prova e di ammissibilità ed efficacia dei vari mezzi probatori, attengono al diritto sostanziale e quindi la loro violazione dà luogo ad errores in iudicando e non in procedendo, nel giudizio di cassazione il ricorrente interessato a far valere la violazione di dette norme ha l'onere di indicare dettagliatamente gli elementi necessari per la valutazione delle censure mosse al riguardo (Cass. n. 6332/2014; Cass. n. 1247/2000). Ma la violazione dell'art. 2697 c.c. si configura soltanto nell'ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l'onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare, secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni (Cass. S.U., n. 20867/2020; Cass. n. 26769/2018;Cass. n. 13395/2018;Cass. n. 15107/2013).

Né integra la fattispecie del n. 4 la pretesa violazione dell'art. 115, quando la statuizione di esistenza della circostanza controversa presupponga un giudizio di attendibilità, sufficienza e congruenza delle testimonianze (Cass. n. 25166/2019). Pertanto, per dedurre  ammissibilmente  la violazione dell'art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte d'ufficio fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, salvo solo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio (Cass. S.U., n. 20867/2020; Cass. n. 26769/2018), oppure qualora il giudice del merito ometta di valutare risultanze di cui la parte abbia esplicitamente dedotto la decisività, salvo escluderne in concreto, motivando sul punto, la rilevanza, o ancora se egli ponga alla base della decisione fatti che erroneamente ritenga notori o la sua scienza personale (Cass. n. 4699/2018; Cass. n. 20382/2016). A sua volta, la deduzione della violazione dell'art. 116 è ammissibile ai sensi del n. 4, ove si alleghi che il giudice non abbia operato secondo il suo prudente apprezzamento, ma abbia attribuito valore di prova legale ove non previsto (Cass. S.U., n. 20867/2020; Cass. n. 13960/2014Cass. n. 26965/2007); oppure, al contrario, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione ed invece il giudice abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento (Cass. S.U., n. 20867/2020).

Con particolare alle nozioni di comune  esperienza, il ricorso ad esse attiene all'esercizio di un potere discrezionale riservato al giudice di merito, il cui giudizio circa la sussistenza di un fatto notorio può essere censurato in sede di legittimità solo se sia stata posta a base della decisione una inesatta nozione del notorio (da intendere come fatto conosciuto da un uomo di media cultura, in un dato tempo e luogo) e non anche per inesistenza o insufficienza di motivazione, non essendo il giudice tenuto ad indicare gli elementi sui quali la determinazione si fonda; peraltro, allorché si assuma che il fatto considerato come notorio dal giudice non risponde al vero, l'inveridicità può formare esclusivamente oggetto di revocazione, ove ne ricorrano gli estremi, non già di ricorso per cassazione (Cass. n. 4182/2024).

L' obbligo di motivazione è ottemperato mediante l'indicazione delle ragioni della sua decisione, mentre non è necessario che il giudice confuti espressamente tutti gli argomenti portati dalla parte interessata (Cass. n. 12123/2013; Cass. n. 8767/2011 ), dovendosi precisare, in particolare, che sussiste la motivazione, quando il giudice del merito abbia affermato essere le circostanze dedotte per sorreggere la domanda generiche ed inidonee a dimostrare i fatti costitutivi (Cass. n. 26764/2019);  il contrasto insanabile tra dispositivo e motivazione , determinante la nullità della sentenza, sussiste allorché il provvedimento risulti inidoneo a consentire l'individuazione del concreto comando giudiziale (Cass. n. 15990/2014; Cass. n. 14966/2007; v. pure Cass. n. 10727/2013), la quale, in caso di non coincidenza tra quanto riportato in dispositivo e quanto scritto in motivazione, reputa debba prevalere quest'ultima); integra motivazione insanabilmente contraddittoria, ovvero apparente per impossibilità di ricavare la logicità del ragionamento inferenziale del giudice, quella che affermi la sussistenza di un presupposto per l'applicazione di una norma, poi negandola immotivatamente (Cass. n. 4367/2018, con riguardo alla responsabilità da cosa in custodia); il giudizio di indispensabilità della prova nuova in appello attiene al rito e la Corte di cassazione, chiamata ad accertarlo, è tenuta a stabilire essa stessa la sussistenza del requisito di indispensabilità (Cass. n. 4478/2011Cass. n. 14098/2009).

Ancora, in tema di decisione di merito, che abbia concluso per il rigetto della domanda in ragione della insussistenza della prova della sua fondatezza, la motivazione è stata reputata affetta dal vizio di contraddittorietà insanabile: in quanto era stata prima disattesa l'istanza non inammissibile di offrire quella prova (Cass. n. 26538/2017, in tema di rigetto, per mancanza di prova, della domanda risarcitoria di una ginnasta caduta durante un allenamento in palestra, dopo avere giudicato irrilevanti le prove orali volte a dimostrare l'assenza di adeguate misure di sicurezza); oppure in quanto il provvedimento giurisdizionale prima non esamini le prove richieste dalla parte, né per accoglierle né per rigettarle (Cass. n. 9952/2017). È inammissibile il motivo di ricorso col quale si lamenti il vizio di motivazione della sentenza con la quale il giudice di merito abbia risolto una questione di diritto processuale, posto che nulla rileva al riguardo il modo in cui egli abbia motivato la propria decisione (Cass. n. 3575/2018Cass. n. 13683/2012).

Mentre la questione di legittimità costituzionale di una norma, in quanto strumentale rispetto alla domanda che implichi l'applicazione della norma medesima, non può costituire oggetto di un'autonoma istanza, rispetto alla quale sia configurabile un vizio di omessa pronuncia (Cass. n. 1311/2018Cass. n. 26319/2006).

Si noti che il vizio di omessa pronuncia, denunziabile ai sensi della norma in discorso, va distinto: 

- dalla omessa motivazione: pur dopo la riforma di cui al d.l. n. 83/2012, esse continuano a distinguersi, perché la prima, implicando la completa omissione del provvedimento, è censurabile ai sensi del n. 4, mentre l'omessa motivazione ex n. 5 presuppone l'esame della questione oggetto di doglianza da parte del giudice di merito, seppure se ne lamenti la pretermissione di uno specifico fatto storico o la sua mancanza materiale o equiparabile (apparente, contrasto irriducibile, incomprensibile) (Cass. n. 21257/2014; Cass. S.U. , n. 8053/2014 ; e v. Cass. n. 1539/2018 Cass. n. 25761/2014, con riguardo al precedente n. 5); pertanto, è contraddittoria la denuncia, in un unico motivo, dei due distinti vizi di omessa pronuncia e di omessa motivazione su un punto decisivo della controversia (Cass. n. 6150/2021, che peraltro motiva anche sulla infondatezza del ricorso; Cass. n. 13866/2014; Cass. n. 15882/2007); dalla pronuncia implicita: non sussiste il vizio di omessa pronuncia quando la pretesa avanzata con il capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l'impostazione logico-giuridica della decisione, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione (Cass. n. 841/2014; Cass. n. 7406/2014 ; Cass. n. 3324/2016; Cass. n. 13649/2005).

L’omesso esame di un fatto

Il testo del 1940 è stato riformulato nel 1950, nel 2006 e nel 2012. Dopo l’apertura dovuta alla novella del 1950, nel 2012 il testo del numero in commento è tornato alla versione originaria.

Testo attuale

La nuova norma, valevole per i ricorsi contro sentenze depositate dall'11 settembre 2012, introduce nell'ordinamento il vizio di omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (da ult. Cass. n. 17005/2024). La riforma ha profondamente trasformato il numero in questione, assimilandolo ad una violazione di legge processuale per nullità della sentenza mancante della idonea motivazione, sotto il profilo dell'esistenza (assoluta omissione o mera apparenza) e della coerenza (irriducibile contraddittorietà e illogicità manifesta) (art. 132, n. 4). 

Resta che si tratta di un errore di attività del giudice, il quale inficia la correttezza della sua valutazione e dell'iter logico seguito (Mandrioli, 2015, nt. 1613).

Il fatto deve aver costituito ragione del contendere e non essere dato per pacifico fra le parti (Ricci, 2013, 199).

Per un'ipotesi di mancata integrazione del presupposto, Cass. n. 12142/2014.

Le Sezioni Unite (Cass. S.U. , n. 8053/2014) hanno chiarito la portata della nuova disposizione, affermando, in particolare, che:

a) il ricorrente ha l'onere di indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato” da cui ne risulti l'esistenza (testuale, se emerge dalla sentenza; extratestuale, se dagli atti processuali), il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti, la decisività del fatto stesso (come impongono gli artt. 366,  comma 1, n. 6, e 369, comma 2, n. 4);

b) l'omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio, ove il fatto sia stato comunque preso in considerazione;

c) il sindacato di legittimità sulla motivazione è ormai ricondotto a quello di violazione di legge, riguardando l'inesistenza della motivazione in sé, che risulti dal testo della sentenza impugnata, esaurentesi nella mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile.

Si ricorda che i «fatti principali» sono quelli costitutivi, impeditivi, modificativi o estintivi del diritto controverso (art. 2697 c.c.); i «fatti secondari» sono i fatti affermati dalle parti in funzione di prova dei fatti principali.

In sintesi, il motivo di ricorso di cui all'art. 360, n. 5, c.p.c., deve riguardare un fatto storico considerato nella sua oggettiva esistenza, senza che possano considerarsi tali né le singole questioni decise dal giudice di merito, né i singoli elementi di un accadimento complesso, comunque apprezzato, né le mere ipotesi alternative, né le singole risultanze istruttorie, ove comunque risulti un complessivo e convincente apprezzamento del fatto svolto dal giudice di merito sulla base delle prove acquisite nel corso del relativo giudizio(Cass. n. 10525/2022). Nella nozione di fatto storico, principale o secondario, neppure è inquadrabile la consulenza tecnica d'ufficio recepita dal giudice, risolvendosi la critica che ad essa nell'esposizione di mere argomentazioni difensive contro un elemento istruttorio (Cass. n. 8584/2022; in senso diverso, erroneamente, Cass. n. 7716/2024).

È ormai preclusa, invece, la denunzia del vizio di motivazione insufficiente (Cass. S.U. , n. 8053/2014; da ult. ex multissimis Cass. n. 7090/2022) o contraddittoria, non riconducibile neppure al n. 4 della norma in commento (Cass. n. 13928/2015; Cass. n. 16300/2014; Cass. n. 7983/2014); la ricostruzione del fatto operata dai giudici di merito è sindacabile in sede di legittimità soltanto quando la motivazione manchi del tutto ovvero sia affetta da quei radicali vizi giuridici (Cass. n. 16009/2014; Cass. n. 12928/2014; Cass. n. 5133/2014; Cass. S.U. , n. 24148/2013); non è sindacabile l'omesso esame di elementi istruttori come quando sia denunziato il carente esame dei parametri della liquidazione dell'indennità per lavoro (Cass. n. 28887/2019; Cass. n. 2498/2015); non rileva l'errore di motivazione, sia pure in quei termini, che cada però su fatto non decisivo (Cass. n. 5402/2014, in tema di insolvenza).

Per quanto, invece, riguarda in sé il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito, esso non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, né ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., né ex  n. 4 della disposizione (Cass. n. 11892/2016).

Quanto al travisamento della prova è stato detto che esso non implicherebbe, invece, una valutazione dei fatti, ma una constatazione o un accertamento che un'informazione probatoria, utilizzata dal giudice ai fini della decisione, è contraddetta da uno specifico atto processuale: onde esso, a differenza del travisamento del fatto, può essere censurato per cassazione ove incida su un punto decisivo della controversia (Cass. n. 1163/2020; Cass. n. 10749/2015).

In materia, tuttavia, occorre ricordare che siffatta lettura è stata smentita dalle Sezioni Unite, le quali hanno stabilito che il travisamento del contenuto oggettivo della prova ― che ricorre in caso di svista concernente il fatto probatorio in sé e non di verifica logica della riconducibilità dell'informazione probatoria al fatto probatorio ― trova il suo istituzionale rimedio nell'impugnazione per revocazione per errore di fatto, laddove ricorrano i presupposti richiesti dall'art. 395, n. 4, c.p.c., mentre ― se il fatto probatorio ha costituito un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare e, cioè, se il travisamento rifletta la lettura del fatto probatorio prospettata da una delle parti ― il vizio va fatto valere ai sensi dell'art. 360, n. 4, o n. 5, c.p.c., a seconda che si tratti di fatto processuale o sostanziale (Cass. S.U., n. 5792/2024).

Il mancato esame delle risultanze di una consulenza tecnica d ‘ufficio può integrare il vizio, risolvendosi nell'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti  (Cass. n. 13922/2016, in una vicenda in cui il giudice del merito aveva disatteso i rilievi tecnici formulati dal c.t.u., senza indicare le ragioni per cui aveva ritenuto erronei tali rilievi, ovvero gli elementi probatori, i criteri di valutazione e gli argomenti logico-giuridici utilizzati per addivenire alla decisione contrastante con essi). In particolare, tale mancato esame è stato ritenuto si risolva in omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti quando, espletate più consulenze tecniche nel giudizio di merito, con soluzioni difformi, il giudice si sia uniformato ad una, senza però valutare le censure di parte (Cass. n. 18598/2020 ;Cass. n. 13770 /2018, in tema di risarcimento del danno biologico e punti percentuali).

Secondo altre decisioni, invece, se, in presenza di due successive contrastanti consulenze tecniche d'ufficio, il giudice aderisca al parere del consulente che abbia espletato la sua opera per ultimo, va escluso il vizio di motivazione e va ritenuta sufficiente la motivazione della sentenza, pur se l'adesione non sia specificamente giustificata, ove il secondo parere tecnico fornisca gli elementi che consentano, su un piano positivo, di delineare il percorso logico seguito e, sul piano negativo, di escludere la rilevanza di elementi di segno contrario (Cass., n. 8939/2021; Cass. n. 4850/2009) .

Quanto all'omesso esame di un documento, esso può essere denunziato in Cassazione solo ove determini l'omissione di motivazione su un punto decisivo, offrendo la prova di circostanze di tale portata da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l'efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, e ciò va dunque indicato nel ricorso (Cass. n. 16583/2024;Cass. n. 16812/2018; Cass. n. 19150/2016). Ne deriva che, se il giudice di merito ha accertato che quel documento non è stato prodotto in giudizio, non potrà mai trattarsi di un difetto di attività del giudice circa l'efficacia determinante, ai fini della decisione della causa, del medesimo documento: e, pertanto, non sarà deducibile al riguardo il vizio di omesso esame di un documento decisivo (Cass. n. 15043 /2018; e si veda già Cass. n. 20240/2015Cass. n. 12904/2007). Peraltro, se la parte assume, invece, che il giudice abbia errato nel ritenere non prodotto in giudizio il documento decisivo, può farsi valere tale preteso errore soltanto in sede di revocazione ex art. 395, n. 4, c.p.c. (Cass. n. 15043 /2018, cit.).

Eguali considerazioni valgono per l’omessa ammissione della prova testimoniale o di altra prova, la quale può essere denunciata per cassazione solo nel caso in cui essa sia idonea a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l'efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito (Cass. n. 18072/2024).

Con riguardo alla prova indiziaria, come le prove raccolte in un diverso giudizio, la mancata valutazione di esse non è idonea ad integrare il vizio di motivazione, in quanto il difetto riscontrato non può costituire punto decisivo, implicando non un giudizio di certezza, ma di mera probabilità rispetto all'astratta possibilità di una diversa soluzione (Cass. n. 3960/2018; e v. già Cass. n. 4279/2011),

ma si è anche ritenuto che il libero convincimento del giudice di merito in tema di presunzioni è sindacabile ex n. 5 per mancato esame di fatti storici,  quando veicolati da elementi indiziari non esaminati e, quindi, non considerati dal giudice sebbene decisivi, con l'effetto di invalidare l'efficacia probatoria delle altre circostanze sulle quali il convincimento è fondato (Cass. n. 10253/2 021).

Per la perizia stragiudiziale, la mancata considerazione di essa non è deducibile ai sensi del n. in commento, in quanto su di essa si fonda un mero argomento di prova (Cass. n. 8621/2018).

Resta sempre necessario il rispetto dell'art. 366: onde, qualora sia dedotta la omessa o viziata valutazione di documenti, il ricorrente ha l'onere di operare un sintetico, ma completo resoconto del loro contenuto e di indicare il luogo in cui ne è avvenuta la produzione (Cass. n. 5478/2018).

In dottrina, si prospetta peraltro la possibilità di censurare il mancato uso di regole di esperienza che sia causa di omissione di una circostanza rilevante (Ricci, 2013, 192).

Si ricorda come, nell'ipotesi di c.d. doppia conforme, ai sensi dell'art. 348-ter  il ricorrente, per rendere ammissibile il motivo di cui al n. 5, deve indicare le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell'appello, dimostrandone la diversità (Cass. n. 5528/2014). Peraltro, il limite non si applica ai giudizi di appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione anteriormente all'11 settembre 2012 (Cass. n. 11439/2018; Cass. n. 26860/2014); si veda amplius infra, nonché nel commento alla citata disposizione.

Testo precedente

Si ricordano i profili salienti relativi alla formulazione del n. 5 come risultante dal d.lgs. n. 40/2006 per le ipotesi in cui sia ancora applicabile (sentenze pubblicate entro il 10 settembre 2012); peraltro, alcune delle seguenti considerazioni sono estensibili alla nuova fattispecie.

Il «fatto» è un preciso accadimento ovvero una precisa circostanza in senso storico-naturalistico (Cass. n. 21152/2014). Si può trattare di un fatto principale ex art. 2697 c.c. (cioè un fatto costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo) od anche di un fatto secondario (cioè un fatto dedotto in funzione di prova di un fatto principale) (Cass. n. 2805/2011; Cass. n. 12990/2009).

Il punto in questione deve essere decisivo: per potersi configurare il vizio è necessario che la sua assenza avrebbe condotto a diversa decisione con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, in un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data (Cass. n. 28634/2013Cass. n. 25608/2013; Cass. n. 24092/2013; Cass. n. 18368/2013; Cass. n. 3668/2013;Cass. n. 14973/2006). Dunque, a pena di inammissibilità, il motivo deve contenere l'indicazione della precisa risultanza mediante integrale trascrizione della medesima nel ricorso (Cass. n. 4980/2014; Cass. n. 4849/2009) nonché delle ragioni per le quali si sarebbe giunti senza dubbio ad una decisione diversa (Cass. n. 19150/2016;Cass. n. 25756/2014).

Anche nel vigore della precedente versione, è inammissibile la revisione del ragionamento decisorio del giudice, non potendo mai la Corte di cassazione di procedere ad un'autonoma valutazione delle risultanze degli atti di causa (Cass. n. 91/2014Cass. S.U. , n. 24148/2013Cass. n. 5024/2012) e non potendo il vizio consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, spettando soltanto al giudice di merito di individuare le fonti del proprio convincimento, controllare l'attendibilità e la concludenza delle prove, scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione dando liberamente prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova (Cass. n. 11511/2014; Cass. n. 25608/2013Cass. n. 6288/2011; Cass. n. 6694/2009; Cass. n. 15489/2007; Cass. n. 4766/2006; ciò che può essere, invece, censurata è l'omessa considerazione delle inferenze logiche desumibili dalle provate circostanze e la mancata analitica considerazione degli elementi dimostrativi addotti in giudizio ed indicati nel ricorso con autosufficiente ricostruzione: Cass. n. 3370/2012, in tema di operazioni soggettivamente inesistenti).

L'applicazione del principio in tema di arbitrato comporta che è inammissibile il motivo del ricorso per cassazione, formulato avverso la sentenza della corte d'appello, con il quale il ricorrente riproponga questioni di fatto già oggetto della decisione arbitrale, atteso che il controllo della Suprema Corte non può mai consistere nella rivalutazione dei fatti, neppure in via di verifica della adeguatezza e congruenza dell'iter argomentativo seguito dagli arbitri (Cass. n. 2985/2018; Cass. n. 6986/2007).

Pertanto, con riguardo alle prove, mai può essere censurata la valutazione in sé degli elementi probatori secondo il prudente apprezzamento del giudice (Cass. n. 1414/2015Cass. n. 13960/2014), come ad esempio il “peso probatorio” di una testimonianze rispetto ad un'altra (Cass. n. 13054/2014).

Infatti, costituisce principio consolidato (tra le tante,  Cass. n. 18665/2017; Cass. n. 2090/2004) che i vizi motivazionali deducibili non possono riguardare apprezzamenti di fatto difformi da quelli propugnati da una delle parti, poiché, a norma dell'art. 116, rientra nel potere discrezionale, come tale insindacabile del giudice di merito, «individuare le fonti del proprio convincimento, apprezzare le prove, controllarne l'attendibilità e la concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione». 

Per quanto riguarda la prova presuntiva, il controllo della motivazione in fatto, sempre ai sensi dell'art. 360,  comma 1, n. 5, previgente, si compendia nel verificare che il discorso giustificativo svolto dal giudice di merito presenti i requisiti minimi dell'argomentazione (fatto probatorio - massima di esperienza - fatto accertato), mentre non è consentito alla corte sostituire la massima di esperienza utilizzata con altra diversa o confrontare la sentenza impugnata con le risultanze istruttorie (Cass. n. 4070/2018Cass. n. 2963/2018; Cass. n. 18665/2017; Cass. n. 13984/2004).

La mancata ammissione della prova testimoniale può essere censurata in ordine all'attitudine dimostrativa di circostanze rilevanti ai fini del decidere (Cass. n. 66/2015); ciò anche quando dipenda da un atto istruttorio nullo, sia che esso abbia ammesso e sia che abbia escluso la prova, ma da cui la sentenza prescinda, e che comunque non ne comporta la nullità ai sensi del n. 4, atteso che l'atto istruttorio non fa parte dell'indefettibile serie procedimentale che conduce alla decisione, ma ne produce semmai solo il vizio di motivazione (Cass. n. 18587/2014; Cass. n. 17247/2006).

Il vizio può censurare anche il mancato esame di deposizioni testimoniali, ancorché ritualmente portate all'esame del giudice di legittimità, che affermino o neghino obiettivamente fatti costitutivi dei diritti controversi, ferma restando l'inammissibilità della pretesa valutazione atomistica delle singole deposizioni (Cass. n. 15205/2014) o il mancato esame di un documento, laddove esso offra la prova di circostanze di tale portata da invalidare con un giudizio di certezza l'efficacia delle altre (Cass. n. 25756/2014).

Quindi, si è precisato (Cass. n. 17761/2016, richiamata da molte successive) che il motivo con cui, ai sensi dell'art. 360, n. 5, c.p.c., come modificato dall'art. 2 d.lgs. n. 40/2006, si denuncia omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, deve specificamente indicare il «fatto» controverso o decisivo in relazione al quale la motivazione si assume carente, dovendosi intendere per «fatto» non una «questione» o un «punto» della sentenza, ma un fatto vero e proprio e, quindi, un fatto principale, ex art. 2697 c.c. (cioè un fatto costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo), od anche un fatto secondario (cioè un fatto dedotto in funzione di prova di un fatto principale), purché controverso e decisivo.

L'omesso esame di tesi giuridiche prospettate da una delle parti, non riferendosi all'accertamento dei fatti rilevanti per la decisione, non può mai risolversi in un vizio di motivazione, ma può soltanto sostenere una censura di violazione o falsa applicazione di norme o principi di diritto (Cass. n. 2107/2012Cass. n. 2805/2011, che ha dichiarato inammissibile il ricorso che si limitava a denunciare la mancata motivazione in ordine alle argomentazioni esposte dall'appellante). Quindi, la norma non ricomprende deduzioni o argomentazioni difensive (Cass. n. 22397/2019; Cass. n. 26305/2018). 

L'omissione della motivazione va distinta dal difetto di pronuncia; l'insufficienza indica l'impossibilità di comprendere adeguatamente il percorso logico seguito; la contraddittorietà della motivazione deve essere ad essa interna, non potendo emergere dal raffronto con altri provvedimenti e non trattandosi del vizio di eccesso di potere (Cass. S.U. , n. 1770/2013, con riguardo a pronunce disciplinari del CSM).

Rientra nel vizio di motivazione l'esercizio in concreto del potere discrezionale del giudice di liquidare il danno in via equitativa, nonché l'accertamento del relativo presupposto, costituito dall'impossibilità o dalla rilevante difficoltà di precisare il danno nel suo esatto ammontare (Cass. n. 23233/2013; Cass. n. 3582/2013): con il rilievo che la valutazione equitativa del danno, in quanto inevitabilmente caratterizzata da un certo grado di approssimazione, è suscettibile di censura solo se difetti totalmente la giustificazione che quella statuizione sorregge, o macroscopicamente si discosti dai dati di comune esperienza, o sia radicalmente contraddittoria (Cass. n. 12318/2010).

Occorre distinguere il vizio di motivazione dall'errore o vizio revocatorio. Ove si sia in presenza di una falsa percezione della realtà, si configura un travisamento denunciabile solo con istanza di revocazione ex art. 395, n. 4, mentre la sentenza è sindacabile in sede di legittimità, sotto il profilo del vizio di motivazione ex art. 360, comma 1, n. 5, ove il censurato apprezzamento del giudice del merito si ricolleghi ad una valutazione ed interpretazione degli atti del processo e del comportamento processuale delle parti, percepiti però negli esatti termini materiali (Cass. n. 27679/2013; Cass. n. 19921/2012Cass. n. 15672/2005; Cass. n. 1427/2005). Così, si ha errore revocatorio ove il ricorrente alleghi che il giudice abbia pronunciato la sentenza sulla base di un documento non ritualmente prodotto in giudizio, ove non vi sia controversia sulla irritualità della produzione (Cass. n. 2412/2014); si ha, invece, vizio di motivazione se il giudice abbia semplicemente ignorato un fatto, omettendo di esaminarne la prova (Cass. n. 9637/2013).

Il ricorso per saltum

Il ricorso omisso medio, limitatamente però a censure di violazione o falsa applicazione di norme di diritto ex n. 3, avente come presupposto un c.d.  “patto di salto”, è di infrequente applicazione nella prassi.

Questo  viene concluso quando si tratti di questione di puro diritto, su cui esista obiettiva incertezza e che tutte le parti ritengono opportuno sottoporre subito al giudice di legittimità. Esso ha la fisionomia di un “ricorso per interpretazione preventiva della legge”, quando un secondo grado di merito si riveli, per la natura delle questioni controverse, scarsamente fruttuoso. 

È ammesso solo avverso le sentenze in senso formale (Ricci, 2013, 60).  

L'accordo diretto all'immediata impugnazione in sede di legittimità della sentenza di primo grado è dunque un negozio giuridico processuale, attesa la rilevanza della manifestazione di volontà dei dichiaranti che rende inappellabile la sentenza, definibile un “atto processuale normativo” (come gli accordi modificativi della competenza o i patti sulle prove), il quale va concluso dalle parti o dai loro difensori muniti di procura speciale, non essendo sufficiente che l'accordo intervenga tra i rispettivi procuratori ad litem (Cass. n. 4397/1998; Cass. S.U., n. 4587/1976; seguite da Cass. n. 22956/2010; Cass. n. 3321/2008; Cass. S.U., n. 16993/2006Cass. n. 7707/2004), come ha voluto il legislatore in ragione dell'importanza dell'atto, che implica rinunzia ad un grado della giurisdizione di merito.

Sull'ambito temporale in cui l'accordo deve intervenire, l'art. 366, come modificato dal d.lgs. n. 40/2006, ha permesso che l'accordo risulti dall'adesione mediante “visto” sul ricorso per cassazione dalle controparti, oppure da atto separato anche anteriore alla sentenza impugnata da unirsi al ricorso, per favorirne l'applicazione. Esso non può più intervenire se la sentenza è passata in giudicato (Cass. n. 4397/1998; Cass. n. 4480/1986, in motivazione, seguite da Cass. n. 22956/2010; sulla “sentenza appellabile” v. pure Cass. n. 10133/2014); e deve preesistere od essere al più coevo alla proposizione del ricorso per cassazione, ma non ad esso successivo (Cass. n. 4397/1998).

È stato anche affermato che è ammissibile il ricorso per saltum nei confronti di una sentenza verso la quale sia stato già interposto appello (Cass. n. 7211/2000), ma non se il giudice d'appello si sia già pronunciato, attesa la formale mancanza della sentenza di primo grado interamente assorbita dalla sentenza d'appello (Cass. n. 4242/2000).

Il terzo comma

A fini di deflazione del giudizio di cassazione e rafforzamento della funzione nomofilattica, il d.lgs. n. 40/2006 introdusse un nuovo regime delle impugnazioni per cassazione avverso le sentenze non definitive, che deriva dalle previsioni degli artt. 360, comma 3, e 361. Nonostante disapplicazioni della norma si fossero più volte verificate, per lo più senza motivazione al riguardo, l'orientamento delle sentenze che avevano espressamente affrontato il problema era compatto nell'affermare che il sistema conosce ormai distinti regimi con riguardo alle sentenze definitive totali (regola dell'impugnazione immediata), definitive parziali su domande, o non definitive, ossia che decidono parzialmente il merito (è possibile, a scelta della parte, l'impugnazione immediata o la riserva di ricorso exart. 361 c.p.c.) e non definitive su questioni o interlocutorie (soggette ad una “riserva ex lege”, potendo essere impugnate per cassazione solo insieme alla sentenza che definisce il giudizio, anche in parte ex art. 360, comma 3). Per le ultime due categorie, cfr. art. 279, comma 2, n. 4. 

In tal modo, la Corte aveva ritenuto rientrare nel disposto della norma, con conseguente generale divieto di immediata ricorribilità in cassazione, le sentenze che risolvevano pregiudiziali di rito, come le questioni di giurisdizione nei confronti del giudice amministrativo (Cass. S.U. , n. 20569/2014; Cass. S.U., n. 14991/2014; Cass. S.U., n. 20073/2013; Cass. S.U., n. 16310/2013; Cass. S.U., n. 18698/2012; Cass. S.U., n. 12105/2012; Cass. S.U., n. 11510/2012; Cass. S.U., n. 10136/2012; Cass. S.U., n. 15975/2011; e v. Cass., S.U. , n. 5456/2009), del giudice contabile (Cass. S.U. , n. 11072/2012) o del giudice straniero (Cass. S.U. n. 9684/2013; Cass. S.U. n. 3268/2013; Cass. S.U. , n. 1717/2013); la sentenza emessa in grado d'appello da un giudice speciale che abbia respinto i motivi relativi al difetto di giurisdizione o rimesso al giudice di primo grado per la decisione di merito (la Corte dei conti, nelle seguenti decisioni delle Sezioni unite: Cass. S.U. , n. 299/2013; Cass. S.U. , n. 9588/2012; Cass. S.U. , n. 8406/2012; Cass. S.U. , n. 5703/2012; Cass. S.U. , n. 2575/2012; Cass. S.U. , n. 29098/2011; Cass. S.U. , n. 23891/2010; e il Consiglio di stato in Cass. S.U. , n. 773/2014; Cass. S.U. , n. 9688/2013; Cass. S.U. , n. 17841/2012; Cass. S.U. , n. 9588/2012); di legittimazione (Cass. S.U., n. 5703/2012; Cass. S.U. , n. 2575/2012); di difetto di autorizzazione all'esercizio dell'azione (Cass. n. 7907/2012); di nullità della citazione e degli atti, o di improcedibilità della domanda, che erano state escluse (Cass. S.U., n. 8406/2012); di estinzione del giudizio (Cass. n. 12948/2014; Cass. n. 7907/2012); di diritto a chiamare un terzo in causa (Cass. n. 7907/2012); di ammissibilità della querela di falso (Cass. n. 13521/2012, in cui la Corte d'appello aveva dichiarato ammissibile la querela di falso, disponendo per il prosieguo del giudizio con separata ordinanza).

Parimenti applicata  la norma a sentenze che avevano deciso mere preliminari di merito, come le questioni di prescrizione (Cass. n. 18964/2012; Cass. S.U., n. 5703/2012; Cass. S.U. , n. 2575/2012; Cass. n. 18104/2010), di validità, efficacia e interpretazione di contratti collettivi (Cass. n. 3770/2007, e le successive conformi Cass. n. 4834/2007; Cass. n. 6705/2007; Cass. n. 7585/2007; Cass. n. 11135/2008; Cass. n. 22874/2008; Cass. n. 11406/2010; Cass. n. 16316/2010); di vizi procedimentali del licenziamento disciplinare (Cass. n. 2944/2013); di estinzione del rapporto di lavoro per mutuo consenso (Cass. n. 12369/2011); di accertamento della debenza di un indennizzo (Cass. n. 11456/2015).

Pertanto, l'inammissibilità del ricorso per cassazione avverso le sentenze che non definiscono, neppure parzialmente, il giudizio di merito era stata affermata anche con riguardo alle decisioni d'appello che avessero rimesso la causa in primo grado, definendo il giudizio innanzi a sé, come per il caso di erronea declinatoria della giurisdizione in prime cure (Cass. S.U., n. 10136/2012; Cass. S.U. , n. 11510/2012; Cass. S.U. , n. 12105/2012; Cass. S.U. , n. 16310/2013; Cass. n. 20073/2013; Cass. S.U. , n. 9684/2013; con riguardo alla giurisdizione verso lo straniero: Cass. S.U., n. 1717/2013;Cass. S.U. , n. 3268/2013; Cass. S.U. , n. 9688/2013; Cass. S.U. , n. 773/2014) e di erronea declaratoria di estinzione del processo (Cass. n. 15601/2014; Cass. n. 12948/2014). 

Proprio per le ipotesi in cui il giudice d'appello, nei casi previsti dagli artt. 353 e art. 354, rimette la causa al giudice a quo, le Sezioni Unite  (Cass. S.U. , n. 25774/2015; nello stesso senso, Cass. S.U., n. 10015/2021) hanno diversamente opinato, enunciando il principio secondo cui la sentenza d'appello è immediatamente impugnabile, trattandosi di sentenza definitiva (anche se non decide su un bene della vita e nulla dice sul merito della domanda), proprio perché qui la trattazione della causa non prosegue dinanzi allo stesso giudice.

Onde è inammissibile il ricorso, ove la corte d'appello abbia emesso una pronuncia non definitiva, dichiarando la nullità del provvedimento impugnato, senza però rimettere gli atti al primo giudice (Cass.  S.U., n. 3556/2017). E si è ribadito che, invece, l'art. 360, comma 3, si applica se il giudice d'appello abbia pronunciato una sentenza parziale senza definire il giudizio innanzi a sé, dunque impartendo i provvedimenti per l'ulteriore sua prosecuzione (Cass.  S.U., n. 3556/2017).

È impugnabile, invece, la sentenza resa nella fase rescindente del giudizio di revocazione, in quanto le statuizioni contenute nella sentenza non definitiva relativa alla fase rescindente hanno carattere di definitività, stante l'incidenza diretta sulle determinazioni della sentenza revocanda ed avendo per oggetto l'accertamento del denunciato vizio della sentenza impugnata  (Cass. S.U., n. 21869/2019) .

Il ricorso straordinario per cassazione

L'ultimo comma della norma in commento prevede che le regole della formulazione dei motivi di ricorso e della inammissibilità del ricorso avverso provvedimenti che decidono mere questioni si applichino anche alle sentenze ed ai provvedimenti «diversi dalla sentenza contro i quali è ammesso il ricorso per cassazione per violazione di legge».

Il riferimento è al c.d. ricorso straordinario per cassazione ex art. 111, comma 7 (già 2), Cost., secondo cui contro le sentenze ed i provvedimenti sulla libertà personale «è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge».

Tale estensione del ricorso per cassazione ha riguardo non più alla stretta funzione di nomofilachia, ma alla tutela garantistica, quindi al profilo impugnatorio come garanzia meramente individuale. Può, pertanto, convenirsi con chi ha osservato che questa nuova previsione non è coerente con la concezione di Piero Calamandrei (Lupo, 4444; Denti, 31: «unificando nella medesima proposizione normativa il ricorso contro le sentenze e quello contro i provvedimenti sulla libertà personale, il costituente ha oscurato la sostanziale differenza tra i due tipi di garanzia, avendo inteso con la seconda attribuire alla Cassazione il ruolo, estraneo alla nostra tradizione, di tutela dell'habeas corpus»; circa le «dicotomie» del sindacato presso la S.C., v. Nappi, Il sindacato di legittimità, passim).

Sul fondamento di tale previsione, dalla quale dipendono molti dei problemi che oggi affliggono la Corte, si è molto ragionato. La possibilità di ricorrere sempre in Cassazione – senza distinzione di contenuti, natura del diritto, valore economico, fondatezza della censura – ha finito così per snaturare completamente la funzione di questo Ufficio, che dovrebbe fungere soprattutto da organo unificante della giurisprudenza, nel perseguimento  dell'interesse generale alla nomofilachia (e, quindi, alla certezza del diritto).

La Corte invero, come si è da tempo rilevato, senza che nei decenni si sia riusciti davvero a trovare una soluzione soddisfacente, «non decide su che cosa è opportuno decidere, e quindi opera come una variabile dipendente da altri fattori, come la litigiosità delle parti e la tendenza di queste ad allontanare nel tempo il momento in cui dovranno subire il giudicato» (Taruffo, 237)

Impugnabilità con ricorso straordinario delle «sentenze»

Presupposto del ricorso ex art. 111, comma 7, Cost. è che si tratti di «sentenze».

Sono, così, impugnabili per cassazione quelle per  le quali non esiste altro mezzo di impugnazione: come le sentenze di lavoro che abbiano deciso una controversia fino ad euro 25,82, ai sensi dell'art. 440 c.p.c.; le sentenze sull'opposizione agli atti esecutivi ex art. 618; le sentenze su giudizio di equità concordato ex art. 114; la sentenza emessa all'esito del giudizio di merito conseguente all'accertamento tecnico preventivo in materia di invalidità previdenziale e assistenziale di cui all'art. 445-bis  (Cass. n. 13550/2015; Cass. n. 12332/2015; ma non l'ordinanza che, per effetto della mancata comparizione delle parti alla prima udienza, dichiari l'estinzione del procedimento: Cass. n. 8932/2015); né la statuizione contenuta nel decreto di omologa, destinata ad essere travolta dalla decisione che sarà assunta in sede di giudizio ordinario: Cass. n. 25299/2019).

La Cassazione da sempre ritiene che il portato della locuzione «sentenze» stia nella capacità al giudicato: onde la norma è stata oggetto di una lettura estensiva: la quale si riassume in ciò, che il ricorso è dato non già avverso le sole sentenze, intendendo con esse quei provvedimenti ai quali il legislatore abbia attribuito detta forma, ma contro tutti i provvedimenti, ivi compresi le ordinanze ed i decreti, simultaneamente caratterizzati dal duplice requisito della decisorietà e della definitività (c.d. sentenze in senso sostanziale) (cfr., fra le altre, per la sua chiarezza, Cass. n. 21522/2016).

I requisiti così sanciti sono, quindi,  la decisorietà, nel senso che incidano su diritti o status; la definitività, in quanto viga il giudicato, quale situazione ex art. 2909 c.c. in cui l'accertamento giudiziale e l'attribuzione dei beni della vita non possono più essere rimessi in discussione in nessun modo e a nessuna condizione, o, più in generale, quando manchi un rimedio impugnatorio e il provvedimento non sia modificabile/revocabile ad opera dello stesso giudice che lo ha emesso.

Ipotesi di impugnabilità

Si è così sancita la ricorribilità col ricorso straordinario per cassazione:

a) dell'ordinanza resa dalla corte di appello, in sede di reclamo, contro il provvedimento del presidente del tribunale di determinazione del compenso degli arbitri exart. 814 c.p.c. (Cass. S.U., n. 25045/2016, superando l'orientamento di Cass. n. 3069/2013; Cass.S.U. , n. 13620/2012; Cass.S.U. , n. 15586/2009);

b) dell'ordinanza conclusiva del procedimento per la liquidazione delle spese, degli onorari e dei diritti dell'avvocato nei confronti del proprio cliente, previsto dall'art. 28 l. n. 794/1942, come modificato dall'art. 34 d.lgs. n. 150/2011 (Cass. n. 10410/2018), posto che tali controversie sono trattate con il rito sommario di cognizione e l'ordinanza che definisce il giudizio è espressamente dichiarata non appellabile;

c) del decreto con cui la corte di appello rigetta o dichiara inammissibile la domanda di separazione dei beni mobili del defunto da quelli dell'erede exart. 517 c.c.  (Cass. S.U., n. 11849/2018);

d) del provvedimento reso all'esito dell'opposizione a decreto di pagamento di spese di giustizia, proposta ai sensi dell'art. 170 d.P.R. n. 115/2002 al presidente dell'ufficio giudiziario competente (Cass. n. 21879/2019; Cass.  n. 4020/2011);

e) dell'ordinanza con cui il tribunale abbia dichiarato inammissibile, invece che disporre il mutamento del rito, una opposizione agli atti esecutivi ex art. 617, proposta con le forme degli artt. 702-bis ss., ritenute incompatibili con la struttura del rito sommario (Cass. n. 18331/2019);

f) del decreto del tribunale che abbia dichiarato esecutivo il piano di riparto parziale, pronunciato sul reclamo avente ad oggetto il provvedimento del giudice delegato, nella parte in cui decide la controversia concernente il diritto del creditore concorrente a partecipare al riparto dell'attivo e quello degli ulteriori interessati ad ottenere gli accantonamenti nei casi previsti dall'art. 113 l.fall. (Cass. S.U., n. 24068/2019, questione rimessa dalla ord. interl. Cass. n. 9256/2018).

Ipotesi di non impugnabilità

Viceversa, sono ritenute inimpugnabili ex art. 111 Cost. tutte le ordinanze non decisorie e non definitive, di cui numerose le ipotesi: le ordinanze istruttorie (Cass. n. 11870/2014);il provvedimento con il quale il giudice autorizza o nega la chiamata in causa di un terzo ad istanza di parte (Cass. n. 21706/2019);

l'ordinanza che decide sulla sospensione della provvisoria esecuzione della sentenza (Cass. n. 13774/2015; Cass. n. 7498/2014; con riguardo alla sospensiva da parte del Consiglio di Stato, Cass.S.U. , n. 24247/2015)e neppure quella che irroga, ai sensi dell'art. 283, comma 2, la sanzione pecuniaria (Cass. n. 19247/2019); l'ordinanza con la quale, in pendenza del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, sia concessa o negata l'esecuzione provvisoria al provvedimento monitorio (Cass. S.U., n. 24659/2019 e Cass. n. 13942/2014, neppure nel caso in cui il giudice esamini questioni di merito per valutare il fumus del credito); l'ordinanza cautelare, neppure ove abbia natura anticipatoria (Cass. S.U. , n. 27187/2007; nonché es. Cass. n. 9830/2018, sull'ordinanza pronunciata in sede di reclamo cautelare exart. 669-terdecies;  Cass. n. 12229/2018 e Cass. n. 20954/2017, pur in presenza di un asserito provvedimento abnorme; Cass. n. 23763/2016), fra cui pure quella emessa in sede di reclamo avverso il diniego della tutela inibitoria richiesta, in via di urgenza, ai sensi dell'art. 140, comma 8, d.lgs. n. 206/2005 (per l'abrogazione dell'art. 140, v. artt. 5, 7 l. n. 31/2019)  (Cass. n. 15825/2014);  il provvedimento di consulenza tecnica preventiva ex art. 696-bis, nemmeno sulle spese (Cass. n. 23976/2019; Cass. n. 26573/2018).

Del pari, tutti i provvedimenti, in particolare i decreti, di volontaria giurisdizione: quali i provvedimenti emessi in materia di esercizio della potestà sul figlio minore riconosciuto (ex multis, Cass. S.U., n. 3701/2017); la decisione resa in sede di reclamo avverso il provvedimento del giudice tutelare che ha rigettato la richiesta di sostituzione di un tutore (Cass. n. 17104/2019); il provvedimento di nomina ex art. 1105, comma 4, c.c., dell'amministratore della cosa comune in caso di inerzia dei partecipanti alla comunione (Cass. n. 15548/2017, salvo che il provvedimento, travalicando i limiti previsti per la sua emanazione, abbia risolto in sede di volontaria giurisdizione una controversia su diritti soggettivi); il decreto di nomina dell'esperto per la valutazione delle azioni in ipotesi di recesso del socio Cass. n. 3883/2014); il decreto reiettivo del reclamo avverso il provvedimento di rigetto dell'ammissibilità del piano del consumatore (Cass. n. 20917/2017; Cass. n. 1869/2016) e il provvedimento reiettivo del reclamo proposto avverso il decreto di rigetto di una proposta di accordo di composizione della crisi da sovraindebitamento (Cass. n. 4499/2018; Cass. n. 6516/2017); il decreto reiettivo della  definizione agevolata del giudizio di responsabilità amministrativa, ai sensi dell'art. 1, commi 231, 233, l. n. 266/2005, avverso il decreto della sezione giurisdizionale d'appello della corte dei conti (Cass. S.U., n. 16978/2018; Cass. S.U., n. 20588/2008).

Non sono altresì impugnabili neppure con ricorso straordinario per cassazione:

- il decreto che respinge l'istanza di fallimento, dal momento che nessun istante è portatore di un diritto all'altrui fallimento (Cass. n. 16411/2018;Cass. n. 5069/2017; Cass. n. 19446/2011Cass. n. 21834/2009;Cass. n. 15018/2001), né quello confermativo del rigetto in sede di reclamo (Cass. n. 6683/2015);

- il decreto con il quale il giudice delegato abbia respinto il reclamo diretto ad ottenere la revoca dell'autorizzazione all'esecuzione degli atti conformi al programma di liquidazione approvato dal comitato dei creditori (Cass. n. 1902/2018);

— il decreto con il quale il tribunale si pronuncia sul reclamo, ai sensi dell'art. 26 l. fall., contro il provvedimento, emesso dal giudice delegato in sostituzione del comitato dei creditori, di autorizzazione del curatore alla rinuncia alla liquidazione di uno o più beni dell'attivo fallimentare, ai sensi dell'art. 104-tercomma 8, l. fall. (Cass. n. 17835/2019);

- il decreto del tribunale fallimentare che, in sede di esecuzione del concordato fallimentare, si sia pronunciato su di una questione attinente alla misura di un credito da soddisfare (Cass. n. 6983/2018; Cass. n. 3921/2009);

- il decreto con il quale il tribunale fallimentare provvede, ai sensi dell'art. 36 l. fall., sul reclamo avverso il decreto del giudice delegato adìto contro gli atti di amministrazione del curatore (Cass. n. 11217/2018);

il decreto con cui il tribunale respinge il reclamo proposto contro la decisione di rigetto della domanda di apertura della liquidazione del patrimonio del sovraindebitato, disciplinata dagli art. 14-ter ss. l. n. 3/2012, come modificata dal d.l. n. 179/2012, conv. in l. n. 221/2012  (Cass. n. 17836/2019);

- il decreto reso in sede di reclamo avverso il decreto di rigetto della richiesta di restituzione dei beni mobili con la procedura semplificata prevista dall'art. 87-bis l.fall., peraltro inidoneo a precludere la tutela del richiedente nella diversa sede della verifica del passivo, tramite la domanda di cui all'art. 103 l. fall. (Cass. n. 10833/2021);

- il provvedimento dichiarativo dell'improcedibilità dell'opposizione a decreto ingiuntivo per difetto di costituzione dell'opponente, che ha valore sostanziale di sentenza ed è quindi impugnabile con l'appello e non con l'art. 111 Cost. (Cass. n. 9772/2016);

- l'ordinanza che decide sulla ammissibilità dell'azione di classe ex art. 140-bis d.lgs. n. 206/2005 (per l'abrogazione dell'art. 140-bis, v. artt. 5, 7 l. n. 31/2019), in quanto priva del carattere della decisorietà (Cass. n. 7244/2018;  Cass. n. 23631/2016);

- rimessa al primo presidente della Corte di cassazione, affinché valuti l'opportunità dell'assegnazione alle Sezioni unite, la questione concernente l'ammissibilità del ricorso avverso l'ordinanza, resa in sede di reclamo dalla corte d'appello, che dichiara inammissibile l'azione di classe (Cass. n. 8433/2015), le S.U. hanno deciso per la non impugnabilità, ove l'azione sia finalizzata alla tutela risarcitoria dei singoli, e non di un interesse collettivo, posto che quel diritto del singolo resta tutelabile con l'azione risarcitoria individuale (Cass. S.U., n. 2610/2017);

- l'atto di apertura del procedimento disciplinare disposto dal consiglio dell'ordine territoriale a carico di un avvocato, che è mero atto amministrativo (Cass. S.U. , n. 10140/2012Cass. S.U. , n. 28335/2011).

L’ordinanza di inammissibilità dell’appello

Un cenno particolare merita, per la novità dello strumento processuale, la questione della ricorribilità dell'ordinanza ex art. 348-ter, rinviando per ogni approfondimento alla sede apposita.

Le Sezioni unite della Cassazione (Cass. S.U., n. 1914/2016) hanno statuito che l'ordinanza che abbia dichiarato inammissibile l'appello ai sensi dell'art. 348-ter  è ricorribile per cassazione, ai sensi dell'art. 111, comma 7, Cost., limitatamente ai vizi suoi propri costituenti violazioni della legge processuale (quali, per esempio, l'inosservanza delle specifiche previsioni di cui agli artt. 348-bis, comma 2, e 348-ter, commi 1, primo periodo, e 2, primo periodo), purché compatibili con la logica e la struttura del giudizio ad essa sotteso.

In precedenza, la S.C. era andata di diverso avviso  (Cass. n. 19944/2014Cass. n. 8940/2014Cass. n. 8941/2014Cass. n. 8942/2014Cass. n. 8943/2014; conf. Cass. n. 20470/2015; ma era stato ammesso il ricorso per Cassazione contro l'ordinanza pronunciata fuori dei casi previsti dalla legge: Cass. n. 7273/2014).

Quindi, la decisione che pronunci l'inammissibilità dell'appello per mancanza di procura è impugnabile con ricorso ordinario per cassazione, trattandosi, nella sostanza, di una sentenza di carattere processuale (Cass. n. 20926/2019; Cass. n. 9343/2024).

È inoltre ricorribile per cassazione, ai sensi dell'art. 111 Cost., l'ordinanza di inammissibilità dell'appello in questione, resa tuttavia prima dell'entrata in vigore delle norme che la prevedono: infatti, la trasgressione della disciplina intertemporale cagiona un vizio proprio dell'ordinanza per violazione della legge processuale (Cass. n. 12127/2016).

Secondo alcune pronunce (Cass. n. 5655/2018; Cass. n. 3023/2018), Inoltre, si è deciso (Cass. n. 3023/2018) che l'ordinanza di inammissibilità, nella quale tuttavia si discorra pure dell'inesattezza della motivazione della sentenza di primo grado e che sostituisca ad essa una diversa argomentazione in punto di fatto o di diritto, ha contenuto sostanziale di sentenza di merito ed è ricorribile per cassazione, ai sensi dell'art. 360: resta fermo, però, il termine prescritto dall'art. 348-ter, comma 3, atteso che, applicando all'ordinanza avente contenuto di sentenza il termine lungo dalla comunicazione ex art. 327, il decorso di distinti termini per impugnare i due provvedimenti comporterebbe il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, rendendo incomprensibile la ricorribilità avverso l'ordinanza.

Ma è, in ogni caso, inammissibile il ricorso per cassazione (cfr. Cass. n. 23334/2019;Cass. n. 13835/2019) , quando l'ordinanza di inammissibilità dell'appello compia un mero percorso argomentativo “parzialmente diverso” da quello seguito in primo grado. Il punto, insomma, sta nel valutare se la decisione della corte territoriale sia, o no, fondata su di una ratio decidendi veramente autonoma e diversa, sostanziale e processuale .

Altre decisioni (Cass. n. 15644/2017; Cass. n. 13923/2015), condividendo il principio della ricorribilità in Cassazione in tali casi, in cui in sostanza la corte d'appello statuisca sulla pronuncia di primo grado, hanno, inoltre, negato l'applicabilità del comma 3 dell'art. 348-ter , che esclude il vizio ex  n. 5 del comma 1 dell'art. 360. 

In caso di proposto appello avverso una sentenza inappellabile ed esso sia dichiarato inammissibile ex art. 348-bis, comma 1, la proposizione del ricorso per cassazione ex art. 348-ter, comma 3, non rimette in termini il ricorrente anche ai fini della proposizione del ricorso straordinario ai sensi dell'art. 111 Cost. avverso la sentenza di primo grado, essendosi formato il giudicato in difetto di tempestiva impugnazione (Cass. S.U., n. 9868/2021) .

L’amministratore di sostegno

Per la rilevanza e la relativa novità del tema, si dedica pure ad esso un apposito sottoparagrafo, rinviando al paragrafo seguente alcune più generali considerazioni sull'impugnazione dei provvedimenti camerali.

Il procedimento per la istituzione di un'amministrazione di sostegno ha struttura unilaterale, in quanto parte necessaria è il beneficiario dell'amministrazione; al procedimento, peraltro, partecipano il ricorrente, il beneficiario ed altre persone, indicate in ricorso, le cui informazioni il giudice ritenga utili ai fini dei provvedimenti da adottare (art. 713 c.p.c.).

Al riguardo, si è ritenuta (Cass. n. 23707/2012) non legittimata a proporre il ricorso per la nomina dell'amministratore di sostegno in proprio favore la persona che si trovi nella piena capacità psico-fisica, presupponendo l'attivazione della procedura la sussistenza della condizione attuale d'incapacità, e ciò, nonostante che l'art. 408 c.c. ammetta la designazione preventiva dell'amministratore da parte dell'interessato. Si noti che la c.d. designazione de  futuro, prevista dalla menzionata disposizione, si esplica mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata, restando circoscritta nell'ambito di un'iniziativa privata, senza l'intervento del giudice: valida nel momento genetico, la sua funzione è però destinata a compiersi, mediante il  dispiegarsi effettivo dei suoi effetti, al realizzarsi della condizione  personale avuta presente, e nell'alveo del procedimento giurisdizionale  conseguentemente  attivato,  attraverso  la   nomina  conforme da parte del giudice tutelare.

Per quanto riguarda specificamente la ricorribilità in cassazione dei provvedimenti in questa materia, si ricorda l'art. 720-bis c.p.c., introdotto  dalla l. 9 gennaio 2004, n. 6, il quale prevede che ai «procedimenti in materia di amministrazione di sostegno si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni degli artt. 712, 713, 716, 719  e 720. Contro il decreto del giudice tutelare è ammesso reclamo alla corte d'appello a norma dell'art. 739. c.p.c.  Contro il decreto della corte d'appello pronunciato ai sensi del secondo comma può essere proposto ricorso per cassazione».

Dunque, la norma contempla espressamente il ricorso contro il decreto della corte d’appello che definisce i reclami avverso i provvedimenti del giudice tutelare.

Tuttavia, da tempo la S.C. ha esposto le ragioni di ordine sistematico, le quali inducono a circoscrivere l'ambito del ricorso per cassazione in materia, reputando che tale norma  sia  riferibile  soltanto ai  decreti  di  indiscutibile carattere  decisorio,  quali i decreti che dispongono l'apertura o la chiusura  dell'amministrazione o che la revocano, i quali sono invero, per  contenuto, assimilabili alle sentenze di interdizione e di inabilitazione, a norma dei precedenti art. 712 ss. c.p.c., espressamente richiamati dal comma 1 dell'art. 720-bis  c.p.c.

Si tratta, in sostanza, del medesimo principio già enunciato in materia di interdizione (posto che, del resto, l'art.  384 c.c. è richiamato dall'art. 411, comma 1, c.c.): dove, appunto, è inammissibile il ricorso  per cassazione ex art. 111 Cost. proposto avverso il decreto con  il  quale il tribunale provveda, in sede di reclamo, avverso il provvedimento del giudice tutelare di revoca di un tutore, privo del carattere della decisorietà, configurandosi come intervento di tipo ordinatorio ed amministrativo, insuscettibile di passare in cosa giudicata, essendo sempre revocabile e modificabile per la sopravvenienza di nuovi elementi di valutazione (Cass. n. 11019/2010; Cass. n. 2205/2003).

Non può dirsi altrettanto, invece, quando  si  verta – come è assai frequente –  in  tema di meri provvedimenti a carattere gestorio quali sono quelli che  nominano, sospendono o rimuovono l'amministratore di sostegno o assumono altri ordini o autorizzazioni verso l'amministratore di sostegno nominato.

In tal caso, è quindi censurato con l'inammissibilità il ricorso per cassazione avverso: il provvedimento di mera designazione o sostituzione dell'amministratore, in quanto avente natura amministrativa e gestoria (Cass. n. 9839/2018) e, del pari, il decreto emesso sul reclamo avverso la designazione o nomina o sostituzione dell'amministratore  di sostegno,  trattandosi  di un provvedimento, logicamente  e tecnicamente distinto da  quello che dispone l'amministrazione (Cass. n. 22693/2017; Cass. n. 2985/2016; Cass. n. 11657/2012; Cass. n. 13747/2011; Cass. n. 10187/2011); il provvedimento con il quale il giudice tutelare ordini all'amministratore di sostegno di revocare il coadiutore, nominato ai sensi dell'art. 408,  comma 4, c.c., che ha carattere meramente ordinatorio ed amministrativo, sempre revocabile e modificabile (Cass. n. 5123/2018); il decreto che liquida indennità in favore dell'amministratore (che neppure sono suscettibili di reclamo alla corte d'appello, bensì al tribunale in composizione collegiale) (Cass. n. 784/2017); il decreto emesso dalla corte d'appello, all'esito del reclamo su un provvedimento reso dal giudice tutelare in tema di autorizzazione alla riscossione di somme capitali, ai sensi dell'art. 374, comma 1, n. 2, c.c., da parte del beneficiario di amministrazione di sostegno, perché ha mero carattere gestorio (Cass. n. 3493/2018).

Ma si è ritenuto (Cass. n. 14158/2017) che sia reclamabile il decreto con cui il giudice tutelare si sia pronunciato sulla domanda proposta dall'amministratore di sostegno di autorizzazione ad esprimere, in nome e per conto dell'amministrato, il consenso o il rifiuto alla sottoposizione a terapie mediche, quale provvedimento definitivo avente natura decisoria su diritti.

Si ricorda che comunque i decreti del giudice tutelare sulla gestione dell'amministrazione di sostegno sono reclamabili al tribunale in composizione collegiale e non alla corte d'appello, ai sensi dell'art. 739 c.p.c., mentre non si applica l'art. 720-bis c.p.c., che riguarda soltanto i reclami contro i decreti decisori di apertura e di revoca dell'amministrazione di sostegno (Cass. n. 784/2017).

Consiste, poi, in error in iudicando, dunque denunziabile per Cassazione, la mancata partecipazione del p.m. ad entrambi i gradi di merito, la quale comporta la cassazione del decreto della corte di appello e la remissione del giudizio dinanzi al giudice di primo grado (Cass. S.U., n. 1093/2017).

Il giudicato rebus sic stantibus nel ricorso straordinario per cassazione

Il giudicato, contemplato dagli artt. 2909 c.c. e art 324 c.p.c., sancisce il limite ultimo di regolamentazione della situazione giuridica: si forma la cosa giudicata e l'accertamento fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa.

Accertamento intangibile: sino al punto che neppure successivi mutamenti della normativa di riferimento, o l'abrogazione della norma ad opera della Corte costituzionale per contrasto con i principi della Costituzione, oppure la scoperta della falsità del giuramento (salvi solo i casi di revocazione straordinaria, che per l'appunto è tale) possono metterlo in discussione.

L'istituto del giudicato costituisce scelta legislativa che opera il bilanciamento tra le opposte esigenze ed una delle principali espressioni del valore della certezza del diritto.

La predetta definitività trova invero fondamento nel principio della certezza del diritto, volto a riconoscere l'effetto della intangibilità ed irretrattabilità delle situazioni giuridiche, in ogni ordinamento limite invalicabile, entro il quale i rapporti giuridici non possono più essere messi in discussione (cfr. Cass. n. 25508/2013; Cass. n. 18339/2003).

Ma è stata poi coniata la formula del «giudicato rebus sic stantibus».

Con l'espressione si è inteso qualificare il carattere dell'atipica e peculiare intangibilità di una statuizione giudiziale, suscettibile di essere comunque rimessa in discussione, sebbene solo in presenza della modificazione delle condizioni esistenti al momento della pronuncia, la quale permetta o imponga una nuova valutazione da parte del giudice in ordine alla situazione di fatto sopravvenuta (cfr. es. Cass. n. 4451/2018, sulla procedura di sovraindebitamento; Cass. n. 3302/2017, in tema di provvedimenti per gli ascendenti; Cass. n. 23633/2016, sulla potestà genitoriale; Cass. n. 6132/2015, sui figli nati fuori dal matrimonio).

Dunque, con essa si designano quelle ipotesi in cui, dopo la pronuncia, ciascuno degli interessati potrebbe, quando non la ritenga più rispondente ai suoi interessi in ragione di evenienze sopravvenute, riaprire il dibattito, chiedendone la modifica: ma, si dice, non sulla base delle medesime circostanze già esistenti e considerate, dovendo addurre circostanze (res) nuove.

Ciò basterebbe all'utilizzo del termine «giudicato»: che, però, nell'ordinamento ha ben altra portata. Dunque, insuperabile, e non necessario, ossimoro.

I provvedimenti di giurisdizione camerale o volontaria o non contenziosa mirano, per la maggior parte dei casi, ad adeguare costantemente la realtà giuridica a quella di fatto. In aderenza al mutamento delle condizioni concrete, al fine di operare un regolamento degli interessi quanto più aderente alle esigenze materiali, l'ordinamento in taluni casi consente la riconsiderazione della situazione, ad opera dello stesso giudice che abbia provveduto, o di un giudice superiore.

Sono i casi in cui il soggetto, ove mutino le circostanze, ha il potere (ma potrebbe darsi anche il dovere) di ricorrere nuovamente al giudice, per chiedere la revoca, la modifica o l'integrazione del precedente provvedimento, che non si adatta più a regolare al meglio la mutata situazione di fatto. 

Vi sono, infine, talune situazioni in cui il legislatore ha escluso persino questa non definitiva stabilità, non richiedendosi neppure un mutamento delle circostanze per rimettere in discussione un dato regolamento giudiziale degli interessi: sono i casi (cfr. artt. 333 e 337-quinquies c.c.; art. 710 c.p.c.) in cui la scelta è stata quella, ispirata alla particolare delicatezza delle situazioni coinvolte, della continua ed aperta possibilità di riconsiderazione anche allo stato degli atti, sovente ad istanza del pubblico ministero.

Nel descrivere il regime dei provvedimenti in esame, dunque, in molte occasioni la Cassazione ha parlato di giudicato rebus sic stantibus: l'espressione suggerisce che l'efficacia in questione sia una declinazione della cosa giudicata; ma se riferita ai provvedimenti camerali, modificabili e revocabili sulla sola base di fatti sopravvenuti, appare un'espressione impropria, la irrevocabilità rebus sic stantibus dei provvedimenti camerali sembrando diversa dalla cosa giudicata.

In dottrina, la distinzione fra la cosa giudicata e l'irrevocabilità rebussic stantibus è generalmente riconosciuta (cfr., per riferimenti, Tiscini, 152 ss.). Si osserva (Turroni, 1344) che l'irrevocabilità rebus sic stantibus dei provvedimenti camerali è diversa dalla cosa giudicata: essi possono anche essere irrevocabili allo stato degli atti, ma questa irrevocabilità non traduce, come per il giudicato sostanziale, in un effetto di accertamento altrettanto esteso: la pienezza del vincolo richiede pienezza della cognizione. Nel complesso, l'irrevocabilità rebus sic stantibus evoca un «effetto conformativo» meno esteso di quello proprio della cosa giudicata sostanziale.

Il ricorso contro le sentenze del Tribunale superiore delle acque pubbliche

Il Tsap ha molteplici modalità decisorie, sia, ai sensi dell'art. 142 r.d. n. 1775/1933, quale giudice d'appello per le controversie decise in primo grado dal tribunale regionale delle acque pubbliche; sia quale giudice in unico grado degli interessi,  con competenza generale di legittimità oltre alla competenza estesa al merito, nelle ipotesi di cui all'art. 143, comma 1, lett. b), r.d. n. 1775/1933.

Ai sensi dell'art. 200 r.d. n. 1775/1933, contro le decisioni pronunciate in grado di appello dal Tsap è ammesso il ricorso alle sezioni unite della Corte di cassazione, per i motivi ivi indicati (incompetenza, eccesso di potere,  violazione o falsa applicazione di legge, o se si verifichi la contraddittorietà della motivazione): anche in tal caso, è prescritto che il Tribunale superiore si conformi alla decisione della Corte di cassazione sul punto di diritto sul quale essa ha pronunciato.

Al riguardo, si è ritenuto che, nel procedimento di secondo grado davanti al Tsap avverso pronuncia del tribunale regionale, si applichino le prescrizioni dettate dall'art. 342 (Cass. S.U., n. 31113/2017).

Anche al ricorso per cassazione avverso le sentenze emesse in grado di appello dal T.s.a.p. si applica la regola, prevista dall'art. 348-ter, commi 4 e 5, secondo cui la sentenza di appello che risulti fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della sentenza di primo grado (cd. doppia conforme) non è censurabile con il mezzo di cui all'art. 360, comma 1, n. 5, e ciò in ragione del disposto dell'art. 202 r.d. n. 1775/1933, che rinvia alle norme processuali vigenti del codice di procedura civile regolative dell'ordinario ricorso per cassazione, in quanto il rinvio operato alla disciplina del codice processuale del 1865 non deve intendersi come recettizio, ma come formale, con conseguente applicazione delle norme come mutate nel tempo (Cass. S.U., n. 19366/2019; Cass. S.U., n. 22430/2018).

Il ricorso alle Sezioni unite, di cui agli artt. 200-202 r.d. n. 1775/1933, è esperibile in caso di omesso esame di un motivo da parte del Tsap, non rientrando questa ipotesi ‒ a differenza dell'extrapetizione‒ tra quelle per le quali è prevista la rettificazione ai sensi dell'art. 204 dello stesso r.d. n. 1775/1933 (Cass. S.U., n. 20399/2019); per denunziare il vizio di extrapetizione, invece, pacificamente l'impugnazione esperibile è l'istanza di rettificazione al medesimo tribunale (Cass. S.U., n. 16979/2019;Cass. S.U., n. 9662/2014;Cass. S.U., n. 505/2011).

D'altro lato, anche le sentenze in unico grado del Tsap sono ricorribili per cassazione ed i termini per proporre il ricorso, ai sensi degli art. 201 e 202 r.d. n. 1775/1933, sono quelli indicati nell'art. 518 c.p.c. del 1865, ridotti alla metà, quindi di quarantacinque giorni, che decorrono dalla notificazione del dispositivo della sentenza, eseguita a cura del cancelliere, a norma dell'art. 183 r.d. n. 1775/1933 (Cass. S.U., n. 8048/2018;Cass. n. 15144/2011).

In precedenza, le Sezioni unite (Cass. S.U., n. 7607/2010), mutando il principio di diritto affermato,  avevano stabilito che, per le sentenze in unico grado, la successiva notifica della copia integrale del dispositivo fa comunque decorrere, indipendentemente dalla registrazione della sentenza, il termine breve di quarantacinque giorni predetto, rilevando il compimento della registrazione della sentenza, ove dovuta, esclusivamente a fini fiscali.

Proprio in ragione di tale nuovo orientamento, si è ritenuto – in applicazione del principio del prospective overruling – che la nuova esegesi non escluda tuttavia l'ammissibilità del ricorso proposto entro il termine lungo di cui all'art. 327, secondo le indicazioni della precedente lettura giurisprudenziale, quando la detta notifica era avvenuta prima del mutamento di giurisprudenza e la scadenza dell'indicato termine sia avvenuta appena tre giorni dopo la pubblicazione della citata sentenza  n. 7607/2010, non potendo reputarsi tale pronuncia oggettivamente conoscibile in tempo utile per l'impugnativa nel termine breve (Cass. S.U., n. 24413/2011).

La nuova lettura ha superato il dubbio di legittimità costituzionale, per violazione dell'art. 24 Cost., ritenuto infondato, perché essa consente comunque un adeguato esercizio del diritto di difesa (Cass. S.U., n. 26578/2013).

Il ricorso contro il decreto del Presidente della Repubblica

Si è posto il problema dell'ammissibilità del ricorso per cassazione contro il provvedimento con il quale il Presidente della Repubblica decide sul ricorso straordinario  al  Capo dello Stato.

Mentre in passato si affermava che quel decreto fosse un atto amministrativo e non giurisdizionale (Cass. S.U., n. 3141/1953; Cass. S.U., n. 2992/1968), quindi non ricorribile  per cassazione (Cass. S.U., n. 734/2005;Cass. S.U., n.  6075/1988;Cass. S.U., n. 903/1971) ed inidoneo a costituire  giudicato (Cass. S.U., n. 15978/2001) – con visuale condivisa dalla Corte costituzionale (Corte  cost. n.  254/2004Corte  cost., ord. n. 357/2004;Corte  cost.,  ord. n. 392/2004; Corte  cost. n. 282/2005) e dalla Corte europea  dei  diritti dell'uomo, laddove ritenne che le disposizioni della CEDU non trovino applicazione al ricorso straordinario al Presidente della Repubblica (Corte EDU, sez. XIII, 28 settembre 1999, Nardella c. Italia), ma disattesa dalla Corte di giustizia, che considerò ammissibili questioni di interpretazione di  norme comunitarie proposte dal Consiglio  di  Stato in  sede  di  parere  su  ricorso straordinario al Presidente della Repubblica (Corte di giustizia  CE, 16 ottobre 1997, cause C-69-79/96) – in seguito è stata accolta la tesi opposta (cfr. Cass. S.U., n. 19786/2015; Cass. S.U., n. 23464/2012; Cass. S.U., n. 10414/2014; Cass. S.U., n. 2065/2011), sulla base di numerosi nuovi indici  normativi, che ne hanno evidenziato l'avvenuta «giurisdizionalizzazione».

In particolare, il parere assolutamente vincolante del Consiglio di stato rende il decreto meramente dichiarativo di un giudizio formulato da un organo giurisdizionale in modo compiuto e definitivo; si è così concluso nel senso che il decreto presidenziale emesso, su conforme parere del  Consiglio di Stato, nel procedimento per ricorso straordinario,  ha  «natura sostanziale  di decisione di giustizia e quindi  natura  sostanziale giurisdizionale» (Cass. S.U., n. 23464/2012; nonché Corte cost., n. 73/2014; Cons. st., ad. plen., n. 9/2013; Cons. st., ad. plen., n. 10/2013; Cons. st., n. 1033/2014).

Ne deriva, in primo luogo, che il decreto presidenziale, nella parte in cui ricalca il parere vincolante  del Consiglio di Stato, può essere oggetto di ricorso straordinario per cassazione ex art. 111, comma  8, Cost.

Ne deriva, in secondo luogo, che i motivi peri quali può essere proposto il ricorso per cassazione contro il provvedimento che definisce il ricorso straordinario sono gli  stessi proponibili contro una decisione del Consiglio di  Stato, ai sensi dell'art.  362 c.p.c. (v. ivi).

Si è inoltre affermato (Cass. S.U., n. 9487/2019) come, laddove con il ricorso per cassazione si chieda la revocazione del decreto del Presidente della Repubblica, pronunciato su conforme parere del Consiglio di Stato, può essere prospettata questione di giurisdizione soltanto con riferimento al potere giurisdizionale relativo alla revocazione medesima, mentre resta esclusa la possibilità di mettere in discussione il suddetto potere con riguardo alla precedente decisione di merito.

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