Codice di Procedura Civile art. 426 - Passaggio dal rito ordinario al rito speciale 1 2 .[I]. Il giudice, quando rileva che una causa promossa nelle forme ordinarie riguarda uno dei rapporti previsti dall'articolo 409, fissa con ordinanza [134] l'udienza di cui all'articolo 420 e il termine perentorio [153] entro il quale le parti dovranno provvedere all'eventuale integrazione degli atti introduttivi [163 3, 167] mediante deposito di memorie e documenti [in cancelleria] [439]3. [II]. Nell'udienza come sopra fissata provvede a norma degli articoli che precedono.
[1] Articolo sostituito dall'art. 1 l. 11 agosto 1973, n. 533. La Corte cost., con sentenza 14 gennaio 1977, n. 14 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del combinato disposto dell'art. 426 c.p.c. e dell'art. 20 della legge medesima, nella parte in cui, con riguardo alle cause pendenti al momento dell'entrata in vigore della legge, non è prevista la comunicazione anche alla parte contumace dell'ordinanza che fissa l'udienza di discussione e il termine perentorio per l'integrazione degli atti. [3] Comma così modificato dall'art. 3, comma 5, lett. g) , d.lgs. 31 ottobre 2024, n. 164, che ha soppresso le parole tra parentesi quadre . Ai sensi dell’art. 7, comma 1, del medesimo decreto, le disposizioni di cui al d.lgs. n. 164/2024 cit. si applicano ai procedimenti introdotti successivamente al 28 febbraio 2023. Precedentemente il presente comma è stato modificato dall'art. 83 d.lg. 19 febbraio 1998, n. 51, con effetto, ai sensi dell'art. 247 comma 1 dello stesso decreto quale modificato dall'art. 1 l. 16 giugno 1998, n. 188, dal 2 giugno 1999.
InquadramentoLa norma in commento (alla quale il Correttivo alla c.d. Riforma Cartabia ha apportato modifiche dirette ad armonizzala con le regole del processo telematico), ed il successivo art. 427, regolano distintamente il congegno di passaggio dal rito ordinario al rito speciale ed il congegno di passaggio dal rito speciale al rito ordinario. Quantunque ciascuna delle due norme sarà singolarmente sottoposta ad analisi, occorre anzitutto effettuare alcune considerazioni di ordine generale — per le quali v., in dottrina, Trisorio Liuzzi, 70 — che riguardano il fenomeno trasformazione del rito del suo complesso. I punti da sottolineare sono cinque: a) l'errore nell'identificazione del rito applicabile costituisce, in linea di principio, mera irregolarità tale da non inficiare la validità del procedimento, salvo che l'applicazione dell'un rito in luogo dell'altro non abbia determinato uno specifico pregiudizio processuale ad una delle parti; l'omesso mutamento del rito, in altri termini, non spiega effetti invalidanti sulla sentenza, neanche in grado di appello, a meno che non abbia inciso sulla determinazione della competenza, sul contraddittorio, sui diritti della difesa o sul regime delle prove (Cass. n. 25274/2008; Cass. n. 8611/2006); b) conseguentemente, la doglianza relativa alla mancata adozione di un diverso rito, dedotta come motivo di impugnazione, è inammissibile per difetto di interesse qualora non si indichi uno specifico pregiudizio processuale che dalla sua mancata adozione sia concretamente derivato, in quanto l'esattezza del rito non deve essere considerata fine a sé stessa, ma può essere invocata solo per riparare una precisa ed apprezzabile lesione che, in conseguenza del rito seguito, sia stata subita sul piano pratico processuale (Cass. n. 11903/2008); ergo , la mancata assegnazione alle parti di un termine perentorio per l'eventuale integrazione degli atti mediante memorie o documenti vizia il procedimento, fino a poter determinare la nullità della sentenza, qualora la suddetta omissione abbia in concreto comportato pregiudizi o limitazioni del diritto di difesa. (Cass. n. 14186/2017, che ha confermato la sentenza di secondo grado che, statuita l'inammissibilità dei mezzi di prova dedotti in appello, ha escluso qualsivoglia pregiudizio alle garanzie difensive); c) la trasformazione del rito deve essere disposta d'ufficio, anche in grado d'appello, senza che occorra alcuna istanza in tal senso avanzata dalle parti, sicché il giudice del gravame, ove ravvisi che nel giudizio di primo grado non ha trovato applicazione il rito pertinente, lungi dal rimettere la causa al primo giudice, deve egli disporre — di « obbligo di provvedere al mutamento del rito » discorre p. es. Cass. n. 5544/1996 — la trasformazione del rito per poi decidere la causa nel merito; d) il provvedimento che dispone la trasformazione del rito assume forma di ordinanza e, non implicando — salvo quando si dirà in seguito con riguardo all'art. 427 — la soluzione di questioni di competenza, non è impugnabile, né con il regolamento di competenza (Cass. n. 15751/2002; Cass. n. 5174/2001), mentre — con le precisazioni che si faranno più avanti — è modificabile e revocabile; e) il provvedimento che dispone la trasformazione del rito non può essere disposto anteriormente all'udienza, senza che sia stato consentito alle parti di discutere il punto ( in dottrina, Trisorio Liuzzi, 72), mentre è indubbio che possa essere pronunciato in tutto il corso del giudizio, anche in fase decisoria, nonché in appello. Ancora in generale occorre dire che, se con l'ordinanza che dispone il mutamento del rito deve essere assegnato un termine perentorio per l'eventuale integrazione degli atti mediante memorie o documenti, la mancata assegnazione di detto termine, a cui faccia seguito l'immediata decisione della causa, determina ex se la nullità della decisione per l'impedimento frapposto alla possibilità delle parti di svolgere con completezza il diritto di difesa, cosicché l'indicazione di uno specifico pregiudizio processuale in concreto derivato dal rito adottato non è necessaria per far valere tale invalidità (Cass. n. 5196/2024). Al congegno della trasformazione del rito si di recente riferito, quale regola generale, il decreto legislativo sulla semplificazione dei riti (art. 4 d.lgs. n. 150/2011). Ed in proposito si è chiarito che l'art. 4 d.lgs. n. 150/2011, che disciplina il mutamento del rito in caso di controversia promossa in forme diverse da quelle previste nel medesimo decreto, concerne esclusivamente il ben determinato ambito di applicazione del testo normativo in cui è inserito, il quale non attiene a quanto era già disciplinato dal codice di rito all'epoca della sua emanazione, bensì a varie norme speciali che attribuivano alla fattispecie sostanziale delle peculiarità processuali, e ciò al fine di raggrupparle in tre modalità (il rito ordinario, il rito del lavoro ed il rito sommario), in un'ottica semplificativa-efficientistica, ovvero acceleratoria; ne deriva che il citato art. 4 non costituisce una norma generale abrogativa e sostitutiva delle norme specifiche di cui agli artt. 426 e art. 427, rispetto alle quali si pone come eccezione nei soli casi, compresi appunto nel decreto, in cui non sia stato fatto riferimento espresso a quelle che rimangono le due norme generali di coordinamento tra rito ordinario e rito lavoristico/locatizio (Cass. n. 13072/2018). Il passaggio dal rito ordinario al rito specialeL'analisi della norma in commento deve muovere dall'indagine delle ragioni poste a fondamento del meccanismo che governa il passaggio dal rito da ordinario a speciale. Utili considerazioni, in proposito, giungono da una decisione resa con specifico riguardo al rito del lavoro in cui si legge che la mens legis della sanatoria, cui dà adito l'art. 426, va ricercata nell'oggettiva difficoltà, ravvisabile in molti casi, di tracciare una sicura linea di confine fra controversie rientranti e non rientranti fra quelle a individuali di lavoro secondo la nozione dell'art. 409. Tale difficoltà ha suggerito al legislatore di evitare che dall'indebito utilizzo della citazione in luogo del ricorso possano derivare a carico della parte attrice effetti dannosi irreversibili (Cass. n. 5971/1995). La norma in esame richiede di soffermarsi sul diverso assetto del sistema preclusivo operante nel rito ordinario e in quello speciale. Difatti, mentre nel rito del lavoro, lo sbarramento delle preclusioni si verifica, salvo correzioni tutto sommato marginali, già con il deposito degli atti introduttivi, nel rito ordinario tanto il thema decidendum, quanto il thema probandum possono evolversi nella fase della trattazione, ex art. 183, dando luogo al deposito di documenti e alla formulazione di richieste istruttorie avanzate per la prima volta entro il secondo ed il terzo termine previsti dal comma 6 di quest'ultima disposizione, nel testo vigente. Ecco, allora, che, erroneamente introdotta una controversia di lavoro con citazione ex art. 163 anziché con ricorso ex art. 414, può accadere che tanto l'attore quanto il convenuto confidino sull'assegnazione dei menzionati termini per effettuare le necessarie produzioni documentali e deduzioni istruttorie: sicché, in mancanza dell'art. 426, i rispettivi atti introduttivi rimarrebbero monchi. E ciò rende dunque indispensabile l'adozione di uno strumento utile ad adeguare il processo al ritmo processuale, più stringente, che disciplina il rito speciale in luogo di quello ordinario. Il congegno così descritto, diretto a rimediare ad un errore dell'attore nella scelta del rito, non può trovare invece applicazione nel caso in cui l'estraneità del rapporto al paradigma di applicabilità dell'art. 409 emerga soltanto all'esito del giudizio e non alla stregua della domanda proposta. In tal senso, la dottrina ha osservato che, proprio perché il rito-competenza-merito si determinano dal modo di essere della situazione sostanziale controversa, secondo i principi generali, il rito e la competenza si determinano dalla domanda e non dall'effettivo modo di essere del diritto controverso, quale risulta dall'istruttoria effettuata nel processo ai fini del merito (Luiso, 2009, 25). Perciò, in giurisprudenza, si è detto — con riguardo ad un'ipotesi di un asserito mancato passaggio dal rito speciale al rito ordinario — che il giudice ha l'obbligo di provvedere al mutamento del rito solo quando la controversia si presenti, sin dall'atto introduttivo del giudizio, estranea alla materia sottoposta al rito speciale e non quando l'estraneità emerga al momento della decisione di merito, come conseguenza dell'accertamento e dell'istruzione probatoria effettuati per pervenire alla decisione medesima (Cass. n. 2368/2000; Cass. n. 5544/1996). I risultati dell'istruzione probatoria, insomma, al pari delle eventuali eccezioni del convenuto circa l'inesistenza del rapporto controverso o la natura del medesimo, attengono al merito della pretesa, di cui possono, in ipotesi, determinare il rigetto (Cass. n. 1916/1993). E dunque il passaggio dall'uno all'altro rito — ed eventualmente, nel caso di cui all'art. 427, la rimessione della causa ad altro giudice competente in applicazione dei criteri generali in materia — deve disporsi soltanto quando il rapporto dedotto in giudizio dall'attore si presenti prima facie estraneo alla previsione dell'art. 409 e non anche quando tale estraneità emerga a seguito dei risultati dell'istruttoria (v. Cass. n. 7561/1987; Cass. n. 4156/1983). La norma, in definitiva, è esclusivamente destinata ad affrontare e risolvere la questione di rito, senza implicazione alcuna sulla competenza, che abbia tratto origine dall'errore della parte attrice, la quale, introducendo una controversia locatizia, abbia proposto la domanda dinanzi al giudice effettivamente competente, ma abbia adottato il rito ordinario di cui agli artt. 163 ss. in luogo del rito del lavoro. Nel caso in cui, invece, l'attore, nell'introdurre la controversia, sia non soltanto incorso nell'errore sulla scelta del rito, ma abbia altresì adito un giudice incompetente per materia o territorio, l'applicazione dell'art. 426 varrà a porre rimedio alla sola questione di rito, ma non a quella di competenza, sulla quale occorrerà provvedere ai sensi dell'art. 38 in caso di incompetenza per materia ovvero dell'art. 428 in caso di incompetenza per territorio. Nelle due ipotesi menzionate il provvedimento di trasformazione del rito ex art. 426 sarà bensì necessario al fine dell'adozione del rito previsto dalla legge per le cause locatizia, ma non sufficiente ad ovviare al duplice errore dell'attore, per il cui fine occorrerà pronunciare sentenza dichiarativa dell'incompetenza. In questa fase, alla trasformazione del rito può accoppiarsi lo spostamento della causa da una sezione all'altra del medesimo tribunale, in funzione dei criteri tabellari di suddivisione delle controversie tra le sezioni, ovvero dalla sede centrale ad una sezione distaccata e viceversa. Termini a quo e ad quem per il mutamento del rito da ordinario a specialeSi è già accennato, anzitutto, che il provvedimento di trasformazione del rito, secondo un'opinione che pare vedere concorde la dottrina, non può essere preso in un momento precedente l'udienza, dovendo il giudice disporre il mutamento sempre in contraddittorio. In tal senso, possono trarsi argomenti sia dal rilievo che l'art. 426 stabilisce, per il provvedimento di trasformazione del rito, la forma dell'ordinanza e non del decreto — con conseguente esigenza di una pur sobria motivazione, altrimenti superflua, che tenga conto delle rispettive opinioni sul punto —, sia dal riferimento della stessa norma alle « parti », le quali vanno poste in condizioni di interloquire sulla questione. Ancor più a monte, sul piano dei principi generali, sembra potersi far leva, al fine di pervenire al medesimo esito interpretativo, sul dovere del giudice di sottoporre al dibattito processuale ogni questione, pur rilevabile d'ufficio, ogni qual volta essa possa comportare nuovi sviluppi della lite non presi in considerazione dalle parti (su questo tema v. Cass. n. 10372/2001; Cass. n. 14637/2001; Cass. n. 16577/2005; Cass. n. 21108/2005). Sulla base delle considerazioni che precedono, dunque, deve escludersi che il giudice possa disporre il passaggio dal rito ordinario a quello speciale nel momento in cui la causa, introdotta con citazione ex art. 163, gli perviene per l'eventuale differimento di cui all'art. 168-bis, comma 5. E deve a maggior ragione escludersi che la trasformazione del rito possa essere disposta, in una fase ancora precedente, dal presidente del tribunale per l'assegnazione alla sezione o per la designazione del giudice istruttore, ovvero per la medesima designazione da parte del presidente della sezione. Questioni non particolarmente ostiche suscita anche l'individuazione del momento finale entro cui il giudice deve provvedere alla trasformazione del rito. In linea generale, è condivisa l'affermazione dell'art. 426 può trovare applicazione anche ad istruttoria ultimata, nonché in fase di decisione. Ed in proposito, in dottrina, si è chiarito che il giudice deve provvedere alla fissazione dell'udienza di discussione, con l'assegnazione dei termini di cui all'art. 426 anche qualora la trasformazione del rito venga disposta in fase decisoria, perché le più severe preclusioni che, nel rito speciale, colpiscono le parti, anche riguardo al giudizio d'appello, rendono ingiustificabili un mutamento di rito a contraddittorio chiuso (Tarzia, 207). Non sembra condivisibile la tesi di un autore secondo cui, dopo la chiusura dell'istruttoria, la riapertura del contraddittorio, per effetto del mutamento del rito, dovrebbe essere disposta solo in seguito ad una valutazione delle circostanze del caso concreto da parte del giudice, il quale potrebbe disapplicare l'art. 426 nel caso in cui, e previa valutazione della situazione concreta, la mancata instaurazione del contraddittorio sul punto non porti ad alcuna lesione o limitazione delle garanzie difensive (Tizi, 2145). Contenuto dell'ordinanza di trasformazione del ritoNel disporre la trasformazione del rito, il giudice deve fissare l'udienza di discussione di cui all'art. 420, nonché il termine perentorio entro il quale le parti devono provvedere all'eventuale integrazione degli atti introduttivi mediante deposito in cancelleria di memorie e documenti. Quanto al contenuto dell'ordinanza di trasformazione del rito, occorre in primo luogo dire che essa richiede di essere « succintamente motivata » (art. 134). E la motivazione consisterà essenzialmente nell'illustrazione delle ragioni che impongono la prosecuzione del giudizio, ma potrà altresì estendersi alla concreta determinazione del termine o dei termini da assegnare per l'integrazione degli atti. Deve quindi ricordarsi che, secondo la giurisprudenza di legittimità, la determinazione del termine che, ex art. 426, il giudice assegna in caso di trasformazione del rito, è rimesso alla discrezionalità del giudice, restando escluso che il termine stesso debba essere di almeno trenta giorni ai sensi del penultimo comma dell'art. 415 (Cass. n. 2657/1984). Né, tantomeno, è previsto che debba essere concesso un doppio termine, l'uno al ricorrente e l'altro al resistente. Tuttavia, sembra opportuno che l'ordinanza di trasformazione del rito ricalchi, per quanto è possibile, la scansione temporale propria dell'introduzione del rito del lavoro, e che, pertanto, siano assegnati termini distinti — trenta giorni al ricorrente, come da art. 415, comma 5, e dieci giorni al resistente, come da art. 416, comma 1 —, con l'espressa indicazione delle attività che le parti possono compiere. Bisogna infine osservare che, se l'ordinanza di trasformazione del rito ha il contenuto fisiologico finora esposto, essa è tale anche in mancanza dell'assegnazione del termine, purché il giudice abbia stabilito che il processo debba seguire l'applicazione del rito speciale e non del rito ordinario (Cass. n. 4620/1999). Comunicazione dell'ordinanza di trasformazione del ritoL'ordinanza di trasformazione del rito pronunciata in udienza si ha per conosciuta dalle parti presenti, mentre va comunicata alle parti costituite in giudizio, se pronunciata fuori udienza, a cura del cancelliere (artt. 134, comma 2, 176, comma 2, 170). Essa, inoltre, va comunicata al resistente non comparso, in applicazione del principio formulato da Corte cost. n. 14/1977. L'omessa notifica al convenuto contumace dell'ordinanza di trasformazione del rito determina nullità del giudizio (v. Cass. n. 24341/2015; Cass. n. 3277/1982; Cass. n. 2078/1981). Impugnabilità e revocabilità dell'ordinanza di trasformazione del ritoÈ costante, nella giurisprudenza della S.C., il principio della non impugnabilità dell'ordinanza di trasformazione del rito la quale ha un carattere meramente ordinatorio e non contiene un'implicita statuizione sulla questione di competenza (Cass. n. 9590/2000). Di qui la pronuncia ha tratto l'inammissibilità del regolamento di competenza proposto contro l'ordinanza di trasformazione del rito (Cass. n. 5174/2001; Cass. n. 5071/2001). Altrove la S.C. ha parimenti escluso, in ragione del carattere non decisorio del provvedimento, l'impugnabilità dell'ordinanza di trasformazione del rito mediante ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost. (Cass. n. 5944/1999; Cass. n. 514/1998). È invece discusso il regime della revocabilità dell'ordinanza di trasformazione del rito. Secondo alcuni, l'ordinanza di trasformazione del rito sarebbe « insuscettibile di revoca, anche implicita » (Montesano e Arieta, 178). Occorre però precisare che quest'ultima affermazione viene sostenuta con l'autorità di una pronuncia (Cass. n. 8507/1992), la quale sembra aver esclusivamente negato che, disposta la trasformazione del rito ordinario in speciale, la pronuncia della sentenza effettuata senza lettura del dispositivo potesse assumere il significato di un implicito provvedimento di (ri)trasformazione del rito speciale in ordinario. Anche in altra occasione la giurisprudenza ha escluso la configurabilità di una revoca implicita dell'ordinanza di trasformazione del rito per il fatto che, assoggettata la causa al rito del lavoro, essa sia stata poi erroneamente decisa con sentenza pronunciata ai sensi dell'art. 190 (Cass. n. 9014/2009). Secondo altri, opererebbe nella specie un regime di revocabilità attenuato, nel senso che la revoca dell'ordinanza di trasformazione del rito potrebbe avvenire solo ad istruttoria esaurita sulla base di una valutazione globale delle risultanze di causa, cui potrebbe esclusivamente seguire l'invito ad una nuova discussione con particolare riferimento all'oggetto della domanda (Tarzia, 2008, 210). Altri ancora ritengono l'ordinanza di trasformazione del rito revocabile alla stregua dei principi generali, ex art. 177, commi 1 e 2 (Trisorio Liuzzi, 71). Trasformazione del rito da ordinario a speciale e poteri delle partiNell'esaminare i poteri delle parti a seguito della trasformazione del rito occorre anzitutto osservare che, una volta assegnati i termini per l'integrazione degli atti, ricorrente e resistente non sono tenuti a compierla e, dunque, a depositare le memorie integrative, ma ne hanno soltanto la facoltà. In difetto rimangono ferme domande, eccezioni e conclusioni già precedentemente formulate. Vale qui la regola secondo cui, nel passaggio dal rito ordinario al rito speciale, le parti non possono proporre domande nuove già irrimediabilmente precluse durante il corso della causa secondo il rito ordinario (Cass. n. 6209/1981; Cass. n. 8256/1987; Cass. n. 4239/1990), né possono sanare le preclusioni già verificatesi secondo il vecchio rito (Cass. n. 1978/1981; Cass. n. 6449/1986; Cass. n. 5971/1995). E cioè il mutamento del rito da ordinario a speciale non comporta una rimessione in termini rispetto alle preclusioni già maturate alla stregua della normativa del rito ordinario, dovendosi correlare l'integrazione, prevista dall'art. 426, degli atti introduttivi, alle decadenze di cui agli artt. 414 e 416 (Cass. n. 10569/2017, che ha ritenuto tardiva l'eccezione - ben proponibile, nella fattispecie, nella comparsa di costituzione e risposta - di illegittimità di un secondo licenziamento formulata dal lavoratore soltanto con la memoria difensiva successiva al mutamento del rito). Val quanto dire, dunque, che non soltanto l'attore non può con la memoria integrativa proporre domande nuove, ma neppure il convenuto può proporre domande riconvenzionali. Difatti, la preclusione concernente queste ultime, nel rito ordinario, opera oggi al momento della scadenza del termine per il deposito della comparsa di risposta con la quale, ai sensi dell'art. 167, comma 2, il convenuto deve a pena di decadenza proporle: ecco, dunque, che il convenuto il quale non abbia proposto le riconvenzionali con la comparsa di risposta non avrà alcuno spazio per avanzarle con la memoria integrativa. La stessa osservazione va compiuta con riguardo alle eccezioni processuali e di merito non rilevabili d'ufficio, ai sensi del medesimo art. 167, comma 2, come modificato dal d.l. n. 35/2005, conv., con modif., in l. n. 80/2005: anche in questo caso è da escludere che il convenuto possa formulare quelle eccezioni in senso stretto non tempestivamente proposte, nella fase di applicazione del rito ordinario, con la comparsa di risposta. Identica conclusione, ancora, trova applicazione con riguardo alla chiamata di un terzo in causa ad istanza del convenuto, il quale, ai sensi dell'art. 269, comma 2, deve farne richiesta a pena di decadenza nella comparsa di risposta, chiedendo al giudice istruttore lo spostamento della prima udienza. Insomma, nel caso che l'attore abbia erroneamente adottato il rito ordinario in luogo di quello locatizio, trova applicazione, fintanto che non sia stata disposta la trasformazione del rito medesimo, la disciplina processuale — ivi compreso il sistema preclusivo — proprio del rito ordinario: questa regola generalmente accolta culmina, come si sa, nel principio dell'ultrattività del rito, il quale comporta che l'appello, in causa di lavoro erroneamente trattata e decisa con rito ordinario, va proposto con citazione e non con ricorso, non potendo la trasformazione del rito essere operata non già dal giudice ma dalla parte. Sicché, con il passaggio dal rito ordinario al rito speciale, le parti non soltanto rimarranno astrette alle preclusioni già previste per il rito speciale — e, così, potranno ad esempio modificare le domande, eccezioni e conclusioni già formulate soltanto previa autorizzazione del giudice ed in concorso con gravi motivi, ex art. 420 —, ma neppure potranno affrancarsi da quelle già maturate secondo il rito ordinario. In sostanza, considerata l'attuale conformazione delle preclusioni nel rito ordinario, i poteri delle parti, al momento della trasformazione del rito, potranno essenzialmente esplicarsi attraverso la produzione di documenti e la formulazione di mezzi istruttori. Al di fuori dello sbarramento preclusivo derivante dalla trasformazione del rito, invece, rimangono, naturalmente, le eccezioni in senso lato, giacché il principio secondo cui il convenuto è tenuto a proporre con la memoria di costituzione tutte le eccezioni, processuali e di merito, che non siano rilevabili d'ufficio non si estende alle eccezioni relative ai presupposti dell'azione, che è onere dell'attore provare, né alle eccezioni che attengono alla qualificazione giuridica dei fatti dedotti dall'attore, che è comunque rimessa al giudice, indipendentemente dalle deduzioni di parte (Cass. n. 1330/2006). Resta da dire della sorte dei mezzi istruttori assunti prima della trasformazione del rito, riguardo ai quali trova applicazione il principio secondo cui, stante la mancata riproduzione nell'art. 426 della disposizione contenuta nel capoverso del successivo art. 427, le prove acquisite durante il rito ordinario non perdono efficacia col passaggio al rito speciale (Cass. n. 5334/1984). CasisticaNel procedimento locatizio l'ordinanza di mutamento del rito di cui all'art. 426 deve essere comunicata, in osservanza di un principio generale dell'ordinamento, alla parte contumace, dovendosi ritenere, in mancanza, la nullità della sentenza, senza che, tuttavia, debba essere disposta la rimessione al giudice di primo grado, trattandosi di fattispecie non assimilabile a quelle, tassative, previste dall'art. 354, tanto più che il principio del doppio grado di giurisdizione non ha rilevanza costituzionale (Cass. n. 24341/2015). In materia di appello, nelle cause relative al risarcimento dei danni per morte o lesioni personali conseguenti ad incidenti stradali, instaurate prima della data di entrata in vigore della l. n. 102/2006 (che prevedeva l'applicabilità alle stesse del rito del lavoro, senza però dettare una disciplina transitoria), il gravame deve essere proposto con le forme e nei termini del rito ordinario allorché tali cause siano state trattate e decise in primo grado secondo tale rito, non ostando a tale esito neppure la sopravvenienza, nel corso delle stesse, dell'art. 53 l. n. 69/2009, il quale — nel disporre l'abrogazione dell'art. 3 l. n. 102/2006, ma sancendo la persistente applicabilità del rito del lavoro alle cause de quibus, pendenti alla data della propria entrata in vigore — ha, tuttavia, sottratto al regime dell'ultrattività del rito del lavoro i giudizi introdotti con rito ordinario per i quali, a tale data, non fosse stata ancora disposta la modifica del rito ai sensi dell'art. 426 (Cass. n. 13311/2015). L'omesso mutamento del rito (da quello speciale del lavoro a quello ordinario e viceversa) non determina ipso iure l'inesistenza o la nullità della sentenza ma assume rilevanza invalidante soltanto se la parte che se ne dolga in sede di impugnazione indichi lo specifico pregiudizio processuale concretamente derivatole dalla mancata adozione del rito diverso, quali una precisa e apprezzabile lesione del diritto di difesa, del contraddittorio e, in generale, delle prerogative processuali protette della parte (Cass. n. 1448/2015). Il mutamento del rito da ordinario a speciale non determina la rimessione in termini rispetto alle preclusioni già maturate alla stregua del rito ordinario, ma, sul piano formale, gli atti posti in essere anteriormente al passaggio al rito speciale devono essere valutati in base alle regole di quello ordinario, sicché sono ammissibili le domande di ripetizione di somme asseritamente pagate in esubero a titolo di canone di locazione e di restituzione di quanto versato a titolo di deposito cauzionale, perché proposte prima del mutamento del rito ex art. 426, ove vi sia stata accettazione del contraddittorio sul punto (Cass. n. 27519/2014). Nel procedimento per convalida di sfratto, allorché la controversia prosegua oltre la fase sommaria a seguito dell'opposizione dell'intimato, la memoria integrativa ex art. 426 costituisce l'atto in cui si cristallizzano le posizioni delle parti, sicché non può ritenersi integrata, prima del deposito dell'anzidetta memoria, una non contestazione di un fatto idonea ad esonerare la controparte dalla relativa prova. (Cass. n. 26356/2014, che ha confermato la sentenza di merito che aveva rigettato la domanda della sublocatrice per mancata prova della tempestività della disdetta della locazione, la cui tardività era stata eccepita dalla subconduttrice soltanto nella memoria ex art. 426). L'appello proposto avverso la sentenza che si limita a disporre il mutamento del rito (nella specie, da ordinario a quello del lavoro per connessione) è inammissibile per difetto di interesse ad agire a meno che la parte non deduca e dimostri lo specifico pregiudizio processuale subìto in conseguenza del rito erroneamente applicato (Cass. n. 22325/2014). L'introduzione del processo con forme diverse da quelle proprie integra un motivo di impugnazione solo ove sia dedotto che tale errore abbia comportato la lesione del diritto di difesa e non inficia la validità degli atti posti in essere secondo le regole del procedimento impropriamente utilizzato, in quanto il rito non costituisce condizione necessaria perché il giudice possa decidere nel merito la causa (Cass. n. 22075/2014, che ha confermato la pronuncia di merito, la quale aveva escluso ogni pregiudizio conseguente all'erronea applicazione del rito di cui all'art. 447-bis, anziché di quello ordinario, poiché la frequenza e la scansione delle udienze, nonché i termini concessi per comparire, formulare istanze istruttorie e depositare note conclusionali erano comunque risultati adeguati per lo svolgimento della difesa). Il giudice dell'esecuzione investito della opposizione alla esecuzione per crediti di lavoro, già iniziata e da lui diretta, ove sia territorialmente competente per la causa di opposizione, deve provvedere alla istruzione della medesima e alla decisione indipendentemente dal suo valore, previo passaggio al rito del lavoro, secondo le disposizioni di cui agli artt. 426 e 616 (Cass. n. 21298/2014). Nel procedimento per convalida di (licenza o) sfratto, l'opposizione dell'intimato dà luogo alla trasformazione in un processo di cognizione, destinato a svolgersi nelle forme di cui all'art. 447-bis, con la conseguenza che, non essendo previsti specifici contenuti degli atti introduttivi del giudizio, il thema decidendum risulta cristallizzato solo in virtù della combinazione degli atti della fase sommaria e delle memorie integrative di cui all'art. 426, potendo, pertanto, l'originario intimante, in occasione di tale incombente, non solo emendare le sue domande, ma anche modificarle, soprattutto se in evidente dipendenza dalle difese svolte dalla controparte (Cass. n. 12247/2013, che ha ritenuto ammissibile l'iniziativa dell'intimante il quale, richiesta, in origine, la convalida di sfratto e l'ingiunzione di pagamento dei canoni scaduti, di fronte all'eccezione di pagamento formulata dall'intimato, ha addotto l'imputazione di quanto ricevuto ad una diversa causa solvendi, costituita da un ulteriore contratto di locazione, avente ad oggetto un locale contiguo a quello per il quale era stato intimato lo sfratto per morosità, operando così un ampliamento del thema decidendum, che ha incluso una domanda di pagamento fondata su di una causa petendi concorrente e legata a quella originaria da ragioni di connessione soggettiva e, parzialmente, oggettiva). In caso di mutamento del rito ex art. 4 del d.lgs. n. 150/2011, restano ferme le preclusioni già verificatesi secondo le norme del rito prescelto e, pertanto, l'incompetenza per materia, per valore o per territorio inderogabile non può essere rilevata d'ufficio nella prima udienza successiva a detto mutamento, posto che tale meccanismo non comporta una regressione del processo ad una fase anteriore a quella già svoltasi, ma serve esclusivamente a consentire alle parti di adeguare le difese alle regole del rito da seguire. (Cass. n. 13472/2019, che ha escluso che, a fronte del mutamento di rito ex art. 4 cit., disposto in ordine ad un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo in materia di onorari di avvocato introdotto con citazione, sia possibile sollevare d'ufficio, nella prima udienza successiva a detto mutamento, la questione dell'incompetenza territoriale inderogabile - nella specie, in relazione al foro del consumatore - dovendosi ritenere la "prima udienza", rilevante ai fini dell'art. 38, comma 3, esaurita con il provvedimento di mutamento del rito). 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