Codice di Procedura Civile art. 429 - Pronuncia della sentenza 1 2 .

Mauro Di Marzio

Pronuncia della sentenza1 2

[I]. Nell'udienza il giudice, esaurita la discussione orale e udite le conclusioni delle parti, pronuncia sentenza con cui definisce il giudizio dando lettura del dispositivo [437 1] e della esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione. In caso di particolare complessità della controversia, il giudice fissa nel dispositivo un termine, non superiore a sessanta giorni, per il deposito della sentenza 3.

[II]. Se il giudice lo ritiene necessario, su richiesta delle parti, concede alle stesse un termine non superiore a dieci giorni per il deposito di note difensive, rinviando la causa all'udienza immediatamente successiva alla scadenza del termine suddetto, per la discussione e la pronuncia della sentenza.

[III]. Il giudice, quando pronuncia la sentenza di condanna al pagamento di somme di denaro per crediti di lavoro, deve determinare, oltre gli interessi nella misura legale [1284 1 c.c.], il maggior danno eventualmente subito dal lavoratore per la diminuzione di valore del suo credito, condannando al pagamento della somma relativa con decorrenza dal giorno della maturazione del diritto [150 att.4.

 

 

[1] Articolo modificato dall'art. unico, comma 1, r.d. 20 aprile 1942, n. 504 e successivamente sostituito dall'art. 1. comma 1, l. 11 agosto 1973, n. 533.

[3] Comma così sostituito dall'art. 53 d.l. 25 giugno 2008, n. 112, conv. con modif. dalla l. 6 agosto 2008, n. 133. Il testo precedente recitava: «Nell'udienza il giudice, esaurita la discussione orale e udite le conclusioni delle parti, pronuncia sentenza con cui definisce il giudizio dando lettura del dispositivo». A norma dell'art. 56 , dello stesso decreto legge, la modifica si applica ai giudizi instaurati dalla sua entrata in vigore.

[4] La Corte cost., con sentenza 14 gennaio 1977, n. 13, ha dichiarato non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale del presente comma, sollevate, in riferimento all'art. 3 Cost.

Inquadramento

Esaurita l'attività da compiersi nel corso dell'udienza di discussione di cui all'art. 420, portata a termine la discussione orale, il giudice pronuncia sentenza. La disposizione in esame stabiliva, nella sua formulazione originaria, che il giudice pronunciasse la sentenza dando lettura del dispositivo, mentre il deposito della motivazione aveva luogo solo successivamente, nel termine di quindici giorni previsto dall'art. 430. Oggi il giudice dà lettura del dispositivo e della motivazione, potendo fissare nel dispositivo un termine, non superiore a sessanta giorni, per il deposito della sentenza solo in caso di particolare complessità della controversia, il giudice.

Quanto ad altri possibili modelli decisori, si è dibattuto, in passato, se il rito del lavoro fosse compatibile con la previsione dell'art. 281-sexies, dettato per il procedimento dinanzi al tribunale in composizione monocratica.

La giurisprudenza ha risolto la questione in senso positivo (Cass. n. 13708/2007).

In difformità da quanto previsto dall'art. 281-sexies (ed in seguito anche dall'art. 16, comma 5, d.lgs. n. 5/2003, oggi abrogato), non è prevista per il rito del lavoro la possibilità di redigere la motivazione in forma abbreviata. Tuttavia, vi è da dire che la formula adottata dall'art. 281-sexies («concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto») è oggi ripresa in via generale dall'art. 132, come novellato dall'art. 45, comma 17, l. n. 69/2009Inoltre, in materia di controversie soggette al rito del lavoro, l'art. 429, comma 1, come modificato dall'art. 53, comma 2, del d.l. n. 112 del 2008, conv., con modif., dalla l. n. 133 del 2008 prevede che il giudice all'udienza di discussione decida la causa e proceda alla lettura del dispositivo e delle ragioni in fatto e diritto della decisione, sicché, in analogia con lo schema dell'art. 281 sexies, il termine «lungo» per proporre l'impugnazione, ex art. 327, decorre dalla data della pronuncia, che equivale, unitamente alla sottoscrizione del relativo verbale da parte del giudice, alla pubblicazione prescritta nei casi ordinari dall'art. 133, con esonero, quindi, della cancelleria dalla comunicazione della sentenza; viceversa, nella residuale ipotesi di particolare complessità della controversia, in cui il giudice fissi un termine non superiore a sessanta giorni per il deposito della sentenza, ai sensi dell'art. 430, il termine decorrerà dalla comunicazione alle parti dell'avvenuto deposito da parte del cancelliere (Cass. n. 3394/2021).

Nel discorrere della pronuncia della sentenza, occorre anzitutto segnalare che la tendenziale unicità dell'udienza di discussione fa sì che nessuna soluzione di continuità debba di necessità intercorrere tra la chiusura della fase istruttoria e l'apertura della fase decisoria. In particolare, non è previsto che il giudice debba fissare un'apposita udienza di precisazione delle conclusioni ovvero debba comunque invitare le parti a precisarle (Cass. n. 19056/2003). Neppure occorre, ai fini della pronuncia della sentenza, la presenza dei difensori delle parti (Cass. n. 7866/2004). D'altro canto l'assegnazione del rinvio per il deposito di note illustrative ex art. 429, comma 2, costituisce esercizio di un potere discrezionale del giudice, il quale può secondo i casi valutare se la natura delle questioni trattate e lo sviluppo della controversia giustifichino tale appendice scritta (Cass. n. 4325/1981).

Nel rito lavoro, l'appellante in via principale non ha un diritto soggettivo al deposito di note scritte per controdedurre alle difese dell'appellato, neppure nel caso in cui sia proposto appello incidentale, essendo tale possibilità prevista, in suo favore, solo in via indiretta, a norma del combinato disposto dell'ultimo comma dell'art. 437 e del comma 2 dell'art. 429, come effetto dell'esercizio da parte del giudice del potere discrezionale - che può manifestarsi anche in forma implicita e non è sindacabile in sede di legittimità - di consentire alle parti, se necessario, il deposito di note difensive (Cass. n. 9232/2018).

Ammissibilità di sentenze non definitive

La caratteristica di concentrazione del processo del lavoro, unitamente alla revisione dell'art. 420, comma 4 — il quale sembra prevedere la pronuncia di sentenza anche non definitiva per il solo caso che sorgano questioni attinenti alla giurisdizione o alla competenza o ad altre pregiudiziali la cui decisione può definire il giudizio —, hanno indotto buona parte della dottrina, non solo nell'immediatezza dell'entrata in vigore del rito del lavoro, ad escludere l'ammissibilità di ulteriori sentenze non definitive, al di là dei casi contemplati da quest'ultima norma (v., tra gli altri, Montesano e Arieta, 262).

Molte, tuttavia, sono le decisioni secondo cui anche nel rito del lavoro sono ammissibili sentenze non definitive per risolvere questioni preliminari di merito, atteso che la decisione parziale, oltre a non pregiudicare i diritti delle parti e a non potersi inquadrare in nessuna delle nullità previste dalla legge, assolve una funzione connaturale al processo, attivando in modo rapido ed economico le finalità di esso (Cass. n. 17780/2003; Cass. n. 9265/2003).

Occorre poi aggiungere che il principio si estende alle pronunce di condanna generica, anch'esse ammissibili nel rito del lavoro (Cass. n. 8576/2004). Viceversa si ritiene che l'attore, una volta chiesta la pronuncia sul quantum in primo grado, non possa poi in appello limitare la domanda alla sola condanna generica (Cass. n. 4374/1988).

Lettura del dispositivo e sua omissione

Le questioni postesi in passato non possono dirsi superate, sia perché l'attuale formulazione dell'art. 429 consente ancora, quantunque in via residuale, la lettura del dispositivo seguita dall'esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione, sia perché la decisione della causa mediante lettura del dispositivo rimane la regola applicabile in appello, ai sensi dell'art. 437.

Occorre allora dire che nel rito del lavoro, se la sentenza viene pronunciata dando lettura del dispositivo, tale lettura deve essere compiuta a pena di nullità e, se il giudice è collegiale (perciò in appello), alla contestuale presenza di tutti i componenti del collegio (Cass. n. 12061/1995).

Il dispositivo letto in udienza, in altre parole, non può considerarsi atto meramente interno, modificabile con la successiva sentenza depositata in cancelleria, bensì costituisce un atto a rilevanza esterna, atteso che, oltre a contenere la decisione della causa, esso è di per sé titolo esecutivo (tra le moltissime, v. Cass. n. 1335/2000; Cass. n. 4012/2001). Anche di recente si è ribadito che nel rito del lavoro, il dispositivo letto in udienza e depositato in cancelleria acquisisce rilevanza autonoma poiché racchiude gli elementi del comando giudiziale, che non possono essere mutati in sede di redazione della motivazione, e non è suscettibile di interpretazione a mezzo della motivazione stessa, sicché le proposizioni in essa contenute e contrastanti con il dispositivo devono considerarsi non apposte e non sono idonee a passare in giudicato o ad arrecare un pregiudizio giuridicamente apprezzabile (Cass. n. 23463/2015). È perciò radicalmente nulla la sentenza con la quale sia stato adottato un nuovo dispositivo, di contenuto diverso dal precedente (Cass. n. 1906/2015).

Da tale connotazione del dispositivo letto in udienza discendono alcune questioni del massimo rilievo pratico, come è testimoniato dalla loro ricorrenza nelle pronunce della giurisprudenza: guardiamo anzitutto al caso dell'omessa lettura del dispositivo. La giurisprudenza è concorde nel ritenere che essa dia luogo non già ad un'ipotesi di inesistenza della sentenza, bensì di minor grave nullità, la quale, secondo la regola consueta, si converte in motivo di gravame da denunciarsi — se abbia avuto luogo in primo grado — con l'appello. Ed il giudice d'appello, lungi dal limitarsi a dichiarare la nullità e rimettere la causa al primo giudice, deve decidere nel merito (Cass. n. 15371/2003; Cass. n. 5368/2003; Cass. n. 13781/2001). Ne discende che l'omessa lettura in udienza del dispositivo della sentenza, verificatasi nel primo grado del processo in violazione dell'art. 429, non può essere fatta valere per la prima volta in sede di legittimità, neanche come motivo di nullità della sentenza d'appello (Cass. n. 1615/1998). All'omessa lettura del dispositivo va equiparata, poi, la lettura di un dispositivo diverso da quello deliberato, quantunque effettuata per un mero errore o disguido (Cass. n. 3528/1997; Cass. n. 2277/1990).

Il rigore di siffatta regola è temperata dal principio, pure esso numerose volte ribadito, che l'attestazione della lettura del dispositivo non deve necessariamente risultare dal verbale d'udienza, ma può emergere dalla sentenza o da altro atto processuale (Cass. n. 7037/2004; Cass. n. 16312/2002; Cass. n. 5019/2002).

Ed inoltre, la S.C. ha ritenuto che l'omessa indicazione nel verbale d'udienza dell'avvenuta lettura del dispositivo costituisca semplice omissione, sicché la dimostrazione che la lettura vi è effettivamente stata può essere fornita attraverso prova testimoniale (Cass. n. 15219/2000). Per converso, non v'è dubbio che, qualora il verbale d'udienza contenga, come di regola, l'attestazione dell'avvenuta lettura del dispositivo, la dimostrazione del contrario rendere indispensabile l'esperimento della querela di falso (Cass. n. 11778/2002).

Inoltre, nel caso in cui l'udienza pubblica di discussione sia sostituita dalla trattazione scritta ai sensi dell'art. 83, comma 7, lett. h), d.l. n. 18 del 2020, conv. con l. n. 27 del 2020, l'omesso deposito telematico del dispositivo il giorno dell'udienza equivale alla sua mancata lettura, che determina, pertanto, la nullità della sentenza (Cass. n. 15993/2024, che ha dichiarato la nullità della sentenza d'appello depositata in data successiva a quella in cui risultava assunta la decisione, non consacrata in un dispositivo depositato in cancelleria, neanche telematicamente).

Viceversa, non determina nullità della sentenza e del procedimento la lettura del dispositivo in altra udienza successiva a quella di discussione della causa, in quanto tale irregolarità non impedisce all'atto di raggiungere il suo scopo (art. 156 c.c.), né comporta una violazione insanabile dei diritti di difesa, come nel diverso caso di omessa lettura del dispositivo (Cass. n. 1729/1998; Cass. n. 7815/1996; Cass. n. 979/1986).

Le vicende della lettura del dispositivo, inoltre, suscita questioni qualora il giudice abbia deciso troppo presto, oppure troppo tardi, oppure abbia letto più dispositivi, relativi alle diverse cause decise in una stessa udienza, simultaneamente, a fine giornata. Partiamo dal caso del giudice che, come si suol dire, abbia la decisione in tasca. A tal riguardo la S.C. afferma che nessuna nullità può ravvisarsi per il fatto che, dopo la discussione, la lettura del dispositivo sia intervenuta immediatamente, senza soluzione di continuità, atteso che, per un verso, per il giudice monocratico la camera di consiglio equivale ad un momento di autonoma riflessione che non comporta le formalità di cui all'art. 276, e che, per altro verso, non è previsto a pena di nullità alcun intervallo temporale tra la conclusione dell'udienza di discussione e la lettura del dispositivo (Cass. n. 4012/2001). Parimenti non si determina nullità nel caso della lettura cumulativa di più dispositivi a fine udienza (Cass. n. 14479/2001; Cass. n. 7830/1995; Cass. n. 12061/1995).

Contrasto fra dispositivo e sentenza

La rilevanza esterna del dispositivo si riflette sulla questione, anch'essa del massimo rilievo pratico, del possibile contrasto tra dispositivo e sentenza successivamente depositata ai sensi dell'art. 430. In proposito occorre distinguere secondo che il contrasto menzionato possa essere sanato per via di interpretazione del dispositivo, ovvero risulti insanabile. In quest'ultimo caso, esso si traduce in un vizio di nullità destinato come sempre a convertirsi in motivo di gravame.

Dal momento, poi, che la mancata impugnazione sotto il profilo del contrasto fra dispositivo e sentenza non fa sì che esso rimanga appianato, opera in tal caso — secondo la giurisprudenza — la regola della prevalenza del dispositivo sulla sentenza (Cass. n. 11432/2004; Cass. n. 14845/2004; Cass. n. 10376/2004; Cass. n. 10653/2003; Cass. n. 7467/2003; Cass. n. 16988/2002). Viene inoltre costantemente ribadita la regola della non integrabilità del dispositivo con la motivazione della sentenza, l'interpretazione della quale non può estendersi fino ad individuare il contenuto precettivo del dispositivo con statuizioni desunte dalla sentenza, attesa la prevalenza da attribuirsi al dispositivo (Cass. n. 11336/1998; Cass. n. 8912/2002; Cass. n. 6855/1996). Nel rito del lavoro, dunque, il dispositivo letto in udienza non è più modificabile da parte del giudice che ha emesso la decisione, sicché è radicalmente nulla la sentenza con la quale sia stato adottato un nuovo dispositivo, di contenuto diverso dal precedente (Cass. n. 1906/2015).

Questa impostazione è criticata da chi ritiene, al contrario, che debba prevalere la sentenza depositata, in quanto è questa che, nella sua completezza, è suscettibile di passare in cosa giudicata e non il mero dispositivo.

Secondo parte della dottrina la soluzione più corretta è quest'ultima, dal momento che la pubblicazione della sentenza avviene con il deposito e l'impugnazione ha ad oggetto non il dispositivo, bensì la sentenza; con la conseguenza che a passare in giudicato è la sentenza, completa di motivazione, e non il solo dispositivo (Trisorio Liuzzi, 212).

È esclusa l'insanabilità del contrasto quando sussista una parziale coerenza tra dispositivo e motivazione, divergenti solo da un punto di vista quantitativo, e la seconda, inoltre, sia ancorata ad elementi obiettivi che inequivocabilmente la sostengano, sì da potersi escludere l'ipotesi di un ripensamento del giudice (Cass. n. 11432/2004; Cass. n. 10653/2002).

Dunque, nel rito del lavoro soltanto il contrasto insanabile tra dispositivo e motivazione determina la nullità della sentenza, da far valere mediante impugnazione, in difetto della quale prevale il dispositivo (da ultimo Cass. n. 23157/2024). Tale insanabilità deve tuttavia escludersi quando sussista una parziale coerenza tra dispositivo e motivazione, divergenti solo da un punto di vista quantitativo, e la seconda inoltre sia ancorata ad un elemento obiettivo che inequivocabilmente la sostenga; in tal caso è configurabile l'ipotesi legale del mero errore materiale, con la conseguenza che, da un lato, è consentito l'esperimento del relativo procedimento di correzione e, dall'altro, deve qualificarsi come inammissibile l'eventuale impugnazione diretta a far valere il contrasto tra dispositivo e motivazione (Cass. n.21618/2019, che ha ravvisato mero errore materiale nella sentenza di merito la quale, nell'accogliere la domanda al pagamento di differenze retributive, recava in dispositivo la condanna ad una somma calcolata in base al livello richiesto dal lavoratore e in motivazione il riconoscimento dell'inquadramento in un maggior livello non richiesto).

Viceversa non è causa di nullità la difformità tra dispositivo letto in udienza e dispositivo (ri)trascritto in calce alla sentenza, giacché, nel contrasto tra i due dispositivi, prevale quello portato a conoscenza delle parti mediante lettura in udienza (Cass. n. 1369/2004).

La rilevanza esterna del dispositivo ed il problema dell'ammissibilità della procedura di correzione dell'errore materiale

Corollario del principio della prevalenza del dispositivo sulla sentenza, il quale discende dalla rilevanza esterna del primo, è, secondo l'opinione in prevalenza sostenuta dalla dottrina e dalla giurisprudenza, l'inammissibilità della procedura di correzione dell'errore materiale: questione oggi meno rilevante del passato, vista la novella del comma 1 della norma in commento, ma ancora attuale.

Si è difatti visto che la previsione della lettura in udienza del dispositivo conferisce a quest'ultimo una rilevanza esterna, la quale rende a tal momento non più modificabile la volontà giurisdizionale ormai cristallizzata. Se, dunque, la motivazione successivamente depositata ai sensi dell'art. 430, invece di rendere ragione dei termini del dispositivo, si pone in contrasto con il suo, ne discende nullità della sentenza, nullità da far valere a norma dell'art. 161, comma 1, mediante i consueti mezzi d'impugnazione. Di qui si perviene alla conseguenza che nel rito del lavoro, in caso di contrasto tra motivazione e dispositivo, non è applicabile l'istituto della correzione della sentenza, ex art. 287 (Cass. n. 1733/1998; Cass. n. 2958/2001). Pur nel quadro della tesi dell'inapplicabilità della procedura di correzione si rinvengono tuttavia applicazioni pratiche assai ragionevoli. Così il ricorso alla procedura di correzione dell'errore materiale è stato ammesso nel caso di erronea indicazione nell'intestazione della sentenza di uno dei due componenti del collegio (Cass. n. 10575/1990), oppure in caso di erronea od omessa indicazione delle parti (Cass. n. 5737/1983).

A fronte della tesi rigorista, per altro verso, sono state prospettate soluzioni più elastiche, senz'altro preferibili, secondo cui la regola della non assoggettabilità della fattispecie di contrasto fra dispositivo letto in udienza e motivazione della sentenza ad una interpretazione correttiva o alla correzione ex art. 287 non è regola di portata assoluta e generale, subendo una doverosa deroga — anche nel processo del lavoro — ogni qual volta le parti possano riscontrare agevolmente che si sia in presenza di un errore materiale dalla mera lettura del dispositivo, avendo riguardo all'intero suo contenuto e ponendolo in relazione agli atti processuali a conoscenza delle parti stesse (Cass. n. 7706/2003).

Rivalutazione monetaria

La ratio della disposizione è stata ravvisata nella natura privilegiata dei crediti dei lavoratori, ivi compresi i dipendenti pubblici (Corte cost. n. 52/1986), con conseguente legittimità costituzionale della difformità di trattamento ad essi riservato rispetto ai crediti dei datori di lavoro (Corte cost. n. 207/1994; Corte cost. n. 13/1977). Il congegno di rivalutazione non trova pertanto applicazione nei confronti delle somme dovute dal datore di lavoro ad un terzo surrogatosi nel credito del lavoratore, mancando in tal caso il requisito soggettivo (Cass. n. 6214/1987).

Il disposto dell'art. 429, comma 3, relativo alla rivalutazione monetaria (ed interessi) dei crediti di lavoro, trova applicazione, come sottolineato dalla Corte costituzionale (Corte cost. n. 65/1978; Corte cost. n. 76/1981), in ordine a tutti i rapporti elencati nell'art. 409 e, pertanto, opera non solo nell'ambito del lavoro subordinato ma anche in quello autonomo, ove questo sia caratterizzato dalla continuità e dalla coordinazione delle prestazioni eseguite, ossia dalla cd. parasubordinazione (Cass. n. 20269/2010).

Rientrano tra l'altro tra i «crediti di lavoro» contemplati dalla disposizione: i) i crediti nascenti da licenziamento illegittimo (Cass. n. 19159/2006; Cass. n. 1000/2003); ii) i crediti nascenti da violazione dell'obbligo di assunzione (Cass. n. 12516/2003; Cass. n. 13924/2001); iii) i crediti di natura risarcitoria derivanti in generale dal rapporto di lavoro (Cass. n. 6844/1987); iv) i crediti di natura risarcitoria derivanti in particolare da violazione dei doveri di sicurezza gravanti sul datore (Cass. n. 3213/2004; Cass. n. 5024/2002).

Dunque, il divieto di cumulo di rivalutazione monetaria ed interessi, previsto dall'art. 22, comma 36, della l. n. 724/1994, per gli emolumenti di natura retributiva, pensionistica ed assistenziale spettanti ai dipendenti pubblici in attività di servizio o in quiescenza, si applica anche ai crediti risarcitori (nella specie, derivanti da omissione contributiva), trattandosi di una regola limitativa della previsione generale dell'art. 429, comma 3, che, nell'utilizzare la più ampia locuzione «crediti di lavoro», ha inteso riferirsi a tutti i crediti connessi al rapporto di lavoro e non soltanto a quelli strettamente retributivi (Cass. n. 13624/2020). 

Inoltre, in ipotesi di ritardato pagamento di somme di natura risarcitoria ai dipendenti pubblici, gli interessi legali e la rivalutazione monetaria vanno calcolati, a prescindere dalla loro cumulabilità, sugli importi dovuti al netto delle ritenute di legge (Cass. n. 5744/2024).

Il lavoratore non è assoggettato all'onere della prova del danno, che in presenza di svalutazione è presunto iuris et de iure (Corte cost. n. 43/1977; Corte cost. n. 13/1977). Gli interessi e la rivalutazione sui crediti di lavoro tardivamente corrisposti, d'altronde, vanno liquidati d'ufficio dal giudice, ai sensi dell'art. 429, comma 3, senza necessità di una specifica domanda del lavoratore, e quindi anche a prescindere dalla loro quantificazione operata dal lavoratore medesimo (Cass. S.U., n. 16036/2010, espressione di un indirizzo costante). Non occorre costituzione in mora (Cass. n. 6882/2002; Cass. n. 17111/2002).

Nelle controversie relative a crediti di lavoro, la statuizione del giudice, positiva o negativa, sulla rivalutazione del credito si pone come capo della sentenza munito di piena autonomia e suscettibile di autonomo passaggio in giudicato, per cui è necessario proporre sul punto uno specifico mezzo di impugnazione, anche quando sia stata proposta impugnazione in ordine all'esistenza stessa del credito per la somma capitale (Cass. n. 6938/2003).

Il credito per rivalutazione può essere fatto valere anche in sede di procedure concorsuali (Corte cost. n. 300/1986; Corte cost. n. 204/1989; Corte cost. n. 567/1989).

La rivalutazione monetaria dei crediti di lavoro, prevista dall'art. 429, comma 3, deve essere determinata a norma dell'art. 150 disp. att., in base all'indice dei prezzi calcolato dall'ISTAT per la scala mobile per i lavoratori dell'industria.

Bibliografia

Andrioli, Barone, Pezzano e Proto Pisani, Le controversie in materia di lavoro, Bologna-Roma, 1987; Arieta e De Santis, Diritto processuale societario, Padova, 2004, Asprella, La nuova modalità di pronuncia della sentenza nel rito del lavoro, in Giust. civ. 2010, 133; Balena, La riforma del processo di cognizione, Napoli, 1994; Borghesi, La giurisdizione nel pubblico impiego privatizzato, Padova, 2002; Carratta, Art. 1, in Chiarloni (a cura di), Il nuovo processo societario, Bologna, 2004; Cecchella, La risoluzione stragiudiziale delle controversie di lavoro, dopo la riforma del 2010: la conciliazione, in Riv. arb. 2011, 373; Cinelli, Dal «collegato 2010» alle «manovre» dell’estate 2011: quali scenari per la giustizia del lavoro?, in Riv. it. dir. lav. 2011, 559; Costantino, Il nuovo processo commerciale: la cognizione ordinaria di primo grado, in Riv. dir. proc. 2003, 387; De Cristofaro, Il nuovo regime delle alternative alla giurisdizione statale (Adr) nel contenzioso del lavoro: conciliazione facoltativa ed arbitrato liberalizzato, in Lav. giur. 2011, 57; Fabbrini, Diritto processuale del lavoro, Milano, 1974; Ferroni, Ancora sull’interesse ad agire in mero accertamento nel rapporto di lavoro, in Giust. civ. 1986, I, 248; Lambertucci, La nuova disciplina della conciliazione delle controversie di lavoro nella legge 4 novembre 2010, n. 183 (cd. collegato lavoro): prime riflessioni, in Riv. it. dir. lav 2011, 581; Luiso, Il processo del lavoro, Torino, 1992; Menchini, Considerazioni sugli orientamenti giurisprudenziali in tema di art. 409, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1983, 505, Montesano e Arieta, Trattato di diritto processuale civile, II, 1, Padova, 2002; Montesano e Vaccarella, Diritto processuale del lavoro, Napoli, 1996; Noviello, Sordi, Apicella, Tenore, Le nuove controversie sul pubblico impiego privatizzato e gli uffici del contenzioso, 2ª ed., Milano, 2001; Proto Pisani, In tema di contraddittorietà tra dispositivo letto in udienza e dispositivo contenuto nella sentenza depositata nel processo del lavoro, in Foro it. 1981, I, 737; Proto Pisani, La nuova disciplina del processo civile, Napoli, 1991; Proto Pisani, Controversie individuali di lavoro, Torino, 1993; Proto Pisani, Appunti sull’appello civile (alla stregua della l. 353/1990), in Foro it. 1994, V, 193; Rizzardo, Accertamento pregiudiziale ai sensi dell’art. 420-bis: la Suprema Corte detta le regole per le istruzioni per l’uso, in Corr. giur. 2008, 1253; Santagada e Sassani, Mediazione e conciliazione nel nuovo processo civile, Roma, 2010; Sassani, Mero accertamento del rapporto di lavoro, interesse ad agire ed art. 34, in Giust. civ. 1984, I, 626; Tarzia, Manuale del processo del lavoro, 5ª ed., Milano, 2008; Tesoriere, Diritto processuale del lavoro, 4ª ed., Padova, 2004; Tizi, Osservazioni in tema di mutamento di rito ex art. 426, inGiust. civ. 2001, I, 2134; Tombari Fabbrini, Correzione di errori materiali e processo del lavoro, in Foro it. 2004, I, 1230; Trisorio Liuzzi, Tutela giurisdizionale delle locazioni, Napoli, 2005; Vaccarella, Capponi e Cecchella, Il processo civile dopo le riforme, Torino, 1992; Verde e Olivieri, Processo del lavoro e della previdenza, in Enc. dir. XXXVI, Milano, 1987; Vidiri, Art. 420-bis: norma utile o eterogenesi dei fini?, in Giust. civ. 2009, I, 167.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario