Codice di Procedura Penale art. 64 - Regole generali per l'interrogatorio 1 .Regole generali per l'interrogatorio 1. 1. La persona sottoposta alle indagini, anche se in stato di custodia cautelare [284-286] o se detenuta per altra causa, interviene libera all'interrogatorio [350 1], salve le cautele necessarie per prevenire il pericolo di fuga o di violenze [474]. 2. Non possono essere utilizzati, neppure con il consenso della persona interrogata, metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti [188]. 3. Prima che abbia inizio l'interrogatorio, la persona deve essere avvertita che: a) le sue dichiarazioni potranno sempre essere utilizzate nei suoi confronti; b) salvo quanto disposto dall'articolo 66, comma 1, ha facoltà di non rispondere ad alcuna domanda, ma comunque il procedimento seguirà il suo corso; c) se renderà dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità di altri, assumerà, in ordine a tali fatti, l'ufficio di testimone, salve le incompatibilità previste dall'articolo 197 e le garanzie di cui all'articolo 197-bis 23. 3-bis. L'inosservanza delle disposizioni di cui al comma 3, lettere a) e b), rende inutilizzabili le dichiarazioni rese dalla persona interrogata. In mancanza dell'avvertimento di cui al comma 3, lettera c), le dichiarazioni eventualmente rese dalla persona interrogata su fatti che concernono la responsabilità di altri non sono utilizzabili nei loro confronti e la persona interrogata non potrà assumere, in ordine a detti fatti, l'ufficio di testimone 4.
[1] Per la responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato, v. art. 44, comma 2 d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231. [2] L'originario comma 3 è stato sostituito con i commi 3 e 3-bis dall'art. 2 l. 1° marzo 2001, n. 63. Il testo del comma era il seguente: «3. Prima che abbia inizio l'interrogatorio, la persona deve essere avvertita che, salvo quanto disposto dall'articolo 66, comma 1, ha facoltà di non rispondere e che, se anche non risponde, il procedimento seguirà il suo corso». [3] La Corte costituzionale, con sentenza 5 giugno 2023, n. 111 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente comma nella parte in cui non prevede che gli avvertimenti ivi indicati siano rivolti alla persona sottoposta alle indagini o all’imputato prima che vengano loro richieste le informazioni di cui all’art. 21 delle Norme di attuazione del codice di procedura penale. [4] L'originario comma 3 è stato sostituito con i commi 3 e 3-bis dall'art. 2 l. 1° marzo 2001, n. 63. Il testo del comma era il seguente: «3. Prima che abbia inizio l'interrogatorio, la persona deve essere avvertita che, salvo quanto disposto dall'articolo 66, comma 1, ha facoltà di non rispondere e che, se anche non risponde, il procedimento seguirà il suo corso». InquadramentoL’interrogatorio deve essere considerato prima di ogni cosa come un atto a tutela dell’imputato/indagato in quanto è lo strumento attraverso il quale lo stesso può fornire la propria versione dei fatti. La libertà dell’interrogato durante lo svolgimento dell’atto che viene garantita sia sotto il profilo fisico (comma 1) sia, soprattutto, sotto quello mentale (comma 2), è sicuramente il cardine della tutela dell’indagato e della funzione stessa dell’interrogatorio. Solo la piena indipendenza da ogni tipo di condizionamento può mettere il soggetto concretamente in condizione di poter autodeterminarsi e adottare le scelte che reputa migliori per la sua difesa nel momento in cui viene in contatto con il potere statale. Interrogatorio ed esame dibattimentalePur appartenendo a due fasi completamente diverse e svolgendo due funzioni diverse, l’interrogatorio e l’esame dibattimentale condividono la stessa natura giuridica. Il principio è stato affermato anche dalla Corte costituzionale la quale ha sostenuto che, a fronte di una diversità terminologica e di un mancato richiamo tra le norme, sia l'interrogatorio sia l'esame appartengono ad un medesimo genus. Entrambi gli istituti, invero, si iscrivono agevolmente nella categoria degli atti processuali a contenuto dichiarativo; entrambi possono essere ugualmente inquadrati nel novero degli strumenti difensivi; comune è, inoltre, la presenza di connotazioni probatorie; tanto l'uno che l'altro, infine, risultano caratterizzati dalla identica garanzia del nemo tenetur se detegere, per la quale non si è obbligati a doversi accusare di fatti costituenti reati già commessi. Ne consegue che sia l'interrogatorio sia l'esame consentono all'indagato/imputato non solo l'esercizio della facoltà di non rispondere, ma anche il diritto di poter dire il falso, se ritenuto utile alla propria prospettazione difensiva. Proprio in ragione della loro sostanziale comune natura, la Corte costituzionale ha esteso la normativa prevista dall'art. 64 per il solo interrogatorio della persona sottoposta ad indagini anche all'esame dell’imputato (Corte cost., n. 191/2003). Pertanto la Corte costituzionale, scegliendo un approccio più sostanziale, ha ritenuto di tutelare allo stesso modo anche l’imputato sottoposta ad esame durante il dibattimento fugando i dubbi in merito alla possibilità di applicare in sede dibattimentale le garanzie riconosciute in sede di interrogatorio, concretizzate negli avvisi (comma 3) che l’autorità procedente deve preventivamente rivolgere alla persona che sta per sottoporsi al materiale svolgimento dell’atto. Libertà dell'indagatoLa tutela della libertà dell’imputato/indagato nello svolgimento dell’interrogatorio, fulcro della norma in parola, si inserisce nella scia della generale garanzia riconosciuta al rispetto della dignità dell’uomo, che trova la sua affermazione anche in fonti sovranazionali. La Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo afferma il diritto alla libertà, delimitando anche i casi in cui la stessa può essere limitata (art. 5 Cedu) ed in maniera assolutamente categorica impone un insuperabile divieto di sottoposizione a torture o pene o trattamenti inumani (art. 3 Cedu). La lettura unitaria delle due disposizioni dimostra come la tutela della libertà e dignità della persona sia un diritto universalmente riconosciuto che debba essere tutelato nei confronti di chicchessia, anche del potere istituzionale. Ne consegue, pertanto, che, anche in caso di privazione della libertà, si imponga la tutela della dignità della detenuto, che va sempre trattato con umanità e nel rispetto della persona. Questi principi sono stati recepiti anche dal legislatore costituzionale, il quale, alla pari di quanto stabilito dalle disposizioni sovranazionali, ritiene la libertà personale inviolabile (art. 13, comma 1, Cost.) e vieta ogni violenza fisica e morale nei confronti delle persone comunque sottoposte a restrizioni della libertà (art. 13, comma 4, Cost.). A tali principi si affianca quello di pari importanza dell‘inviolabilità del diritto alla difesa, da assicurarsi in ogni stato e grado del processo (art. 24, comma 2, Cost.). Tali principi sono stati tradotti nell'introduzione di strumenti concretamente volti a tutelare la persona e la sua dignità nei rapporti con l’Autorità ed a garantire il pieno godimento dei diritti che le competono. La normativa della regolamentazione dell'interrogatorio risente inequivocabilmente di queste influenze. In questa ottica, come detto, si impongono le disposizioni che rispettivamente garantiscono la libertà del soggetto da costrizioni fisiche (art. 64, comma 1) e psichiche (art. 64, comma 2). Libertà fisica La libertà fisica è la prima a dover essere garantita in tale sede. Essa si estrinseca nel diritto dell’indagato, anche se sottoposto a misura cautelare, di sottoporsi libero all'interrogatorio. E ciò significa che in occasione dello svolgimento dell’esame non può trovare innanzitutto spazio l’uso di eventuali strumenti di costrizione quali manette, ceppi o similari. La norma, oltre a tutelare direttamente la libertà del singolo, va messa in diretto collegamento col generale principio del rispetto della dignità umana che va assicurato in ogni caso, pur in presenza di mezzi idonei a controllare il soggetto sottoposto ad interrogatorio. Tali tutele devono essere, comunque, commisurate alla pericolosità della persona e vietano, in ogni caso, il ricorso a metodi o tecniche atte in ogni caso ad influire sulla libertà della persona detenuta. In linea con i principi esposti, la norma dell'art. 22 disp. att. prevede, qualora non sussistano condizioni di tutela particolare che ne impongano la traduzione, che il detenuto in stato di arresto o detenzione domiciliare possa essere autorizzato ad allontanarsi dalla propria abitazione per portarsi, libero, innanzi all'autorità giudiziaria cui deve comparire per ragioni di giustizia. Analogamente, l'art. 146 disp. att. prevede che le parti private seggano al fianco del proprio difensore, salvo che non sussistano esigenze di tutela. Tale normativa, come appare evidente, va applicata anche ai detenuti i quali, quindi, ben possono seguire anche tutto il processo a proprio carico in condizione di libertà. Libertà psichica Ulteriore e necessaria conseguenza della tutela dell'interrogato è quella che lo stesso sia sentito in uno stato di piena libertà psichica. Tale garanzia viene raggiunta attraverso il divieto assoluto del ricorso a metodi o tecniche idonee ad influire sulla autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare o valutare i fatti, divieto che non viene meno anche in presenza dell'eventuale consenso della persona. Ne consegue che, indipendentemente dalla validità scientifica dei risultati cui si può pervenire, non è in alcun modo possibile adoperare nel corso dell'interrogatorio strumenti quali l'ipnosi, la cd. macchina della verità o altro. E ciò, si ribadisce, anche in presenza di un consenso dell'imputato. Alla luce di quanto fino ad ora esposto si può ben inserire tale garanzia tra i diritti non disponibili dalla parte. Tale “non disponibilità” trova ampia giustificazione nella condizione di debolezza che la parte privata ha nei confronti del potere costituito che potrebbe ben facilmente apportare a rinunce alla difesa della propria libertà e al consenso all'utilizzo di strumenti vietati. Nel generale divieto di cui all'art. 64, comma 2, va, inoltre, ricompresa anche la strumentalizzazione della misure coercitive finalizzate a coartare la volontà delle persone sottoposte ed indurla a rendere dichiarazioni confessorie od ad operare eventuali chiamate in correità o reità. Sempre al fine di tutelare concretamente tali divieti e tali garanzie, il legislatore ha previsto l'obbligo di registrazione fonografica o audiovisiva dell'interrogatorio dell'indagato detenuto che non si svolga in udienza (art. 141-bis). La norma, che circoscrive la propria portata alla sola fase di svolgimento dell'atto, si è ritenuto che possa finire per avere limitata portata pratica, non fornendo alcuna tutela alle fasi antecedenti lo svolgimento dell'esame. Disposizione di contenuto analogo è prevista anche in tema di assunzione delle prove (art. 188), a dimostrazione del rilievo che il legislatore ha riconosciuto alla tutela della libertà di autodeterminazione, intesa quale limitazione della possibile pressione psicologica e conseguente strumentalizzazione del contenuto, in chiave accusatoria, propria di uno stato garantista ed impegnato alla tutela della libertà dei cittadini. La libertà fisica e quella psichica sono, quindi, due profili che operano su piani diversi ma che sono destinati necessariamente ad integrarsi tra loro per giungere alla realizzazione di un'ampia, ma soprattutto concreta, tutela della libertà della persona, presupposto imprescindibile per assicurare all'indagato/imputato la totale capacità di autodeterminarsi in maniera libera e consapevole. AvvisiPrima dell'inizio dell'atto è obbligatorio che alla persona siano forniti una serie di avvisi, la cui omissione influisce, escludendola, sull'utilizzabilità dell'eventuale contenuto dichiarativo dell'atto. La sanzione, indubbiamente severa, fa subito comprendere la rilevanza che tali avvisi rivestono nel contesto delle garanzie poste a tutela dell'interrogato ai fini della piena realizzazione della libertà da ogni condizionamento di cui deve godere colui che si sottopone ad interrogatorio. Attraverso l'imposizione di un tale obbligo il legislatore, da un lato garantisce la piena consapevolezza da parte della persona indagata in ordine all'entità e alla portata dei diritti e delle garanzie previste dall'ordinamento, dall'altro prevede severe conseguenze derivanti dalla violazione da una omissione della stessa autorità procedente, la quale non potrà che imput sibi l'eventuale inutilizzabilità dell'atto assunto in mancanza degli avvisi. In sintesi, quindi, gli avvertimenti in esame, sia pur da prospettive diverse, sono anch'essi univocamente convergenti e finalizzati a rendere maggiormente consapevole la parte delle conseguenze che può avere l'atto che sta per compiere ed a metterla nella condizione di potersi autodeterminare in piena libertà. Per non vanificare gli scopi perseguiti dal legislatore, inoltre, lo stesso ha imposto che le avvertenze prescritte dall'art. 64, comma 3, debbano essere rivolte alla persona prima dell'inizio dell'interrogatorio in qualunque forma, anche sintetica, purché sufficientemente chiara, non essendo prescritta dalla legge alcuna formula sacramentale (Cass. I, n. 41160/2002) in modo che venga garantita la comprensione del contenuto degli avvisi. Gli avvisi previsti dall'art. 64 c.p.p. riguardano esclusivamente l'indagato per condotte potenzialmente integranti reati, mentre non sono previsti nel caso in cui sia contestato un illecito amministrativo, anche se connesso a violazioni di natura penale. Proprio per tale ragione, è stata sollevata questione di legittimità costituzionale dell'art. 64 comma 3 c.p.p. nella parte in cui non prevede che gli avvisi ivi indicati debbano essere rivolti alla persona cui sia contestato l'illecito amministrativo di cui all'art. 75 co. 1 DPR 309/1990, o che sia già raggiunta da elementi indizianti di tale illecito, allorché la stessa sia sentita in relazione ad un reato collegato ai sensi dell'art. 371, co. 2, lettera b) c.p.p. In particolare, si è sostenuta la violazione degli artt. 3, 24, 111 e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 6 CEDU e all'art. 14, par. 3, lett. g ), del Patto internazionale sui diritti civili e politici (PIDCP) proprio in ragione della diversità di trattamento e dell'assenza delle importanti garanzie accordate dall'art. 64 c.p.p. La questione è stata dichiarata non fondata dalla Corte Costituzionale sulla base della natura stessa della sanzione prevista dall'art. 75 del D.P.R. 309/1990, che è prettamente amministrativa. La Consulta, in particolare, ha precisato che tali sanzioni non hanno natura sostanzialmente punitiva secondo i criteri Engel, per cui non attraggono l'intera gamma delle garanzie, sostanziali e processuali, previste dalla Costituzione e dalle carte europee ed internazionali dei diritti per la materia penale, tra cui il "diritto al silenzio". Né l'elevata carica di afflittività delle misure in esame esclude la loro finalità preventiva, o depone univocamente nel senso di una loro natura "punitiva". Peraltro, la natura preventiva di tali "sanzioni" segna anche il limite dei poteri dell'autorità amministrativa nell'esercizio della propria discrezionalità rispetto alla loro irrogazione nel caso concreto. (C. Cost, n. 148/2022). Sempre con riferimento agli avvisi contenuti nell'art. 64 comma 3 c.p.p. e con specifico riferimento al momento in cui devono essere concretamente esposti all'indagato, anche con riferimento alle informazioni richieste ai sensi dell'art. 21 disp. att. c.p.p., si rappresenta che di recente è intervenuta la Corte Costituzionale (Core Cost, n. 111/2023) in data 5 giugno 2023. La questione posta all'attenzione della Corte riguardava la legittimità costituzionale del summenzionato art. 64 comma 3 c.p.p. e dell'art. 495 comma 1 c.p. con riferimento alle informazioni chieste all'indagato ai sensi dell'art. 21 disp. att. c.p.p.. Come è noto, tale norma prevede che quando procede a norma dell'articolo 66 del codice, il giudice o il pubblico ministero invita l'imputato o la persona sottoposta alle indagini a dichiarare se ha un soprannome o uno pseudonimo, se ha beni patrimoniali e quali sono le sue condizioni di vita individuale, familiare e sociale e se è sottoposto a procedimenti penali, se ha riportato condanne o se esercita, o ha esercitato cariche pubbliche. La questione di legittimità che è stata sollevata dal Tribunale di Firenze riguardava, in primis la legittimità costituzionale dell'art. 495 del codice penale, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, «nella parte in cui si applica alle false dichiarazioni rese nell'ambito di un procedimento penale dalla persona sottoposta ad indagini o imputata in relazione ai propri precedenti penali e in generale in relazione alle circostanze indicate nell'art. 21 disp. att. c.p.p.» e conseguentemente, in riferimento al solo art. 24 Cost., alla legittimità costituzionale dell'art. 64, comma 3 c.p.p.«nella parte in cui non prevede che gli avvisi ivi previsti debbano essere formulati nei confronti della persona sottoposta alle indagini/imputata prima di qualunque tipo di audizione della stessa nell'ambito del procedimento penale». La Consulta ha ritenuto fondata e ha accolto la questione sollevata dal Tribunale di Firenze, e ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 64 comma 3 c.p.p., nella parte in cui non prevede che gli avvertimenti ivi indicati siano rivolti alla persona sottoposta alle indagini o all'imputato prima che vengano loro richieste le informazioni di cui all'art. 21 delle Norme di attuazione del codice di procedura penale, nonché l'illegittimità costituzionale dell'art. 495, primo comma, del codice penale, nella parte in cui non esclude la punibilità della persona sottoposta alle indagini o dell'imputato che, richiesti di fornire le informazioni indicate nell'art. 21 norme att. c.p.p. senza che siano stati loro previamente formulati gli avvertimenti di cui all'art. 64, comma 3, c.p.p., abbiano reso false dichiarazioni. Con questa sentenza, la Consulta ha quindi esteso i confini del diritto al silenzio, in ottica garantista, riconosciuti all'indagato, evidenziando che il diritto al silenzio opera ogniqualvolta l'autorità che procede in relazione alla commissione di un reato “ponga alla persona sospettata o imputata di averlo commesso domande su circostanze che, pur non attenendo direttamente al fatto di reato, possano essere successivamente utilizzate contro di lei nell'ambito del procedimento o del processo penale, e siano comunque suscettibili di avere un impatto sulla condanna o sulla sanzione che le potrebbe essere inflitta”. Nel caso di specie delle domande previste dall'art. 21 disp. att. c.p.p., le risposte dell'indagato, possono arrecare un danno, in quanto, rileva la Consulta, l'indagato potrebbe fornire indicazioni che portano al suo arresto facoltativo, nel caso in cui riferisca di essere stato già condannato, e può essere anche valutata ai fini dell'applicazione di misure cautelari. Allo stesso modo, ad esempio, il rivelare di avere uno pseudonimo, potrebbe portare all'identificazione dell'indagato. Proprio per questo, rileva la Corte, la Costituzione e le norme internazionali che tutelano i diritti umani consentono che si possa imporre ad una persona sospettata di aver commesso un reato il dovere di indicare all'autorità che procede le proprie generalità (nome, cognome, luogo e data di nascita), ma non anche il dovere di fornire ulteriori informazioni di carattere personale, non essendovi per l'indagato o l'imputato alcun obbligo di collaborare con le indagini e il processo a proprio carico. Proprio per tale motivo, prima ancora di rispondere, sarà necessario un esplicito avviso all'indagato e all'imputato della facoltà di non rispondere anche alle domande ex art. 21 disp. att. c.p.p.. Con la conseguenza che, in caso di risposte dal contenuto non veritiere, dovrà essere esclusa la punibilità nel caso in cui l'imputato o indagato non sia stato tempestivamente e debitamente avvertito di questa sua facoltà. Omissione parziale della formulazione degli avvisi Qualora l'omissione abbia ad oggetto solo alcuni degli avvisi la sanzione dell'inutilizzabilità si caratterizza in maniera diversa a seconda dei casi. Ed invero possono verificarsi distinte ipotesi. Ovviamente la principale è quella ben ovvia che se sono stati dati tutti gli avvisi di cui alle lett. a), b) e c) dell'articolo 64, comma 3, (come sarebbe logico aspettarsi da un apparato efficiente) le dichiarazioni rese dal dichiarante sono utilizzabili sia contro lui che contro i terzi; mentre nel caso in cui non sia dato l'avviso di cui alla lettera b) dell'articolo 64, comma 3, le dichiarazioni sono totalmente inutilizzabili, ancorché siano stati dati gli avvisi di cui alla lettera a) e alla lett. c); in tale ipotesi, infatti, la mancanza dell'avvertimento che l'indagato o l'imputato “ha facoltà di non rispondere” vitiatur e vitiat, per ragioni fin troppo ovvie, l'intero interrogatorio; se invece sono dati gli avvisi di cui alle lettere a) e b), ma non quello di cui alla lettera c), le dichiarazioni sono utilizzabili solo contro il dichiarante, ma non nei confronti dei terzi, come si desume dall'espressa previsione in tal senso dell'articolo 64, comma 3-bis; se infine sono stati dati solo gli avvisi di cui alle lettere b) e c), le dichiarazioni possono essere utilizzate solo nei confronti dei terzi, ma non del dichiarante: e tale possibilità discende dal fatto che le accuse mosse dall'indagato o dall'imputato nei confronti di altre persone sono “rese consapevoli ed efficaci” dal combinato disposto degli avvertimenti previsti dall'articolo 64, comma 3, lett. b) e c) (Cass. I, n. 11165/2016). Facoltà di non rispondereRappresenta certamente il primo e più importante avviso che va comunicato alla parte, in quanto in esso si sostanza la più evidente attuazione del principio del “nemo tenetur se detegere”, ossia del diritto a non riferire ciò che potrebbe essere pregiudizievole per sé stesso. Si tratta, certamente, di una facoltà riconosciuta esclusivamente all'indagato/imputato, e non al teste che, al contrario, assume un impegno formale a rispondere ed a farlo secondo verità, ossia non nascondendo nulla di quanto a sua conoscenza (art. 497 comma 2). Diversamente dal teste, quindi, all'imputato/indagato è demandato il diritto di scegliere se e cosa dichiarare, in quanto lo stesso atto, diversamente dall'esame della persona informata dei fatti, non è finalizzato a rendere un contributo conoscitivo. La generale portata e valenza della facoltà implica, inoltre, che non possa essere posto alcun limite temporale al suo esercizio, di talché, può essere esercitata anche prima della formalizzazione del relativo avviso. In tal caso, come logica e giurisprudenza insegnano, diventa superflua ogni altra formalità connessa e conseguente. Deve ritenersi pertanto che, ove la persona che debba rendere l'interrogatorio dichiari in via preliminare di non voler rispondere alle domande che gli saranno rivolte, venga meno ogni obbligo da parte del giudice, di talché anche la mancata contestazione del fatto non può ritenersi causa di nullità (Cass. II, n. 9338/2001). L'assenza di un limite temporale, peraltro, consente anche alla parte di poter esercitare la propria facoltà nel corso dell'interrogatorio ovvero circoscriverla a singole domande. Nulla esclude, infatti, che l'esercizio della facoltà di non rispondere possa essere parziale, né può ritenersi irreversibile la manifestata volontà di sottoporsi all'interrogatorio. Anche in caso di rifiuto parziale e limitato a specifiche domande, la parte non dovrà in alcun modo giustificare le ragioni per le quali non intende rispondere, dovendosi limitare solo ad evidenziare la sua determinazione di voler mantenere il silenzio. La non irreversibilità del rifiuto di rispondere, peraltro, non esclude la possibilità che la parte che si sia rifiutata inizialmente di rispondere possa farlo in un secondo. SilenzioRappresenta la diretta conseguenza della facoltà di non rispondere e il giudice non può che prendere atto del silenzio dell'imputato in sede di esame. Va, tuttavia, rilevato che anche al silenzio vanno riconosciuti un significato ed una valenza propria in sede di accertamento dei fatti. Certamente, il silenzio non può essere ritenuto in alcun modo elemento di prova a carico dell'indagato, come fosse una implicita confessione di responsabilità in ordine alle contestazioni elevategli, ma, in ogni caso, da tale comportamento il giudice può trarre argomenti di prova, utili per la valutazione delle circostanze «aliunde» acquisite (Cass. II, n. 6348/2015). L'ambito di applicazione del diritto al silenzio è stato rimodulato ad opera della l. 1 marzo 2001 n. 63, contenente “Modifiche al codice penale ed al codice di procedura penale in materia di formazione e valutazione della prova in attuazione ella legge costituzionale di riforma dell'art. 111 della Costituzione”, la quale ha ristretto le ipotesi di incompatibilità a testimoniare dell'indagato/imputato ed ha imposto la formulazione di un ulteriore avviso prima dell'inizio dell'interrogatorio afferente la possibilità, in presenza di determinate condizioni, dell'assunzione della qualità di teste. Segue. CasisticaAl giudice non è precluso valutare la condotta processuale dell'imputato, coniugandola con ogni altra circostanza sintomatica, con la conseguenza che egli, nella formazione del suo libero convincimento, ben può considerare, in concorso di altre circostanze, la portata significativa del silenzio su circostanze potenzialmente idonee a scagionarlo e che la negazione o il mancato chiarimento, da parte dell'imputato, di circostanze valutabili a suo carico nonché la menzogna o il semplice silenzio su queste ultime possono fornire al giudice argomenti di prova solo con carattere residuale e complementare ed in presenza di univoci elementi probatori di accusa, non potendo determinare alcun sovvertimento dell'onere probatorio (Cass. II, n. 6348/2015); la valenza del silenzio, quale elemento sintomatico per l'interpretazione degli elementi di prova esistenti, ben può valere anche ai fini della verifica della sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza necessari per l'adozione di misure cautelari. In tal caso, infatti, è consentito al giudice di tenere conto della mancanza di alcuna contrapposizione ai fatti narrati dalla persona offesa, dall'indagato che sia avvalso della facoltà di non rispondere (Cass. III, n. 45245/2014); lo stesso discorso, viceversa, non può essere esteso anche alla verifica delle esigenze cautelari in rapporto alle quali l'esercizio da parte dell'indagato della facoltà di non rispondere o di non collaborare non consente di desumere alcuna prognosi sfavorevole in ordine al pericolo di commissione di altri reati, o altra conseguenza negativa diversa dall'impossibilità di accedere ad eventuali benefici che possono legittimamente derivare dalla collaborazione (Cass. III, n. 45245/2014). Prosecuzione delle indaginiOvviamente, pur essendo il diritto al silenzio una garanzia a tutela dell’indagato, il suo esercizio non può avere in alcun modo effetto paralizzante sul prosieguo investigativo, per cui il processo proseguirà in ogni caso il suo corso anche in presenza del silenzio dell’indagato. L’assenza di alcun effetto del silenzio sull’iter procedimentale costituisce un ulteriore avviso che il giudice è tenuto a rivolgere all’indagato. Utilizzazione delle dichiarazioniLa necessità di informare la persona del futuro possibile utilizzo contra se delle dichiarazioni eventualmente rese, consegue dalla esigenza di assicurare una piena consapevolezza del dichiarante della valenza dell'atto. L’indagato, nel corso del suo esame, infatti, è pienamente libero di fornire tutte le indicazioni che ritiene utili alla propria difesa, anche se non veritiere, non avendo alcun obbligo di dire la verità. Non è prescritto, infatti, che assuma alcun impegno in tal senso e la stessa A.G. che procede dovrà solo avvisarlo che qualunque sia il contenuto delle sue dichiarazioni, le stesse potranno essere sempre utilizzate nei suoi confronti. Ciò dimostra in primo luogo che l'indagato ben può rendere dichiarazioni anche false ma che nulla osta al loro utilizzo — il quale non può ritenersi circoscritto al solo procedimento all'interno del quale le stesse sono state rese. Ed infatti, il diritto di poter dire il falso non implica che le sue dichiarazioni siano per ciò solo scriminate, in quanto continuano a vigere gli effetti extraprocessuali. Non v'è dubbio che se nel corso dell'interrogatorio accusi falsamente ed in maniera consapevole una terza persona estranea, risponderà del delitto di calunnia. Questa valenza extra processuale, invero, consegue anche al silenzio. L'utilizzo che potrà fare il giudice in sede decisionale rientrerà in ogni caso nel potere discrezionale del quale lo stesso è munito e, se utilizzato a fini probatori, sempre nei limiti del proprio libero convincimento. Dichiarazioni che concernono la responsabilità di terziAltro avviso, di estrema rilevanza anche a tutela dello stesso interrogato, che deve essere necessariamente dato prima dell'inizio dell'interrogatorio attiene alla possibilità che l'indagato o imputato, nel caso in cui renda dichiarazioni nei confronti di terze persone, assuma la qualità di teste — salve le incompatibilità previste dall'art. 197 e le garanzie assicurate dall'art. 197-bis. La capacità per un indagato di mantenere la propria condizione di imputato/indagato ed assumere contemporaneamente la qualità di teste, ancorché nelle forme e limiti analiticamente indicati dal legislatore, costituisce una delle principali innovazioni apportate dalla l. n. 63/2001, contenente “Modifiche al codice penale ed al codice di procedura penale in materia di formazione e valutazione della prova in attuazione ella legge costituzionale di riforma dell'art. 111 della Costituzione”. L'assetto normativo della prova dichiarativa, in esito alla riforma posta in essere con la citata legge, evidenzia una complessiva “strategia di fondo” del legislatore: quella di circoscrivere e limitare il divieto di testimoniare dell'imputato. Ai sensi del novellato art. 197, comma 1, infatti, non possono ricoprire l’ufficio di testimone solo i coimputati nel medesimo fatto ovvero in caso di connessione di procedimenti, ma solo quando il reato sia stato commesso in concorso o cooperazione tra loro ovvero se sia frutto di condotte indipendenti che hanno determinato l'evento e sempre che non sia precedentemente intervenuta una sentenza irrevocabile di proscioglimento o di condanna, anche ai sensi dell'art. 444. Alla luce di quanto disposto dalla norma in parola, qualora il soggetto renda dichiarazioni che riguardino la responsabilità di terzi al di fuori dei sopra riportati limiti rigorosamente definiti dal legislatore, lo stesso assumerà la qualifica di testimone con riferimento a quanto dichiarato nei confronti di terzi senza perdere, ovviamente, la qualifica di imputato. A monte di tale riconoscimento v'è il presupposto che il diritto di difesa ed il conseguente principio del nemo tenetur se detegere sia strettamente riferibile al solo imputato. Di talché lo stesso non può rilevare nel caso in cui le dichiarazioni non riguardino il soggetto che le rende ma terze persone. L'estraneità rispetto ai fatti dichiarati ovvero l'aver già definito la propria posizioni in rapporto agli stessi sono condizioni che non implicano pregiudizio per il dichiarante e, quindi, non comportano neanche una violazione del principio del nemo tenetur se detegere. Il qual fatto non pone ostacoli al riconoscimento della possibilità di qualificare come testimonianza la dichiarazione resa dal soggetto indagato/imputato. Evidenti, peraltro, sono le implicazioni di questo nuovo assetto. La persona manterrà, in quanto imputato, le proprie garanzie ed assumerà, in quanto teste, gli obblighi propri del testimone. Questa dicotomia, tuttavia, non ha esclusivamente un carattere di contrapposizione — che è configurabile solo nel caso in cui il soggetto riferirà di fatti del tutto autonomi ed indipendenti rispetto a quello per il quale risulta imputato/indagato. Nella realtà, viceversa, il rapporto tra i fatti per cui si è sottoposti ad indagine od a giudizio e quelli oggetto delle dichiarazioni possono essere in qualche modo connessi. Il legislatore, quindi, ha dovuto necessariamente prendere atto che la dualità teste/imputato non ha, né poteva avere, contorni definiti di netta antitesi e che la previsione di cui art. 197, come riformata, non poteva risolvere tutte le possibili interferenze tra la posizione del dichiarante e quella del terzo. In altri termini, la possibilità che possano ugualmente conseguire, dal possibile ulteriore utilizzo delle sue dichiarazioni ancorché rese nei confronti di terzi, effetti pregiudizievoli per la persona del dichiarante, pur non giungendo a privare il dichiarante della capacità di essere teste, ha imposto la predisposizione di forme di tutela anche nei suoi confronti, proprio al fine di prevenire conseguenze negative sulla sua persona. A tal fine, a ben vedere, si è prevista in suo favore l'assistenza di un legale — nonostante si tratti di un teste — e si è imposto che, ai fini l'utilizzo delle sue dichiarazioni, non potrà prescindersi dal rinvenimento, ai sensi dell'art. 192, comma 3, di elementi estrinseci atti a riscontrarne l'attendibilità. Tra i due estremi dati, da un lato, dall'essere la persona sottoposta ad indagini ovvero a giudizio e, dall'altro, rivestire la figura di teste “puro” in quanto le sue dichiarazioni hanno ad oggetto fatto del tutto indipendenti rispetto a quello contestatogli sono state enucleate una serie di figure di dichiaranti nel processo penale, determinate in base ai diversi “stati di relazione” rispetto ai fatti oggetto del procedimento, secondo una graduazione che, come detto, partendo dalla situazione di assoluta indifferenza (propria del teste estraneo ai fatti), giunge fino alla forma ‘estrema' di coinvolgimento, rappresentata dal concorso del dichiarante nel medesimo reato». Alla molteplicità di tali “stati di relazione” corrisponde, evidentemente, una «articolata scansione normativa», relativa non soltanto alla varietà soggettiva dei dichiaranti, ma anche alle differenti modalità di assunzione della dichiarazione e, soprattutto, ai diversi effetti del dichiarato (Corte cost., n. 265/2004). In via generale, quindi, la riforma presuppone che il diritto al silenzio, in cui si esprime il principio del nemo tenetur se detegere, sia una facoltà che tuteli solo ed esclusivamente il dichiarante e che, quindi, al di fuori di tale limite, sussista sempre una capacità a testimoniare. Pertanto deve ritenersi che il rapporto tra la capacità a testimoniare da un lato ed il diritto che ha il dichiarante a non autoincriminarsi dall'altro, debba trovare un punto di equilibrio in funzione del possibile coinvolgimento diretto della persona che renda le dichiarazioni. Tanto più alto è il rischio di tale coinvolgimento tanto più esteso dovrà essere il divieto di testimoniare. Ne consegue che la tutela del dichiarante sarà assoluta, ingenerando un divieto di testimonianza (art. 196) in presenza di coimputati nel medesimo reato, con le eccezioni in cui sia stata pronunciata nei confronti del dichiarante sentenza irrevocabile di proscioglimento, di condanna, ovvero di applicazione della pena ai sensi dell'art. 444; mentre un mitigato coinvolgimento diretto consentirà all'interrogato di poter assumere la qualità di teste. È il caso dei delitti connessi teleologicamente o collegati rispetto a quello contestato al dichiarante, anche prima che il procedimento a loro carico sia concluso con provvedimento irrevocabile. A questi vanno aggiunti, sulla scorta di una interpretazione giurisprudenziale ormai consolidata, la persona offesa che sia anche imputata in reati connessi teleologicamente o collegati (art. 12, comma 1, lett. b) e c), o dopo che nei loro confronti sia stata resa sentenza irrevocabile (Cass. S.U., n. 12067/2010). Pertanto, alla luce di quanto fino ad ora esposto, salvo il caso in cui non vi siano rischi per il dichiarante, il testimone di reato connesso o collegato dovrà essere esaminato con le forme e le tutele previste dalla legge. La possibilità, ancorché a volte neanche ipotizzabile, che, nel corso dell'interrogatorio, il soggetto possa riferire di responsabilità di terzi e determini nei suoi confronti l'assunzione della qualità di teste, ancorché nei limiti e con le tutele di legge, si sostanzia nell'obbligo imposto al giudice di avvisare preventivamente il soggetto di tale eventualità. E ciò al fine di rendere libera la determinazione del soggetto in ordine al contenuto delle proprie dichiarazioni e, soprattutto, nella consapevolezza delle conseguenze, anche indirette, del proprio dichiarato. Il profilo caratterizzante della capacità a testimoniare dell'imputato/indagato emerge dal fatto che la stessa sorge solo a seguito di una scelta autonoma e consapevole della persona. Fino a quando non saranno rese le dichiarazioni nel corso dell'interrogatorio egli non potrà essere ritenuto testimone. Peraltro, durante lo svolgimento dell'atto, egli è libero di riferire o meno non solo circostanze che lo riguardano, ma anche quelle afferenti la responsabilità di terzi. Né può ritenersi che la mancanza del pregiudizio conseguente la sua estraneità ovvero la definizione della propria posizione processuale gli imponga il dovere di riferire quanto a sua conoscenza alla pari di un teste “estraneo” ai fatti. Ulteriore conseguenza di ciò è che il dichiarante non può neanche essere coartato nella libertà di rendere le sue dichiarazioni in forza dell’espressa tutela accordata dal comma 2. Va, quindi, affermato che la spontanea dichiarazione nei confronti del terzo, nei limiti in cui non determini un coinvolgimento diretto del dichiarante tale da essere causa di incompatibilità con l’assunzione dell’ufficio di testimone, finisca con l’avere una natura costitutiva della qualità di teste dell’imputato. Segue. CasisticaLa disciplina limitativa della capacità di testimoniare prevista dagli artt. 197, comma 1, lett. a) e b), 197-bis, e 210 si applica solo all'imputato, al quale è equiparata la persona indagata nonché il soggetto già imputato, salvo che sia stato irrevocabilmente prosciolto per non aver commesso il fatto, nel qual caso non trovano applicazione i commi terzo e sesto dell'art. 197-bis, di talché non sussiste incompatibilità ad assumere l'ufficio di testimone per la persona già indagata in procedimento connesso ai sensi dell'art. 12, comma 1, lett. c), o per reato probatoriamente collegato, definito con provvedimento di archiviazione (Cass. S.U., n. 12067/2009); l'imputato in un procedimento connesso o collegato ha piena capacità di testimoniare, anche nel caso in cui si sia precedentemente avvalso della facoltà di non rispondere, qualora nei suoi confronti sia stata nel frattempo pronunciata sentenza irrevocabile di proscioglimento, di condanna o di applicazione della pena, di talché può essere nuovamente citato come teste ed in quanto tale non può nuovamente avvalersi della facoltà di non rispondere (Cass. IV, n. 10346/2009); nel caso in cui le persone offese dal reato (nella specie quello di truffa) siano state successivamente denunciate dalla persona alla quale il fatto era stato attribuito, pur risultando sostanzialmente imputati di reati tra loro dipendenti, non trova applicazione la disposizione di cui all'art. 197-bis e le parti offese devono essere esaminate senza le garanzie previste dalla citata norma. Ciò poiché una lettura costituzionalmente orientata della previsione contenuta nell'art. 371, comma 2, lett. b), impone di escludere dall'applicazione della suddetta disposizione quei reati che, seppure formalmente reciproci, nel senso di essere stati commessi in danno reciproco, siano stati eseguiti in contesti spaziali e temporali del tutto diversi. In caso contrario, invero, si finirebbe con l'attribuire ad una delle parti private il potere di incidere a proprio piacimento ed in modo strumentale sulla piena capacità a testimoniare del proprio accusatore (Cass. II, n. 4128/2015); l'acquirente di modiche quantità di sostanza stupefacente, nei cui confronti non siano emersi elementi indizianti di uso non personale, deve essere sentito nel corso delle indagini preliminari come persona informata dei fatti e come testimone in dibattimento, essendo irrilevante, a tal fine, che egli possa essere soggetto a sanzione amministrativa per l'uso personale, derivando da ciò la utilizzabilità delle dichiarazioni (Cass. III, n. 2441/2014); in caso di gravame proposto dall'imputato attinente all'attendibilità della persona offesa, il giudice di secondo grado deve autonomamente verificare se costei debba essere sentita ai sensi dell'art. 197-bis, con valutazione da porsi al momento della verifica. Ne consegue che, avendo i giudici di appello rilevato che il procedimento instaurato nei confronti della persona offesa per il delitto di violenza privata si era concluso con decreto di archiviazione, hanno correttamente ritenuto che, indipendentemente dalla qualità attribuita alla persona offesa dal giudice di primo grado, nel caso di specie non dovesse trovare applicazione la disciplina limitativa della capacità di testimoniare prevista dall'art. 197, comma 1, lett. a) e b), artt. 197-bis e 210, che è stata dettata solo per l'imputato, posizione alla quale è equiparata quella della persona sottoposta alle indagini nonché quella del soggetto già imputato, salvo che sia stato irrevocabilmente prosciolto per non avere commesso il fatto (Cass. II, n. 4123/2015); l'ambito di operatività della norma ha sempre ad oggetto un contenuto dichiarativo, ne consegue che la richiesta rivolta all'indiziato, nella fase delle indagini preliminari, di pronunciare delle espressioni verbali, al fine di consentire il riconoscimento della voce da parte della persona offesa costituisce atto atipico di indagine della polizia giudiziaria pienamente legittimo a norma degli artt. 55 e 348, che non influisce sulla libertà di autodeterminazione della persona interessata, se non è effettuato con metodi coercitivi, e che non impone la partecipazione obbligatoria del difensore (Cass. II, n. 41456/2012). InutilizzabilitàÈ la sanzione, estremamente severa a tutela dell’interrogato, che il legislatore prevede come conseguenza della violazione dell'obbligo di formulazione degli avvisi da parte dell'A.G. all'interrogato. Quanto alle lettere a) e b) del comma 3, si tratta di una inutilizzabilità che colpisce le dichiarazioni rese contra se dall'interrogato. Diversamente dal caso di cui alla lett. c), in cui l'inutilizzabilità ha ad oggetto le sole dichiarazioni rese contra alios e gli stessi dichiaranti, inoltre, non potranno assumere la qualità di testimoni. Con riferimento a questa ultima disposizione, va immediatamente evidenziato che l’incapacità di assumere la qualifica di testimone è strettamente finalizzata a rendere concreta ed efficace la sanzionata inutilizzabilità delle dichiarazioni rese in assenza del preventivo avviso. Si evidenzia, infatti, che in mancanza di tale previsione, le sue dichiarazioni non sarebbero più sanzionate da inutilizzabilità in quanto non potrebbe trovare applicazione la disposizione in esame che ha ad oggetto le dichiarazioni rese nel corso di un interrogatorio. Nonostante l'espressa previsione normativa — che sancisce con la sola inutilizzabilità la violazione dell'obbligo dell'avviso — va rimarcato un precedente indirizzo giurisprudenziale, il quale tendeva ad inquadrare la violazione di una delle regole generali per l'interrogatorio nell'ambito delle nullità di ordine generale a regime intermedio rilevabile nei limiti di cui all'art. 182, comma 2. Secondo questa concezione, invero, la mancata osservanza degli obblighi avrebbe comportato una violazione concernente «l'intervento» dell'imputato, prevista dall'art. 178 comma 1 lett. c). Tale convinzione, peraltro, è fondata sul convincimento che “la nozione di «intervento dell'imputato» non può essere restrittivamente intesa nel senso di mera presenza fisica dell'imputato nel procedimento, ma come partecipazione attiva e cosciente del reale protagonista della vicenda processuale, al quale deve garantirsi l'effettivo esercizio dei diritti e delle facoltà di cui lo stesso è titolare: in particolare, del diritto di difesa, di cui costituisce precipua manifestazione la facoltà di non rispondere, espressione di un valore fondamentale della persona (Cass. I, n. 4242/1997). La questione è stata però risolta dal recente intervento delle SS. UU. della Corte di Cassazione, le quali hanno escluso la configurabilità in tali casi di un'ipotesi di nullità a regime intermedio. Ed invero, il Supremo consesso ha evidenziato le incongruenze della tesi e le ha correlate: alla mancata previsione, nel codice, della nullità in questione (non riconducibile a quelle di ordine generale, che tutelano l'imputato e le altre parti del processo, ma non anche i testi assistiti); alla insussistenza di un reale interesse ad eccepirla da parte del dichiarante (ampiamente tutelato dalla garanzia di inutilizzabilità contra se delle eventuali dichiarazioni rese); al carattere relativo della inutilizzabilità ex art. 64 comma 3-bis (volta evidentemente a tutelare l'interesse non del dichiarante, ma dei soggetti coinvolti a non essere accusati da una persona non previamente avvertita della responsabilità derivante dalle sue dichiarazioni). Per altro verso, è stato valorizzato il tenore testuale dell'art. 197, che pone alle lett. a) e b) “precisi e generali divieti probatori, la cui violazione comporta necessariamente, anche nel caso del mancato avviso di cui si discute, l'inutilizzabilità ex art. 191 delle dichiarazioni in tal modo acquisite” (Cass. S.U. n. 33583/2015). Non pone, inoltre, una questione di inutilizzabilità in sede dibattimentale l'interrogatorio svolto nella fase delle indagini preliminari senza la formulazione dei necessari avvisi avvenuto prima dell'entrata in vigore della l. n. 63/2001, non configurandosi alcuna violazione di legge. In tal caso, infatti, trova applicazione il consolidato principio di diritto secondo il quale l'obbligo di rinnovare l'esame del soggetto autore di dichiarazioni eteroaccusatorie non può trovare applicazione dopo la chiusura delle indagini preliminari, segnata dall'avviso di conclusione delle stesse previsto dall'art. 415-bis, che introduce una fase ontologicamente e cronologicamente diversa. Ne consegue che tali atti mantengono la propria utilizzabilità (Cass. II, n. 7029/2013). Va, infine, rilevato che ferma restando l’inutilizzabilità conseguente al mancato avviso, non si esclude la possibilità di una ripetizione dell’atto nel quale lo stesso dichiarante, previa formulazione degli avvisi dovuti per legge, reiteri le sue dichiarazioni. Si evidenzia, infatti, che a differenza di quanto previsto per le nullità, all’inutilizzabilità non si ricollegano effetti sugli atti derivati (Cass. II, n. 4040/2006). Le ripetute dichiarazioni, pertanto, potranno essere pienamente utilizzabili e valutate. Limiti dell'inutilizzabilità Sul piano pratico, gli obblighi impartiti dalla norma in parola si scontrano, quotidianamente, con con l’individuazione dei casi in cui lo stesso debba essere preventivamente dato ovvero si è discusso della valenza delle dichiarazioni in assenza di un preventivo avviso e se le stesse siano o meno viziate di utilizzabilità. Su tali limiti dell’inutilizzabilità si è registrato un contrasto in ambito giurisprudenziale. Secondo un primo orientamento sarebbero infatti utilizzabili le dichiarazioni rese — in qualità di testimone assistito, ex art. 197-bis, comma 2, — in sede di esame dibattimentale, dall'imputato di reato connesso o interprobatoriamente collegato, ancorché non precedute dall'avviso, ex art. 64, comma 3. A mente di tale orientamento infatti, detto avviso, non è dovuto e, comunque, anche ove ritenuto necessario, la sua omissione non determina l'inutilizzabilità delle predette dichiarazioni, trattandosi di sanzione prevista dall'art. 64, comma 3-bis, non richiamato nell'art. 197-bis. Alla stregua di detta interpretazione, invero, l'eventuale omissione dell'avviso previsto all'art. 64, comma 3, non determinerebbe l'inutilizzabilità delle dichiarazioni rese contra alios (Cass. V, n. 51241/2014). In particolare, l'indirizzo citato ha affermato che il richiamo all'art. 64, comma 3, lett. c), non implica affatto che sussiste anche l'obbligo dell'avviso in questione, atteso che il detto richiamo, avuto riguardo al suo testuale tenore ed alla finalità dell'art. 197-bis (chiaramente individuabile in quella di tutelare essenzialmente il soggetto chiamato a rendere dichiarazioni dal pericolo di conseguenze per lui pregiudizievoli), ben può essere inteso come funzionale soltanto a circoscrivere la possibilità dell'assunzione come teste di chi sia imputato di reato connesso o interprobatoriamente collegato alla sola ipotesi che egli debba rendere «dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità di altri», senza che debba per ciò essere anche avvertito che, in tal caso, «assumerà, in ordine a tali fatti, l'ufficio di testimone, salve le incompatibilità previste dall'art. 197 e le garanzie di cui all'art. 197-bis, — posto che tale avvertenza, mentre ha un senso nel caso dell'interrogatorio dal momento che esso è condotto nei confronti del soggetto sottoposto a indagine e si svolge al di fuori delle garanzie del contraddicono, non avrebbe, invece, senso alcuno quando, essendosi nella sede dibattimentale, in cui tali garanzie sono presenti, il soggetto sia chiamato a riferire quanto a sua conoscenza nella già dichiarata (e non futura ed eventuale) veste di testimone, con l'assistenza, per giunta, del difensore, come previsto dall'art. 197-bis, comma 3. Ciò trova conferma nel fatto che l'obbligo dell'avvertimento è invece espressamente previsto, non a caso, dall'art. 210, comma 6, il quale trova applicazione quando, trattandosi sempre di soggetti imputati di reati connessi o interprobatoriamente collegati che non abbiano reso in precedenza dichiarazioni concernenti la responsabilità dell'imputato, essi siano citati nella anzidetta qualità e assumano quindi solo eventualmente, proprio a seguito di detto avvertimento e qualora non intendano avvalersi della facoltà di non rispondere, la veste di testimoni c.d. »assistiti«. In ogni caso, quand'anche si volesse ritenere che il richiamo dell'art. 197-bis, comma 2, all'art. 64, comma 3, lett. c) comporti anche l'obbligo dell'avviso, non potrebbe, comunque, affermarsi che l'inosservanza di tale obbligo dia luogo all'inutilizzabilità dell'acquisita deposizione testimoniale — atteso che detto richiamo non si estende al citato art. 64, comma 3-bis, che prevede appunto la sanzione dell'inutilizzabilità delle dichiarazioni concernenti la responsabilità di terzi nel caso di omissione dell'avviso in questione e la cui applicabilità non avrebbe ragion d'essere nella sede dibattimentale, attesa inoltre la necessaria presenza, a differenza di quanto si verifica in sede di interrogatorio, dei difensori dei terzi interessati, vale a dire degli imputati ai quali dette dichiarazioni si riferiscono. All'uopo vale ancora il fatto che l'art. 210, comma 6, nel prevedere espressamente, come si è detto, l'obbligo dell'avviso di cui all'art. 64, comma 3, lett. c), ometta, tuttavia, il richiamo alla sanzione dell'inutilizzabilità (Cass. V, n. 46457/2014). Di contrario avviso altra giurisprudenza, la quale ha sostenuto che il soggetto che cumuli in sé le qualità di persona offesa dal reato e di indagato o imputato di reato reciproco, nei cui confronti non sia stata emessa sentenza irrevocabile, non può assumere, a pena di inutilizzabilità, l'ufficio di testimone, senza il previo avviso di cui alla lett. c) del comma terzo dell'art. 64 e senza il rispetto delle norme che regolano l'assunzione delle dichiarazioni del teste assistito di cui all'art. 210, comma sesto (Cass. I, n. 52047/2014). Quest'ultimo orientamento si poneva nella stessa scia di un precedente insegnamento di altre Sezioni Unite, le quali avevano sostenuto la necessità che il soggetto che riveste la qualità di imputato in procedimento connesso ai sensi dell'art. 12, comma 1, lett. c), o collegato probatoriamente, anche se persona offesa dal reato, dovesse essere assunto nel procedimento relativo al reato connesso o collegato con le forme previste per la testimonianza cosiddetta “assistita” (Cass. S.U., n. 12067/2010). Nonostante la pronuncia delle Sezioni Unite, l’esistenza di contrasti ha reso necessario un nuovo intervento delle Sezioni Unite che hanno ribadito quanto già sostenuto nella precedente sentenza emessa nella particolare composizione. Segue. La sentenza delle Sezioni Unite n. 33583/2015Con la sentenza Cass. S.U., n. 33583/2015, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, nel definire i confini della testimonianza assistita, hanno esaminato anche la problematica dell'obbligo dell'avviso. Il ragionamento adottato è stato incentrato sulla figura del c.d. testimone assistito introdotto dalla l. n. 63/2001, che ha riconosciuto la capacità a testimoniare dell'imputato o indagato connesso debolmente o collegato — anche prima della definizione del suo procedimento con sentenza irrevocabile — a deporre come teste su fatti concernenti la responsabilità di altri, se debitamente avvisato ai sensi dell'art. 64 del codice di rito: sicché l'assunzione della nuova veste non poteva che essere ancorata ad una scelta “resa consapevole ed efficace dal sistema di avvisi previsti dall'art. 64, comma 3, e, in particolare, da quello ex lettera c), con le conseguenze stabilite dal comma 3-bis”. In tale prospettiva, le Sezioni Unite hanno ulteriormente inteso sottolineare la necessità che l’avviso in questione “preceda l’esame ex art. 210 in tutti i casi di ”legame debole” in cui il soggetto non sia stato previamente avvisato: non solo quindi se egli non ha «reso in precedenza dichiarazioni concernenti la responsabilità dell'imputato» (come testualmente prevede il comma 6 dell'art. 210), ma anche se abbia deposto erga alios ma in modo non “garantito”, ovvero non preceduto dal richiamato avvertimento”. Con tale importante precisazione, le Sezioni Unite hanno esplicitamente disatteso l'interpretazione dell'art. 210, comma 6, secondo cui l'assunzione della qualità di “teste assistito” conseguirebbe in ogni caso in cui il soggetto chiamato a deporre, connesso “debolmente” o collegato, abbia comunque reso in precedenza dichiarazioni erga alios, anche laddove si tratti di una deposizione non garantita. Una lettura sistematica delle disposizioni introdotte dalla l. n. 63/2001 ha poi consentito alle Sezioni unite di ritenere non condivisibili altre tesi sostenute in giurisprudenza. Anzitutto, quanto al mancato richiamo della sanzione di inutilizzabilità ex art. 64, comma 3-bis da parte degli artt. 210 comma 6 e 197-bis, il Supremo consesso ha osservato che proprio il comma 3-bis prevede che, in mancanza dell'avviso di cui alla lettera c) del comma 3 dello stesso art. 64, la persona non potrà assumere l'ufficio di testimone sui fatti altrui oggetto delle dichiarazioni rese senza garanzie: si tratta, per le Sezioni unite, di una disposizione di portata generale, che estende l'incompatibilità a testimoniare a prescindere dal suo richiamo negli artt. 210 e 197-bis. Infine, quanto alla tesi secondo la quale l'avviso ex art. 64 lett. c) non sarebbe necessario (perché riferito all'interrogatorio, ovvero ad un atto che per sua natura si svolge al di fuori del contraddittorio, laddove invece quest'ultimo garantisce a sufficienza l'espletamento degli atti di cui agli artt. 197-bis e 210), le Sezioni unite hanno rilevato la sua problematica applicazione, avuto riguardo all'espressa previsione contenuta nell'art. 210 comma 6 in ordine alla necessità che l'avviso in questione sia ricevuto dai soggetti connessi debolmente o collegati, che non avevano reso in precedenza dichiarazioni erga alios. La sentenza in atti, quindi, ha fornito una lettura della normativa in chiave estremamente garantista, come dimostra la necessità di dover sempre operare gli avvisi preventivamente rispetto alle dichiarazioni — che non ha potuto prescindere dall'importanza della formulazione dell'avviso previsto dalla lett. c) del comma 3 dell'articolo in esame. Segue. CasisticaAi fini della inutilizzabilità assoluta delle dichiarazioni rese senza assistenza difensiva dal soggetto che avrebbe dovuto essere sentito in qualità di persona sottoposta alle indagini, rileva unicamente la posizione di indagato al momento dell'assunzione delle informazioni, senza che il giudice possa compiere alcuna valutazione «ex ante» volta ad escludere la colpevolezza del dichiarante per il reato astrattamente ipotizzabile a suo carico (Cass. III, n. 1233/2012); è sempre possibile la rinnovazione di un atto probatorio inutilizzabile, purché l'inutilizzabilità non derivi dalla violazione di un divieto ex art. 191. Ne consegue che l'atto di rinnovazione ben può richiamare il contenuto di un atto inutilizzabile, come il caso di interrogatorio reso in assenza di difensore nel corso di un successivo interrogatorio reso alla presenza del legale, in quanto in tal modo il primo atto, proprio attraverso il richiamo al suo contenuto entra a fare parte del secondo, purché il richiamo sia fatto in modo espresso, nel senso che deve essere inequivocabile la volontà del dichiarante di rievocare quanto già detto in precedenza (nell'atto ex se inutilizzabile) (Cass. II, n. 26738/2013); - la lettura, in limine all'interrogatorio ed alla presenza del difensore, che nulla eccepisce, di una lettera indirizzata all'imputato dai propri genitori, con cui lo si invita a confessare la responsabilità per il reato per cui si procede, costituisce un metodo investigativo per condurre l'atto istruttorio nel modo più funzionale alla ricerca della verità e non viola il disposto del comma secondo dell'art. 64 (Cass. I, n. 12731/2012); la norma transitoria di cui alla l. n. 63/2001, art. 26, infatti, prevede che, se il procedimento si trova nella fase delle indagini preliminari, il P.M. deve provvedere a rinnovare l'esame dei soggetti indicati negli artt. 64 e 197-bis, secondo le innovative forme previste. Tale disposizione transitoria è chiaramente preordinata a consentire il recupero delle dichiarazioni rese senza gli avvertimenti di cui all'art. 64 comma 3 e contestualmente ad evitare la sanzione dell'inutilizzabilità dell'interrogatorio reso precedentemente all'entrata in vigore della l. n. 63/2001, quindi senza le garanzie da essa introdotte. Ne consegue che, allorquando il procedimento si trovi ancora nella fase investigativa e l'interrogatorio della persona indagata non venga rinnovato, con gli avvertimenti di cui all'art. 64 comma 3, il recupero di detto interrogatorio non è consentito ed esso non può essere utilizzato. Tale recupero non è reso possibile neppure dalla scelta del rito abbreviato. Anche nel giudizio abbreviato, infatti, non possono essere introdotti atti probatori assunti contra legem, la cui utilizzazione è vietata in modo assoluto, perché affetti da una patologia intrinsecamente inficiarne (Cass. VI, n. 22497/11); le dichiarazioni eteroaccusatorie rese dal coimputato nell'interrogatorio svoltosi prima dell'entrata in vigore della l. n. 63/2001, e, quindi, non precedute dall'avvertimento previsto dalla nuova formulazione dell'art. 64 comma 3, lett. c), sono pienamente utilizzabili anche nel giudizio abbreviato, senza rinnovazione ex art. 26 l. n. 63/2001, in quanto il concorrente nel medesimo reato non può mai assumere la veste di testimone (Cass. II, n. 21602/2009); sono inutilizzabili le dichiarazioni rese dalla persona offesa, nei cui confronti penda procedimento per un reato commesso nelle stesse circostanze di tempo e di luogo ai danni dell'imputato, che sia stata sentita quale testimone senza l'osservanza delle garanzie riconosciute al testimone assistito in quanto, a seguito della riforma introdotta dalla l. n. 63/2001 quando l'imputato di reato reciproco rende dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità di altri, assume, si, la veste di testimone, ma ha il diritto di essere assistito dal difensore e di essere previamente avvertito delle garanzie previste dall'art. 197-bis, tra le quali v'è la facoltà di non deporre su fatti che concernono non solo la propria responsabilità ma anche quella dei terzi (Cass. V, n. 1898/2010); per i procedimenti che al momento dell'entrata in vigore della l. n. 63/2001 (cd. giusto processo) si trovavano nella fase delle indagini preliminari, l'inutilizzabilità, ai fini della valutazione dei gravi indizi di colpevolezza necessari per l'applicazione di misure cautelari personali, delle dichiarazioni concernenti la responsabilità di altri rese da indagato il cui interrogatorio ovvero le cui dichiarazioni ai sensi dell'art. 350 siano stati assunti senza l'osservanza delle garanzie previste dall'art. 64, comma 3, lett. c, stesso codice, come introdotto dall'art. 2 della citata legge, opera anche se l'interrogatorio o le dichiarazioni siano stati resi prima della data della sua entrata in vigore, allorché il pubblico ministero non abbia provveduto a rinnovare l'esame del soggetto autore delle dichiarazioni eteroaccusatorie (Cass. S.U., n. 5052/2003); è legittima la rinnovazione dell'esame del collaboratore di giustizia ai sensi dell'art. 26, comma 2, l. n. 63/2001, preceduta dagli avvertimenti di cui all'art. 64, comma 2, e svolta attraverso la conferma per relationem delle precedenti dichiarazioni, di cui il collaboratore sia consapevole per esserne stato edotto (Cass. V, n. 16556/2009); le dichiarazioni rese nel corso dell'interrogatorio assunto all'estero per rogatoria, restano utilizzabili nei suoi confronti anche se rese in assenza dell' avvertimento circa la utilizzabilità delle dichiarazioni che il soggetto interrogato avrà a rendere — art. 64, comma 3, lett. a), qualora la lex loci non preveda tale formalità, ciò in quanto il mancato avvertimento circa la utilizzabilità nei suoi confronti delle dichiarazioni che il soggetto interrogato sarà a rendere (art. 64 comma 3, lett. a) non attiene a norme inderogabili di ordine pubblico (Cass. VI, n. 34412/2010); le dichiarazioni spontanee rese dall'indagato alla polizia giudiziaria sono utilizzabili in sede di giudizio abbreviato anche in mancanza dell'avvertimento di cui all'art. 64, comma 2, lett. c), previsto solo per l'interrogatorio e non per le dichiarazioni di cui all'art. 350, comma 7 (Cass. III, n. 48508/2009). BibliografiaColamussi, Interrogatorio dell'imputato e omesso avvertimento della facoltà di non rispondere, in Cass. pen. 1994, 99; Conso- Illuminati, Commentario breve al c.p.p., Padova, 2015; Tonini, Il diritto al silenzio tra giusto processo e disciplina di attuazione, in Cass. pen. 2002, 835; Tonini, Manuale di procedura penale, Milano, 2011. |