Codice di Procedura Penale art. 125 - Forme dei provvedimenti del giudice.Forme dei provvedimenti del giudice. 1. La legge stabilisce i casi nei quali il provvedimento del giudice assume la forma della sentenza, dell'ordinanza o del decreto [48 att.]. 2. La sentenza è pronunciata in nome del popolo italiano. 3. Le sentenze e le ordinanze sono motivate, a pena di nullità [546, 547]. I decreti sono motivati, a pena di nullità, nei casi in cui la motivazione è espressamente prescritta dalla legge [111 Cost.]. 4. Il giudice delibera in camera di consiglio senza la presenza dell'ausiliario [126] designato ad assisterlo e delle parti. La deliberazione è segreta. 5. Nel caso di provvedimenti collegiali, se lo richiede un componente del collegio che non ha espresso voto conforme alla decisione, è compilato sommario verbale [140] contenente l'indicazione del dissenziente, della questione o delle questioni alle quali si riferisce il dissenso e dei motivi dello stesso, succintamente esposti. Il verbale, redatto in forma di documento analogico dal meno anziano dei componenti togati del collegio e sottoscritto [110] da tutti i componenti, è conservato a cura del presidente in plico sigillato presso la cancelleria dell'ufficio. Non si applicano le disposizioni degli articoli 110, comma 4, e 111-ter, comma 3 1 . 6. Tutti gli altri provvedimenti sono adottati senza l'osservanza di particolari formalità e, quando non è stabilito altrimenti, anche oralmente.
[1] Comma così modificato dall'art. 7, comma 1, lett. a), d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, con la decorrenza indicata dall' art. 99-bis, come inserito dal d.l . 31 ottobre 2022, n. 162, conv., con modif., in l. 30 dicembre 2022, n. 199 che ha inserito le parole: «in forma di documento analogico» dopo la parola: «redatto» e, dopo il secondo periodo, ha aggiunto il periodo: «Non si applicano le disposizioni degli articoli 110, comma 4, e 111-ter, comma 3». Per le disposizioni transitorie in materia di processo penale telematico v. art. 87, comma 4, d.lgs. n. 150, cit. che prevede: «Sino al quindicesimo giorno successivo alla pubblicazione dei regolamenti di cui ai commi 1 e 3, ovvero sino al diverso termine di transizione previsto dal regolamento di cui al comma 3 per gli uffici giudiziari e per le tipologie di atti in esso indicati, continuano ad applicarsi, nel testo vigente al momento dell'entrata in vigore del presente decreto, le disposizioni di cui agli articoli 110, 111, comma 1, 116, comma 3-bis, 125, comma 5, 134, comma 2, 135, comma 2, 162, comma 1, 311, comma 3, 391-octies, comma 3, 419, comma 5, primo periodo, 447, comma 1, primo periodo, 461, comma 1, 462, comma 1, 582, comma 1, 585, comma 4, del codice di procedura penale, nonché le disposizioni di cui l'articolo 154, commi 2, 3 e 4 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, di cui al decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271». Precedentemente, il comma era stato sostituito dall'art. 1, comma 1, d.lgs. 30 ottobre 1989, n. 351. InquadramentoLa norma disciplina la forma dei provvedimenti del giudice, muovendo dalla tradizionale ripartizione fra sentenze, ordinanze e decreti. I primi due devono essere motivati, mentre il decreto può anche non esserlo. La tradizionale tripartizioneGli atti del giudice sono i principali atti processuali; lo stesso processo, del resto, è lo strumento predisposto dall'ordinamento proprio per consentire al giudice di giungere ad una decisione del caso concreto posto alla sua cognizione. La sentenza è il mezzo principale attraverso il quale il giudice adotta la decisione. Salvo specifici casi, attinenti per lo più al rilievo di nullità od altre patologie processuali, la sentenza è l'atto con il quale, dopo che sia stata esercitata l'azione penale, il giudice definisce il processo, od almeno un grado di esso. Importante è evidenziare lo stretto rapporto intercorrente fra esercizio dell'azione penale e la sentenza: ove non sia stata esercitata la prima, il provvedimento definitorio del procedimento sarà necessariamente diverso dalla sentenza. Essa può assumere le forma della sentenza di merito (condanna od assoluzione) od avere natura processuale (non luogo a procedere emesso dal G.u.p. o non doversi procedere nei casi di estinzione del reato e di improcedibilità dell'azione). In ogni caso, essa è sempre emessa “In nome del popolo italiano”. Per gli altri requisiti di forma si rinvia al commento sub art. 546. L'ordinanza è, di regola, lo strumento attraverso il quale il giudice decide singole questioni. Spesso si tratta di decisioni interne al processo che hanno la funzione di disciplinarne lo svolgimento. In alcuni casi, però, assumono questa forma provvedimenti che chiudono fasi processuali dotate di una propria autonomia funzionale, e che dunque producono effetti anche esterni, come avviene, ad esempio, in tutti i casi nei quali si procede in camera di consiglio ex art. 127. In ogni caso, la giurisprudenza ha chiarito che l'ordinanza, a differenza della sentenza i cui requisiti sono fissati nell'art. 546, è atto a forma libera, essendo sufficiente che sia chiaramente individuabile l'autorità che l'ha pronunciata e la persona alla quale si riferisce; che contenga la concisa esposizione della motivazione di fatto e di diritto nonché la data e la sottoscrizione del giudice. Il dispositivo non è peraltro requisito necessario, come nella sentenza, essendo esso ricavabile dall'intero testo del documento (Cass. III, n. 528/1996). Sia la sentenza che il decreto devono essere motivati a pena di nullità. Il decreto è un mero ordine del giudice, un dictum. Come tale non è di regola motivato, salvo che la legge non richieda espressamente una motivazione. La formaProfili generali La forma della sentenza, della ordinanza e del decreto è quella scritta. L'adozione di qualsivoglia altra forma renderebbe l'atto non nullo ma radicalmente inesistente. Gli altri provvedimenti, come espressamente indicato dall'ultima parte della norma, sono invece adottati senza la osservanza di particolari formalità e, quando non è stabilito diversamente, possono essere anche orali. Esempio tipico di atti annoverabili in tale ultima categoria sono i provvedimenti del presidente del collegio in materia di disciplina della udienza. Benché la norma non lo indichi espressamente, tutti gli atti del giudice redatti in forma scritta devono essere sottoscritti. Per quanto concerne gli organi collegiali, mentre la sentenza deve essere sottoscritta dal giudice estensore e dal presidente a norma dell'art. 546, le ordinanze ed i decreti recano la firma del solo presidente del collegio. Più precisamente, il codice di rito non contiene alcuna specifica disposizione che concerne la sottoscrizione degli atti diversi dalla sentenza; ma si ritiene in via analogica applicabile il codice di procedura civile (artt. 134 e 135), quale espressione di un principio a carattere generale utile per la materia penale in assenza di disposizioni specifiche. Largamente diffusa nella pratica è che decreti ed ordinanze siano, in realtà, sottoscritti anche dall'estensore ove questo sia diverso dal presidente; prassi che, come si vedrà al paragrafo che segue, dà al più luogo ad una mera irregolarità, ma che non determina patologie dell'atto. Da rilevare che tale norma non risulta modificata – se non nella parte relativa alla dissenting opinion di cui si dirà – dalla Riforma Cartabia. Ma le nuove disposizioni sui depositi telematici introdotte dall'art. 111 bis rendono evidente come, una volta emanata la normativa tecnica di attuazione di cui si è detto al commento sub art. 110, anche tali provvedimenti saranno depositati in forma digitale. E, dunque, in assenza di disposizioni di contenuto diverso, ben potranno assumere la forma di atti nativi digitali, come tali privi del correlato analogico. Casistica A proposito dei requisiti della forma scritta e della sottoscrizione la giurisprudenza ha avuto modo di affrontare alcune questioni di rilevante impatto pratico, ritenendo che: a) è causa di nullità d'ordine generale a regime intermedio la indecifrabilità grafica della sentenza, quando non sia limitata ad alcune parole, perché determina la sostanziale mancanza della motivazione e la possibilità di ragionata determinazione in vista dell'impugnazione (Cass. S.U., n. 42363/2006); qualora però si tratti di pronuncia di primo grado, essa deve considerarsi come priva di motivazione, con conseguente obbligo per il giudice dell'impugnazione di redigere, anche integralmente, la motivazione mancante (Cass. V, n. 7401/2013); anche se non sussiste nullità di un'ordinanza cautelare redatta a mano con grafia di difficile lettura se la parte abbia tempestivamente proposto impugnazione e articolato specifiche censure avverso tale provvedimento, così dimostrando di averne compreso il contenuto (Cass. III, n. 35715/2020); b) non rileva, invece, la illeggibilità della sottoscrizione del giudice quando l'identificazione dei componenti dell'organo giurisdizionale sia possibile attraverso il verbale d'udienza sottoscritto dall'ausiliario che assiste il giudice e garantisce la veridicità di quanto in esso attestato (Cass. I, n. 11873/2014); c) parimenti, non determina nullità la illeggibile sottoscrizione del Presidente e del relatore nel dispositivo e nella motivazione perché non richiesta da alcuna norma giuridica (Cass. V, n. 36712/2012); d) non invalidante l'atto è l'omessa indicazione, nell'intestazione dei provvedimenti, dei nomi dei componenti del collegio giudicante (Cass. III, n. 34808/2009); e) legittime le ordinanze deliberate dal giudice collegiale sia quando sottoscritte dal solo presidente che da quest'ultimo e dall'estensore insieme (Cass. III, n. 39711/2003); f) affetta da nullità relativa l'ordinanza del Tribunale di Sorveglianza recante la sola firma del giudice estensore e non anche quella del presidente del collegio (Cass. I, n. 34367/2018). Nel caso, invero frequente, di difformità tra dispositivo e motivazione della sentenza, la giurisprudenza ha affermato che, di regola, il contrasto deve essere risolto nel senso della prevalenza del primo, che è l'atto con il quale si estrinseca la volontà della legge nel caso concreto, sulla seconda, che ha solo una funzione strumentale (Cass. II, n. 25530/2008). Ma tale principio non è inderogabile in quanto il criterio della prevalenza dell'elemento decisionale su quello giustificativo non può prescindere da una adeguata considerazione del caso concreto, ed in particolare dal contenuto della motivazione (Cass. IV, n. 27976/2008), specie quando il suo esame consenta di ricostruire chiaramente ed inequivocabilmente il procedimento seguito dal giudice, sì da condurre alla conclusione che la divergenza dipende da un errore materiale, obiettivamente riconoscibile, contenuto nel dispositivo (Cass. III, n. 19462/2013). Non dà, invece, luogo a nullità la mancanza nell'intestazione della sentenza della formula «in nome del popolo italiano» (Cass. VI, n. 25828/2008). L'obbligo di motivazioneSi è detto che sentenze ed ordinanze devono essere motivate a pena di nullità. In questa sede può solo ricordarsi che la motivazione dei provvedimenti giudiziari assolve la funzione di rendere conoscibile il percorso argomentativo che ha condotto il giudice ad assumere una determinata decisione, e quindi di consentire alla parte che la subisca non solo con comprenderne le ragioni, ma anche di determinarsi in modo congruo sulla opportunità di una impugnazione. Nella motivazione il giudice ha, quindi, il compito di sviluppare un proprio autonomo percorso valutativo, indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno indotto alla formazione del suo convincimento. In merito al contenuto della motivazione la giurisprudenza ha fissato alcuni punti fermi che possono enuclearsi come segue: a) la motivazione non può consistere in un mero rinvio agli atti del procedimento quando questi non abbiano un contenuto essenzialmente descrittivo o ricostruttivo della realtà oggetto di condivisione, ma siano costituiti da documenti complessi e contenenti aspetti valutativi (Cass. III, n. 12464/2010); b) per essere adeguata la motivazione deve consentire l'agevole riscontro delle scansioni e degli sviluppi critici che connotano la decisione in relazione a ciò che è stato oggetto di prova, e deve sempre consentire il controllo sull'affidabilità dell'esito decisorio, avendo riguardo alle acquisizioni processuali ed alle prospettazioni formulate dalle parti (Cass. VI, n. 7651/2010); c) idonea motivazione è anche una succinta esposizione dei motivi di fatto e di diritto, non essendo rilevante il numero o la lunghezza del testo, quanto, invece, il contenuto, la chiarezza e la validità delle argomentazioni, derivante dalla logicità delle connessioni e delle inferenze valutative (Cass. VI, n. 14407/2009); d) il giudice di appello, a fronte di una specifica contestazione contenuta nei motivi, non può limitarsi ad affermare genericamente che le argomentazioni contenute nella sentenza di primo grado sono condivisibili (Cass. VI, n. 43972/2013). Viceversa, è affetta da nullità assoluta la sentenza del tutto priva di motivazione (Cass. I, n. 39294/2008). Nell'ipotesi in cui la sentenza sia stata invece depositata con delle parti mancanti, la nullità ricorre nel solo caso in cui ne derivi una inidonea descrizione della fattispecie penale contestata all'imputato e della illustrazione delle ragioni della dichiarazione della penale responsabilità (Cass. II, n. 22293/2010). Occorre però ricordare che nel caso in cui priva di motivazione, nel senso visto, sia una sentenza di primo grado, poiché la mancanza assoluta di motivazione della sentenza non rientra tra i casi previsti dall'art. 604 per i quali il giudice di appello deve dichiarare la nullità della sentenza appellata e trasmettere gli atti al giudice di primo grado, deve lo stesso giudice di appello redigere, anche integralmente, la motivazione mancante (Cass. S.U., n. 3287/2008 e Cass. VI, n. 58094/2017). La motivazione per relationem . Il “copia e incolla”Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, ponendo termine ad un contrasto che era insorto in punto di ammissibilità della motivazione per relationem di un provvedimento giudiziale, hanno ritenuto che essa possa ritenersi legittima a condizione che: a) l'atto richiamato contenga motivazione congrua rispetto all'esigenza di giustificazione propria del provvedimento di destinazione; b) il provvedimento fornisca comunque la dimostrazione che il giudice abbia autonomamente valutato, ritenendole coerenti con la sua decisione, le motivazioni del provvedimento richiamato (requisito della autonoma valutazione); c) l'atto di riferimento, ove non trascritto od allegato, sia conosciuto dall'interessato (Cass. S.U., n. 17/2000). Allo stesso modo la giurisprudenza ha ritenuto ammissibile la motivazione per relationem anche mediante il mero rinvio ad altri atti del procedimento, quando questi abbiano, però, un contenuto descrittivo o ricostruttivo di aspetti fattuali, ma non anche quando si faccia rinvio a documenti complessi e contenenti aspetti valutativi,; e ciò a maggior ragione quando la decisione riformi o modifichi precedenti decisioni (Cass. V, n. 24460/2019). Motivazione per relationem deve intendersi anche quella eseguita con la tecnica detta del “copia e incolla”, in uso soprattutto per la redazione di misure cautelari personali. La giurisprudenza si è espressa nel senso che esse sono ammissibili laddove non si traducano nell'acritica trasposizione del testo di intere risultanze investigative, favorite da tecniche di videoscrittura; necessaria è invece la concisa indicazione degli elementi indiziari, con determinazione che dia congruamente conto, in esito ad un percorso motivazionale immune da errori di diritto o da disfunzioni logiche, del quadro di gravità del compendio indiziario offerto dall'accusa, con l'indicazione delle ragioni per le quali sono stati disattesi eventuali elementi a favore (Cass. V, n. 12679/2007). Dunque, anche in questo caso è necessario che il giudice dia conto di aver condotto una autonoma valutazione, e non si sia limitato a recepire acriticamente il contenuto di elaborazione formalmente e sostanzialmente di altri. Nel rispetto di tali requisiti, la motivazione per relationem è ammissibile anche quando implichi un rinvio a provvedimento reso in un diverso procedimento, anche nel caso in cui l'atto richiamato non sia definitivo, in quanto l'eventuale annullamento o modifica di quest'ultimo non fanno venir meno la sua esistenza come realtà grafica (Cass. III, n. 26483/2022). Nei giudizi di impugnazione, però, la congruità della motivazione deve essere valutata anche in riferimento ai motivi di ricorso. E ciò specie quando l’enunciazione di essi sia meramente eventuale, come nelle impugnazioni cautelari sia reali che personali. Per questo è stata ritenuta legittima la motivazione del tribunale del riesame che richiami o riproduca le argomentazioni contenute nel provvedimento impugnato, in mancanza di specifiche deduzioni difensive, formulate con l'istanza originaria o con successiva memoria difensiva, ovvero articolate oralmente in udienza (Cass. I, n. 8676/2018). La motivazione meramente apparenteLa giurisprudenza ha finito con l'equiparare la motivazione meramente apparente alla mancata motivazione, e dunque a sancirne la nullità. Ricorre una motivazione apparente, tale da far ritenere non assolto l'obbligo motivatorio gravante sul giudice, quando: a) il provvedimento si limiti ad indicare le fonti di prova della colpevolezza dell'imputato, senza contenere la valutazione critica ed argomentata degli elementi probatori acquisiti al processo (Cass. III, n. 49168/2015); b) la motivazione sia del tutto avulsa dalle risultanze processuali o si avvalga di argomentazioni di puro genere o di asserzioni apodittiche o di proposizioni prive di efficacia dimostrativa, ed in generale in tutti i casi in cui il ragionamento posto a sostegno della decisione adottata sia soltanto fittizio (Cass. V, n. 9677/2014). L'ipotesi ricorre in particolare quando il giudice, pur assumendo come dimostrato ovvero indimostrato un determinato accadimento, non indichi in modo comprensibile le ragioni a sostegno di tale assunto, ovvero quando formuli un giudizio senza peritarsi di indicare le ragioni sulle quali esso si fonda. Sulla scorta di simile interpretazione è stata annullata una sentenza di condanna che si era limitata ad affermare che la fonte di prova era costituita dalle dichiarazioni della P.O., senza indicarne il contenuto, né le ragioni della ritenuta attendibilità (Cass. V, n. 24862/2010). Ed è stata del pari annullata sentenza di assoluzione che, limitandosi ad affermare l'insufficienza delle dichiarazioni della persona offesa per ritenere provata l'ipotesi accusatoria, non aveva in alcun modo indicato le ragioni alla base di tale valutazione (Cass. V, n. 9677/2014). Allo stesso modo, la sentenza di appello che si limita a riprodurre la motivazione della sentenza di primo grado senza dare conto delle ragioni di tale condivisione è da ritenersi nulla (Cass. III, n. 38011/2019). E parimenti illegittima è la motivazione del giudice di appello che si fondi sulla pedissequa riproduzione - realizzata mediante l'applicazione informatica del "copia-incolla" - di intere pagine dell'ordinanza custodiale e che trascuri del tutto le motivazioni della sentenza di primo grado, risolvendosi in abnorme "contemplatio" dell'attività di indagine preliminare e tradendo la sua precipua fisionomia di "revisio prioris istantiae", pur se nel circoscritto ambito del "devolutum" (Cass. III, n. 19633/2022). La mancanza fisica della motivazioneLa mancanza fisica della motivazione dà luogo non già ad inesistenza della sentenza, quanto a mera causa di nullità, da far valere dunque con gli ordinari mezzi di impugnazione. La giurisprudenza ha infatti ritenuto che la mancata redazione della motivazione della sentenza, di cui sia stato però pubblicato mediante lettura il dispositivo, è equiparabile alla omessa motivazione e non determina pertanto l'inesistenza della pronuncia, ma la sua nullità, rilevabile solo se dedotta mediante impugnazione (Cass. VI, n. 31965/2013). In tale caso è però esperibile anche il ricorso «per saltum»; infatti, pur nell'obiettiva impossibilità di articolare specifici motivi di doglianza da parte di chi abbia a dolersi del decisum, è nondimeno configurabile un concreto interesse a rimuovere dall'ordinamento quel provvedimento idoneo a passare in giudicato, se non impugnato, qual è il dispositivo letto in udienza (Cass. I, n. 48655/2015). Equiparabile alla motivazione graficamente mancante è quella che, pur presente, faccia però riferimento a vicende processuali e a protagonisti del tutto diversi da quelli oggetto del processo: ed anche in questo caso si determina nullità, e non da inesistenza, dell'atto (Cass. VI, n. 17510/2018), che deve dunque essere impugnato nelle forme di legge. La Camera di consiglioIl luogo della decisione è la camera di consiglio, alla quale il giudice prende parte da solo. La norma prevede, infatti, che la deliberazione sia assunta nella camera di consiglio senza la presenza dell'ausiliario, e che la delibazione sia segreta. Tale ultima decisione è immediatamente riferibile alle decisioni assunte dagli organi collegiali, ed impone il cd. segreto della camera di consiglio: non deve trasparire all'esterno (salva la sola ipotesi della dissenting opinion di cui al paragrafo che segue) quale sia stata la posizione assunta, ed il voto espresso, da ciascuno dei giudici in relazione alle questioni che, secondo l'ordine imposto dalla pregiudizialità logica, sono state affrontante e decise nel processo. La giurisprudenza ha però chiarito che la segretezza della deliberazione in camera di consiglio non richiede condizione di isolamento per tutto il periodo della decisione, e neppure che i giudici, durante il tempo di essa, non abbiano contatti con persone estranee, sempre che questo non avvenga nelle fasi propriamente destinate al confronto dialogico fra i componenti del collegio (Cass. I, n. 9236/2012). In ogni caso, poi, la partecipazione alla camera di consiglio di persone illegittimamente ammesse ad assistervi può dar luogo a responsabilità disciplinare del magistrato ai sensi dell'art. 124, ma non è specificamente sanzionata da nullità (Cass. I, n. 8737/2002). La dissenting opinionNell'organo collegiale il giudice che, in esito alla camera di consiglio, non abbia espresso un voto conforme alla decisione assunta — e dunque sia stato posto in minoranza dagli altri componenti del collegio — può richiedere che di questo sia fatta annotazione a futura memoria. Il procedimento è descritto in modo sintetico ma analitico dalla norma. In primo luogo, deve esservi una espressa richiesta del componente il collegio posto in minoranza. Questo perché l'annotazione a futura memoria non viene redatta in ogni caso di decisione assunta a maggioranza (evenienza peraltro tutt'altro che patologica in organo collegiale), ma solo quando ciò sia espressamente richiesto. Dunque, i membri del collegio redigono un sommario verbale nel quale è fatta annotazione del dissenziente, delle questioni sulle quali si è registrato il dissenso e dei motivi dello stesso, succintamente esposti. Il verbale è redatto dal meno anziano componente del collegio, sottoscritto da tutti e custodito in plico sigillato (la c.d. busta chiusa) presso la cancelleria del presidente. La ratio dell'istituto è intuitiva: consentire al componente del collegio che ritenga errata una decisione assunta di precostituire una prova del proprio dissenso. Il fine è in primo luogo quello di andare esente da eventuale responsabilità disciplinare nel caso in cui dal contenuto di quella decisione, per grave violazione delle regole procedurali ovvero per colpevole travisamento del fatto, possa derivare uno degli illeciti tipici previsti dal d.lgs. n. 109/2006, recante tra l'altro la disciplina degli illeciti dei magistrati. Analogamente, una dissenziente opinione ritualmente formalizzata potrà esonerare il magistrato da eventuale responsabilità derivante dalla decisione a norma della l. n. 117/1988, recante la disciplina del risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati. Infine, nella ipotesi in cui attraverso quella decisione si consumasse un reato, la dissenting opinion formalizzerebbe la non partecipazione al fatto del dissenziente. Il decreto legislativo n. 150 del 2022 attuativo della legge delega n. 134 del 2021 (c.d. “riforma Cartabia”) ha introdotto alcune modifiche all'istituto, prevedendo in primo luogo che il documento contenente la dissenting opinion debba (continuare) ad essere redatto e custodito in forma analogica. Del resto, non si è in presenza di un atto processuale in senso stretto, ma di un atto che attiene alla fase successiva a quella decisoria, non destinato a confluire nel fascicolo processuale digitale, ma ad essere custodito nella segreteria del presidente di tribunale o di corte. Tanto vero che esso non deve essere né digitalizzato a norma dell'art. 110 comma 4 né inserito nel fascicolo processuale a norma dell'art. 111 ter comma 4. CasisticaIn applicazione di tali principi la giurisprudenza ha ritenuto che: a) l'inosservanza dell'obbligo di motivazione dei decreti autorizzativi delle intercettazioni telefoniche integra una inutilizzabilità di carattere assoluto che può essere dedotta dalle parti, per la prima volta, nel giudizio di cassazione (Cass. IV, n. 47803/2018); b) è da ritenersi adeguata la motivazione che, al fine di escludere la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, dia conto dell'assenza di uno soltanto dei presupposti richiesti dall'art. 131-bis (Cass. III, n. 34151/2018) c) il pubblico ministero possa impartire anche solo oralmente l'autorizzazione alla polizia giudiziaria concernente la dilazione della trasmissione del verbale di arresto, posto che l'art. 386 non prescrive alcuna forma (Cass. IV, n. 18843/2012); d) determina nullità della sentenza il contrasto fra la pena indicata in dispositivo e quella che sarebbe dovuta risultare dall'applicazione della diminuzione indicata in motivazione (Cass. III, n. 37849/2015); e) viziata la motivazione con cui il giudice di appello affermi la infondatezza dei motivi di impugnazione limitandosi a richiamare le conclusioni della sentenza di primo grado, in quanto stimate «logicamente e giuridicamente ineccepibili» (Cass. VI, n. 53420/2014); f) sufficientemente motivati i provvedimenti di autorizzazione delle intercettazioni quando dalla lettura del provvedimento si possa dedurre l'«iter» cognitivo e valutativo seguito dal giudice e se ne possano conoscere i risultati, che devono essere conformi alle prescrizioni di legge; mentre per i provvedimenti di proroga è ammissibile un minore impegno motivazionale quanto ai presupposti, se accertati come ancora sussistenti, ma deve ugualmente darsi conto della ragione di persistenza dell'esigenza captativa (Cass. S.U., n. 17/2000); g) non congruamente motivato il provvedimento de libertate che abbia ritenuto sussistenti i gravi indizi di colpevolezza facendo rinvio al contenuto di altro atto, limitandosi a definire «inequivocabile» il significato contenuto delle conversazioni intercettate (Cass. VI, n. 46080/2015); h) legittima l'ordinanza rinnovativa della misura cautelare ex art. 27, purché il rinvio alle valutazioni già espresse dal primo giudice risulti consapevole e consenta il controllo dell'iter logico - giuridico alla base dell'adozione del titolo restrittivo (Cass. III, n. 20568/2015). BibliografiaAmbrosioli, Provvedimenti del giudice (dir. proc. pen.), in Dig. d. pen., X, Torino, 1995, 435; Castellucci, L'atto processuale penale: profili strutturali e modalità realizzative, in Spangher (diretto da), Trattato di procedura penale, I, II (Gli atti), a cura di Dean, Torino, 2008; Santoriello, Motivazione (controlli sulla), in Dig. d. pen., IV agg., II, Torino, 2008, 695; Scaparone, La motivazione della sentenza penale, in Dir. pen. e proc. 2010, 473. |