Codice di Procedura Penale art. 197 - Incompatibilità con l'ufficio di testimone. (1).

Piercamillo Davigo
Giuseppe Riccardi

Incompatibilità con l'ufficio di testimone. (1).

1. Non possono essere assunti come testimoni:

a) i coimputati del medesimo reato o le persone imputate in un procedimento connesso a norma dell'articolo 12, comma 1, lettera a), salvo che nei loro confronti sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di proscioglimento, di condanna o di applicazione della pena ai sensi dell'articolo 444 (2);

b) salvo quanto previsto dall'articolo 64, comma 3, lettera c), le persone imputate in un procedimento connesso a norma dell'articolo 12, comma 1, lettera c), o di un reato collegato a norma dell'articolo 371, comma 2, lettera b), prima che nei loro confronti sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di proscioglimento, di condanna o di applicazione della pena ai sensi dell'articolo 444 (2);

c) il responsabile civile [83] e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria [89];

d) coloro che nel medesimo procedimento svolgono o hanno svolto la funzione di giudice, pubblico ministero o loro ausiliario nonché il difensore che abbia svolto attività di investigazione difensiva e coloro che hanno formato la documentazione delle dichiarazioni e delle informazioni assunte ai sensi dell'articolo 391-ter (3).

(1) Per la responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato, v. art. 44, comma 2, d.lg. 8 giugno 2001, n. 231.

(2) Lettera così sostituita dall'art. 5 l. 1° marzo 2001, n. 63.

(3) Lettera così modificata dall'art. 3 l. 7 dicembre 2000, n. 397.

Inquadramento

La regola della generale capacità a testimoniare, affermata dall'art. 196, è derogata da una serie di eccezioni previste dall'art. 197, che sancisce le ipotesi di incompatibilità con l'ufficio di testimone in singoli processi (c.d. legittimazione a testimoniare).

Tali incompatibilità sono apprestate per esigenze di garanzia, finalizzate a tutelare le persone (coimputato, responsabile civile, persona civilmente obbligata) che con le loro dichiarazioni potrebbero pregiudicare la propria posizione, in applicazione del principio nemo tenetur se detegere, o per esigenze di efficienza, finalizzate a tutelare lo svolgimento di funzioni giudiziarie o difensive (limitatamente alle indagini difensive) svolte nel medesimo procedimento.

La modifica dell'art. 111 Cost., che ha previsto l'impossibilità di utilizzare dichiarazioni rese da chi si fosse successivamente sottratto al controesame da parte della difesa, e la disciplina introdotta con la l. n. 63 del 2001, hanno comportato una riduzione dell'area dell'incompatibilità a testimoniare, per dare attuazione al diritto a confrontarsi con l'accusatore e al principio del contraddittorio nella formazione della prova: se il legame tra procedimenti è stretto, riguardando un fatto unico addebitato a più soggetti, il dichiarante è assistito da garanzie assimilabili a quelle riconosciute all'imputato nel proprio procedimento; se il legame è più tenue, sul presupposto della scindibilità del fatto proprio dal fatto altrui, si prevedono obblighi più intensi al dichiarante, assimilandolo in alcuni casi al testimone.

Questioni di legittimità costituzionale

La norma sulle incompatibilità a testimoniare ed il meccanismo apprestato per il contemperamento tra il diritto al silenzio, espressione del principio del nemo tenetur se detegere, ed il contradditorio nella formazione della prova sono stati oggetto di numerosissime pronunce dalla Corte Costituzionale.

La possibilità – consentita dall'attuale codice come già da quello previgente, ma esclusa nell'ordinaria sede civile – che la parte civile, e non anche l'imputato, renda testimonianza, non comporta violazione del principio di eguaglianza né del diritto di difesa. Il legislatore, ritenendo che la rinuncia al contributo probatorio della parte civile costituisse un sacrificio troppo grande nella ricerca della verità processuale, ha infatti considerato preminente l'interesse pubblico all'accertamento dei reati su quello delle parti alla risoluzione delle liti civili e, d'altra parte, alla luce di un ormai fermo orientamento giurisprudenziale, la deposizione della persona offesa dal reato, costituitasi parte civile, deve essere valutata dal giudice con prudente apprezzamento, non potendosi equiparare puramente e semplicemente a quella del testimone, immune dal sospetto di interesse all'esito della causa (Corte cost. n. 115/1992).

La previsione (ex art. 197, lett. c) della incompatibilità dell'ufficio di testimone per il soggetto convenuto come responsabile civile nel processo penale o in esso volontariamente intervenuto, e non anche per quello che – come nel caso – potrebbe essere ritenuto tale in un eventuale giudizio civile per le restituzioni o il risarcimento del danno, non dà luogo ad una disparità di trattamento lesiva dell'art. 3 Cost.

Benché entrambi passibili – come sottolineato dal giudice a quo– di responsabilità patrimoniale in conseguenza dei fatti oggetto del giudizio penale, i due soggetti si trovano infatti in posizioni processuali diverse e non comparabili, giacché solo per il primo esiste lo stretto collegamento con la sorte dell'imputato su cui l'incompatibilità si fonda, e solo nei suoi confronti, a norma dell'art. 651, la sentenza irrevocabile di condanna fa stato. Fermo restando naturalmente che la testimonianza del secondo, se assunta, dovrà essere valutata dal giudice con prudente apprezzamento e spirito critico (Corte cost. n. 477/1992).

Non è stata ritenuta fondata, con riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell'art. 197, comma 1, lett. d) (che stabilisce l'incompatibilità ad assumere l'ufficio di testimone per coloro che nel medesimo procedimento svolgono o hanno svolto le funzioni di giudice, p.m., o loro ausiliari), nella parte in cui non prevede analoga incompatibilità nei confronti del difensore (nella specie, una delle persone offese, costituitasi parte civile, era avvocato e difensore di altra parte civile nell'ambito di un procedimento riunito in fase dibattimentale a quello in cui il professionista rivestiva la qualità di persona offesa e nel quale il suo nominativo appariva nella lista testi), in quanto, con riferimento alla pretesa violazione del principio di uguaglianza (in relazione all'incapacità a testimoniare del giudice e del p.m.) – posto che l'art. 197 prevede varie situazioni di incompatibilità ad assumere l'ufficio di testimone, di cui quelle elencate nelle lettere a), b) e c) sono sorrette da una ratio di garanzia in favore di soggetti che altrimenti sarebbero esposti al rischio di testimoniare contro se stessi, mentre i casi indicati nella lett. d) delineano uno status di vera e propria incapacità a testimoniare per l'assoluta inconciliabilità funzionale tra il ruolo di giudice, p.m., o loro ausiliari e quello di testimone – siffatta posizione del giudice e del p.m. non è comparabile con la posizione del difensore, la quale, a prescindere dalla dimensione deontologica, è connotata da una sorta di incompatibilità alternativa tra l'ufficio di testimone ed il ruolo della difesa, tenuto anche conto che la linea di tendenza generale del legislatore è nel senso di prevedere come eccezionali le ipotesi di incompatibilità assoluta ad assumere l'ufficio di testimone nel processo penale; ed in quanto, con riferimento alla dedotta violazione del diritto di difesa, ciascun difensore, ed anche la persona offesa, si trovano nelle condizioni di conoscere tutti gli atti processuali, depositati in cancelleria a disposizione di tutte le parti processuali, sicché la sovrapposizione tra ruolo di difensore e ufficio di testimone, peraltro già esclusa in base ai rilievi dianzi svolti, non determina alcuna violazione del diritto di difesa in danno delle altre parti (Corte cost. n. 215/1997).

Sono state ritenute manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 197, comma 1, lett. d), e 13 r.d.l. n. 1578/1933 (convertito con modificazioni nella l. n. 36/1934), denunziati, in riferimento agli artt. 3,24 e 111 Cost., rispettivamente, nella parte in cui non si prevede l'incompatibilità con l'ufficio di testimone del difensore che svolga o abbia svolto la propria funzione nel medesimo procedimento e, nella parte in cui non si prevede l'obbligo di astensione dalla difesa, del legale che nel medesimo procedimento si trovi a cumulare le dette funzioni ovvero la facoltà dell'autorità giudiziaria procedente di rilevare l'incompatibilità con modalità analoghe a quelle di cui all'art. 106, commi 2 e 3. Alla luce delle considerazioni già svolte dalla Corte cost. circa la non comparabilità della posizione del difensore con la situazione di assoluta inconciliabilità tra funzioni del pubblico ministero (e del giudice) e ufficio di testimone e circa la naturale collocazione nella sfera delle regole deontologiche dei rapporti tra il ruolo del difensore e l'ufficio di testimone, risultano prive di fondamento tutte le prospettate censure nonché la richiesta di introdurre «un presidio normativo» per la risoluzione del rapporto tra difensore e assistito. Del resto, il rimedio di cui al richiamato art. 106, commi 2 e 3, è attivabile solo quando il contrasto di interessi fra coimputati sia effettivo e reale, tale che il difensore comune si vedrebbe costretto a prospettare tesi difensive logicamente inconciliabili (Corte cost. n. 433/2001).

È stata ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 210, comma 6, e 197-bis, comma 2 (in relazione agli artt. 197, comma 1, lett. b, e 64, comma 3, lett. c), censurato, in riferimento agli artt. 3,111 e 112 Cost., nella parte in cui non prevede che chi ha in precedenza reso dichiarazioni sulla responsabilità dell'imputato in qualità di persona informata sui fatti, e solo successivamente ha assunto la qualità di imputato di un reato collegato ai sensi dell'art. 371, comma 2, lett. b), possa essere sentito come testimone in dibattimento, a prescindere dall'avvertimento di cui all'art. 64, comma 3, lett. c). La normativa, non implausibilmente interpretata dal rimettente, nel senso che sussista l'obbligo di dare l'avvertimento circa la facoltà di non rispondere all'imputato di tale tipo di reato, non viola né il principio di eguaglianza, non rilevando la circostanza che il soggetto abbia in precedenza reso dichiarazioni concernenti la responsabilità altrui nella diversa qualità di persona informata sui fatti, né l'art. 111, comma 4, Cost., perché la regola della formazione della prova in contraddittorio non può vanificare l'esercizio del diritto al silenzio, che è espressione del principio nemo tenetur se detegere. Né, infine sussiste alcuna violazione dell'art. 112 Cost., posto che le norme che assicurano il diritto al silenzio dell'imputato di reato collegato o in procedimento connesso, che non si sia determinato per consapevole e libera scelta a rendere dichiarazioni erga alios, non incidono in alcun modo sull'esercizio dell'azione penale, tanto più nel caso in cui il pubblico ministero abbia già formulato la richiesta di rinvio a giudizio e il procedimento si trovi nella fase dibattimentale (Corte cost. n. 451/2002).

È stata ritenuta manifestamente inammissibile – per difetto di motivazione in ordine al presupposto sul quale si basa la rilevanza della questione – la questione di legittimità costituzionale degli artt. 197, comma 1, lett. b), e 197-bis, comma 1, denunciati, in riferimento agli artt. 3,24,111 e 112 Cost., in quanto prevedono che il soggetto, già imputato di un reato probatoriamente collegato a norma dell'art. 371, comma 2, lett. b), possa essere sentito come testimone soltanto dopo la pronuncia nei suoi confronti di una sentenza irrevocabile di proscioglimento, di condanna o di applicazione della pena, e non anche dopo la pronuncia, in udienza preliminare, di sentenza di non luogo a procedere per mancanza di querela, essendo quest'ultima decisione sostanzialmente immodificabile, al pari di quella dibattimentale, e quindi equiparabile, ai fini del venir meno dell'incompatibilità a testimoniare, alla sentenza irrevocabile di proscioglimento menzionata dalle norme impugnate. Il giudice rimettente, infatti, ha omesso di verificare la compatibilità della sua tesi interpretativa con le modifiche intervenute nel quadro normativo concernente la disciplina del diritto al silenzio e dell'incompatibilità a testimoniare e non ha tenuto conto che la giurisprudenza precedente a tali modifiche, sia quella di legittimità cui egli stesso si richiama sia quella costituzionale, che invece non considera, riferivano «l'effetto di dissolvere l'incompatibilità ad assumere l'ufficio di testimone» esclusivamente all'ipotesi dell'archiviazione per un reato probatoriamente collegato (Corte cost. n. 452/2002).

È stata ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 197, 197-bis e 210, sollevata in riferimento agli articoli 3 e 111 Cost., nella parte in cui garantiscono il diritto al silenzio dell'imputato in procedimento connesso, separatamente giudicato per lo stesso fatto con sentenza non ancora irrevocabile, che abbia in precedenza reso dichiarazioni erga alios, e però non prevedono che il rifiuto di sottoporsi all'esame sia penalmente sanzionato al pari del rifiuto di rispondere opposto dal testimone. La disciplina censurata è, infatti, frutto delle scelte discrezionali, non irragionevolmente esercitate, con cui il legislatore ha individuato, in ossequio al principio nemo tenetur se detegere, situazioni nelle quali il diritto al silenzio, inteso nella sua dimensione di «corollario essenziale dell'inviolabilità del diritto di difesa», va garantito malgrado dal suo esercizio possa conseguire l'impossibilità di formazione della prova testimoniale (Corte cost. n. 485/2002).

È stata dichiarata manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 61, 197, comma 1, lett. a), e 210, sollevata in riferimento agli artt. 3 e 111 Cost. nella parte in cui prevedono l'incompatibilità con l'ufficio di testimone, e la conseguente facoltà di non rispondere, delle persone già indagate per il medesimo fatto, ma non in concorso con l'imputato, la cui posizione sia stata successivamente archiviata perché ritenute estranee al fatto. Valgono, infatti, anche nella specie – nell'ipotesi, cioè, di un provvedimento di archiviazione pronunciato a norma dell'art. 408 nella grande varietà di situazioni che possono in concreto costituirne il presupposto – le medesime considerazioni già svolte – nell'ordinanza n. 76 del 2003, di manifesta inammissibilità – a proposito di una questione avente ad oggetto la disciplina dell'incompatibilità ad assumere l'ufficio di testimone di un soggetto nei cui confronti sia stato pronunciato provvedimento di archiviazione a norma dell'art. 411 in relazione ad un reato connesso o collegato a quello per cui si procede, tra le tante situazioni non omogenee a cui questa disposizione si riferisce e che potrebbero richiedere discipline differenziate: attesa la natura sostanzialmente unitaria dell'istituto dell'archiviazione previsto dagli artt. 408 e 411, la soluzione di una relativa questione di legittimità costituzionale comporterebbe la definizione di una disciplina non circoscritta a situazioni specifiche, ma correlata agli altri casi di archiviazione presenti nell'ordinamento processuale, attraverso una complessa ed analitica ricostruzione che implicherebbe lo svolgimento di funzioni e l'adozione di scelte discrezionali che rientrano nelle attribuzioni del legislatore (Corte cost. n. 250/2003).

È stata ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento agli artt. 3,97 e 111 Cost., dell'art. 197, comma 1, lett. d), nella parte in cui non consente di assumere come testimoni coloro che, nel medesimo procedimento, hanno svolto la funzione di giudice – in particolare, quali componenti di un collegio – neppure nel caso in cui la prova testimoniale sia finalizzata esclusivamente ad accertare l'esistenza di un errore materiale nella redazione del verbale che documenta gli atti ai quali hanno partecipato. Il richiamo all'art. 97 Cost. è inconferente, giacché, per costante giurisprudenza, il principio del buon andamento è riferibile all'amministrazione della giustizia soltanto per quanto attiene all'organizzazione e al funzionamento degli uffici giudiziari, e non anche in rapporto all'esercizio della funzione giurisdizionale, alla quale si riferisce la norma processuale censurata. Non sussiste, inoltre, la violazione del principio di ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.), in quanto la regressione del procedimento quale conseguenza della dichiarazione di nullità della sentenza appellata costituisce un inconveniente di fatto, legato alle particolari modalità di svolgimento del giudizio a quo, e non un effetto collegato alla struttura della norma censurata. Infondata, infine, è anche la censura proposta per violazione del principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.), poiché, come già rimarcato dalla Corte, la norma censurata delinea nei confronti del giudice – oltre che del pubblico ministero e dei loro ausiliari – uno status di vera e propria incapacità a testimoniare, pienamente giustificato in ragione dell'assoluta inconciliabilità funzionale tra il ruolo dei predetti soggetti e quello di testimone, considerato in particolare che, quando i fatti sono appresi nell'esercizio delle funzioni giudiziarie, essi verrebbero ad assumere un ruolo ontologicamente incompatibile con le posizioni processuali di assoluta terzietà e imparzialità del giudice, di personale estraneità e distacco del pubblico ministero dai fatti di causa. Tale conclusione si impone a maggior ragione nel caso di specie essendo del tutto ragionevole che la dimostrazione di un errore materiale, desumibile aliunde, riguardo all'indicazione di taluno dei componenti del collegio giudicante non possa essere offerta, nel medesimo processo, tramite la testimonianza dei diretti interessati (Corte cost. n. 66/2014).

L’incompatibilità con l’ufficio di testimone dell’imputato e della persona sottoposta ad indagini

L'art. 197, comma 1, lett. a) prevede una incompatibilità assoluta per i casi di c.d. connessione forte, che riguarda i coimputati del medesimo reato e gli imputati in un procedimento connesso ai sensi dell'art. 12, lett. a) (concorso di persone, cooperazione colposa): l'incompatibilità cessa, per il singolo imputato, con l'irrevocabilità della sentenza.

L'imputato in un procedimento connesso o collegato ha piena capacità di testimoniare, qualora nei suoi confronti sia stata nel frattempo pronunciata sentenza irrevocabile di proscioglimento, di condanna o di applicazione della pena, anche se in precedenza ha reso dichiarazioni senza aver prima ricevuto gli avvertimenti di cui all'art. 64, comma 2, lett. c) (Cass. IV, n. 10346/2009).

Il soggetto che renda dichiarazioni dibattimentali in qualità di coimputato nel medesimo delitto (nella specie: omicidio) ai sensi dell'art. 12, comma primo lett. a), c.p.p., va avvertito che ha facoltà di astenersi dal deporre ma non che, in relazione alle dichiarazioni da lui rese circa la responsabilità di altri, può assumere l'ufficio di testimone, posto che la condizione di soggetti concorrenti nel medesimo reato e avvinti da un nesso inscindibile è radicalmente incompatibile, per il carattere forte della connessione, con l'assunzione del ruolo di testimone (Cass. I, n. 40203/2005).

Gli imputati concorrenti nel medesimo reato non devono ricevere l'avvertimento previsto dall'art. 64, comma terzo, lett. c) c.p.p., prima di assumere le loro dichiarazioni, in quanto tali soggetti, deponendo su “fatti inscindibili”, non potrebbero mai assumere la veste di testimoni (Cass. I, n. 1563/2007).

L'imputato concorrente nel medesimo reato ascritto al soggetto cui si riferiscono le sue dichiarazioni accusatorie non deve ricevere l'avvertimento previsto dall'art. 64, comma terzo, lett. c), c.p.p., non potendo assumere, prima della definizione del procedimento pendente nei suoi confronti, la veste di testimone assistito. E ciò in quanto la proposizione “fatti concernenti la responsabilità altrui” contenuta nella lettera dell'art. 64, comma terzo, lett. c), c.p.p., deve essere interpretata nel senso di «fatto che è soltanto “altrui”» in quanto afferente a reato connesso ai sensi dell'art. 12, comma primo, lett. c) o collegato ai sensi dell'art. 371, comma secondo, lett. b) c.p.p. (Cass. IV, n. 1517/2014).

Le Sezioni Unite ‘De Simone' hanno recuperato all'area della compatibilità a testimoniare, così riducendo l'ambito del diritto al silenzio, la fattispecie del dichiarante che sia stato indagato e successivamente archiviato: infatti, nell'estendere l'ambito di applicazione dell'art. 210 all'indagato, ne hanno escluso l'operatività con riferimento al c.d. ‘indagato archiviato', che assume dunque la veste di testimone.

Non sussiste incompatibilità ad assumere l'ufficio di testimone per la persona già indagata in procedimento connesso ai sensi dell'art. 12, comma 1, lett. c), o per reato probatoriamente collegato, definito con provvedimento di archiviazione (Cass. S.U. , n. 12067/2009. La Corte ha osservato che la disciplina limitativa della capacità di testimoniare prevista dagli artt. 197, comma 1, lett. a) e b), 197-bis, e 210 si applica solo all'imputato, al quale è equiparata la persona indagata nonché il soggetto già imputato, salvo che sia stato irrevocabilmente prosciolto per non aver commesso il fatto, nel qual caso non trovano applicazione i commi terzo e sesto dell'art. 197 bis).

Il soggetto che riveste la qualità di imputato in procedimento connesso ai sensi dell'art. 12, comma 1, lett. c), o collegato probatoriamente, anche se persona offesa dal reato, deve essere assunto nel procedimento relativo al reato connesso o collegato con le forme previste per la testimonianza cosiddetta «assistita» (Cass. S.U. , 12067/2010 ).

Non sussiste incompatibilità ad assumere l'ufficio di testimone per la persona offesa, già indagata in procedimento connesso ai sensi dell'art. 12, comma 1, lett. c), o per reato probatoriamente collegato, definito con provvedimento di archiviazione, in quanto la disciplina limitativa della capacità di testimoniare prevista dagli artt. 197, comma 1, lett. a) e b), 197-bis, e 210 si applica solo all'imputato, al quale è equiparata la persona indagata nonché il soggetto già imputato, salvo che sia stato irrevocabilmente prosciolto per non aver commesso il fatto (Cass. II, n. 4123/2015).

Non sussiste incompatibilità ad assumere l'ufficio di testimone per la persona già indagata, la cui posizione sia stata definita con provvedimento di archiviazione, in quanto la disciplina limitativa della capacità di testimoniare prevista dagli artt. 197, comma 1, lett. a) e b), 197-bis, e 210 c.p.p. si applica solo all'imputato, al quale è equiparata la persona indagata, nonché al soggetto già imputato, salvo che sia stato irrevocabilmente prosciolto per non aver commesso il fatto (Cass. VI, n. 34562/2021. Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto non necessaria l'acquisizione di elementi di riscontro ai sensi dell'art. 192, comma 3, c.p.p. che suffragassero le dichiarazioni testimoniali di un coindagato nei cui confronti era stata disposta l'archiviazione, in applicazione della causa di esclusione della punibilità prevista dall'art. 323-ter c.p.).

L'art. 197, comma 1, lett. b), sancisce la regola dell'incompatibilità a testimoniare nelle ipotesi di c.d. connessione debole, concernente gli imputati in procedimento connesso o collegato; in tal caso, sono previste due eccezioni: la prima, comune alle ipotesi di connessione forte, riguarda la pronuncia di una sentenza irrevocabile; la seconda riguarda l'ipotesi in cui, dopo aver ricevuto l'avvertimento ex art. 64, comma 3, lett. c), abbiano reso dichiarazioni su fatti “altrui”, cioè concernenti la responsabilità di altri imputati. In tali casi possono assumere la veste di testimoni.

In sede di esame dibattimentale di imputato di reato connesso o collegato a quello per cui si procede, l'avvertimento di cui all'art. 64, comma 3, lett. c) – previsto anche per l'esame dibattimentale ai sensi dell'art. 210, comma 6, – deve essere rivolto non solo se il soggetto non ha «reso in precedenza dichiarazioni concernenti la responsabilità dell'imputato» (come testualmente prevede il predetto comma sesto dell'art. 210), ma anche se egli abbia già deposto «erga alios» senza aver ricevuto tale avvertimento (Cass. S.U. , n. 33583/2015 ).

Il mancato avvertimento di cui all'art. 64, comma 3, lett. c), all'imputato di reato connesso o collegato a quello per cui si procede, che avrebbe dovuto essere esaminato in dibattimento ai sensi dell'art. 210, comma sesto, determina la inutilizzabilità della deposizione testimoniale resa senza garanzie (Cass. S.U. , 33583/2015 ).

Le dichiarazioni rese da persona indagata sono validamente assunte senza il rispetto delle garanzie difensive quando riguardano fatti di reato attinenti a terzi, in relazione ai quali non sussiste alcuna connessione o collegamento probatorio con quelli ad essa addebitati, assumendo la medesima, con riguardo a dette vicende, la veste di testimone e, prima del giudizio, di persona informata dei fatti (Cass. VI, n. 41118/2013. Fattispecie in cui il dichiarante, detenuto in custodia cautelare per reati contro il patrimonio, era stato escusso, come persona informata sui fatti, sull'identificazione dei soggetti i cui numeri erano stati scoperti nella memoria del suo cellulare e aveva indicato uno di essi come la persona da cui acquistava stupefacenti per uso personale).

Non può essere sentito quale testimone, ai sensi dell'art. 197-bis c.p.p., l'imputato in procedimento connesso o collegato nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza non impugnabile di non luogo a procedere, salvo il caso in cui la revoca non possa essere più utilmente disposta, posto che detta sentenza non è equiparabile a quella irrevocabile di proscioglimento, sicché il perdurante rischio di incriminazione a carico del dichiarante giustifica il riconoscimento della facoltà di non rispondere, ai sensi art. 210 (Cass. VI, n. 53436/2016).

Peraltro, la giurisprudenza tende a fornire una interpretazione restrittiva delle nozioni di connessione probatoria, reati reciproci e connessione occasionale.

Il collegamento occasionale che determina l'incompatibilità a testimoniare prevista dagli artt. 197, comma 1, lett. b), e 371, comma 2, lett. b), c.p.p., sussiste a condizione che ricorra un legame spazio-temporale tra i reati e l'identità soggettiva degli autori degli stessi, essendo altresì necessario che tra più reati commessi nel medesimo contesto l'uno abbia favorito, consentito, propiziato o motivato l'altro (Cass. VI, n. 58089/2017).

In particolare, il probatorio di cui all'art. 371, comma 2, lett. b). – che determina l'incompatibilità con l'ufficio di testimone di cui all'art. 197, comma 1, lett. b) e la conseguente necessità di acquisire elementi di riscontro alle dichiarazioni ex art. 192 – ricorre soltanto quando nei diversi procedimenti sussiste l'identità del fatto o di uno degli elementi di prova ovvero quando è ravvisabile la diretta rilevanza di uno degli elementi di prova acquisiti in un procedimento su uno dei reati oggetto dell'altro procedimento (Cass. II, n. 24570/2015. Fattispecie in cui la Corte ha escluso la qualifica di imputato in procedimento connesso con riferimento alla persona offesa di un'estorsione aggravata dall'art. 7, d.l. n. 152/1991, la quale era imputata in altro processo del reato di partecipazione ad associazione mafiosa contrapposta a quella di appartenenza del presunto autore dell'estorsione).

Il collegamento probatorio tra procedimenti, che è causa d'incompatibilità con l'ufficio di testimone, si determina in forza di elementi oggettivi, quali l'identità del fatto oppure l'identità o la diretta rilevanza di uno degli elementi di prova dei reati oggetto dei procedimenti stessi, non potendo, a tal fine, dirsi sufficiente il solo stato d'imputato di un reato in danno della persona nei cui confronti si procede (Cass. VI, n. 16988/2009).

La persona offesa di un reato, che poi sia stata a sua volta denunciata per altri reati dal soggetto asseritamente autore di quello in suo danno, non versa in situazione di incompatibilità con l'ufficio di testimone nel procedimento per il reato che le ha recato offesa, e può essere sentita senza le garanzie dell'assistenza difensiva, perché nella nozione di reati «commessi da più persone in danno reciproco le une delle altre», di cui all'art. 371, comma 2, lett. b), rientrano soltanto quelli commessi nel medesimo contesto spazio-temporale e quindi in stretto collegamento naturalistico (Cass. II, n. 26819/2008).

Cfr. altresì sub art. 210.

Incompatibilità con l’ufficio di testimone di giudici, magistrati del pubblico ministero e loro ausiliari

Il divieto di assumere come testimoni coloro che hanno svolto nel corso del procedimento la funzione di ausiliario del pubblico ministero non configura un'ipotesi di incompatibilità assoluta a testimoniare, ma impedisce soltanto che l'ausiliario possa deporre su fatti o circostanze apprese nell'espletamento del suo incarico (Cass. IV, n. 17043/2009).

Non sussiste l'incompatibilità con l'ufficio di testimone per il consulente tecnico incaricato dal P.M., non rivestendo costui la qualità di ausiliario dell'organo inquirente, in quanto è tale solo l'ausiliario in senso tecnico che appartiene al personale della segreteria o della cancelleria dell'ufficio giudiziario e non invece un soggetto estraneo all'amministrazione giudiziaria che si trovi a svolgere, di fatto ed occasionalmente, determinate funzioni previste dalla legge (Cass. V, n. 32045/2014).

Non sussiste incompatibilità ad assumere l'ufficio di testimone per il soggetto che, nello stesso procedimento, abbia svolto l'attività di interprete, non essendo una tale incompatibilità compresa tra quelle previste dall'art. 197 e non potendosi applicare, per analogia, il disposto di cui all'art. 144, comma 1, lett. d), nel quale si prevede soltanto l'ipotesi inversa della incompatibilità del testimone a prestare ufficio di interprete, stante il carattere eccezionale delle norme che limitano la capacità a testimoniare. Cass. II, n. 26011/2008).

Non sussiste incompatibilità tra l'ufficio di testimone e quello di ausiliario della polizia giudiziaria nello stesso procedimento, non potendosi applicare a tale figura, per analogia, il disposto di cui all'art. 197, comma 1, lett. d), che prevede soltanto l'ipotesi dell'incompatibilità a testimoniare dell'ausiliario del giudice o del pubblico ministero (Cass. III, n. 6/2019: in applicazione del principio, la S.C. ha escluso l'incompatibilità a rendere testimonianza, sulle modalità dell'audizione di un minore, dell'ausiliario di polizia giudiziaria che aveva prestato la sua opera nelle indagini; Cass. II, n. 20166/2003).

In tema di incompatibilità a testimoniare, la disposizione contenuta nell'art. 197, comma primo, lett. d) c.p.p., secondo cui non possono essere assunti come testimoni coloro che hanno svolto la funzione di ausiliari del giudice nel procedimento, è applicabile nei confronti di ufficiali o agenti di polizia giudiziaria solo in relazione all'attività svolta nella redazione degli atti di cui all'art. 373 c.p.p., ma non anche in relazione a quella posta in essere nello svolgimento delle funzioni istituzionali (Cass. V, n. 11905/2016. Fattispecie in cui il teste di P.G. era stato sentito solo su quanto compiuto nel corso della sua attività istituzionale e non sulle dichiarazioni degli imputati ai cui interrogatori aveva partecipato con funzioni ausiliarie; Cass. II, n. 36483/2011).

Incompatibilità con l’ufficio di testimone del difensore che abbia svolto indagini difensive

Il difensore degli imputati, che ha compiuto nel loro interesse atti di investigazione difensiva, è incompatibile ad assumere l'ufficio di testimone sul contenuto dell'attività d'indagine direttamente svolta anche dopo la dismissione del mandato difensivo (Cass. V, n. 8756/2013).

Non è consentita la simultanea assunzione della veste di difensore e testimone nell'ambito dello stesso procedimento, essendo la relativa sovrapposizione inconciliabile con la natura dialettica dell'accertamento processuale, e quindi in antitesi con il principio del contraddittorio (Cass. I, n. 26861/2010).

Non sussiste l'incompatibilità a testimoniare del legale che, dismesso l'ufficio di difensore dell'imputato, e senza aver compiuto atti d'investigazione difensiva nell'interesse di quest'ultimo, abbia poi assunto nello stesso procedimento quello di teste e, in tale veste sia escusso dal giudice, in quanto, nel vigente ordinamento, l'incompatibilità del difensore sussiste solo nel caso di contestuale esercizio delle due funzioni in questione, potendo tale ipotesi assumere rilevanza soltanto sul piano della deontologia forense. Ne deriva che, in tal caso, non è applicabile la previsione di cui all'art. 197, comma 1, lett. d), la quale circoscrive l'incompatibilità con l'ufficio di testimone, alla sola ipotesi del difensore che abbia svolto attività di investigazione difensiva (Cass. V, n. 16255/2010); né le dichiarazioni rese dallo stesso sono inutilizzabili, poiché la scelta di non opporre il segreto professionale può assumere rilievo, eventualmente, soltanto sotto il profilo deontologico (Cass. II, n. 22954/2017: in applicazione del principio, la S.C. ha escluso che fosse applicabile la previsione di cui all'art. 197, comma 1, lett. d), nell'ipotesi di testimonianza “assistita” resa da soggetto che era stato avvocato di fiducia dell'imputato nel primo grado di giudizio e, dopo essere stato arrestato per altri fatti, aveva deciso di collaborare con la giustizia rendendo dichiarazioni accusatorie con le garanzie difensive, ai sensi dell'art. 197-bis, comma 2, nonostante fosse stato anche avvertito della possibilità di avvalersi del segreto professionale).

Il consenso prestato dall'imputato alla testimonianza dell'avvocato che abbia svolto attività difensiva nel suo interesse non fa comunque venir meno il segreto professionale e la facoltà del difensore di astenersi dal deporre su quanto appreso nello svolgimento del suo ufficio (Cass. I, n. 46207/2021).

L’onere della prova della qualifica processuale del dichiarante

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 280 del 2009, ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 210 c.p.p., censurato, in riferimento agli artt. 3 e 111 Cost., nella parte in cui non consente al giudice del dibattimento di decidere le forme in cui assumere il dichiarante , se, cioè, nelle forme dell'esame di persona imputata in un procedimento connesso o di un reato collegato anziché come testimone. Al riguardo, ha sottolineato il collegamento sistematico tra l'art. 63, comma 2, e gli artt. 197, comma 1, lettere a) e b), e 210 del codice di rito: il primo attua una tutela anticipata delle incompatibilità con l'ufficio di testimone previste dall'art. 197 suddetto nei confronti dell'imputato in procedimento connesso o di reato collegato, incompatibilità che, a loro volta, impongono che l'esame del soggetto avvenga nelle forme di cui all'art. 210 c.p.p. Perciò delle due l'una: o si ritiene che l'inutilizzabilità ex art. 63, comma 2, c.p.p. colpisca anche le dichiarazioni rese da chi non è mai stato formalmente indagato, ma allora il giudice ha il potere-dovere di sentire tale soggetto nelle forme dell'art. 210 c.p.p., oppure si nega al giudice tale potere-dovere, ma allora bisogna ritenere che anche la inutilizzabilità non può prescindere dalla formale assunzione della qualità di indagato, il che farebbe cadere uno dei presupposti delle censure sollevate. La combinazione dei due assunti rende contraddittorie le premesse interpretative.

Secondo un orientamento, allorché venga in rilievo la verifica della veste processuale del dichiarante, è onere della parte interessata ad opporsi all'assunzione della testimonianza di allegare, prima della assunzione delle dichiarazioni, le circostanze fattuali da cui risultano situazioni di incompatibilità a testimoniare, sempre che la posizione del dichiarante non risulti già dagli atti nella disponibilità del giudice e non sussistano i presupposti perché questi si attivi d'ufficio, in conseguenza di una richiesta di prova formulata sul punto dalle parti, ex art. 493, ovvero in ragione dell'assoluta necessità di disporre l'escussione del dichiarante, ai sensi dell'art. 507 dello stesso codice (Cass. VI, n. 12379/2016: fattispecie in cui la Corte ha ritenuto utilizzabili le dichiarazioni assunte nella forma della testimonianza in relazione alle quali nulla era stato eccepito dalle parti, al momento della formazione della prova, in ordine alla esistenza di un procedimento penale per reati connessi a carico del dichiarante).

L'orientamento prevalente ritiene, nel solco delle Sezioni Unite ‘Mills' (richiamata infra), che, allorché venga in rilievo la veste che può assumere il dichiarante, spetta al giudice il potere di verificare in termini sostanziali, prescindendo da indici formali quali l'eventuale già intervenuta iscrizione nominativa nel registro delle notizie di reato, l'attribuibilità allo stesso della qualità di indagato nel momento in cui le dichiarazioni stesse vengano rese, sicché il relativo accertamento si sottrae, se congruamente motivato, al sindacato di legittimità (Cass. V, n. 39498/2021; Cass. IV, n. 46203/2019; Cass. VI, n. 20098/2016).

In tema di prova dichiarativa, allorché venga in rilievo la veste che può assumere il dichiarante, spetta al giudice il potere di verificare in termini sostanziali, prescindendo da indici formali quali l'avvenuta iscrizione nel registro delle notizie di reato, l'attribuibilità allo stesso della qualità di indagato nel momento in cui le dichiarazioni stesse vengano rese, con la conseguente necessaria escussione non già come testimone, bensì quale imputato di reato connesso ai sensi dell'art. 210 c.p.p. (Cass. VI, n. 25425/2020. Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto inutilizzabile, in quanto assunte in violazione del divieto previsto dall'art. 63, comma 2, c.p.p., la testimonianza di un soggetto, mai iscritto nel registro degli indagati, di cui risultava già in atti un ruolo attivo nella consegna del denaro per conto del corruttore, tale da far ritenere sussistente la qualifica di concorrente nel reato; cfr., altresì, Cass. VI, n. 20098/2016).

L’accertamento della qualifica processuale del dichiarante

La giurisprudenza ha, ormai, chiarito che, allorché venga in rilievo la veste che può assumere il dichiarante, spetta al giudice il potere di verificare in termini sostanziali, e quindi al di là del riscontro di indici formali, come la già eventualmente intervenuta iscrizione nominativa nel registro delle notizie di reato, l'attribuibilità allo stesso della qualità di indagato nel momento in cui le dichiarazioni stesse vengano rese, e il relativo accertamento si sottrae, se congruamente motivato, al sindacato di legittimità (Cass. S.U., n. 15208/2010; Cass. IV, n. 46203/2019).

Ai fini della verifica della qualità di testimone o di indagato di reato connesso e della conseguente valutazione di utilizzabilità delle dichiarazioni rese, il giudice deve tenere conto di eventuali cause di non punibilità (o di giustificazione), ove queste siano di evidente ed immediata applicazione senza la necessità di particolari indagini o verifiche (Cass. I, n. 40832/2018: fattispecie in cui sono state ritenute utilizzabili le dichiarazioni accusatorie rese al Pubblico Ministero e confermate, in forma “non assistita”, in sede di incidente probatorio da persona che aveva ritrattato la precedente versione dei fatti fornita agli inquirenti, in considerazione dell'applicabilità della causa di esclusione della punibilità prevista dall'art. 384 c.p.).

Le Sezioni Unite ‘Lo Presti' hanno affermato che le dichiarazioni “indizianti” di cui all'art. 63, comma primo, c.p.p. sono quelle rese da un soggetto sentito come testimone o persona informata sui fatti che riveli circostanze da cui emerga una sua responsabilità penale per fatti pregressi, non invece quelle attraverso le quali il medesimo soggetto realizzi il fatto tipico di una determinata figura di reato quale il favoreggiamento personale, la calunnia o la falsa testimonianza, in quanto la predetta norma di garanzia è ispirata al principio nemo tenetur se detegere, che salvaguarda la persona che abbia commesso un reato, e non quella che debba ancora commetterlo (Cass. S.U., n. 33583/2015, che, in motivazione, ha chiarito che, se il dichiarante non è chiamato a rispondere di fatti diversi da quelli che integrano il tessuto delle sue dichiarazioni, egli rimane compatibile con l'ufficio di testimone, ponendosi solo un problema di attendibilità della deposizione, che dovrà essere valutata secondo gli ordinari criteri; infatti, in base al principio di conservazione degli atti e della regola ad esso connessa del tempus regit actum, la giurisprudenza è ormai ferma nel ritenere che le dichiarazioni del soggetto che rivestiva ancora e soltanto lo status di persona informata sui fatti sono legittimamente utilizzabili, nulla rilevando in contrario la circostanza che il dichiarante abbia successivamente assunto condizione di indagato/imputato; già da un punto di vista concettuale, l'incompatibilità a svolgere una determinata funzione è caratteristica o qualità normativamente predefinita, che deve necessariamente precedere gli atti che caratterizzano quella funzione: non si può “divenire” incompatibili proprio a causa della funzione che si è legittimati a svolgere in quanto con essa compatibili. Affermare il contrario suonerebbe come una vera e propria petizione di principio. Il soggetto che ha assunto la veste formale e sostanziale della persona informata sui fatti o del testimone, può, infatti, sicuramente andare incontro a cause di incompatibilità a svolgere quest'ultimo ruolo processuale, ove l'esercizio della relativa funzione perduri: ma ciò, sempre in dipendenza di cause esterne ai fatti o alle condotte che integrano i momenti in cui l'esercizio della funzione si esprime. Se il testimone diviene indagato quale concorrente nel reato cui la testimonianza si riferisce, o per altro reato ad esso connesso o collegato e ciò non sia una diretta conseguenza della sua testimonianza, è ovvio che si “incrini” la relativa investitura soggettiva e che debba conseguentemente mutare lo status di dichiarante. Ma ove il testimone non sia chiamato a rispondere di fatti diversi da quelli che integrano il tessuto delle sue stesse dichiarazioni, allora scompare il profilo di una ipotetica incompatibilità, per venire ad emersione soltanto il ben diverso aspetto della attendibilità: resta ferma, infatti, la capacità a testimoniare, con tutti i doveri corrispondenti, mentre si apre la valutazione giurisdizionale del narrato, senza alcuna limitazione legale dei relativi criteri di apprezzamento, posto che la regola della corroboration, evocata come necessaria per le varie figure indicate dall'art. 192, commi 3 e 4, e dall'art. 197-bis, non ha ragion d'essere nei confronti del testimone “terzo” rispetto al fatto su cui è chiamato a rispondere secondo verità, a prescindere da qualsiasi fattore che ne possa affievolire la credibilità).

Il divieto di utilizzazione nei confronti di terzi di dichiarazioni rese da persona che avrebbe dovuto essere sentito in qualità di indagato, non attiene alle dichiarazioni rese al giudice da soggetto che mai abbia assunto la qualità di imputato o di persona sottoposta ad indagini, considerato che, a differenza del P.M., il giudice non può attribuire ad alcuno, di propria iniziativa, la qualità di imputato o di persona sottoposta ad indagini, dovendo solo verificare che essa non sia già stata formalmente assunta, sussistendo in tal caso l'incompatibilità con l'ufficio di testimone; pertanto il riferimento alla posizione sostanziale del dichiarante non esaurisce la verifica dei presupposti di applicabilità dell'art. 63, verifica che si estende alla necessità della successiva formale instaurazione del procedimento a suo carico (Cass. V, n. 24300/2015).

Ai fini della verifica della qualità di testimone o di indagato di reato connesso e della conseguente valutazione di utilizzabilità delle dichiarazioni rese, il giudice deve tenere conto di eventuali cause di giustificazione, ove queste siano di evidente ed immediata applicazione senza la necessità di particolari indagini o verifiche (Cass. I, n. 41467/2013. Fattispecie in cui sono state ritenute utilizzabili dichiarazioni rese da persona che, contestualmente, aveva ritrattato la precedente versione dei fatti fornita agli inquirenti, impedendo così l'esercizio dell'azione penale nei suoi confronti per il delitto di favoreggiamento).

Testimonianza indiretta sulle dichiarazioni della persona sottoposta ad indagini

È utilizzabile, quale prova a carico dell’imputato, la testimonianza indiretta del curatore fallimentare sulle dichiarazioni accusatorie rese con una missiva da un coimputato non comparso in dibattimento e trasfuse dallo stesso curatore nella relazione redatta ai sensi dell’art. 33 r.d. n. 267/1942 (Cass. V, n. 32388/2015).

La rinnovazione della testimonianza in caso di riforma in appello della sentenza di assoluzione

La necessità per il giudice dell'appello di procedere, anche d'ufficio, alla rinnovazione dibattimentale della prova dichiarativa nel caso di riforma della sentenza di assoluzione sulla base di un diverso apprezzamento dell'attendibilità di una dichiarazione ritenuta decisiva, non consente distinzioni a seconda della qualità soggettiva del dichiarante e vale: a) per il testimone “puro”; b) per quello c.d. assistito; c) per il coimputato in procedimento connesso; d) per il coimputato nello stesso procedimento (fermo restando che, in questi ultimi due casi, l'eventuale rifiuto di sottoporsi all'esame non potrà comportare conseguenze pregiudizievoli per l'imputato); e) per il soggetto “vulnerabile” (salva la valutazione del giudice sulla indefettibile necessità di sottoporre il soggetto debole, sia pure con le dovute cautele, ad un ulteriore stress); f) per l'imputato che abbia reso dichiarazioni “in causa propria” (dal cui rifiuto non potrebbe, tuttavia, conseguire alcuna preclusione all'accoglimento della impugnazione) (Cass. S.U., n. 27620/2016).

Casistica

In tema di revisione, la dichiarazione liberatoria di un coimputato, o comunque di un soggetto che va esaminato ai sensi dell'art. 197-bis c.p.p., deve essere valutata “unitamente agli altri elementi che ne confermano l'attendibilità” in forza dell'art. 192, comma 3, c.p.p., e non costituisce, pertanto, da sola, “prova nuova”, bensì mero elemento probatorio integrativo di quelli confermativi (Cass. VI, n. 36804/2021).

Non è incompatibile ad assumere l'ufficio di testimone l'esperto di neuropsichiatria infantile che abbia precedentemente partecipato all'assunzione delle sommarie informazioni rese al P.M. dal minorenne offeso dal reato, trattandosi di professionista esterno non inquadrabile nella categoria degli ausiliari, in cui possono essere ricompresi solo i soggetti o i collaboratori dell'autorità giudiziaria appartenenti all'amministrazione della giustizia (Cass. III, n. 26470/2014).

Non v'è incompatibilità ad assumere l'ufficio di testimone per le «persone idonee» indicate dal minore ed ammesse dall'autorità giudiziaria procedente a presenziare al suo esame (art. 609 decies, c.p.), in quanto hanno la funzione di assicurare l'assistenza affettiva e psicologica del minore stesso (Cass. III, n. 20252/2009. Fattispecie nella quale l'assistenza era curata da una psicomotricista-logopedista che aveva seguito la vittima per problemi legati al bilinguismo ed all'obesità).

Sono utilizzabili le dichiarazioni rese in qualità di testimone dalla persona offesa del reato di truffa che sia stata a sua volta denunciata dall'imputato per calunnia, in quanto una lettura costituzionalmente orientata della previsione contenuta nell'art. 371, comma 2, lett. b), impone di escluderne dall'applicazione quei reati che, seppure formalmente reciproci, siano stati commessi in contesti spaziali e temporali del tutto diversi (Cass. II, n. 4128/2015).

Sono utilizzabili le dichiarazioni rese in qualità di testimone dalla persona offesa del reato di violenza sessuale che sia stata denunciata dall'imputato dello stesso reato per calunnia, in quanto in tal caso non ricorre l'ipotesi di reati commessi da più persone in danno reciproco le une delle altre e non trovano conseguentemente applicazione le disposizioni di cui agli artt. 64, 197, 197-bis e 210 (Cass. III, n. 26409/2013).

Sono utilizzabili le dichiarazioni rese in qualità di testimone dalla persona offesa del reato di concussione che sia stata a sua volta denunciata dall'imputato per calunnia, in quanto l'incompatibilità non sussiste nel caso in cui i reati reciprocamente commessi si collochino in contesti spaziali e temporali diversi (Cass. VI, n. 6938/2019).

In tema di immigrazione clandestina, sono utilizzabili, in quanto hanno natura testimoniale, le dichiarazioni rese spontaneamente alla P.G. da parte di migranti nei confronti di membri dell'equipaggio che ha effettuato il trasporto illegale, non essendo configurabile nei confronti dei migranti il reato di cui all'art. 10 bis d.lgs. n. 286 del 1998 – con conseguente necessità di riscontri alle dichiarazioni rese quali chiamanti in correità o reità – considerato che l'ingresso nel territorio dello Stato è avvenuto nell'ambito di un'attività di soccorso e che non è configurabile il tentativo di ingresso illegale, trattandosi di una contravvenzione (Cass. S.U., n. 40517/2016).

Devono ritenersi dichiarazioni testimoniali e sono pienamente utilizzabili i contributi dichiarativi resi alla polizia giudiziaria nel corso delle indagini preliminari da migranti soccorsi in acque internazionali e trasportati su territorio nazionale, non potendo configurarsi nei loro confronti il reato di cui all'art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, né potendo ipotizzarsi che il pericolo di vita, cui è seguita l'azione di salvataggio, sia stato dagli stessi previsto e artatamente creato (Cass. I, n. 53691/2016).

È compatibile con l'ufficio di testimone, in quanto non assume in nessun momento procedimentale la posizione di indagato di reato connesso o collegato, l'agente di polizia che – in esecuzione dell'ordine di servizio di inserirsi in un traffico illecito di sostanze stupefacenti – contatti i venditori, simuli di voler acquistare una quantità di droga e si rechi sul posto convenuto per la consegna di essa – pur in ipotesi di inapplicabilità dell'art. 97 d.P.R. n. 309 del 1990 per carenza dei requisiti soggettivi ivi previsti –, attività tutte scriminate dall'adempimento di un dovere (Cass. IV, n. 9188/2010. Fattispecie nella quale è stata esclusa l'incompatibilità con l'ufficio di testimone a carico di un vicebrigadiere che si era limitato ad acquistare la sostanza stupefacente offertagli da uno spacciatore, senza indurlo a ciò con attività di provocazione).

In tema di incompatibilità a testimoniare, l'esistenza di una situazione di conflitto tra due organizzazioni criminali contrapposte, una costituita tra gli imputati e l'altra tra i dichiaranti, non è sufficiente ad integrare un'ipotesi di collegamento probatorio, nella forma della commissione di reati da più persone in danno reciproco le une delle altre, prevista all'art. 371, comma 2, lett. b), c.p.p. (Cass. VI, n. 58089/2017. In motivazione, la Corte ha precisato che i reati contestati agli associati non erano sati commessi in danno del gruppo criminale antagonista).

In materia di smaltimento di rifiuti, nel corso del procedimento relativo alla realizzazione di una discarica non autorizzata di rifiuti pericolosi e non pericolosi, può essere ascoltato nella qualità di teste il soggetto, non titolare di impresa o responsabile di un ente, il quale abbia abbandonato o depositato rifiuti in modo incontrollato, poiché egli è responsabile solo dell'illecito amministrativo di cui all'art. 50 d.lgs. n. 22/ 1997 (Cass. III 28674/2004. Nel caso di specie, la S.C. ha riconosciuto la possibilità di assumere come testimoni i dipendenti comunali che, su mandato del Comune, avevano provveduto a scaricare rifiuti in un'area comunale adibita a discarica non autorizzata).

Non sussiste alcuna incompatibilità con l'ufficio di testimone nei confronti del titolare di una carica societaria che, in via esclusivamente astratta, avrebbe potuto essere coinvolto in responsabilità penale per ipotesi di reato connesse o collegate a quelle oggetto del procedimento in corso (Cass. V, n. 631/2001. Nella specie la Corte ha ritenuto che non vi fosse incompatibilità a testimoniare da parte del Presidente del consiglio di amministrazione di una società fallita per l'ipotesi, non verificatasi in concreto, di un suo coinvolgimento diretto come imputato).  

Bibliografia

Aimonetto, Sull’incompatibilità a testimoniare del responsabile civile-parte, in Giur. cost. 1992, 4341; Ceresa Gastaldo, L’incompatibilità a testimoniare dei magistrati e dei loro ausiliari: profili sistematici e aspetti applicativi, in Riv. it. dir. proc. pen. 1996, 917; Coletta, Diritto al silenzio della persona già sottoposta ad indagini preliminari e compatibilità con l’ufficio di testimone, in Arch. n. proc. pen. 2002, fasc. 6; Conti, Emersione «tardiva» del collegamento probatorio e status del dichiarante in dibattimento, in Dir. pen. e proc. 2002, fasc. 6; Conti, Le Sezioni Unite ed il silenzio della sfinge: dopo l’archiviazione l’ex indagato è testimone comune, in Cass. pen. 2010, 2583; Conti, Assolto irrevocabile per insussistenza del fatto: la Consulta elimina difensore e “corroboration” ma la testimonianza resta coatta, in Dir. pen. e proc. 2017, 465; Fanuli - Laurino, Incompatibilità a testimoniare e archiviazione dopo la legge sul c.d. giusto processo: un nodo apparentemente irrisolto, in Cass. pen. 2002 fasc., 12; Giostra, Sull’incompatibilità a testimoniare anche dopo il provvedimento di archiviazione, in Giur. cost. 1992, 989; Morosini, Associazione di stampo mafioso e «testimonianza» dell’imputato aliunde, in Dir. pen. e proc. 2003, fasc. 4; Tetto, Capacità di testimoniare e garanzie difensive del «dichiarante»: la difficile collocazione processuale dell’esame del «testimone»/indagato per un reato probatoriamente collegato destinatario di provvedimento di archiviazione, in Arch. n. proc. pen. 2003, fasc. 4.

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