Codice di Procedura Penale art. 198 - Obblighi del testimone.Obblighi del testimone. 1. Il testimone ha l'obbligo di presentarsi al giudice [210] e di attenersi alle prescrizioni date dal medesimo per le esigenze processuali e di rispondere secondo verità [497] alle domande che gli sono rivolte. 2. Il testimone non può essere obbligato a deporre su fatti dai quali potrebbe emergere una sua responsabilità penale [63]. InquadramentoLa norma disciplina gli obblighi propri del testimone, che operano anche per le persone informate sui fatti sentite dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria, in virtù del rinvio, rispettivamente, degli artt. 362 e 351. Innanzitutto, è sancito l'obbligo di comparire personalmente davanti al giudice nel luogo, giorno e ora fissati dall'atto di citazione; la mancata presentazione volontaria autorizza il giudice a disporre l'accompagnamento coattivo ed a condannarlo al pagamento di una sanzione pecuniaria a norma dell'art. 133. Una particolare modalità di adempimento dell'obbligo è l'esame testimoniale svolto “a distanza”, mediante collegamento audiovisivo (c.d. “videoconferenza”), nei casi disciplinati dall'art. 147 bis disp.att. I casi di esonero dall'obbligo di presentazione sono previsti dagli artt. 205, 206 e 502. In secondo luogo, è menzionato l'obbligo di attenersi alle prescrizioni impartite dal giudice per le esigenze processuali (come l'invito a rendere la dichiarazione di impegno a dire la verità e a fornire le generalità, ai sensi dell'art. 497, comma 2). Infine, viene sancito l'obbligo di rispondere secondo verità alle domande: di tale obbligo il testimone deve essere avvertito dal giudice prima che l'esame abbia inizio (art. 497, comma 2), e l'avvertimento può essere rinnovato se nel corso dell'esame il teste rende dichiarazioni sospettate di falsità o reticenza (art. 207). La violazione dell'obbligo di rispondere secondo verità alle domande è sanzionata penalmente dall'art. 372 c.p. ed integra il reato di falsa testimonianza. Il secondo comma riconosce al testimone la garanzia contro l'autoincriminazione (Aprile, 194 ss.), che costituisce un limite all'obbligo di verità. In dottrina si afferma che la norma è espressione del principio del nemo tenetur se detegere, o, con terminologia di derivazione anglosassone, del “privilegio contro l'autoincriminazione” (privilege against self-incrimination), in virtù del quale il teste ha il diritto di non rispondere non soltanto a singole domande, ma in relazione a tutti i “fatti” dai quali emerga una sua responsabilità per un reato commesso in passato (Tonini-Conti, 211); non ricorre, tuttavia, un obbligo di informare il teste sulla facoltà di non rispondere, né è vietato porre domande autoincriminanti: sicché il testimone è libero di rispondere o di eccepire il privilegio. TestimonianzaLa persona che rende dichiarazioni al giudice o al pubblico ministero ha l'obbligo di rispondere secondo verità alle domande che gli sono rivolte, ai sensi degli art. 198, primo comma e 362 e di quest'obbligo deve essere avvertita sia inizialmente, sia quando sia sospettata di falsità o reticenza, senza che in seguito a questo sospetto e al conseguente avvertimento mutino le forme dell'assunzione e diventi necessario procedere considerando la persona come sottoposta alle indagini. A tale conclusione induce il dettato dell'art. 207, che al primo comma prevede un nuovo avvertimento sulle «responsabilità previste dalla legge penale per i testimoni falsi o reticenti» (art. 497, comma 2) ed al secondo comma la possibilità, per il giudice, al termine dell'assunzione, di informare il pubblico ministero, ove ravvisi indizi del reato ex art. 372 c.p. (Cass. V, n. 215/1993. Fattispecie in tema di misura cautelare personale: la Suprema Corte ha ritenuto che legittimamente il giudice del riesame avesse considerato tra gli indizi a carico le dichiarazioni di persona esaminata ai sensi dell'art. 362, il cui esame era proseguito dopo l'ammonimento a riferire il vero). In tema di valutazione della testimonianza, il sistema introdotto dal codice di rito separa nettamente la valutazione della testimonianza ai fini della decisione del processo in cui è stata resa e la persecuzione penale del testimone che abbia eventualmente deposto il falso, attribuendo al giudice il solo compito di informare il P.M. della notizia di reato, quando ne ravvisi gli estremi in sede di valutazione complessiva del materiale probatorio raccolto. Ne consegue che la deposizione dibattimentale del teste, pur se falsa, rimane parte integrante del processo in cui è stata resa e costituisce prova ivi utilizzabile e valutabile in relazione all'altro materiale probatorio legittimamente acquisito, anche sulla base del meccanismo disciplinato ai sensi dell'art. 500, comma 4 (Cass. VI, n. 18065/2012. Fattispecie in cui la S.C. ha ritenuto non sanzionabile, né influente sulla valutazione della prova testimoniale, ma solo frutto di un'irregolarità, la scelta operata dal giudice nel disporre la trasmissione al P.M. degli atti relativi ad ogni deposizione testimoniale sospettata di falso, non con la decisione che ha definito la fase processuale in cui essi hanno prestato il loro ufficio, ma subito dopo ogni singola deposizione). Le dichiarazioni dell'imputato di reato collegato, pur se assunte irritualmente con forma della testimonianza e con la pronuncia della formula di cui all'art. 497, comma secondo, c.p.p., possono essere utilizzate dal giudice a fini probatori, sempre che non sia stata violata alcuna garanzia sostanziale, e segnatamente quella sancita dall'art. 198, comma secondo, c.p.p. (Cass. V, n. 41169/2008). In tema di esame testimoniale, quando in capo al soggetto le cui dichiarazioni devono essere assunte nel giudizio la condizione di imputato dello stesso reato o di reato connesso o collegato concorre con quella di persona offesa dal reato, quest'ultima, per la sua maggiore pregnanza, è destinata a prevalere, cosicché il soggetto sarà esaminato nella veste di testimone, con l'obbligo di rispondere secondo verità alle domande che gli sono rivolte (Cass. VI, n. 8131/2000). Dichiarazioni auto indiziantiLe dichiarazioni della persona che sin dall'inizio avrebbe dovuto essere sentita come indagata o imputata sono inutilizzabili, ex art. 63, comma 2, anche nei confronti dei terzi, sempre che provengano da soggetto a carico del quale già sussistevano indizi in ordine al medesimo reato ovvero a reato connesso o collegato con quello attribuito al terzo, per cui dette dichiarazioni egli avrebbe avuto il diritto di non rendere, se fosse stato sentito come indagato o imputato. La prevista inutilizzabilità «erga omnes» è coerente con l'incapacità a testimoniare statuita dagli artt. 197, lett. a), 198, comma 2, 210 nei confronti di soggetto che, inquisito per lo stesso reato o per reato connesso o collegato, ha diritto al silenzio, con la differenza che l'art. 63 rende operante il principio del «nemo tenetur se detegere» in un momento antecedente a quello dell'assunzione formale della qualità di indagato o imputato, dalla quale scaturisce il diritto stesso (Cass. V, n. 474/1999). In tema di falsa testimonianza, l'esimente prevista dall'art. 384, comma secondo, c.p., va applicata anche a colui che, legittimamente escusso quale teste perché al momento non vi erano a suo carico indizi di reità, acquisti successivamente la qualità di imputato nel medesimo procedimento (Cass. VI, n. 25621/2012). CasisticaNon è applicabile l'esimente prevista dall'art. 384 c.p. alle dichiarazioni calunniose rese da testimone che non poteva essere obbligato a rispondere su fatti dai quali sarebbe potuta emergere una sua responsabilità penale (Cass. VI, n. 10290/2014; Cass. VI, n. 1730/2013). Non commette il reato di diffamazione il testimone che, adempiendo il dovere di testimoniare, renda dichiarazioni offensive dell'onore altrui (Cass. VI, n. 12431/2011). Integra il reato di favoreggiamento personale la condotta omissiva di colui che si rifiuti di rendere dichiarazioni e di fornire indicazioni alla polizia giudiziaria, in violazione dell'obbligo di rispondere secondo verità desumibile dagli articoli 351,362 comma primo, e 198 c.p.p. (Cass. VI,n. 30349/2013). Le dichiarazioni rese dal coimputato che, nel rispetto delle condizioni stabilite dall'art. 210 c.p.p., sia stato invitato a rispondere secondo verità, in virtù dell'art. 198 c.p.p., sono utilizzabili. Ciò in quanto l'esortazione a dire il vero, pur se non prevista con riferimento alla qualità del soggetto, non è vietata da alcuna statuizione processuale (Cass. III, n. 8796/1998). BibliografiaAprile, La prova penale, Milano, 2002; Dipaola, Sull’applicabilità dell’art. 192 commi 2 e 3 c.p.p. alla testimonianza, in Cass. pen. 2000, 489; Morosini, Associazione di stampo mafioso e «testimonianza» dell’imputato aliunde, in Dir. pen e proc. 2003, fasc. 4; Ramajoli, La prova nel processo penale, Padova, 1995; Tonini-Conti, Il diritto delle prove penali, Milano, 2012. |