Codice di Procedura Penale art. 203 - Informatori della polizia giudiziaria e dei servizi di sicurezza.Informatori della polizia giudiziaria e dei servizi di sicurezza. 1. Il giudice non può obbligare [204] gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria [57] nonché il personale dipendente dai servizi per le informazioni e la sicurezza militare o democratica (1) a rivelare i nomi dei loro informatori [66 att.]. Se questi non sono esaminati come testimoni, le informazioni da essi fornite non possono essere acquisite né utilizzate [191]. 1-bis. L'inutilizzabilità opera anche nelle fasi diverse dal dibattimento, se gli informatori non sono stati interrogati né assunti a sommarie informazioni [267 1-bis, 273 1-bis] (2). (1) Ora Agenzia informazioni e sicurezza esterna (AISE) e Agenzia informazioni e sicurezza interna (AISI), ai sensi dell'art. 44 4 l. 3 agosto 2007, n. 124, ma v. disposizione transitoria di cui al precedente art. 44 2. (2) Comma aggiunto dall'art. 7 l. 1° marzo 2001, n. 63. InquadramentoIl “segreto di polizia”, disciplinato dalla norma in commento, riguarda la possibilità riconosciuta al personale di polizia giudiziaria e a quello dei servizi di sicurezza di mantenere il segreto sull'identità degli informatori: si tratta di una deroga rispetto alla regolamentazione della testimonianza, in quanto introduce una specifica limitazione all'obbligo di “dire tutta la verità”. La seconda parte del comma 1 stabilisce, inoltre, una regola di esclusione, che vieta l'assunzione e l'utilizzazione della testimonianza indiretta del personale di polizia e dei servizi segreti sulle notizie fornite da informatori di cui non sia rivelata l'identità. La violazione del divieto determina una inutilizzabilità assoluta, che si estende anche alle prove documentali (quali le registrazioni fonografiche dei colloqui con i confidenti). Le Sezioni Unite, con la sentenza ‘Torcasio', hanno affermato la natura di inutilizzabilità assoluta, evidenziando che “il legislatore, nell'optare per la drastica sanzione dell'inutilizzabilità, ha inteso sottolineare che, in tale ipotesi, ci si trova di fronte a materia indisponibile, in cui gli effetti dell'atto assunto in violazione del precetto normativo sono determinati dallo stesso legislatore, senza possibilità per le parti di farvi acquiescenza (Cass. S.U. , n. 36747/2003 ). Per salvaguardare l'integrità del principio da eventuali prassi elusive, hanno altresì esteso l'area di operatività del divieto alle prove documentali, affermando che non è acquisibile al processo né, ove acquisita, è utilizzabile come prova la registrazione fonografica realizzata occultamente da appartenenti alla polizia giudiziaria, nel corso di operazioni investigative, durante colloqui da loro intrattenuti con indagati, confidenti o persone informate sui fatti quando si tratti rispettivamente: di dichiarazioni indizianti raccolte senza le garanzie indicate all'art. 63; di informazioni confidenziali inutilizzabili per il disposto dell'art. 203; di dichiarazioni sulle quali sia preclusa la testimonianza in applicazione degli artt. 62 e 195 comma 4 (Cass. S.U. , n. 36747/2003 . A sostegno di tale principio la Corte ha osservato che la registrazione di una comunicazione da parte di soggetto che ne sia stato partecipe, per quanto astrattamente suscettibile di produzione come documento, non può sostituirsi, in violazione dell'art. 191, a fonti di prova delle quali la legge vieta l'acquisizione). Dopo la riforma introdotta dalla l. n. 124 del 2007 i “servizi per le informazioni e la sicurezza militare o democratica” sono le agenzie A.I.S.E. (Agenzia informazioni e sicurezza esterna), A.I.S.I. (Agenzia informazioni e sicurezza interna) e D.I.S. (Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza), che sostituito rispettivamente S.I.S.M.I., S.I. S.DE. e C.E. S.I.S. Questioni di legittimità costituzionaleSotto il previgente codice era stata ritenuta costituzionalmente legittima la facoltà degli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria di non rivelare l'identità delle loro fonti (Corte cost. n. 114/1968 e Corte cost. n. 175/1970). La giurisprudenza costituzionale ha chiarito la questione della rivelazione dell'identità dell'informatore deceduto, e della conseguente utilizzabilità ai sensi dell'art. 195. È stata ritenuta manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 203, censurato in riferimento agli artt. 3,24 e 111 Cost., nella parte in cui vieta l'utilizzabilità, in dibattimento, delle dichiarazioni assunte da informatore che non sia stato esaminato come testimone, anche nell'ipotesi in cui egli sia deceduto prima della verbalizzazione di tali dichiarazioni. Infatti, il rimettente ha articolato le censure su una norma non pertinente alla fattispecie sottoposta al suo giudizio, poiché la dedotta preclusione all'utilizzabilità delle dichiarazioni de quibus, nei termini denunciati, non è riconducibile all'art. 203 e non ha svolto alcuno sforzo ricostruttivo, idoneo a rendere praticabili diverse e più congrue opzioni ermeneutiche. Secondo la giurisprudenza costituzionale, dunque, l'ufficiale di polizia giudiziaria che, chiamato a testimoniare, rivela l'identità della fonte confidenziale deceduta integra una situazione processuale che non è riconducibile all'art. 203, ma all'art. 195; l'area di applicazione degli artt. 203 e 195 viene pertanto correlata alla presenza, o meno, del segreto sull'identità della fonte confidenziale, in quanto “se, per contro, subentra ad opera del medesimo ufficiale di polizia giudiziaria la rivelazione dell'identità dell'informatore anche in conseguenza della sua morte, le relative notizie perdono, evidentemente, la connotazione di informazioni confidenziali” (Corte cost. n. 193/2006). Ambito e caratteristiche del segreto sugli informatoriSulla sufficienza delle informazioni acquisite in via confidenziale dalla polizia per autorizzare le intercettazioni si registrano, in giurisprudenza, divergenze. Un primo orientamento afferma che, in tema di presupposti per l'autorizzazione a disporre intercettazioni telefoniche, i gravi indizi richiesti dall'art. 267, comma primo, non attengono alla colpevolezza di un determinato soggetto ma alla esistenza di un reato; ne consegue che per sottoporre l'utenza di una persona ad intercettazione non è necessario che gli stessi riguardino anche la riferibilità a questa del reato (Cass. II, n. 42763/2015. Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto utilizzabili intercettazioni telefoniche disposte nei confronti di indagato nei confronti del quale, al momento del provvedimento autorizzativo, non risultavano elementi indiziari ma solo dichiarazioni provenienti da fonte confidenziale). Un secondo orientamento ritiene, invece, che, in tema di autorizzazione all'effettuazione di intercettazioni telefoniche, le informazioni confidenziali acquisite dagli organi di polizia giudiziaria determinano l'inutilizzabilità delle intercettazioni, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 267, comma 1-bis e 203, comma 1-bis, c.p.p., soltanto qualora esse rappresentino l'unico elemento oggetto di valutazione ai fini degli indizi di reità, mentre il loro utilizzo è legittimo per avviare l'attività investigativa o per estenderne l'ambito alla ricerca di ulteriori elementi (Cass. I, n. 11640/2020, che, in applicazione del principio, ha ritenuto utilizzabili le intercettazioni telefoniche disposte in un procedimento relativo a delitto di lesioni personali in cui, a seguito di una telefonata anonima, le forze dell'ordine avevano individuato il luogo dell'aggressione e ivi appreso che la stessa era stata causata da una lite familiare). In tema di autorizzazione all'effettuazione di intercettazioni telefoniche, le informazioni confidenziali acquisite dagli organi di polizia giudiziaria determinano l'inutilizzabilità delle intercettazioni, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 267, comma 1-bis e 203, comma 1-bis, c.p.p., soltanto quando esse abbiano costituito l'unico elemento oggetto di valutazione ai fini degli indizi di reità; il divieto di utilizzo della fonte confidenziale, tuttavia, non è esteso anche ai dati utili per individuare i soggetti da intercettare, sempre che risulti l'elemento obiettivo dell'esistenza del reato e sia indicato il collegamento tra l'indagine in corso e la persona da sottoporre a captazione (Cass. VI, n. 39766/2014). I risultati delle intercettazioni di conversazioni disposte sulla base di fonti confidenziali o anonime acquisite dalla polizia giudiziaria sono utilizzabili a condizione che queste ultime non siano gli unici elementi posti a supporto della valutazione sulla sussistenza dei gravi indizi di reato e che le operazioni siano state autorizzate anche sulla base di altri elementi emersi che le integrino (Cass. VI, n. 42845/2013). Il ricorso alle fonti confidenziali acquisite dagli organi di polizia giudiziaria determina l'inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche qualora esse rappresentino l'unico elemento oggetto di valutazione ai fini degli indizi di reità, mentre il loro utilizzo è legittimo per avviare l'attività investigativa o per estenderne l'ambito alla ricerca di ulteriori elementi (Cass. III, n. 1258/2013. Fattispecie nella quale è stata confermata la gravità del quadro indiziario, relativo alla detenzione di sostanze stupefacenti, basato su investigazioni che avevano tratto lo spunto da informazioni confidenziali e corroborate dai risultati delle operazioni di polizia giudiziaria susseguenti). Infine, un orientamento maggiormente restrittivo sostiene che, in tema di intercettazioni, le informazioni apprese da fonte confidenziale non sono in alcun modo utilizzabili – neppure unitamente ad altri elementi – al fine di ritenere la sussistenza dei gravi indizi di reato che consentono l'impiego di tale mezzo di ricerca della prova, mentre possono essere utilizzate al diverso fine di individuare il collegamento tra il soggetto da intercettare ed una data utenza, non essendo, questa, attività di ricostruzione del quadro indiziario (Cass. VI, n. 18125/2020. In motivazione, la Corte ha precisato che l'eventuale inutilizzabilità conseguente all'impiego di informazioni apprese da fonte confidenziale per l'affermazione della sussistenza di indizi idonei all'attivazione di intercettazioni resta circoscritta alle prove illegittimamente acquisite, senza comunicarsi al contenuto delle ulteriori captazioni, non applicandosi all'inutilizzabilità la regola, di cui all'art. 185, comma 1, c.p.p., relativa all'estensione della nullità agli atti dipendenti da quello dichiarato nullo). Le informazioni acquisite in via confidenziale dalla polizia giudiziaria non possono integrare gli indizi di reato posti alla base del provvedimento di autorizzazione delle operazioni di intercettazione (Cass. VI, n. 29666/2011). Ai fini della valutazione dei sufficienti indizi per l'autorizzazione all'intercettazione di conversazioni o comunicazioni telefoniche nell'ambito di un procedimento per delitti di criminalità organizzata, il divieto di utilizzazione delle notizie confidenziali riferite da ufficiali o agenti di polizia giudiziaria, previsto dal comma 1-bis dell'art. 203 (introdotto dall'art. 7 l. 1 marzo 2001, n. 63/2001), espressamente richiamato dall'art. 13 comma 1, d.l. n. 152/1991, conv., dalla l. n. 203/1991 (come modificato dall'art. 23 l. n. 63/2001), non si applica ai procedimenti in cui l'intercettazione sia già stata disposta al momento dell'entrata in vigore della nuova disciplina, dovendosi ritenere che in base al principio «tempus regit actum», ribadito dall'art. 26 l. n. 63/2001, il discrimine per l'applicazione della normativa processuale sopravvenuta è rappresentato dal momento dell'assunzione della prova, non della sua valutazione (Cass. V, n. 46221/2003). Sono legittime le intercettazioni ambientali autorizzate, prima dell'entrata in vigore della legge 1 marzo 2001 n. 63 (cd. giusto processo), nell'ambito di indagini per delitti di criminalità organizzata, sulla sola base di informazioni confidenziali acquisite da organi di polizia giudiziaria, atteso che la nuova disciplina – secondo cui le dichiarazioni degli informatori sono inutilizzabili quali indizi idonei a legittimare le operazioni di intercettazioni finché non si sia provveduto alla loro audizione (art. 267, comma 1-bis, c.p.p.) – non può incidere, in mancanza di specifiche diverse indicazioni legislative, sulla loro utilizzazione, essendo la successione delle leggi processuali governata dal principio tempus regit actum, che comporta la persistente validità ed efficacia degli atti compiuti nell'osservanza delle leggi all'epoca vigenti (S.U. , n. 919/2004). In tema di intercettazioni telefoniche, il divieto di utilizzazione a fini di valutazione del quadro indiziario delle notizie acquisite dalla polizia giudiziaria presso informatori (art. 267 comma 1-bis in relazione all'art. 203 comma 1-bis) non opera quando la stessa polizia giudiziaria abbia indicato negli atti le generalità complete dell'informatore ed abbia precisato in una relazione di servizio il contenuto delle notizie da questi riferite, venendo meno in tal caso il carattere anonimo della fonte e non essendo preclusa per gli agenti operanti, riguardo alla fase delle indagini preliminari, una forma siffatta di documentazione delle dichiarazioni raccolte (Cass. Fer., n. 35450/2003). In tema di intercettazioni telefoniche, il divieto di utilizzazione a fini della valutazione del quadro indiziario delle notizie acquisite dalla polizia giudiziaria presso informatori (art. 267 comma primo-bis in relazione all'art. 203 comma primo-bis c.p.p.) non opera quando la stessa polizia giudiziaria abbia indicato negli atti le generalità complete dell'informatore ed abbia precisato in una relazione di servizio il contenuto delle notizie riferite da quest'ultimo (Cass. IV, n. 6844/2012). Assumono la qualità di «informatori», il cui esame come testimoni è condizione necessaria ex art. 203, comma 1 per la utilizzabilità delle informazioni rese, esclusivamente i confidenti della p.g. che vogliono rimanere nell'anonimato per motivi di opportunità e sicurezza personale. Ne consegue che non è applicabile la norma de qua agli agenti e agli ufficiali di p.g., ai quali la legge impone invece di riferire all'A.G. ogni notizia di reato (Cass. VI, n. 31739/2003. In applicazione di tale principio la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso nel quale si denunciava l'inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche derivante dall'omesso esame dei verbalizzanti che, nel verificare e interpretare il contenuto di conversazioni intercettate, avrebbero assunto la qualità di informatori). Testimonianza de relato sulle dichiarazioni degli informatoriÈ stata ritenuta ammissibile la testimonianza de relato sulle dichiarazioni degli informatori poiché il divieto di testimonianza indiretta della polizia giudiziaria non è assoluto, ma limitato dal solo fine di evitare l'aggiramento del divieto di utilizzare le dichiarazioni inizialmente rese da soggetti che nel processo assumono la veste di dichiaranti a vario titolo e poiché tale divieto di testimonianza indiretta deve necessariamente essere correlato alla disposizione di cui all'art. 203, il quale vieta l'utilizzo di informazioni confidenziali, solo fino a quando l'ufficiale di polizia giudiziaria non indichi l'identità del confidente, diventando a quel punto invece utilizzabili. Non si comprende quale utilizzazione di tali informazioni sarebbe possibile se si estendesse a tale ipotesi il divieto di testimonianza indiretta dell'ufficiale di polizia giudiziaria (Cass. II, n. 33434/2015). Nell'ambito del giudizio abbreviato, ai fini dell'affermazione di penale responsabilità dell'imputato, non può costituire valido elemento di riscontro alla chiamata in correità il racconto fatto a un ufficiale di polizia giudiziaria da un confidente rimasto anonimo, in quanto, ai sensi dell'art. 203 c.p.p., le dichiarazioni rese da un informatore anonimo non possono essere utilizzate neppure nelle fasi diverse dal dibattimento, sempre che lo stesso non sia stato assunto a sommarie informazioni (Cass. V, n. 80/2006). Il diritto alla riservatezza e segretezza delle comunicazioni telefoniche, costituzionalmente garantito dall'art. 15 Cost., non impedisce alla persona destinataria della comunicazione stessa di rivelarne il contenuto in occasione di deposizione testimoniale, il cui unico limite è rinvenibile nel carattere di segretezza (professionale, di ufficio o di Stato) della comunicazione stessa. Ne consegue che è utilizzabile la testimonianza della persona offesa in ordine all'orario e al contenuto della conversazione telefonica che sia intercorsa tra essa e altra persona, a nulla rilevando l'eventuale inutilizzabilità, dovuta ad irritualità dell'intercettazione, delle deposizioni testimoniali rese da appartenenti alla p.g. sul contenuto della medesima conversazione (Cass. II, n. 45622/2003). Le dichiarazioni del whistleblowerLa giurisprudenza ha ritenuto che le dichiarazioni del c.d. whistleblower, ovvero del dipendente pubblico che riveli anonimamente illeciti commessi da colleghi, sono pienamente utilizzabili, perché estranee alla sfera di operatività dell'art. 203 c.p.p., in quanto il c.d. “canale del whistleblowing”, deputato alla segnalazione all'ufficio del Responsabile per la prevenzione della corruzione (RPC) di possibili violazioni commesse da colleghi realizza “un sistema che garantisce la riservatezza del segnalante nel senso che il dipendente che utilizza una casella di posta elettronica interna al fine di segnalare eventuali abusi non ha necessità di firmarsi, ma il soggetto effettua la segnalazione attraverso le proprie credenziali ed è quindi individuabile seppure protetto”. Tale assunto trova conferma nell'art. 54-bis d.lgs. n. 165/2001, anche nella formulazione vigente a seguito delle modifiche introdotte dalla l. n. 179 del 2017, le quali, con disciplina più puntuale, coerentemente alla perseguita finalità di apprestare un'efficace tutela del dipendente pubblico che riveli illeciti, precisano espressamente che, “Nell'ambito del procedimento penale, l'identità del segnalante è coperta dal segreto nei modi e nei limiti previsti dall'articolo 329 del codice di procedura penale”. Il contenuto delle rivelazioni del “whistleblower” «non costituisce, quindi, mero spunto investigativo, bensì assurge al rango di vera e propria dichiarazione accusatoria». Pertanto, si è affermato che, ai fini della valutazione dei gravi indizi di reato in sede di autorizzazione delle intercettazioni, è utilizzabile la segnalazione proveniente dal “whistleblower”, in quanto l'identità del denunciante è nota, pur essendo coperta da riserbo al fine di tutelare il pubblico dipendente che segnali condotte illecite, sicché non si incorre nel divieto di utilizzazione delle fonti anonime previsto dall'art. 333, comma 3, c.p.p. (Cass. VI, n. 9041/2018. In motivazione, la Corte ha precisato che, in base all'art. 54-bis, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, come modificato dalla l. 30 novembre 2017, n. 279, nell'ambito del processo penale l'identità del segnalante è coperta dal segreto ai sensi dell'art. 329 c.p.p.). CasisticaIl contenuto di dichiarazioni rese dalle persone offese dal reato, non formalmente verbalizzate da parte degli ufficiali di P.G., può costituire oggetto di testimonianza indiretta da parte di questi ultimi ai fini dell'integrazione del quadro indiziario necessario ai fini dell'applicazione di una misura coercitiva, in difetto di un obbligo legale di verbalizzazione, e non operando comunque il divieto di testimonianza previsto dall'art. 195, comma quarto ai fini cautelari; a ciò non osta il divieto sancito dall'art. 203, nella specie inapplicabile per la non equiparabilità dei suddetti dichiaranti agli «informatori della polizia giudiziaria», da individuarsi nei «confidenti» che, agendo di regola dietro compenso in denaro od in vista di altri vantaggi, forniscono alla polizia giudiziaria, occasionalmente ma con sistematicità, notizie da loro apprese (Cass. II, n. 46023/2007). È stata ritenuta illegittima l'utilizzazione (nella specie ai fini dell'emissione di provvedimento coercitivo) di dichiarazioni rese da confidente rifiutatosi di essere sentito ai sensi dell'art. 362, che siano state acquisite «sub specie» di intercettazione ambientale ritualmente richiesta dal P.M. e autorizzata dal giudice per le indagini preliminari, a nulla rilevando che il dichiarante sia identificato al termine dell'audizione e che le sue generalità vengano registrate, quantunque tenute segrete; e ciò in quanto, risultando tali dichiarazioni sostanzialmente anonime, è preclusa la possibilità di qualificarle come sommarie informazioni assunte da persona informata dei fatti, per le quali la disciplina applicabile è quella prevista per l'acquisizione della testimonianza (Cass. I, n. 705/1999. Nella specie l'intercettazione ambientale era stata eseguita nella segreteria dell'ufficio del P.M.). In tema di diffamazione a mezzo stampa, l'imputato che invochi il diritto di cronaca ha l'onere di provare la verità della notizia riportata, che non può soddisfare facendo riferimento ad una fonte anonima, confidenziale o non controllabile (Cass. V, n. 10964/2013. La Suprema Corte in applicazione del suddetto principio di diritto ha escluso l'applicabilità dell'esimente del diritto di cronaca in un caso nel quale un giornalista aveva indicato la sua fonte nei servizi segreti ed il funzionario del Sisde, comparso in udienza, ha opposto il segreto di Stato). Con riferimento alla diversa questione delle informazioni provenienti non da informatori anonimi, ma da agenti sotto copertura, si è chiarito che, ai fini della valutazione dei gravi indizi di reato in sede di autorizzazione delle intercettazioni, le informazioni fornite da agenti di polizia giudiziaria operanti sotto copertura, la cui identità non sia disvelata, sono pienamente utilizzabili, a condizione che sia stata rispettata la procedura autorizzativa prevista dalla legge, non essendo equiparabili alle informazioni di fonte confidenziale o anonima indicate nell'art. 203 c.p.p. (Cass. IV, n. 25247/2016; Cass. IV, n. 6778/2013). In tema di intercettazioni di comunicazioni tra presenti, il divieto di utilizzazione delle fonti confidenziali non trova applicazione in relazione all'acquisizione degli elementi necessari per individuare i siti ove allocare gli apparati tecnici necessari per la esecuzione delle operazioni (Cass. I, n. 33027/2011). Le informazioni relative ad atti compiuti dalla polizia straniera (nella specie, l'arresto di due cittadini italiani all'aeroporto di Bogotà) non assunte per rogatoria, ma direttamente acquisite dalla polizia giudiziaria italiana nell'ambito di un rapporto di collaborazione transnazionale con la polizia che ha operato, non sono equiparabili ad un'informazione acquisita da informatori privati o da fonte confidenziale e, pertanto, ai fini della loro utilizzabilità, non trova applicazione l'art. 203 (Cass. VI, n. 12387/2018). Per la sussistenza del delitto di calunnia occorre che la falsa incolpazione sia portata a conoscenza della autorità giudiziaria o di altra autorità che ad essa ha l'obbligo di riferire. Ne consegue che non è configurabile il predetto reato in relazione a dichiarazioni rese da un confidente ad un ufficiale di P.G., che, in violazione dell'art. 203 c.p.p., sia stato poi costretto a rivelarne la fonte (Cass. VI, n. 39232/2004). BibliografiaAA.VV., I servizi di informazione e il segreto di Stato. (Legge 3 agosto 2007, n. 124), Milano, 2008; Balsamo, Testimonianze anonime ed effettività delle garanzie sul terreno del “diritto vivente” nel processo di integrazione giuridica europea, in Cass. pen., 2006, 3008; Bronzo, Le modificazioni in tema di informazioni confidenziali [artt. 7, 10 e 23 l. 63/2001], in AA.VV., Guida alla riforma del giusto processo. Lo stato della giurisprudenza e della dottrina, a cura di Lattanzi, Milano, 2002; Canzio, Sub art. 7 l. 1 marzo 2001 n. 63, in Leg. pen. 2002, 221; Bruno, Informatori di polizia, in Dig. d. pen., vol. VII, Torino, 1993, 2. |