Codice di Procedura Penale art. 274 - Esigenze cautelari.

Franco Fiandanese

Esigenze cautelari.

1. Le misure cautelari sono disposte [250 trans.]:

a) quando sussistono specifiche ed inderogabili esigenze attinenti alle indagini relative ai fatti per i quali si procede, in relazione a situazioni di concreto ed attuale pericolo per l'acquisizione o la genuinità della prova, fondate su circostanze di fatto espressamente indicate nel provvedimento a pena di nullità rilevabile anche d'ufficio [181]. Le situazioni di concreto ed attuale pericolo non possono essere individuate nel rifiuto della persona sottoposta alle indagini o dell'imputato di rendere dichiarazioni né nella mancata ammissione degli addebiti [292 2d]1;

b) quando l'imputato [60, 61] si è dato alla fuga o sussiste concreto e attuale pericolo che egli si dia alla fuga [384, 714 2, 715 2c], sempre che il giudice ritenga che possa essere irrogata una pena superiore a due anni di reclusione. Le situazioni di concreto e attuale pericolo non possono essere desunte esclusivamente dalla gravità del titolo di reato per cui si procede2;

c) quando, per specifiche modalità e circostanze del fatto e per la personalità della persona sottoposta alle indagini o dell'imputato, desunta da comportamenti o atti concreti o dai suoi precedenti penali, sussiste il concreto e attuale pericolo che questi commetta gravi delitti con uso di armi [585 2 c.p.] o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l'ordine costituzionale [270, 270-bis, 272, 280, 283, 284, 289-bis c.p.] ovvero delitti di criminalità organizzata o della stessa specie di quello per cui si procede. Se il pericolo riguarda la commissione di delitti della stessa specie di quello per cui si procede, le misure di custodia cautelare sono disposte soltanto se trattasi di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni ovvero, in caso di custodia cautelare in carcere, di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni nonché per il delitto di finanziamento illecito dei partiti di cui all'articolo 7 della legge 2 maggio 1974, n. 195, e successive modificazioni. Le situazioni di concreto e attuale pericolo, anche in relazione alla personalità dell'imputato, non possono essere desunte esclusivamente dalla gravità del titolo di reato per cui si procede. 34.5

 

[1] Lettere così sostituite dall'art. 3 l. 8 agosto 1995, n. 332.

[2] L'art. 1, l. 16 aprile 2015, n. 47, ha inserito le parole "e attuale" dopo la parola "concreto" e ha aggiunto il periodo: «. Le situazioni di concreto e attuale pericolo non possono essere desunte esclusivamente dalla gravità del titolo di reato per cui si procede».

[3] Lettere così sostituite dall'art. 3 l. 8 agosto 1995, n. 332.

[4] L'art. 2, l. 16 aprile 2015, n. 47, ha inserito le parole "e attuale" dopo la parola "concreto"; dopo le parole «non inferiore nel massimo a cinque anni» le parole: «nonché per il delitto di finanziamento illecito dei partiti di cui all'articolo 7 della legge 2 maggio 1974, n. 195, e successive modificazioni; e ha aggiunto il periodo: «Le situazioni di concreto e attuale pericolo, anche in relazione alla personalità dell'imputato, non possono essere desunte esclusivamente dalla gravità del titolo di reato per cui si procede». L'art. 1 d.l. 1° luglio 2013, n. 78, conv., con modif., dalla l. 9 agosto 2013, n. 94, aveva già aggiunto, le parole: «ovvero, in caso di custodia cautelare in carcere, di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni».

[5] Per i reati diretti contro l'ordine costituzionale, v. anche artt. 21 e 29 l. 18 aprile 1975, n. 110, art. 1 d.l. 15 dicembre 1979, n. 625, conv., con modif., nella l. 6 febbraio 1980, n. 15 (ora art. 270-bis.1 c.p.) e art. 11 l. 29 maggio 1982, n. 304.

Inquadramento

L'art. 274, in aggiunta ai criteri indicati dall'art. 273 relativi al fumus delicti, indica i tre criteri di valutazione del periculum in libertate. Tali criteri — rispettivamente riferiti ai pericoli di inquinamento delle prove o di fuga o di reiterazione del reato- sono da valutare con riferimento ai singoli casi in cui la misura cautelare va applicata, come è desumibile dall'espressione «pericolo concreto e attuale», ripetuta per ciascuno dei tre canoni dal legislatore.

I suddetti tre requisiti condizionano il potere di disporre la misura cautelare, ma non devono concorrere insieme per legittimare quel provvedimento, bastando anche l'esistenza di una sola di esse per fondare la misura (Cass. VI, n. 4829/1996; Cass. III, n. 35973/2015; Cass. III, n. 15980/2020: nella specie, in cui il tribunale del riesame aveva congruamente motivato in ordine alla necessità della custodia in carcere per fronteggiare il pericolo di reiterazione, la S. C. ha ritenuto irrilevante le censure difensive concernenti l'affermata sussistenza anche del pericolo di fuga).

È stato osservato (Tonini, 410) che l'art. 274 disciplina tre ipotesi tassative di esigenze cautelari e la tassatività della previsione ha lo scopo di impedire che si tenda, attraverso le misure cautelari, ad anticipare la sanzione penale, dal momento che ciò è espressamente inibito dal principio della presunzione di non colpevolezza (art. 27 Cost.).

Pericolo di inquinamento probatorio

In generale

L' esigenza processuale del concreto pericolo di inquinamento probatorio, è prevista sia al fine di consentire la ulteriore acquisizione di fonti di prova, in modo scevro da influenze negative da parte dell'indagato, sia al fine di assicurare che la formazione della prova stessa sia tutelata nella sua genuinità (Cass. III, n. 1722/1993).

Le inderogabili esigenze attinenti alle indagini non devono essere intese nel senso che, una volta acquisito il riscontro certo di una rilevante prova di accusa, cessa il riferimento ad ogni pericolo per l'acquisizione della genuinità della prova, ma deve essere interpretata come esigenza assoluta di evitare i rischi attinenti alla completa e corretta salvaguardia del potenziale probatorio, che le indagini possono fornire, onde la tutela da parte del legislatore dell'insieme delle potenzialità probatorie contro il rischio di interventi, da parte dell'indagato, soppressivi di fonti probatorie reali già esistenti o impeditivi nei confronti di persone che sono fonti di prove, il tutto con particolare riguardo alle imputazioni dell'indagato medesimo e ai riflessi che su di essa possono proiettare fatti di terzi, dato che la prova è quella riferita a tutta l'imputazione, compresi i fatti relativi alla punibilità e alla determinazione della pena (Cass. VI, n. 3415/1994).

Proprio perché le esigenze cautelari tutelate dall'art. 274 lett. a) non riguardano soltanto quelle investigative in senso stretto, ma concernono anche l'acquisizione della prova e la conservazione della sua genuinità, ai fini della necessità di prevenire, con la misura cautelare, il persistente e concreto pericolo di inquinamento probatorio, a nulla rileva la circostanza che le indagini preliminari si siano concluse (Cass. S.U., n. 19/1994; Cass. VI, n. 13896/2010; Cass. V, n. 6793/2015) e neppure che si sia concluso il giudizio di primo grado (Cass. VI, n. 969/1991; Cass. II, n. 4689/1993; Cass. II, n. 3900/1997). Sicché il potere coercitivo attribuito al giudice, con la possibilità dell'imposizione delle misure cautelari nella loro funzione di tutela di esigenze di tipo probatorio, si estende lungo tutto l'arco del processo di merito, compreso quello di appello ove la prova può attraversare l'ulteriore fase della rinnovazione.

Non vale ad escludere l'esistenza delle esigenze di cui all'art. 274, lett. a), la prospettata utilizzazione dell'incidente probatorio, quale strumento in grado di precludere ogni possibilità di inquinamento delle fonti di prova orale perché, comunque, l'espletamento della procedura di acquisizione anticipata della prova presuppone la presenza delle condizioni indicate nell'art. 392, comma 1, lett. b), che non coincidono certo con le condizioni indicate dall'art. 274, lett. a), riguardanti, in via generale, esigenze attinenti alle indagini, in relazione a situazioni di concreto pericolo per l'acquisizione e la genuinità della prova. Una gamma generica di evenienze che non coincide con l'esigenza alla base dell'istituto dell'incidente probatorio (Cass. VI, n. 2667/1993).

Anche la possibile l'utilizzazione ai fini probatori delle dichiarazioni raccolte in sede di indagini preliminari, ai sensi dei commi 4 e 5 dell'art. 500, non esclude la possibilità dell'esigenza cautelare di cui all'art. 274 lett. a) relativamente alle dichiarazioni già raccolte di persone informate sui fatti. Infatti, l'art. 500 prevede invero un rimedio ex post, allorché l'inquinamento della prova orale si è già verificato e che comporta tuttavia un ulteriore aggravio probatorio stante il richiesto necessario concorso di elementi di supporto («se sussistono altri elementi di prova che ne confermano l'attendibilità», comma 4, «quando... risulta che il testimone sia stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o premessa di denaro o altra utilità... ovvero risultano altre situazioni che hanno compromesso la genuinità dell'esame», comma 5); quando invece il pericolo concreto di detto inquinamento della prova (e non solo di quella orale a cui si riferisce l'art. 500) è già prevedibile ex ante, correttamente viene disposta — nel concorso degli altri presupposti — la misura cautelare (Cass. VI, n. 2754/1994).

È dibattuto se il pericolo attuale e concreto per l'acquisizione o la genuinità della prova, richiesto per l'emissione di una misura cautelare personale, possa essere riferito alle condotte di eventuali coindagati. Secondo un primo orientamento, il pericolo di inquinamento delle prove va verificato in relazione alle indagini concernenti la posizione dell'indagato da sottoporre a misura cautelare, non già in relazione alla necessità di scoprire eventuali altri reati ed eventuali altri colpevoli, con sacrificio della libertà del concorrente (Cass. VI, n. 2179/1995; Cass. VI, n. 10851/2007); secondo un altro orientamento, invece, il pericolo di inquinamento delle prove può riguardare non soltanto la persona dell'indagato sottoposta alla misura, ma anche altri indagati o addirittura persone non ancora identificate ed in relazione alle quali è concreto il pericolo di cui sopra (Cass. I, n. 1634/1995). Quest'ultimo principio è mitigato da quella giurisprudenza la quale precisa che il pericolo attuale e concreto per l'acquisizione o la genuinità della prova può essere riferito alle condotte di eventuali coindagati solo se esse siano volte ad inquinare il quadro probatorio emergente nella fase delle indagini preliminari nell'interesse comune dei coindagati (Cass. III, n. 40535/2007; Cass. VI, n. 41606/2013; Cass. V, n. 13837/2020).

Concretezza e attualità

In relazione alle esigenze cautelari di cui all'art. 274, lett. a), la situazione di pericolo per l'acquisizione e la genuinità della prova deve caratterizzarsi secondo effettività ed attualità. Deve sussistere, cioè, una prognosi di probabile accadimento della situazione di paventata compromissione di quelle esigenze di giustizia che la misura cautelare è diretta a salvaguardare (Cass. VI, n. 1540/1993; Cass. VI, n. 69/1995); in particolare, il suddetto pericolo deve essere ipotizzabile non in astratto, ma desunto da elementi di fatto esistenti nella cosiddetta realtà effettuale dei quali negli atti processuali devono ricorrere estremi tali da farlo ritenere sussistente (Cass. VI, n. 2996/1992); non è sufficiente riferirsi ad un pericolo generalizzato tratto dalla gravità e dalla particolare natura del reato (Cass. VI, n. 1393/1995).

La concretezza del pericolo va identificato in tutte quelle situazioni dalle quali sia possibile desumere, secondo la regola dell'id quod plerumque accidit, che l'indagato possa realmente turbare il processo formativo della prova, ostacolandone la ricerca o inquinando le relative fonti. Per evitare che il requisito richiesto del "concreto pericolo" perda il suo significato e si trasformi in semplice clausola di stile, è necessario che il giudice indichi, con riferimento all'indagato, le specifiche circostanze di fatto dalle quali esso è desunto e fornisca sul punto adeguata e logica motivazione (Cass. VI, n. 1460/1995; Cass. VI, n. 29477/2017: fattispecie in cui la Corte ha ritenuto insufficiente la motivazione delle esigenze cautelari fondata sul persistente inserimento dell'indagato nell'amministrazione comunale nella quale i reati erano stati commessi e dei conseguenti rapporti con altri soggetti presenti nell'organigramma dell'ente, aventi la veste di persone informate sui fatti).

In applicazione dei suddetti requisiti, non è stato ravvisato il pericolo di inquinamento probatorio quando sia trascorso un lungo periodo di tempo dal momento della conoscenza, da parte dell'indagato, dell'esistenza di indagini a suo carico per alcuni reati, senza che sia stata posta in essere alcuna condotta che pregiudichi l'integrità o la genuinità della prova stessa (Cass. V, n. 786/1996).

In giurisprudenza è stato affermato che non concreta un pericolo attuale per la genuinità della prova la predisposizione, da parte dell'indagato, di versioni dei fatti, pur se mendaci, dirette a sminuire la portata o l'attendibilità di quanto riferito dalla parte lesa o da altri testi, rappresentando tali attività esercizio del diritto di difesa dell'imputato (Cass. III, n. 39823/2008: nella specie, da intercettazioni telefoniche erano tra l'altro risultate conversazioni tra gli indagati finalizzate a concordare versioni comuni anche attraverso il tentativo di contattare le parti lese). Tale affermazione, però, è contrastata da altra giurisprudenza, la quale, invece, sostiene che può concretare un pericolo attuale per la genuinità della prova la concertazione di linee difensive da parte di più indagati. Tale conclusione è ritenuta non è in contrasto con l'art. 24 Cost., che nel tutelare l'autodifesa e la difesa tecnica, dà fondamento a una situazione giuridica soggettiva inviolabile ma di carattere individuale e non impedisce quindi al legislatore di porre limiti a iniziative collettive degli indagati che, in quanto tali, sono in grado di proiettare i loro effetti al di là della sfera personale di ciascuno e di far «trasmodare» il diritto di difesa in un'attività idonea a concretare un pericolo di inquinamento probatorio (Cass. VI, n. 1015/1998: nella specie era stata accertata l'esistenza di ripetuti contatti, anche telefonici, tra gli indagati, finalizzati a precostituire difese e strategie comuni).

La l. n. 332/1995 ha introdotto la previsione secondo cui dal rifiuto della persona sottoposta alle indagini o dell'imputato di rendere dichiarazioni o dalla mancata ammissione degli addebiti non può ricavarsi l'esistenza del concreto ed attuale pericolo di inquinamento della prova.

Si è ritenuto che tale previsione non può ritenersi circoscritta alle sole ipotesi di pericolo contemplate dalla lett. a),ma anche a quelle di cui alle lett. b) e c), così che nessuna misura cautelare può essere legittimamente adottata allo scopo di indurre l'imputato a collaborare con l'autorità giudiziaria (Grevi, 397).

Nello stesso senso in giurisprudenza, v. Cass. VI, n. 14120/2007; Cass. VI, n. 38139/2008; Cass. V, n. 39523/2018

Specificità

Il pericolo di inquinamento probatorio, di cui all'art. 274, comma 1, lett. a), postula soltanto che vi siano specifiche ed inderogabili esigenze attinenti alle indagini. Poiché, peraltro, il requisito della specificità è riferito alle esigenze e non alle indagini, non è indispensabile che il giudice, nel suo provvedimento, indichi con precisione gli atti da compiere. Tale requisito, infatti, non è stabilito sia per evitare che il pubblico ministero debba rivelare alla parte gli accertamenti che si appresti ad espletare sia perché lo stesso giudice non deve necessariamente essere posto a conoscenza delle future investigazioni (Cass. VI, n. 3424/1997).

Casistica

Nell'indagine riguardante una complessa attività truffaldina, l'individuazione dei prodotti e/o dei profitti dei reati costituisce un significativo elemento di prova, sicché la sottrazione di attività e somme, e l'occultamento della disponibilità di beni, si risolve — attesa la peculiarità del caso — anche nella sottrazione o nell'inquinamento di prove (Cass. I, n. 3102/1991).

Non può farsi ricorso alla custodia cautelare per l'acquisizione di una prova documentale ex art. 274, lett. a), quando il documento sia rinvenibile indipendentemente dalla condotta ostruzionistica dell'indagato, poiché in tal caso le esigenze attinenti alle indagini non sono inderogabili, sicché prevale il principio del favor libertatis (Fattispecie in tema di falso ideologico in atto pubblico e truffa aggravata, riguardante la tabella di adeguamento del costo dei lavori di ricostruzione in un comune danneggiato dal sisma, agevolmente rinvenibile presso il Ministero per i lavori pubblici) (Cass. V, n. 2475/1995).

È correttamente motivato il provvedimento del Tribunale del riesame che ravvisi la sussistenza del pericolo concreto di inquinamento probatorio, di cui all'art. 274, lett. a), nella esistenza di ulteriori indagini, connotate da effettiva necessità, desumibile dalle relazioni dei consulenti tecnici che abbiano evidenziato, allo stato delle acquisizioni, l'irrimediabile incompletezza delle attività di indagine ricostruttiva, causata dall'indisponibilità dei documenti, delle scritture contabili e dei bilanci in cui sia storicizzata la vita finanziaria di società situate all'estero e riconducibili alla persona dell'indagato, il quale, per altro verso, abbia dimostrato propensione a mutare le denominazioni delle società, a procedere alla fusione ovvero all'interscambio di pacchetti azionari, in guisa da raffigurare all'esterno un quadro valutativo alterato nei bilanci e nelle situazioni contabili; di talché è logico ritenere che l'affievolimento dello status custodiae renda plausibilmente certi comportamenti volti a interferire, con qualsiasi mezzo ed attraverso soggetti collegati, con l'attività di indagine, con la conseguenza, altamente probabile, di porre a serio rischio l'intera ricostruzione dei movimenti finanziari nonché la scoperta ed il recupero delle somme distratte (Cass. V, n. 26401/2004).

Pericolo di fuga

In genere

La lett. b) dell'art. 274 individua l'esigenza cautelare nella circostanza che l'imputato “si è dato alla fuga” o che “sussista concreto e attuale pericolo che egli si dia alla fuga”.

Con riferimento all'imputato che “si è dato alla fuga”, occorre precisare che, ai fini indicati dall'art. 274, lett. b), integra la fuga, il trasferimento, o la permanenza in un paese estero quando tale condotta appaia sicuramente diretta a sottrarsi al concreto esercizio della giurisdizione italiana, se considerata nelle sue concrete modalità (Cass. VI, n. 426/1995: la Corte, nella specie, ha rimarcato il particolare valore significativo di ripetute manifestazioni di sfiducia da parte dell'indagato nei confronti dell'autorità giudiziaria italiana; il trasferimento in un Paese estero in cui l'Italia non è in grado di far giungere la propria giurisdizione penale; e, infine, il rifiuto di rientrare in patria accampando giustificazioni che il giudice di merito ha insindacabilmente ritenuto pretestuose; Cass. VI, n.2422/1998).

In particolare, è stato precisato che il pericolo di fuga non può essere desunto esclusivamente dalla circostanza che l'indagato si sia trasferito nel suo paese di origine e di abituale dimora, ma deve essere ancorato a concreti elementi dai quali sia logicamente possibile dedurre, attraverso la valutazione di un'attività positiva del soggetto, la reale ed effettiva preparazione della fuga. (Fattispecie in cui la Corte ha annullato l'ordinanza di custodia in carcere per il delitto di partecipazione ad un'associazione di stampo mafioso, nella quale il pericolo di fuga era stato dedotto dal trasferimento, da anni, dell'indagato di origine straniera, in Germania, al fine di ricongiungersi al coniuge e dal fatto che lo stesso potesse fruire di una "estesa rete di contatti", genericamente indicata, sia con la Nigeria, ove il sodalizio era radicato, che con altri Stati europei) (Cass. I, n. 31765/2020).

Non è sufficiente, peraltro, ad integrare l'esigenza cautelare suddetta la circostanza che l'indagato straniero, si sia portato, dopo la commissione del fatto addebitatogli, nel suo paese d'origine e di abituale dimora, apparendo tale spostamento, di per sé, fisiologico alla condizione di vita del soggetto piuttosto che indice di una deliberata volontà di sottrarsi al concreto esercizio della giurisdizione italiana (Cass. VI, n. 1990/1999).

Neppure rileva la mera irreperibilità del soggetto, qualora non vi siano elementi concreti tali da fare ritenere che l'irreperibilità sia significativa della volontà di sottrarsi al processo; in particolare, l'esigenza cautelare non può essere automaticamente desunta dal fatto che il soggetto non abbia fissa dimora, situazione questa meritevole di adeguato apprezzamento ai fini del giudizio sulla sussistenza del pericolo, ma che di per sé non esprime la volontà di sottrarsi al processo, almeno le volte in cui nessuna variazione dello stile di vita sia sopravvenuta a seguito dell'inizio delle indagini preliminari (Cass. II, n. 775/2006).

Il pericolo di fuga non può essere costituito dalla mera possibilità o dalla semplice ed astratta probabilità, desumibile da generiche presunzioni, che l'indagato scappi. Esso può essere ritenuto sussistente ogni qual volta, sulla base di elementi certi di carattere oggettivo o soggettivo attinenti alla personalità dell'imputato, sia ravvisabile la ragionevole probabilità (e, quindi, non la semplice possibilità, da una parte, e neppure la certezza o la quasi certezza, dall'altra) che l'indagato, ove non si intervenisse, farebbe perdere le proprie tracce. Di tali elementi deve farsi analitica menzione nella motivazione dell'ordinanza dispositiva della misura, onde consentirne il controllo (Cass. fer., n. 2644/1990; Cass. I, n.1520/1991; Cass. VI, n. 1661/1992; Cass. I, n. 4352/1993). 

Il requisito della «concretezza» del pericolo, infatti, non implica che quest'ultimo sia particolarmente intenso, cioè che sussista un grado di probabilità particolarmente elevato del verificarsi della fuga, ma soltanto che si tratti di un pericolo reale, effettivo, e non immaginario; altrimenti non si tratterebbe neppure di un pericolo (Cass. I, n. 1520/1991; Cass. I, n. 4352/1993).

Il concreto pericolo di fuga può essere dedotto dal pregresso stato di latitanza dell'indagato, in quanto evidentemente sintomatico di una disobbedienza alla legge e rivelatore di una tendenza comunque ostruzionistica all'esecuzione di un provvedimento restrittivo della libertà personale; né l'attualità del pericolo è automaticamente esclusa dal solo fatto che la cessazione della latitanza sia intervenuta per la volontaria costituzione della persona sottoposta alle indagini o imputata (Cass. II, n. 3490/1992; Cass. II, n. 1963/1995; Cass. V, n. 863/1999; Cass. II, n. 36909/2015).

Tra le circostanze e gli elementi di fatto da considerare possono rientrare anche quelli collegati all'entità della presumibile pena da irrogare (Cass. I, n. 5178/1996). È stato, però, precisato che l'esigenza cautelare di prevenire il pericolo di fuga non può essere desunta sic et simpliciter dalla particolare gravità della pena inflitta dal giudice di merito, in quanto la sua valutazione comporta un giudizio di probabilità, che deve essere ricavato da elementi concreti, e non meramente congetturali, potendosi solo ritenere che la concretizzazione di un giudizio di condanna costituisca incentivo a velleità o propositi di fuga. Ne consegue che la sola esistenza di una sentenza di condanna, non può, in assenza di altri elementi, integrare il concreto pericolo di fuga (Cass. VI, n. 1280/1997; Cass. I, n. 2680/1998; Cass. I, n. 12966/2001), anche se alcune pronunce sembrano dare rilevanza soltanto ad una sentenza di condanna, emessa all'esito del doppio grado di giudizio, ad una grave pena detentiva (Cass. II, n. 6317/1999).

L'art. 274, lett. c), nel testo introdotto dalla l. n. 47/2015, richiede che il pericolo che l'imputato commetta altri delitti deve essere non solo concreto, ma anche “attuale”. Si tratta, in realtà, di un requisito che era già stato individuato e ritenuto dalla giurisprudenza, pur in mancanza di espressa indicazione legislativa, e definito come “l'esistenza di occasioni prossime favorevoli alla fuga” (Cass. I, n. 1470/1993), che richiede una valutazione prognostica che tenga conto, in particolare, degli aspetti più significativi del comportamento già tenuto dall'indagato (Cass. VI, n. 1250/1995). Non vi è dubbio, peraltro, che l'intento della novella legislativa sia quello di “rafforzare l'esigenza di una valutazione più stringente” del giudice sul punto (così si esprime la relazione di accompagnamento alla proposta di legge n. 631 AC). La giurisprudenza successiva alla novella legislativa ha affermato che tale ulteriore requisito può essere desunto da una condotta prodromica ad un imminente trasferimento all'estero (Cass. II, n. 44526/2015: nella specie, la Corte ha ritenuto immune da censure l'applicazione della misura del divieto di espatrio con ritiro del passaporto nei confronti di un cittadino straniero, il quale, subito dopo la condanna in primo grado, aveva chiesto il rinnovo del passaporto, pur essendo titolare di un documento d'identità valido sul territorio nazionale; Cass. III, n. 18496/2017, invece, ha censurato l'ordinanza che aveva desunto il pericolo di fuga di una cittadina rumena   principalmente dalla sua facilità di spostamento all'estero, laddove dagli atti risultava che la stessa si era limitata ad attivarsi per il trasferimento presso la nazione di provenienza dei profitti illecitamente conseguiti).

E’ stato, peraltro, precisato che il requisito dell’attualità non comporta necessariamente l'esistenza di condotte materiali che rivelino l'inizio dell'allontanamento o che siano comunque espressione di fatti ad esso prodromici, essendo sufficiente accertare, con giudizio prognostico verificabile, perché ancorato alla concreta situazione di vita del soggetto, alle sue frequentazioni, ai precedenti penali, alle pendenze giudiziarie e, più in generale, a specifici elementi vicini nel tempo, l'esistenza di un effettivo e prevedibilmente prossimo pericolo di allontanamento, che richieda un tempestivo intervento cautelare (Cass. VI, n. 48103/2018).

L'art. 1 l. n.47/2015 ha modificato la lett. b) dell'art. 274 anche nel senso che “le situazioni di concreto e attuale pericolo non possono essere desunte esclusivamente dalla gravità del titolo del reato per cui si procede”. La giurisprudenza, peraltro, ha precisato che il divieto normativo proibisce la illazione del pericolo di fuga dalla mera considerazione della «gravità del titolo del reato» pel quale si procede e, cioè, astrattamente sulla base del rilievo del puro e semplice nomen juris del delitto, avulso dal fatto materiale cui perviene; ma certamente non osta alla considerazione della concreta condotta delittuosa perpetrata, in rapporto al contenuto e alle circostanze fattuali che la connotano in quanto la modalità della condotta e le circostanze di fatto in presenza delle quali essa si è svolta restano concreti elementi di valutazione imprescindibili per effettuare una prognosi di probabile ricaduta del soggetto nella commissione di ulteriori reati  (Cass. I, n. 45659/2015; Cass. V, n. 49038/2017).

Pena superiore a due anni di reclusione

L'art. 274, lett. b), nell'ipotesi di fuga o di pericolo di fuga, espressamente vieta le misure cautelari, se il giudice reputi che possa essere inflitta una pena non superiore ai due anni di reclusione. Tale divieto deve essere coordinato con quello di ordinare la custodia in carcere se il giudice ritiene che con la sentenza possa essere concessa la sospensione condizionale della pena, e perciò possa essere irrogata una pena non superiore ai due anni di reclusione, stabilito dall'art. 275, comma 2-bis. Pertanto, nei casi in cui, ai sensi dell'art. 275,, comma 2-bis, non sia applicabile la custodia cautelare in carcere, non può essere disposta, ex art. 274, lett. b), nessun'altra misura cautelare (Cass. IV, n. 4067/1995).

Pericolo di reiterazione del reato

In genere

Tutti i parametri legittimanti l'emissione e il mantenimento di un provvedimento cautelare restrittivo della libertà personale, catalogati dall'art. 274, lett. c), hanno come referente la tutela della collettività, indipendentemente dalla circostanza che la fattispecie per la quale si procede attenti, o abbia attentato, anche ad un interesse legittimo di singoli (Cass. VI, n. 3091/1992).

Il pericolo di reiterazione del reato può essere desunto dai criteri stabiliti dall'art. 133 c.p., tra i quali sono ricompresi le modalità e la gravità del fatto, sicché non deve essere considerato il tipo di reato o una sua ipotetica gravità, bensì devono essere valutate situazioni correlate con i fatti del procedimento ed inerenti ad elementi sintomatici della pericolosità dell'indagato (Cass. VI, n. 12404/2005; Cass. IV, n. 11179/2005; Cass. IV, n. 34271/2007; Cass. II, n. 49453/2013; Cass. II, n. 51843/2013; Cass. II, n. 49453/2013). In particolare, il concreto pericolo di reiterazione dell'attività criminosa può essere desunto anche dalla molteplicità dei fatti contestati, in quanto la stessa, considerata alla luce delle modalità della condotta concretamente tenuta, può essere indice sintomatico di una personalità proclive al delitto (Cass. V, n. 21805/2004; Cass. V, n. 45950/2005; Cass. III, n. 3661/2014).

Nell'ipotesi in cui più siano gli indagati, il giudice non può assumere determinazioni complessive e generali. Ne deriva che la motivazione in ordine alla pericolosità sociale ed alla necessità della misura della custodia cautelare non può accomunare, in una valutazione cumulativa, la posizione di più indagati senza valutare invece separatamente le situazioni individuali. In particolare, con riferimento alla posizione di più indagati per il medesimo reato di associazione per delinquere, si impone una valutazione specifica non esclusa dalla natura associativa del contestato delitto in quanto nell'ambito di un unico sodalizio la pericolosità di ciascun associato può assumere una diversa graduazione (Cass. VI, n. 3974/1995; Cass. II,n.6480/1998; Cass. VI, n. 48420/2008).

Peraltro, tale principio di diritto deve confrontarsi con uno specifico contesto motivazionale, in quanto è stato anche affermato che la motivazione del provvedimento in relazione alle esigenze indicate nell'art. 274, lett. c), qualora queste siano tratte, esclusivamente, dalla particolare modalità di commissione del reato, caratterizzata dal coinvolgimento in pari grado di tutti i correi, può accomunare, in una visione cumulativa, le singole posizioni degli indagati, non essendo necessario ripetere per ciascuno di essi, in modo puramente formalistico, le ragioni fondanti il pericolo di reiterazione della condotta criminosa  (Cass. II, n. 9483/2016; Cass. II, n. 14316/2022).

Al fine di formulare la prognosi di pericolosità sociale, il giudice può tenere conto:

- dei fatti criminosi non perseguibili per mancanza di querela, in quanto permane la loro illiceità penale, tanto più se riguardano ipotesi delittuose caratterizzate da eventi similari, ripetute nel tempo ed assai ravvicinate (Cass. III, n. 1904/1998);

- dei precedenti penali dell'imputato, non necessariamente relativi a reato della stessa specie di quello o di quelli per i quali si procede. stante l'alta significazione, a tale fine, della recidiva nel reato (Cass. I, n. 4310/1995;Cass. IV, n. 1292/1996; Cass. V, n. 21441/2009);

- delle pendenze penali, le quali, pur se non qualificabili come «precedenti penali» in senso stretto, sono tuttavia sempre riferibili a «comportamenti o atti concreti» che si assumono posti in essere dall'imputato o indagato, e sono pertanto valutabili sotto tale profilo, sulla base del testuale tenore della disposizione normativa; e ciò senza che ne derivi contrasto alcuno con il principio di non colpevolezza di cui all'art. 27, comma 2, Cost., atteso che tale principio vieta di assumere appunto la «colpevolezza» a base di qualsivoglia provvedimento, fino a quando essa non sia stata definitivamente accertata, ma non vieta affatto di trarre elementi di valutazione sulla personalità dell'accusato dal fatto obiettivo della pendenza, a suo carico, di altri procedimenti penali (Cass. I, n. 4878/1997; Cass. III, n. 1309/2000; Cass. II, n. 7045/2013; Cass. VI, n. 45934/2015; Cass. I, n. 51030/2017: con la quale si precisa che l'esistenza di un procedimento pendente a carico dell'indagato per reati ai danni della medesima persona offesa costituisce un elemento rilevante ai fini della valutazione della sussistenza del pericolo di reiterazione della condotta criminosa).

- delle denunce all'Autorità Giudiziaria per fatti analoghi a quello per cui si procede, posto che gli elementi per la valutazione di pericolosità possono trarsi anche da atti o comportamenti concreti non necessariamente oggetto di accertamento giudiziario  (Cass. VI, n. 6274/2016).

Al fine di formulare la prognosi di pericolosità sociale, il giudice non può tenere conto:

- dell'esercizio della facoltà di non rispondere all'interrogatorio o, comunque, di non collaborare con gli organi inquirenti e con l'autorità giudiziaria, poiché da esso non può farsi discendere a carico dell'indagato alcuna conseguenza negativa diversa dall'impossibilità di accedere agli eventuali benefici che dalla collaborazione derivano; non è pertanto consentito dedurre dal silenzio serbato dall'interessato la sussistenza di esigenze cautelari concernenti il pericolo di reiterazione dei reati di cui alla lett. c) dell'art. 274, e ciò nonostante l'espresso divieto di valorizzare ai fini cautelari il rifiuto di rendere dichiarazioni sia contemplato dalla medesima disposizione — a seguito della modifica dell'art. 273 lett. a) introdotta dall'art. 3 l. n. 332/1995 — con esclusivo riferimento al pericolo di inquinamento delle prove (Cass. II, n. 1428/1996; Cass. VI, n. 14120/2007; Cass. VI, n. 38139/2008; Cass. V, n. 39523/2018).

- della pericolosità conseguente alla infermità di mente, poiché questa, rientrando nel concetto di prevenzione speciale, è cosa concettualmente ben diversa dal generale principio della pericolosità sociale recepito e previsto, quale specifica esigenza cautelare, dall'art. 274, comma 1, lett. c) (Cass. I, n. 1405/1992);

- della pericolosità che è richiesta ai fini dell'applicazione della misura di prevenzione, poiché i criteri per la valutazione di tale pericolosità non vanno confusi con quelli di valutazione della pericolosità che si richiede debba sussistere ai fini dell'applicazione delle misure cautelari. Ed invero il presupposto per l'applicazione della misura ante delictum è costituito da comportamenti solamente sintomatici della pericolosità, mentre per l'applicazione delle misure cautelari la pericolosità del soggetto che deve esservi sottoposto deve essere dimostrata, e non essere quindi soltanto frutto di sospetto, ancorché fondato. Ne consegue che l'applicazione di una misura cautelare motivata esclusivamente con il richiamo agli elementi giustificativi della misura di prevenzione è illegittima (Cass. I, n. 1648/1991).

Concretezza e attualità

La l. n. 47/2015, ha introdotto nell'art. 274, lett. c), il requisito dell'attualità del pericolo di reiterazione del reato in aggiunta a quello, già esistente, della concretezza. E' discussa la valenza della espressa prescrizione di tale ulteriore requisito e il suo significato.

Infatti, si tratta di un requisito al quale, pur non previsto espressamente dal codice, aveva fatto riferimento la giurisprudenza della Suprema Corte, anche perché era già desumibile, nell'assetto normativo previgente, dall'art. 292, comma 2, lett. c), richiedendo un rigoroso obbligo di motivazione in relazione all'attualità dell'esigenza cautelare, definita come “riconosciuta esistenza di occasioni prossime favorevoli alla commissione di nuovi reati” (Cass. VI, n. 10673/2003; Cass. I, n. 25214/2009; Cass. VI, n. 27865/2009; Cass. IV, n. 24478/2015).

Certamente, comunque, la novella legislativa ha evidenziato la necessità che tale aspetto sia specificamente valutato dal giudice emittente la misura, avendo riguardo alla sopravvivenza del pericolo di recidivanza al momento della adozione della misura in relazione al tempo trascorso dal fatto contestato ed alle peculiarità della vicenda cautelare (Cass. V, n. 43083/2015). La giurisprudenza, però, appare divisa sulla “intensità” di tale requisito. Mentre, infatti, alcune pronunce fanno riferimento alla attualità nel senso della continuità del periculum libertatis, che va apprezzata nella sua dimensione temporale intesa non come imminenza del pericolo di commissione di ulteriori reati, ma come prognosi di commissioni di delitti analoghi, fondata su elementi concreti - e non congetturali - rivelatori di una continuità ed effettività del pericolo di reiterazione, attualizzata al momento della adozione della misura  (Cass. VI, n. 1082/2016;Cass.. VI, n. 3043/2016; Cass. VI, n. 9894/2016; Cass. II, n. 18745/2016; Cass. II, n. 25130/2016; Cass. II, n. 26093/2016 ; Cass. II, n. 55216/2018; Cass. I, n. 14840/2020;Cass. II, n. 6593/2022; Cass. V, n. 12869/2022), un più rigoroso orientamento giurisprudenziale afferma che il requisito dell'attualità comporta che non è più sufficiente ritenere — in termini di certezza o di alta probabilità — che l'imputato torni a delinquere qualora se ne presenti l'occasione, ma è anche necessario, anzitutto, prevedere — negli stessi termini di certezza o di alta probabilità — che all'imputato si presenti effettivamente un'occasione per compiere ulteriori delitti (Cass. III, n. 37087/2015; Cass. III, n. 43113/2015; Cass. II, n. 9908/2016; Cass. VI, n. 1406/2016; Cass. VI, n. 24477/2016; Cass. VI, n. 21350/2016 ; Cass. III, n. 34154/2018).

Le Sezioni Unite, incidentalmente pronunciandosi sul punto, hanno affermato che correttamente il giudice, nel caso di specie, a seguito delle modifiche introdotte dalla legge n. 47 del 2015, aveva valorizzato l'alta probabilità del determinarsi di occasioni favorevoli alla commissione di nuovi reati, tenuto conto delle circostanze di fatto in cui era maturato il delitto nonché della personalità trasgressiva del prevenuto, desunta dalla condotta pregressa che aveva già denotato un'apprezzabile ribellione ai precetti dell'autorità (Cass. S.U., n. 20769/2016).

L'art. 1 l. n. 47/2015 ha modificato la lett. b) dell'art. 274 anche nel senso che “le situazioni di concreto e attuale pericolo non possono essere desunte esclusivamente dalla gravità del titolo del reato per cui si procede”. In verità, tale formula normativa non sembra apportare alcun elemento di novità, se è vero quanto è stato osservato in dottrina, cioè che già il parametro della concretezza consente di escludere qualsiasi automatismo nell'adozione delle misure e la conseguente loro obbligatorietà in base alla natura o alla gravità dell'imputazione cui si riferiscono i gravi indizi di colpevolezza (Grevi, 413).

La giurisprudenza, d'altro canto, ha precisato che il divieto normativo proibisce la illazione del pericolo di recidiva dalla mera considerazione della «gravità del titolo del reato» pel quale si procede e, cioè, astrattamente sulla base del rilievo del puro e semplice nomen juris del delitto, avulso dal fatto materiale cui pertiene; ma certamente non osta alla considerazione della concreta condotta delittuosa perpetrata, in rapporto al contenuto e alle circostanze fattuali che la connotano in  quanto le modalità e le circostanze del fatto restano elementi imprescindibili di valutazione che, investendo l'analisi di comportamenti concreti, servono a comprendere se la condotta illecita sia occasionale o si collochi in un più ampio sistema di vita, ovvero se la stessa sia sintomatica di una radicata incapacità del soggetto di autolimitarsi nella commissione di ulteriori condotte criminose  (Cass. I, n. 45659/2015; Cass. I, n. 37839/2016; Cass. V, n. 49038/2017).

Una particolare attenzione è stata dedicata dalla giurisprudenza alla circostanza del tempo trascorso dalla commissione del reato, ritenendosi che tale circostanza, ai fini della valutazione della attualità del pericolo di reiterazione di reati, non è sufficiente dovendosi altresì valutare le peculiarità dell'intera vicenda cautelare (Cass. IV, n. 5700/2016). 

Peraltro, in tema di custodia cautelare in carcere disposta per il reato previsto dall'art. 416-bis c.p., si è ritenuto che non sia  necessario che l'ordinanza cautelare motivi anche in ordine alla rilevanza del tempo trascorso dalla commissione del reato, come richiesto dall'art. 292, comma 2, lett. c), in quanto per tale reato, la presunzione di adeguatezza di cui all'art. 275, comma 3, impone di ritenere sussistenti le esigenze cautelari, salvo prova contraria, in considerazione della tendenziale stabilità del sodalizio criminoso, dei requisiti strutturali e delle peculiari connotazione del vincolo caratterizzante le associazione di stampo mafioso (Cass. III, n. 27439/2014; Cass. II, n. 11029/2016; Cass. I, n. 17624/2016; Cass. V, n. 48285/2016; Cass. V, n. 52303/2016; Cass. II, n. 19283/2017; Cass. V, n. 47401/2017 ; Cass. II, n. 14161/2018; Cass. V, n. 45840/2018; Cass. I, n. 23113/2019;  Cass. V, n. 91/2021; Cass. II, n. 6592/2022).

Ancora, da ultimo, è stato affermato che, in tema di custodia cautelare in carcere disposta per il reato di partecipazione ad associazioni mafiose "storiche", la presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari di cui all'art. 275, comma 3, cod. proc. pen. può essere superata solo con il recesso dell'indagato dall'associazione o con l'esaurimento dell'attività associativa, mentre il cd. "tempo silente" (ossia il decorso di un apprezzabile lasso di tempo tra l'emissione della misura e i fatti contestati) non può, da solo, costituire prova dell'irreversibile allontanamento dell'indagato dal sodalizio, potendo essere valutato esclusivamente in via residuale, quale uno dei possibili elementi (tra cui, ad esempio, un'attività di collaborazione o il trasferimento in altra zona territoriale) volto a fornire la dimostrazione, in modo obiettivo e concreto, di una situazione indicativa dell'assenza di esigenze cautelari (Cass. V, n. 16434/2024).

Tale principio è stato affermato anche quando la gravità indiziaria concerne un reato aggravato dall'art. 7 legge n. 203 del 1991 , anche in tal caso, infatti, la presunzione relativa di pericolosità sociale di cui all'art. 275, comma 3, può essere superata solo quando dagli elementi a disposizione del giudice emerga che l'associato abbia stabilmente rescisso i suoi legami con l'organizzazione criminosa; in assenza di tali elementi, il giudice della cautela non ha l'onere di argomentare in ordine alla sussistenza o permanenza delle esigenze cautelari ancorché sia decorso un notevole lasso di tempo tra i fatti contestati in via provvisoria all'indagato e l'adozione della misura cautelare. ( Cass. II, n. 3105/2017; Cass. V, n. 35847/2018).

A sostegno di tale interpretazione si afferma che essa è aderente sia alla giurisprudenza costituzionale (Corte cost. nn. 450/1995; 265/2010; 231/2011; 110/2012) che a quella europea (Corte Edu, 6 novembre 2003, Pantano c/ Italia). La Corte Costituzionale, infatti, nel ribadire la costituzionalità della doppia presunzione relativamente al delitto di cui all'art. 416-bis c.p. ha chiarito che il delitto di associazione di tipo mafioso è «normativamente connotato - di riflesso ad un dato empirico-sociologico - come quello in cui il vincolo associativo esprime una forza di intimidazione e condizioni di assoggettamento e di omertà, che da quella derivano, per conseguire determinati fini illeciti. Caratteristica essenziale è proprio tale specificità del vincolo, che, sul piano concreto, implica ed è suscettibile di produrre, da un lato, una solida e permanente adesione tra gli associati, una rigida organizzazione gerarchica, una rete di collegamenti e un radicamento territoriale e, dall'altro, una diffusività dei risultati illeciti, a sua volta produttiva di accrescimento della forza intimidatrice del sodalizio criminoso. Sono tali peculiari connotazioni a fornire una congrua "base statistica" alla presunzione considerata, rendendo ragionevole la convinzione che, nella generalità dei casi, le esigenze cautelari derivanti dal delitto in questione non possano venire adeguatamente fronteggiate se non con la misura carceraria, in quanto idonea - per valersi delle parole della Corte europea dei diritti dell'uomo - "a tagliare i legami esistenti tra le persone interessate e il loro ambito criminale di origine", minimizzando "il rischio che esse mantengano contatti personali con le strutture delle organizzazioni criminali e possano commettere nel frattempo delitti" (sentenza 6 novembre 2003, Pantano contro Italia)» (Corte cost. n. 231/2011).  In contrasto con tale interpretazione, un diverso orientamento giurisprudenziale afferma che, in un'ottica di interpretazione costituzionalmente orientata ex art. 27 Cost., anche nei confronti dell'indagato per il delitto di associazione di tipo mafioso, per il quale l'art. 275, comma 3, pone una presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari, qualora intercorra un considerevole lasso di tempo tra l'emissione della misura e i fatti contestati in via provvisoria all'indagato il giudice ha l'obbligo di motivare puntualmente, su impulso di parte o d'ufficio, tenuto conto della connotazione della consorteria e del ruolo rivestito dall'indagato, in ordine alla rilevanza del tempo trascorso sull'esistenza e sull'attualità delle esigenze cautelari anche nel caso in cui non risulti una dissociazione espressa dal sodalizio (Cass. V, 52628/2016; Cass. VI,  20304/2017; Cass. VI, 29807/2017; Cass. VI, 25517/2017 ; Cass. V, n. 25670/2018; Cass. III, n. 6284/2019; Cass. I, n. 42714/2019; Cass. VI, n. 19863/2021);  tale principio è stato ritenuto applicabile, in particolare, allorché si tratti di un reato non permanente (Cass. V, n. 25670/2018: fattispecie in tema di omicidio aggravato ai sensi dell'art. 7 d.l. 13 maggio 1991 n, 152, conv. in legge 12 luglio 1991, n. 203). 

Il contrasto sopra segnalato si riproduce anche con riferimento specifico alle c.d. “nuove mafie”, affermandosi, da un lato, per il reato previsto dall'art. 416-bis c.p., ai fini del superamento della presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari di cui all'art. 275, comma 3, occorre distinguere tra associazioni mafiose storiche o comunque caratterizzate da particolare stabilità, in relazione alle quali è necessaria la dimostrazione del recesso dell'indagato dalla consorteria, ed associazioni mafiose non riconducibili alla categorie delle mafie "storiche", per le quali possono rilevare anche la distanza temporale tra la applicazione della misura ed i fatti contestati, nonché elementi che dimostrino la instabilità o temporaneità del vincolo (Cass. II, n. 26904/2017 ; Cass. V, n. 36389/2019); dall'altro lato, sostenendo, in contrasto, che ai fini del superamento della presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari di cui all'art. 275, comma 3, non assume rilevanza la distinzione tra mafie "storiche" e formazioni di nuova costituzione, in quanto in entrambi i casi la presunzione è superata a fronte della prova dell'irreversibile allontanamento dell'indagato dal sodalizio criminale, a prescindere dalla perdurante stabilità dell'associazione (Cass. VI, n. 15753/2018 ; Cass. II, n. 7260/2020).

Con riferimento al reato associativo di cui all'art. 74 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, è stato affermato che per tale fattispecie associativa, qualificata unicamente dai reati fine, non può essere applicata la regola di esperienza valida per le associazioni di tipo mafioso, della tendenziale stabilità del sodalizio, in difetto di elementi contrari attestanti il recesso individuale o lo scioglimento del gruppo, con la conseguenza che, ai fini della prova contraria alla presunzione relativa di sussistenza di esigenze cautelari posta dall'art. 275, comma 3, assume rilevanza il fattore temporale, ove esso sia di notevole consistenza, cosicché è necessario che l'ordinanza cautelare motivi in ordine alla rilevanza del tempo trascorso, indicando specifici elementi di fatto idonei a dimostrare l'attualità delle esigenze cautelari (Cass. IV, n. 26570/2015; Cass. VI, n. 44129/2015; Cass. VI, n. 1406/2016; Cass. III, n. 17110/2016; Cass. VI, n. 53028/2017).

Si veda anche art. 275 § 4 e art. 292, § 3.4.

Delitti della “stessa specie”

Il pericolo di reiterazione criminosa di cui al comma 1 lett. c) dell'art. 274, si riferisce a “gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l'ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata o della stessa specie di quello per cui si procede”.

La giurisprudenza, perché si possa parlare di delitti della stessa specie, non richiede l'identità assoluta tra i vari reati né che essi violino la stessa disposizione di legge, ma soltanto che si tratti di delitti che abbiano carattere di omogeneità (Cass. I, n. 5636/1994) oppure offendano lo stesso bene giuridico (Cass. I, n. 25214/2009; Cass. VI, n. 28618/2013) ovvero ancora che siano lesivi della stessa categoria di interessi o di valori o che presentino caratteri fondamentali comuni (Cass. VI, n. 2381/1994; Cass. VI, n. 1311/1996; Cass. VI, n. 19052/2013).

La prognosi di commissione di reati della stessa specie può essere operata anche nel caso in cui il reato per il quale si procede sia a concorso necessario (Cass. VI, n. 3091/1992; Cass. VI, n. 1823/1993: con riferimento specifico alle ipotesi di corruzione).

Non impedisce la prognosi sfavorevole circa la commissione di reati della stessa specie di quelli per cui si procede la circostanza che l'incolpato abbia dismesso l'ufficio o la carica pubblica o risulti sospeso o dimesso dal servizio, nell'esercizio dei quali, abusando della sua qualità o dei suoi poteri o altrimenti illecitamente determinandosi, realizzò la condotta oggetto d'indagine. L'art. 274, lett. c), è, infatti, attestato sulla (probabile) commissione di reati della stessa specie, cioè di reati che offendono lo stesso bene giuridico e non già di fattispecie omologhe a quelle per cui si procede, purché il giudice fornisca adeguata e logica motivazione sulle circostanze di fatto che rendono probabile che l'agente, pur in una diversa posizione soggettiva, possa continuare a porre in essere condotte antigiuridiche aventi lo stesso rilievo ed offensive della stessa categoria di beni e valori di appartenenza del reato commesso (Cass. VI, n. 319/1993; Cass. VI, n. 285/1997; Cass. VI, n. 9117/2012: fattispecie nella quale la Corte ha ritenuto sussistente il periculum in mora in quanto l'indagato, pur avendo dismesso la carica di assessore regionale alla sanità nell'ambito della quale aveva commesso i presunti delitti, aveva assunto quella di senatore che gli consentiva di intrattenere relazioni e rapporti con burocrati rimasti nell'amministrazione sanitaria; Cass. I, n. 15667/2013: nella specie la Corte ha ritenuto la sussistenza del periculum in mora in ordine ai reati di cui agli artt. 434 primo e secondo comma, 437, comma 1 e 2 e 439 c.p. relativamente alla eventualità che gli indagati, quali titolari dello stabilimento industriale inquinante ponessero in essere interventi di fatto a tutela della proprietà e, quindi, per finalità opposte a quelle del sequestro preventivo cui era stato sottoposto lo stabilimento medesimo; Cass. VI, n. 19052/2013: fattispecie nella quale l'indagato, nonostante le dimissioni volontarie dalla carica di direttore amministrativo della Asl, aveva continuato a mantenere relazioni e rapporti all'interno dell'amministrazione sanitaria; Cass. VI, n. 23625/2013: fattispecie in cui la Corte ha escluso il periculum in mora in una situazione in cui, in assenza di specifici elementi, un imputato, cessata la carica di componente del Nucleo di Valutazione Impatto Ambientale, nel cui esercizio erano state poste in essere le condotte contestate, aveva continuato a svolgere il ruolo di insegnante pubblico; Cass. VI, n. 18770/2014: fattispecie in cui la S.C. ha annullato un'ordinanza applicativa del divieto di esercitare la professione di dottore commercialista, in cui il pericolo di reiterazione di condotte appropriative e di falso, nell'ambito della predetta attività, era stato desunto dall'imputazione per peculato e falso in relazione alla carica, ormai dismessa, di tesoriere del gruppo consiliare regionale di un partito politico; Cass. VI, n. 1238/2020: fattispecie in cui la Corte ha annullato con rinvio l'ordinanza con la quale non erano indicati gli elementi concreti dai quali desumere la persistenza del pericolo di reiterazione, nonostante l'intervenuta sospensione del ricorrente dalle funzioni di Sindaco in forza di provvedimento prefettizio;  Cass. VI, n. 37118/2020).

Limiti edittali

L'art. 3, comma 2, l. n. 332/1995, con riferimento alla prognosi di commissione di reati della stessa specie, ha modificato la lett. c) dell'art. 274 nel senso che l'applicabilità della custodia cautelare è consentita solo se la prognosi riguarda delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni; l'art. 1 d.l. n. 78/2013, conv., con modif, in l. n. 94/2013, ha ulteriormente modificato la suddetta lett. c) aggiungendo la previsione che l'applicabilità della custodia cautelare in carcere è consentita solo se la prognosi riguarda delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni; a tale ultima previsione l'art. 1 l. n. 47/2015 ha aggiunto il delitto di finanziamento illecito dei partiti.

Da tali disposizioni consegue la necessaria integrazione del giudizio prognostico con l'indicazione nell'ordinanza cautelare del tipo di delitti, sempreché offensivi della stessa categoria di valori, dei quali viene prevista la reiterazione: indicazione che deve trovare la premessa logico-argomentativa negli elementi di fatto posti a fondamento dei motivi che giustificano l'ipotizzabilità delle esigenze stesse di cui all'art. 274 lett. c).

 

Stato di detenzione preesistente

Lo stato di detenzione per altra causa, ed anche in virtù di condanna definitiva, del destinatario di una misura coercitiva custodiale non è di per sé in contrasto con la configurabilità di esigenze cautelari e non vale ad eliminare il pericolo, né di inquinamento della prova, né di fuga, né di reiterazione di condotte analoghe, non potendosi escludere in modo assoluto che l'indagato, in considerazione dei molteplici benefici che l'ordinamento prevede, recuperi temporaneamente o definitivamente la libertà (Cass. IV, n. 20207/2004; Cass. VI, n. 26231/2013; Cass. I, n. 3762/2020; Cass. IV, n. 484/2022). Peraltro, alcuni arresti giurisprudenziali affermano che il preesistente stato di detenzione dell'indagato per altro titolo può essere considerato idoneo ad escludere la configurabilità delle esigenze cautelari, sub specie di pericolo di commissione di ulteriori reati, qualora sia da escludere anche in astratto la possibilità che siano applicate misure alternative, in quanto, in caso contrario, si potrebbe verificare una inammissibile interferenza tra le valutazioni del giudice della cognizione e quelle del magistrato di sorveglianza (Cass. V, n. 9530/2006; Cass. IV, n. 45408/2010; Cass. IV, n. 5633/2014), essendo peraltro onere dell'indagato allegare i dati relativi al titolo di carcerazione ed al residuo di pena da scontare, per consentire di valutare l'insussistenza, quanto meno nell'immediato, delle condizioni per accedere alle predette misure (Cass. VI, n. 45944/2015).

Bibliografia

AA.VV., La carcerazione preventiva, Milano, 2012; AA.VV., Nuove norme sulle misure cautelari e sul diritto di difesa, a cura di Amodio, Milano, 1996; Amato, Sub art. 274, in Commentario del nuovo codice di procedura penale, diretto da Amodio-Dominioni, III, Milano, 1990; Aprile, Le misure cautelari nel processo penale, Milano, 2006; Canzio, in Codice di procedura penale. Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, diretto da Lattanzi-Lupo, III, Agg. 2003-2007, Misure cautelari (Artt. 272-325), a cura di Canzio- De Amicis-Lattanzi-Silvestri-Spagnolo, Milano, 2008; De Robbio, Le misure cautelari personali, Milano, 2016; 

Grevi, Misure cautelari, in Conso - Grevi -Bargis, Compendio di procedura penale, Padova, 2014; Scalfati (a cura di), Le misure cautelari, in Trattato di procedura penale, diretto da Spangher, Torino, 2008; Spangher, Le misure cautelari personali, in Procedura penale teoria e pratica del processo, Torino, 2015; Tonini, Manuale di procedura penale, Milano, 2010.

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