Codice di Procedura Penale art. 275 - Criteri di scelta delle misure 1 .

Franco Fiandanese

Criteri di scelta delle misure1.

1. Nel disporre le misure, il giudice [279] tiene conto della specifica idoneità di ciascuna in relazione alla natura e al grado delle esigenze cautelari [274] da soddisfare nel caso concreto.

1-bis. Contestualmente ad una sentenza di condanna, l'esame delle esigenze cautelari è condotto tenendo conto anche dell'esito del procedimento, delle modalità del fatto e degli elementi sopravvenuti, dai quali possa emergere che, a seguito della sentenza, risulta taluna delle esigenze indicate nell'articolo 274, comma 1, lettere b) e c)2.

2. Ogni misura deve essere proporzionata all'entità del fatto e alla sanzione che sia stata o si ritiene possa essere irrogata [2992]3.

2-bis. Non può essere applicata la misura della custodia cautelare in carcere o quella degli arresti domiciliari se il giudice ritiene che con la sentenza possa essere concessa la sospensione condizionale della pena. Salvo quanto previsto dal comma 3 e ferma restando l'applicabilità degli articoli 276, comma 1-ter, e 280, comma 3, non può applicarsi la misura della custodia cautelare in carcere se il giudice ritiene che, all'esito del giudizio, la pena detentiva irrogata non sarà superiore a tre anni. Tale disposizione non si applica nei procedimenti per i delitti di cui agli articoli 423-bis, 572, 612-bis,612-ter e 624-bis del codice penale, nonché all'articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni, e quando, rilevata l'inadeguatezza di ogni altra misura, gli arresti domiciliari non possano essere disposti per mancanza di uno dei luoghi di esecuzione indicati nell'articolo 284, comma 1, del presente codice. La disposizione di cui al secondo periodo non si applica, altresi', nei procedimenti per i delitti di cui agli articoli 387-bis e 582, nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma, del codice penale4.

2-ter. Nei casi di condanna di appello le misure cautelari personali sono sempre disposte, contestualmente alla sentenza, quando, all'esito dell'esame condotto a norma del comma 1-bis, risultano sussistere esigenze cautelari previste dall'articolo 274 e la condanna riguarda uno dei delitti previsti dall'articolo 380, comma 1, e questo risulta commesso da soggetto condannato nei cinque anni precedenti per delitti della stessa indole5.

3. La custodia cautelare in carcere [285] può essere disposta soltanto quando le altre misure coercitive o interdittive, anche se applicate cumulativamente, risultino inadeguate. Quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli articoli 270, 270-bis e 416-bis del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari. Salvo quanto previsto dal secondo periodo del presente comma, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui all'articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del presente codice nonché in ordine ai delitti di cui agli articoli 575, 600-bis, primo comma, 600-ter, escluso il quarto comma, 600-quinquies e, quando non ricorrano le circostanze attenuanti contemplate, 609-bis, 609-quater e 609-octies del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari o che, in relazione al caso concreto, le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure6.

3-bis. Nel disporre la custodia cautelare in carcere il giudice deve indicare le specifiche ragioni per cui ritiene inidonea, nel caso concreto, la misura degli arresti domiciliari con le procedure di controllo di cui all'articolo 275-bis, comma 17.

4. Quando imputati siano donna incinta o madre di prole di età non superiore a sei anni con lei convivente, ovvero padre, qualora la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole, non può essere disposta né mantenuta la custodia cautelare in carcere, salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza. Non può essere disposta la custodia cautelare in carcere, salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, quando imputato sia persona che ha superato l'età di settanta anni8.

4-bis. Non può essere disposta né mantenuta la custodia cautelare in carcere quando l'imputato è persona affetta da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria accertate ai sensi dell'articolo 286-bis, comma 2, ovvero da altra malattia particolarmente grave, per effetto della quale le sue condizioni di salute risultano incompatibili con lo stato di detenzione e comunque tali da non consentire adeguate cure in caso di detenzione in carcere 910.

4-ter. Nell'ipotesi di cui al comma 4-bis, se sussistono esigenze cautelari di eccezionale rilevanza e la custodia cautelare presso idonee strutture sanitarie penitenziarie non è possibile senza pregiudizio per la salute dell'imputato o di quella degli altri detenuti, il giudice dispone la misura degli arresti domiciliari presso un luogo di cura o di assistenza o di accoglienza. Se l'imputato è persona affetta da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria, gli arresti domiciliari possono essere disposti presso le unità operative di malattie infettive ospedaliere ed universitarie o altre unità operative prevalentemente impegnate secondo i piani regionali nell'assistenza ai casi di AIDS, ovvero presso una residenza collettiva o casa alloggio di cui all'articolo 1, comma 2, della legge 5 giugno 1990, n. 13511.

4-quater. Il giudice può comunque disporre la custodia cautelare in carcere qualora il soggetto risulti imputato o sia stato sottoposto ad altra misura cautelare per uno dei delitti previsti dall'articolo 380, relativamente a fatti commessi dopo l'applicazione delle misure disposte ai sensi dei commi 4-bis e 4-ter. In tal caso il giudice dispone che l'imputato venga condotto in un istituto dotato di reparto attrezzato per la cura e l'assistenza necessarie12.

4-quinquies. La custodia cautelare in carcere non può comunque essere disposta o mantenuta quando la malattia si trova in una fase così avanzata da non rispondere più, secondo le certificazioni del servizio sanitario penitenziario o esterno, ai trattamenti disponibili e alle terapie curative13

 

[1] Nel testo originario dell'articolo figurava un comma 5, già modificato dall'art. 1-ter d.l. 9 settembre 1991, n. 292, conv., con modif., nella l. 8 novembre 1991, n. 356, successivamente abrogato dall'art. 52d.l. 14 maggio 1993, n. 139, conv., con modif., nella l. 14 luglio 1993, n. 222. V. l'art. 89 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope.

[2] Comma dapprima inserito dall'art. 16, d.l. 24 novembre 2000, n. 341, conv., con modif., in l. 19 gennaio 2001, n. 4, e poi così sostituito dall'art. 14, l. 26 marzo 2001, n. 128.

[3] Comma modificato dall'art. 14 1 lett. b) l. n. 128, cit.

[4] Comma inserito dall'art. 4, l. 8 agosto 1995, n. 332, e poi sostituito dall'art. 8, d.l. 26 giugno 2014, n. 92, conv., con modif., in l. 11 agosto 2014, n. 117. Il d.l. n. 92 del 2014, aveva inserito il seguente testo, poi modificato dalla legge di conversione: «Non può essere applicata la misura della custodia cautelare in carcere o quella degli arresti domiciliari se il giudice ritiene che con la sentenza possa essere concessa la sospensione condizionale della pena. Non può applicarsi la misura della custodia cautelare in carcere se il giudice ritiene che, all'esito del giudizio, la pena detentiva da eseguire non sarà superiore a tre anni». Il testo inserito dalla l. n. 332 del 1995, recitava: «Non può essere disposta la misura della custodia cautelare se il giudice ritiene che con la sentenza possa essere concessa la sospensione condizionale della pena». Successivamente, comma modificato dall'art. 16, comma 1, l. 19 luglio 2019, n. 69, in vigore dal 9 agosto 2019, che ha inserito la parola: «, 612-ter»​ dopo la parola: «612-bis». Da ultimo, comma modificato dall'art. 13, comma 1, lett. c), l. 24 novembre 2023, n. 168 che ha aggiunto, in fine, il seguente periodo: « La disposizione di cui al secondo periodo non si applica, altresi', nei procedimenti per i delitti di cui agli articoli 387-bis e 582, nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma, del codice penale».

[5] Comma inserito dall'art. 14 1 lett. c) l. n. 128, cit.

[6] L'art. 3, l. 16 aprile 2015, n. 47, ha sostituito il primo periodo. Il testo precedente alla modifica era così formulato: «La custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata». L'art. 4 della stessa legge 47 del 2015: ha sostituito il secondo periodo (il testo precedente alla modifica era così formulato: «Quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui all'articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, nonché in ordine ai delitti di cui agli articoli 575, 600-bis, primo comma, 600-ter, escluso il quarto comma, e 600-quinquies del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari»); ha soppresso il terzo periodo che recitava: «Le disposizioni di cui al periodo precedente si applicano anche in ordine ai delitti previsti dagli articoli 609-bis, 609-quater e 609- octies del codice penale, salvo che ricorrano le circostanze attenuanti dagli stessi contemplate». La Corte cost., con riferimento al comma, aveva dichiarato: con sentenza 26 marzo 2015, n. 48, l'illegittimità costituzionale del secondo periodo «nella parte in cui - nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all'art. 416-bis c.p., è applicata custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non fa salva, altresì, rispetto al concorrente esterno nel suddetto delitto, l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. comma; con sentenza 23 luglio 2013, n. 232, l'illegittimità costituzionale del comma 3, terzo periodo, «nella parte in cui - nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all'articolo 609-octies del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non fa salva, altresì, l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure»; con sentenza 18 luglio 2013, n. 213, l'illegittimità costituzione del comma 3, secondo periodo, «nella parte in cui - nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all'articolo 630 del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non fa salva, altresì, l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure»; con sentenza 29 marzo 2013, n. 57, l'illegittimità costituzionale del comma 3, secondo periodo, nella parte in cui «nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'articolo 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari, non fa salva, altresì, l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure»; con sentenza 3 maggio 2012, n. 110, l'illegittimità costituzionale sempre del comma 3, secondo periodo, nella parte in cui «nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all'art. 416 del codice penale, realizzato allo scopo di commettere i delitti previsti dagli artt. 473 e 474 del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari, non fa salva, altresì, l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure»; con sentenza 22 luglio 2011, n. 231, l'illegittimità del comma, nella parte in cui «nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all'art. 74, d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari, non fa salva, altresì, l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure»; con sentenza 12 maggio 2011, n. 164, l'illegittimità costituzionale del secondo e terzo periodo, del terzo comma nella parte in cui «nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all'art. 575 del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari, non fa salva, altresì, l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure»; con sentenza 21 luglio 2010, n. 265, l'illegittimità costituzionale del secondo e terzo periodo nella parte in cui «nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli articoli 600-bis, primo comma, 609-bis e 609-quater del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari, non fa salva, altresì, l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure». Il comma, modificato dall'art. 2 del d.l. 23 febbraio 2009, n. 11, convertito, con modif., dalla l. 23 aprile 2009, n. 38, prima della conversione, recitava, al posto delle parole: «e 600 quinquies», le parole: «600 quinquies, 609-bis, escluso il caso previsto dal terzo comma, 609-quater e 609-octies». Sempre lo stesso comma era stato sostituito dall'art. 5 l. 8 agosto 1995, n. 332, e precedentemente recitava: «La custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata. Quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui all'articolo 416-bis del codice penale o ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo 416-bis ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari». Inoltre il comma era stato modificato dall'art. 2 d.l. 13 novembre 1990, n. 324, poi decaduto per mancata conversione in legge; dall'art. 51d.l. 12 gennaio 1991, n. 5 e dall'art. 51d.l. 13 marzo 1991, n. 76, anch'essi non convertiti in legge; dall'art. 51d.l. 13 maggio 1991, n. 152, conv., con modif., nella l. 12 luglio 1991, n. 203 e successivamente dall'art. 1 d.l. n. 292, cit.

[7] Comma aggiunto dall'art. 4 della legge 47 del 2015, cit.

[8] Comma da ultimo così sostituito dall'art. 1 della l. 21 aprile 2011, n. 62, ma vedi il comma 4 del medesimo art. 1 che recita: «Le disposizioni [...] si applicano a far data dalla completa attuazione del piano straordinario penitenziario, e comunque a decorrere dal 1° gennaio 2014, fatta salva la possibilità di utilizzare i posti già disponibili a legislazione vigente presso gli istituti a custodia attenuata». Tale comma era stato già modificato dall'art. 5 l. 8 agosto 1995, n. 332 e modificato dall'art. 11 lett. a)l. 12 luglio 1999, n. 231. Il testo recitava: «Non può essere disposta la custodia cautelare in carcere, salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, quando imputati siano donna incinta o madre di prole di età inferiore a tre anni con lei convivente, ovvero padre, qualora la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole, ovvero persona che ha superato l'età di settanta anni». Precedentemente il comma era stato sostituito dall'art. 1-bis d.l. n. 292, cit.

[9] V. d.m. sanità 21 ottobre 1999 (G.U. 22 dicembre 1999, n. 299).

[10] Comma aggiunto dall'art. 1 1 lett. b) l. n. 231, cit.

[11] Comma aggiunto dall'art. 1 1 lett. b) l. n. 231, cit.

[12] Comma aggiunto dall'art. 1 1 lett. b) l. n. 231, cit.

[13] Comma aggiunto dall'art. 1 1 lett. b) l. n. 231, cit.

Inquadramento

L'art. 275, nell'attribuire al giudice ampi poteri discrezionali nella scelta della misura da applicare all'indagato o imputato, impone di valutare se la misura che intende adottare sia idonea a soddisfare le specifiche esigenze cautelari ravvisate nel caso concreto. La discrezionalità del giudice non è assoluta e la formulazione del giudizio di adeguatezza e proporzionalità della misura alle esigenze che si intendono soddisfare è incensurabile in sede di legittimità, se sorretta da adeguata motivazione immune da vizi logici e giuridici (Cass. I, n. 3492/1990; Cass. VI, n. 2956/1992; Cass. III, n. 1319/1994).

I limiti di discrezionalità del giudice sono stati variamente modulati e modificati dal legislatore con successivi plurimi interventi (v. in riferimenti normativi), anche per adeguarsi a molteplici pronunce della Corte costituzionale (v. note) che hanno inciso più volte sulle presunzioni assolute di adeguatezza della misura cautelare in carcere stabilite dal legislatore con riferimento ad alcuni reati.

I principi fondamentali che si ricavano dal complesso normativo dell'articolo in esame sono quelli della adeguatezza, della proporzionalità e della gradualità (v. Spangher, 58).

La adeguatezza

 

In genere

Il principio di adeguatezza (art. 275, comma 1) impone al giudice di tenere conto, nella scelta fra le varie misure, della specifica idoneità di ciascuna in relazione alla natura e al grado delle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto.

In giurisprudenza si è affermato che, in tema di scelta e di adeguatezza della misura cautelare, ai fini della motivazione del provvedimento di custodia in carcere non è necessaria un'analitica dimostrazione delle ragioni che rendono inadeguata ogni altra misura, ma è sufficiente che il giudice indichi, con argomenti logico-giuridici tratti dalla natura e dalle modalità di commissione dei reati nonché dalla personalità dell'indagato, gli elementi specifici che inducono ragionevolmente a ritenere la custodia in carcere come la misura più adeguata al fine di impedire la prosecuzione dell'attività criminosa, rimanendo in tal modo assorbita l'ulteriore dimostrazione dell'inidoneità delle altre misure coercitive (Cass. I, n. 45011/2003; Cass. VI, n. 17313/2011; Cass. V, n. 51260/2014).

La dottrina si è espressa criticamente sul punto, osservando che “il dovere di chiarire le ragioni che non consentono di effettuare una scelta cautelare meno afflittiva, si pone come una sorta di prova di resistenza capace, in particolare, di comprendere realmente se una valutazione complessiva e comparativa è stata realmente operata oppure se ci si è limitati a controllare le potenzialità di una sola misura” (De Caro, 81).

Questa soluzione interpretativa prospettata dalla dottrina può ora trovare fondamento negli ultimi interventi legislativi, in particolare quello di cui alla l. n. 47/2015 (v. avanti il commento al nuovo comma 3-bis dell'art. 275), che certamente si ispira ad un intento ulteriormente restrittivo della possibilità di applicazione della custodia in carcere, in un quadro di modifiche normative volte a contribuire alla soluzione del problema del sovraffollamento carcerario, anche in relazione alle sentenze della Corte Edu 9 ottobre 2013, Torreggiani c. Italia, e della Corte cost. n. 279/2013. In tal senso è stato affermato che, a seguito delle modifiche apportate dalla legge 16 aprile 2015, n. 47, all'art. 275, comma 3, incombe sul giudice che emette o conferma, sia pure in sede di impugnazione, un'ordinanza applicativa della custodia cautelare in carcere il dovere di esplicitare specificamente le ragioni per le quali sono inadeguate le altre misure coercitive ed interdittive "anche se applicate congiuntamente" (Cass. III, n. 842/2016).

In caso di sentenza di condanna

Indicazioni più precise sono formulate dal legislatore al giudice della cautela nel caso di intervenuta sentenza di condanna (art. 275, comma 1-bis): occorre tenere conto anche dell'esito del procedimento, delle modalità del fatto e degli elementi sopravvenuti, dai quali possa emergere che, a seguito della sentenza, risulta taluna delle esigenze indicate nell'art. 274, comma 1, lett. b) e c). 

Dal testuale disposto dell'art. 275, comma 1-bis, che delinea lo schema legale della motivazione dell'ordinanza applicativa di misura cautelare contestualmente alla pronuncia di una sentenza di condanna, si desume che esso non contempla alcun riferimento ai gravi indizi di colpevolezza (Cass. II, n. 25246/2019).

La disposizione parla di una valutazione del giudice “contestualmente” ad una sentenza di condanna, ma la giurisprudenza ha precisato che essa non impone la stretta contestualità tra pronuncia della sentenza ed intervento cautelare e non vale a precludere la possibilità di un provvedimento adottato, sulla base dei medesimi presupposti, in epoca successiva alla sentenza, ma si limita a far carico al giudice, in presenza della necessaria richiesta del P.M., di non ritardare irragionevolmente l'applicazione della misura ad un tempo successivo alla pronuncia di condanna e di curare una valutazione tempestiva ed orientata dai particolari criteri descritti nella disposizione (Cass. I, n. 35202/2002; Cass. VI, n. 14223/2005; Cass. II, n. 36239/2011; Cass. VI, n. 18074/2012; Cass. VI, n. 51605/2019: fattispecie in cui la Corte ha annullato senza rinvio l'ordinanza cautelare disposta ai sensi dell'art. 275, comma 1-bis, c.p.p., nell'ambito del procedimento incidentale previsto dall'art. 175, comma 2,c.p.p., avente ad oggetto l'eventuale restituzione nel termine per proporre impugnazione). Tale disposizione deve essere letta alla luce del principio giurisprudenziale secondo il quale, una volta intervenuta la sentenza di condanna, la valutazione delle esigenze cautelari, anche in sede di riesame, deve mantenersi nell'ambito della ricostruzione operata dalla pronuncia di merito, non solo per quel che attiene all'affermazione di colpevolezza e alla qualificazione giuridica ma, anche, per tutte le circostanze di fatto, che non possono essere apprezzate in modo diverso (Cass. II, n. 3173/2009; Cass. IV, n. 26636/2009), dovendosi, a tal fine, escludere alcun vincolo derivante da un precedente giudicato cautelare favorevole al condannato (Cass. VI, n. 20304/2017).

La norma che consente l'adozione di misure cautelari personali contestualmente ad una sentenza di condanna deve intendersi riferita ai soli casi di prima applicazione del trattamento cautelare, di talché il ripristino della custodia dopo una precedente scarcerazione per decorrenza dei termini in ordine allo stesso fatto è consentita nei soli casi indicati al comma 2 dell'art. 307, e cioè a fronte della dolosa trasgressione delle misure imposte all'atto della scarcerazione o quando ricorre o si è concretato il rischio di fuga dell'interessato (Cass. II, n. 35440/2003;  v. peraltro, in senso contrario, Cass. II, n. 25246/2019, cit. sub art. 292, § 3.4 ).

Ancora più specifico è il successivo comma 2-ter dell'art. 275, ove è previsto che, nel caso di condanna di appello, le misure cautelari sono sempre disposte, contestualmente alla sentenza, quando, all'esito dell'esame condotto a norma del comma 1-bis, risultano sussistere le esigenza cautelari di cui all'art. 274 e la condanna riguarda uno dei delitti previsti dall'art. 380, comma 1, e questo risulta commesso da soggetto condannato nei cinque anni precedenti per delitti della stessa indole. Al riguardo, è stato precisato che l'applicazione della custodia cautelare contestualmente ad una sentenza di condanna, sulla base di una valutazione discrezionale fondata sui criteri previsti dall'art. 275, comma 1-bis, è, comunque, consentita, oltre che al giudice di primo grado, anche a quello di appello, indipendentemente dalla ricorrenza delle particolari condizioni che, ai sensi del comma 2-ter del citato art. 275, renderebbero la misura obbligatoria (Cass. IV, n. 28094/2002; Cass. I, n. 43814/2008; Cass. I, n. 4746/2011).

La previsione contenuta nel comma 2-ter (e non anche quella del comma 1-bis) deroga alla regola generale, per cui il giudice procedente applica le misure cautelari su richiesta del pubblico ministero; essa, infatti, stabilisce— a differenza del comma 1-bis —che le misure cautelari personali sono «sempre disposte », contestualmente alla sentenza di condanna in fase di appello (e, dunque, il giudice dovrà obbligatoriamente applicarle, anche d'ufficio e, quindi, in assenza della richiesta da parte del p.m.) (De Cesare, 2360).

La proporzionalità

 

In genere

Il principio di proporzionalità (art. 275 comma 2), al pari di quello di adeguatezza, opera come parametro di commisurazione delle misure cautelari alle specifiche esigenze ravvisabili nel caso concreto e deve tenere conto dell'entità del fatto e della sanzione che sia stata o che si ritiene possa essere applicata.

Le Sezioni Unite, risolvendo un contrasto giurisprudenziale, hanno precisato che la proporzionalità deve essere garantita tanto al momento della scelta e della adozione del provvedimento coercitivo, che per tutta la durata dello stesso, imponendo una costante verifica della perdurante idoneità della misura applicata a fronteggiare le esigenze che concretamente permangano o residuino, secondo il principio della minor compressione possibile della libertà personale; ma hanno anche chiarito che è illegittimo il provvedimento di revoca della custodia cautelare motivato esclusivamente in riferimento alla sopravvenuta carenza di proporzionalità della misura in ragione della corrispondenza della durata della stessa ad una percentuale, rigidamente predeterminata ricorrendo ad un criterio aritmetico, della pena irroganda nel giudizio di merito e prescindendo da ogni valutazione della persistenza e della consistenza delle esigenze cautelari che ne avevano originariamente giustificato l'applicazione (Cass. S.U., n. 16085/2011; e successivamente: Cass. II, n. 6510/2015).

In applicazione di tali principi, il giudice investito di una istanza di revoca o di sostituzione di una misura cautelare custodiale alla cui esecuzione sia sopravvenuta una causa estintiva della pena (nella specie costituita dall'indulto concesso con la legge n. 241 del 2006) deve procedere alla verifica della proporzionalità ed adeguatezza della misura applicata, tenendo conto della possibilità che la pena prevedibilmente irroganda risulti in toto ovvero per la gran parte estinta, sì da rendere non più proporzionato ed adeguato il mantenimento della misura medesima (Cass. IV, n. 36896/2007).

In caso di condanna, la verifica della sussistenza della proporzionalità della misura cautelare richiesta dall'art. 275, comma 2 deve essere effettuata con esclusivo riferimento alla sanzione irrogata. Ne consegue che non può essere presa in considerazione l'eventuale sanzione che potrebbe essere inflitta a seguito del riconoscimento della continuazione con altro reato oggetto di separato procedimento (Cass. VI, n. 10656/2006).

È stato precisato che, nel caso di applicazione di misure alternative alla detenzione quali l'obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria e l'obbligo di dimora la valutazione del giudice ai fini dell'art. 275 comma 2. deve riguardare la proporzionalità all'entità del fatto e non anche alla durata della sanzione in concreto irrogabile, trattandosi di sanzioni meno afflittive per le quali non opera la preclusione derivante dalla ingiustizia della detenzione oltre la durata della pena detentiva inflitta (Cass. III, n. 38748/2003).In tema di reati contro la pubblica amministrazione, la congiunta applicazione di misure cautelari che impongano divieti più ampi rispetto a quelli funzionali a prevenire la reiterazione di delitti della stessa specie determina la violazione del principio di proporzionalità, quando sia possibile conseguire il medesimo risultato attraverso una cautela meno invasiva (Cass. VI, n. 3514/2020). In particolare, è stata ritenuta illegittima, per violazione del principio di proporzione, l'applicazione al pubblico ufficiale, autore di un delitto contro la P.A., della misura cautelare del divieto di dimorare e accedere nel comune nel quale svolge la propria attività lavorativa, laddove essa sia esclusivamente diretta a fronteggiare il pericolo di reiterazione di reati della stessa specie ed abbia sostanzialmente la funzione di vietarne l'ingresso in alcuni specifici edifici ovvero di impedire l'esercizio di funzioni pubblicistiche, trattandosi di finalità cautelare al cui soddisfacimento sono già preordinate le misure interdittive prevista dagli artt. 289 e 290 (Cass. VI, n. 32402/2010; Cass. VI, n. 11806/2013; Cass. VI, n. 13093/2014).

Divieti di custodia cautelare

La discrezionalità del giudice nello stabilire la proporzionalità della misura cautelare da applicare incontra i divieti di cui al comma 2-bis dell'art. 275.

Con il primo si fa divieto di applicare la misura della custodia cautelare in carcere o quella degli arresti domiciliari se il giudice ritiene che con la sentenza possa essere concessa la sospensione condizionale della pena.

La Corte cost. n. 278/1996 ha dichiarato manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3, 25, comma 1, 27, comma 2, e 101, comma 2, Cost., la questione di legittimità costituzionale dell'art. 275, comma 2-bis, denunziato nella parte in cui stabilisce il divieto di applicazione della misura della custodia cautelare se il giudice ritiene che con la sentenza possa essere concessa la sospensione condizionale della pena, poiché la norma rappresenta il naturale sviluppo del principio di proporzionalità sancito dal precedente comma secondo e non risulta lesiva del principio di presunzione di non colpevolezza, svolgendosi l'apprezzamento del giudice nel quadro di una valutazione prognostica sul merito della accusa, che è coessenziale all'insorgenza stessa del procedimento cautelare. Inoltre, il rischio di ricusazione del giudice, dovuto, secondo il giudice a quo, al fatto che l'articolo impugnato postula una valutazione in concreto circa la concedibilità del beneficio, la quale si risolve in una anticipazione del giudizio di merito, non presenta alcun tipo di interferenza con gli invocati artt. 101, comma 2, e 25, comma 1, Cost.; tantomeno risulta fondata la asserita violazione del principio di uguaglianza, giacché i riflessi che una disposizione può generare sul piano delle singole «strategie processuali» fuoriescono all'evidenza dall'ambito all'interno del quale deve essere condotto lo scrutinio di costituzionalità.

La valutazione prognostica del giudice circa la concedibilità della sospensione condizionale della pena, richiesta dall'art. 275, comma 2-bis, non può tenere conto dell'eventuale applicazione delle diminuenti previste per riti speciali per i quali l'imputato ha preannunciato di optare, in assenza di elementi concreti (quali, ad esempio, la presenza di una istanza già formalizzata di giudizio abbreviato non condizionato o di applicazione di pena già munita dal consenso del P.M.) che consentono di ritenere concretamente prevedibile l'accesso a tali forme alternative di definizione del procedimento (Cass. III, n. 36918/2015;Cass. I, n. 36263/2020).

La ritenuta sussistenza del pericolo di reiterazione del reato esime il giudice dal dovere di motivare sulla prognosi relativa alla concessione della sospensione condizionale della pena (Cass.  S.U. , n. 1235/2011; Cass. VI, n. 50132/2013).

La giurisprudenza si è espressa in modo contrastante sulla riferibilità del divieto di cui al citato comma 2-bis dell'art. 275 anche alle misure della permanenza in casa e del collocamento in comunità previste nel procedimento minorile. Secondo un primo orientamento, il divieto sarebbe applicabile, poiché queste ultime misure producono una rilevante limitazione della libertà personale del minore che giustifica un trattamento analogo a quello previsto per le misure custodiali (Cass. III, n. 3722/1995; Cass. II, n. 35330/2007; Cass. II, n. 48738/2012; Cass. IV, n. 34900/2017,  Cass. I, n. 42449/2021); secondo un diverso orientamento, invece, il suddetto divieto non potrebbe riferirsi alle misure cautelari speciali apprestate per i minorenni dagli artt. 21 e 22 del d.P.R. n. 448/1988 (permanenza in casa e collocamento in comunità), giacché tali misure hanno struttura diversa da quella della detenzione domiciliare e della detenzione in carcere ed assolvono altresì ad una più complessa finalità coerente alle linee di trattamento dei minorenni voluto dal nostro ordinamento; tanto è vero che, secondo quanto espressamente previsto rispettivamente dai commi quarto e terzo delle citate disposizioni del rito minorile, con queste ultime misure il minorenne viene considerato in stato di custodia cautelare ai soli fini della durata massima della misura e del calcolo della pena da scontare, mentre per il resto è considerato libero anche se sottoposto a prescrizioni ed obblighi ( Cass. IV, n. 2389/2000 ; Cass. IV, n. 11993/2007; Cass. IV, n. 50077/2017; Cass. II, n. 43899/2021).

La giurisprudenza è, invece, pacifica, sulla inapplicabilità della norma di cui all'art. 275, comma secondo-bis con riferimento alle misure cautelari disposte ai sensi dell'art. 714, estradizione per l'estero, atteso che il rinvio del su citato art. 714 alle disposizioni del titolo I del libro IV del codice di rito è operato solo in quanto le stesse risultino applicabili, dovendosi a tale fine tenere conto, in particolare, dell'esigenza di garantire che la persona della quale è domandata l'estradizione non si sottragga all'eventuale consegna (Cass. VI, n. 25047/2004; Cass. VI, n. 3889/2012).

L'ordinanza applicativa della misura della custodia cautelare in carcere emessa in esecuzione di un mandato di arresto europeo non deve farsi carico delle valutazioni in tema di adeguatezza e proporzionalità della misura e di concedibilità della sospensione condizionale della pena, potendo la Corte di appello valutare, in sede di sommaria delibazione al limitato fine cautelare, l'esistenza di elementi sufficientemente certi che offrano ragioni idonee a ritenere che ricorrano, in concreto e allo stato, elementi ostativi alla consegna secondo il disposto dell'art. 9, comma sesto, l. n. 69/2005 (Cass. VI, n. 19764/2006).

Con la legge di conversione del d.l. n. 92/2014, conv. con modif., in l. n. 117/2014, è stato introdotto un secondo periodo nel comma 2-bis dell'art. 275 con il quale si fa divieto, salvo quanto previsto dal comma 3 e ferma restando l'applicabilità degli artt. 276, comma 1-ter, e 280, comma 3, di applicare la custodia cautelare in carcere se il giudice ritiene che, all'esito del giudizio, la pena detentiva irrogata non sarà superiore a tre anni: il riferimento è esclusivamente alla custodia cautelare in carcere, pertanto, il divieto della applicazione della misura degli arresti domiciliari, previsto dall'art. 275 comma 2-bis, così come novellato dal d.l. n. 92/2014, conv. con modif., in l. n. 117/2014, consegue esclusivamente alla prognosi di prevedibile concessione della sospensione condizionale della pena e, non anche a quella di prevedibile irrogazione di una pena detentiva non superiore ai tre anni (Cass. I, n. 53541/2014; Cass. II, n. 4418/2015; Cass. VI, n. 29621/2016). E' stato affermato che il limite di tre anni di pena detentiva necessario per l'applicazione della custodia in carcere, deve essere oggetto di valutazione prognostica solo al momento di applicazione della misura, ma non anche nel corso della protrazione della stessa, con la conseguenza che il presupposto assume rilievo non in termini di automatismo, ma solo ai fini del giudizio di perdurante adeguatezza del provvedimento coercitivo, a norma dell'art. 299 c.p.p.(Cass. IV, n. 21913/2020). Un diverso orientamento ritiene, invece, che il suddetto limite operi non solo nella fase di applicazione, ma, costituendo una regola di valutazione della proporzionalità, anche nel corso della esecuzione della misura, sicché questa non può essere mantenuta qualora sopravvenga una sentenza di condanna, quantunque non definitiva, a pena inferiore al suddetto limite (Cass. V, n. 4948/2021).

manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 275, comma 2-bis, c.p.p., per contrasto con l'art. 3 Cost”.  Anche Cass. VI, n. 25670/2019.  E' stata ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale in relazione all'art. 275 comma 2-bis per violazione degli artt. 3 e 27 Cost, in rapporto al diverso limite di pena previsto dall'art.656, comma 5, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 656, comma 5, nella parte in cui si prevede che il pubblico ministero sospende l'esecuzione della pena detentiva, anche se costituente residuo di maggiore pena, non superiore a tre anni, anziché a quattro anni (Cass. I, n. 18891/2019; Cass. VI, n. 25670/2019). Si osserva al riguardo che non vi è alcuna necessaria correlazione tra il limite di pena superiore ad anni tre considerato ai fini dell'applicazione della custodia cautelare in carcere dall'art. 275, comma 2-bis, e quello non superiore a quattro anni, previsto per la sospensione dell'esecuzione della condanna dall'art. 656, comma 5. Sebbene la ratio della legge di riforma che ha introdotto il nuovo comma 2-bis dell'art. 275, anche con lo scopo di deflazionare le carceri, possa essere individuata effettivamente nella tendenziale assimilazione dei due limiti di pena, nell'ottica di escludere l'utilizzo della custodia in carcere nei casi in cui sia prevedibile la concessione di misure alternative alla detenzione in carcere, tuttavia i due istituti non possono essere in alcun modo accomunati sul piano sistematico, avendo finalità differenti, correlate alle diverse fasi processuali in cui operano, cosicché non possa ravvisarsi un necessario ed imprescindibile collegamento tra di essi, essendo rivolti l'uno a limitare il ricorso alla custodia in carcere nell'ottica di ridurne l'utilizzo anche per finalità dettate dai noti problemi di sovraffollamento delle carceri, e l'altro a salvaguardare le finalità di risocializzazione proprie ed esclusive della fase esecutiva della pena, estranee alla custodia cautelare in carcere che risponde, invece, alla tutela delle esigenze di cautela, proprie della fase che precede l'esecuzione della pena. 

E' stato precisato che la disposizione dell'art. 278, secondo cui ai fini della determinazione della pena agli effetti dell'applicazione delle misure non si tiene conto della continuazione, si riferisce al computo dei limiti edittali di pena previsti in astratto dalle norme che condizionano l'applicazione delle misure cautelari e non al limite di pena previsto dall'art. 275 comma 2-bis che riguarda la pena in concreto irrogabile e che tiene necessariamente conto anche del cumulo materiale o giuridico delle pene che si prevede saranno irrogate per tutti i reati per i quali la misura è stata disposta. Il cumulo delle pene ai fini della prognosi di cui all'art. 275 comma 2-bis perché possa essere preso in considerazione, deve riguardare la pena che si prevede che potrà essere complessivamente inflitta per tutti i reati per i quali è stata applicata la misura della custodia cautelare, quantificata sulla base dell'applicazione del cumulo materiale o giuridico per effetto del riconoscimento del vincolo della continuazione (Cass. VI, n. 9438/2019).

Il divieto non si applica nei procedimenti per i delitti di cui agli art. 423-bis, 572, 612-bis613-ter (riferimento inserito dall'art. 16, comma 1, l. n. 69/2019), 624-bis c.p. nonché all'art. 4-bis l. n. 354/1975, e successive modificazioni, e quando, rilevata l'inadeguatezza di ogni altra misura, gli arresti domiciliari non possano essere disposti per mancanza di uno dei luoghi di esecuzione indicati nell'articolo 284, comma 1.

Il divieto, inoltre, non si applica, «nei procedimenti per i delitti di cui agli articoli 387-bis e 582, nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma, del codice penale», periodo aggiunto al comma 2-bis dall'art 13 L. 24 Novembre 2023, n. 168 (Disposizioni per il contrasto della violenza sulle donne e della violenza domestica).

La giurisprudenza ha chiarito che, in base all'interpretazione letterale del combinato disposto degli artt. 275, comma 2 bis, e 4-bis ord . pen. il limite di tre anni di pena detentiva per l'applicazione e il mantenimento della custodia cautelare in carcere opera anche nei procedimenti per rapina aggravata, benché rientrante nel catalogo dei reati ostativi, qualora non vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva. (In motivazione la Corte ha sottolineato che il relativo onere della prova grava sull'istante, trattandosi di un fatto positivo a vantaggio del condannato, ma l'insussistenza di detti collegamenti può essere implicitamente dedotta dalle modalità della condotta o dalla personalità degli autori) (Cass. II , n. 32593/2021 ).

I limiti di applicabilità della misura della custodia cautelare in carcere previsti dall'art. 275, comma secondo bis, secondo periodo, c.p.p. possono essere superati dal giudice qualora ritenga, secondo quanto previsto dal successivo comma terzo, prima parte, della norma citata, comunque inadeguata a soddisfare le esigenze cautelari ogni altra misura meno afflittiva (Cass. II, n. 46874/2016).

Il divieto di applicazione della misura cautelare della custodia in carcere nel caso in cui il giudice abbia irrogato una pena detentiva inferiore a tre anni, non impedisce di adottare la più grave misura cautelare qualora ogni altra misura si riveli inadeguata e gli arresti domiciliari non possono essere disposti per mancanza del luogo di esecuzione (Cass. V, n. 7742/2015; Cass. IV, n. 43631/2015). Ai fini della sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari, è onere dell'interessato privo di un'abitazione (nella specie, perché senza fissa dimora nel territorio dello Stato), fornire tutte le indicazioni necessarie circa la concreta disponibilità di uno dei luoghi di esecuzione indicati dall'art. 284, comma 1, con la conseguenza che, in mancanza di queste, il tribunale del riesame, in quanto sprovvisto di poteri istruttori, può legittimamente rigettare la richiesta di applicazione della forma di cautela meno afflittiva pur in presenza di una prognosi di condanna a pena non superiore tre anni di reclusione (Cass. III, n. 41074/2015).

Il divieto di concessione degli arresti domiciliari al condannato per evasione, previsto dall'art. 284, comma 5 ha carattere assoluto e, pertanto, prevale sulla disposizione di cui all'art. 275, comma 2-bis in base alla quale non può essere applicata la misura cautelare della custodia in carcere quando il giudice ritiene che la pena irrogata non sarà superiore a tre anni (Cass. II, n. 14111/2015).

Non è applicabile alle misure cautelari ex art. 714, in tema di estradizione per l'estero, il divieto previsto dall'art. 275, comma 2-bis, di disporre la misura della custodia cautelare in carcere quando il giudice ritiene che, all'esito del giudizio, la pena detentiva da eseguire non sarà superiore a tre anni, costituendo, quest'ultimo, disposizione riguardante il diritto interno (Cass. VI, n. 24245/2015).

La gradualità

 

In genere

Il primo periodo del comma 3 dell'art. 275 stabilisce la regola che la custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando le altre misure coercitive o interdittive, anche se applicate cumulativamente, risultino inadeguate. La custodia in carcere, dunque, costituisce una extrema ratio, come è confermato anche dal disposto dell'art. 292, comma 2, lett. c-bis), con la previsione di un obbligo di motivazione particolarmente incisivo, a pena di nullità rilevabile anche d'ufficio.

Molteplici sono stati gli interventi demolitori della Corte costituzionale (v. nelle note all'articolo), che hanno inciso sulle presunzioni assolute formulate dal legislatore poste in deroga al suddetto principio di gradualità e a quello di adeguatezza. Sul punto la stessa Corte ha osservato che sono costituzionalmente illegittime quelle norme che, con riferimento a delitti diversi da quelli di cui all'art. 416-bisc.p.(artt. 600-bis, comma 1, 609-bis, 609-quater, 609-octies, 575,630 c.p., art. 74 d.P.R. n. 309/1990, art. 12, comma 4-bis, d.lgs. n. 286/1998, art. 416 c.p. realizzato allo scopo di commettere i delitti previsti dagli artt. 473 e 474 c.p., art. 416-bis in caso di concorso esterno, infine tutti i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416-bis c.p.), stabilendo presunzioni assolute di adeguatezza della custodia cautelare in carcere, contrastano con il principio del minore sacrificio necessario della libertà personale dell'indagato o dell'imputato in sede di applicazione delle misure cautelari, violando sia l'art. 3 Cost., per l'ingiustificata parificazione dei procedimenti relativi ai delitti in questione a quelli concernenti i delitti di mafia nonché per l'irrazionale assoggettamento ad un medesimo regime cautelare delle diverse ipotesi concrete riconducibili ai rispettivi paradigmi punitivi; sia l'art. 13, comma 1, Cost., quale referente fondamentale del regime ordinario delle misure cautelari privative della libertà personale; sia l'art. 27, comma 2, Cost., in quanto attribuisce alla coercizione processuale tratti funzionali tipici della pena. Non può estendersi ad altri delitti la ratio giustificativa della deroga alla disciplina ordinaria prevista per i procedimenti di mafia, per la quale dalla struttura della fattispecie e dalle sue connotazioni criminologiche deriva, nella generalità dei casi e secondo una regola di esperienza sufficientemente condivisa, un'esigenza cautelare alla cui soddisfazione sarebbe adeguata solo la custodia in carcere. Né la ragionevolezza della norma che stabilisca una presunzione assoluta di adeguatezza della custodia in carcere potrebbe essere rinvenuta nella gravità astratta del reato riferita all'entità della pena e all'elevato rango dell'interesse tutelato, poiché questi parametri rilevano in sede di determinazione della sanzione, ma risultano inidonei a fungere da elementi preclusivi ai fini della verifica della sussistenza e del grado delle esigenze cautelari, che condiziona l'identificazione delle misure idonee a soddisfarle. Tanto meno, infine, la presunzione di adeguatezza della sola custodia carceraria potrebbe essere legittimata dall'esigenza di contrastare situazioni di allarme sociale. L'eliminazione o riduzione dell'allarme sociale non può essere, infatti, annoverata tra le finalità della custodia preventiva, trattandosi di una funzione istituzionale della pena che presuppone la certezza circa il responsabile del reato. Peraltro, al fine di attingere la compatibilità costituzionale delle norme censurate, non è necessaria l'integrale rimozione della presunzione, della quale è costituzionalmente inaccettabile il suo carattere assoluto, che si risolve in un'indiscriminata negazione di rilievo al principio del minore sacrificio necessario, anche quando sussistano specifici elementi da cui desumere la sufficienza di misure diverse e meno rigorose della custodia in carcere. La previsione di una presunzione solo relativa di adeguatezza di quest'ultima non eccede, dunque, i limiti di compatibilità con i parametri evocati. I reati in questione restano assoggettati ad un regime cautelare speciale, tuttavia attenuato dalla natura relativa, e quindi superabile, della presunzione di adeguatezza della custodia carceraria e, perciò, non incompatibile con il quadro costituzionale di riferimento.

Proprio nel criterio di adeguatezza e gradualità, trova espressione il principio — implicato dal quadro costituzionale di riferimento — del “minore sacrificio necessario”: entro le varie alternative prefigurate dalla legge, il giudice deve infatti prescegliere la misura meno afflittiva tra quelle astrattamente idonee a tutelare le esigenze cautelari nel caso concreto, in modo da ridurre al minimo indispensabile la lesività determinata dalla coercizione endoprocedimentale.

La l. n.47/2015 ha ulteriormente rafforzato il principio di gradualità e il carattere di extrema ratio della custodia cautelare in carcere, aggiungendo all'art. 275 il comma 3-bis, che prevede che nel disporre la custodia cautelare in carcere il giudice deve indicare le specifiche ragioni per cui ritiene inidonea, nel caso concreto, la misura degli arresti domiciliari con le procedure di controllo di cui all'articolo 275-bis, comma 1. In tal modo, al giudice è imposta una valutazione rafforzata in merito alla adeguatezza e alla proporzionalità della custodia in carcere, dovendo esso fornire una specifica motivazione in merito alla non adeguatezza della misura degli arresti domiciliari rafforzata da una specifica modalità di controllo. Peraltro, ove si sia al cospetto di una delle ipotesi di presunzione assoluta di adeguatezza, il giudice non deve motivare sulla inidoneità della misura degli arresti domiciliari con braccialetto elettronico (Cass. S.U., n. 20769/2016).

E' stato, peraltro, chiarito che il giudizio sull'inadeguatezza degli arresti domiciliari a contenere il pericolo della reiterazione criminosa, per la sua natura di valutazione assorbente e pregiudiziale, costituisce pronuncia implicita sulla impossibilità di impiego di uno degli strumenti elettronici di controllo a distanza previsti dall'art. 275-bis  (Cass. II, n. 31572/2017;  Cass. II, n. 43402/2019Cass. III, n. 43728/2016: fattispecie di sfruttamento della prostituzione esercitata dal coniuge convivente nell'abitazione, nella quale la Corte ha condiviso il giudizio di inadeguatezza degli arresti domiciliari ad evitare che nello stesso luogo si radicalizzasse il contatto fra soggetto attivo e soggetto passivo del reato, che avrebbe reso ancora più concreto ed attuale il pericolo di reiterazione specifica).

La possibile indisponibilità in concreto del braccialetto elettronico ha prodotto diverse soluzioni giurisprudenziali, che sono state composte dalle Sezioni Unite, le quali hanno ritenuto che l'intenzione del legislatore con l'inserimento del comma 3-bis nel corpo dell'art. 275, sia stata quella di considerare gli arresti domiciliari con braccialetto elettronico ugualmente idonei, rispetto alla custodia in carcere, a tutelare le esigenze cautelari poste alla base della misura, restituendo centralità alla motivazione del giudice, affinché, tramite un rafforzato onere motivazionale, consideri tutte le alternative possibili per escludere il ricorso alla custodia carceraria; hanno confermato, peraltro, anche alla luce della novella legislativa, il tradizionale insegnamento giurisprudenziale secondo il quale gli arresti domiciliari con le procedure di controllo di cui all'art. 275-bis, comma 1, non configurano una misura autonoma, che si collocherebbe ad un livello intermedio tra la custodia cautelare in carcere e gli arresti domiciliari "semplici", ma una mera modalità di esecuzione degli arresti domiciliari semplici; hanno affermato, poi, che la verifica da parte del giudice in ordine alla concreta disponibilità dell'apparecchiatura debba avvenire necessariamente ex ante, in quanto funzionale alla scelta della misura cautelare da applicare e hanno precisato che la norma non contempla la carenza del dispositivo quale causa automatica di applicazione della custodia cautelare in carcere o, in senso opposto, della sostituzione della stessa con quella degli arresti domiciliari "semplici". Corollario di tale percorso ermeneutico è la rimessione al giudice, nel caso concreto, sia nel momento di prima applicazione della misura cautelare (ex art. 291) sia nel caso di sostituzione della misura (ex art. 299), in caso di indisponibilità dello strumento elettronico di controllo, della scelta se applicare la custodia cautelare in carcere o gli arresti domiciliari "semplici", sulla scorta di un giudizio di bilanciamento che, dato atto della impossibilità di applicare la misura più idonea, ossia gli arresti domiciliari "elettronici", metta a confronto l'intensità delle esigenze cautelari e la tutela della libertà personale dell'imputato (Cass. S.U., n. 20769/2016).La prima parte del comma 3 in commento ha previsto la possibilità del giudice di applicare cumulativamente “le altre misure coercitive o interdittive” al fine di escludere la necessità della custodia cautelare in carcere. In tal modo, si introduce come regola ciò che nel previgente sistema era l'eccezione. Infatti, secondo un indirizzo interpretativo consolidato, l'applicazione cumulativa di misure cautelari personali poteva essere disposta, in applicazione del principio di legalità di cui all'art. 272, soltanto nei casi espressamente previsti dalla legge agli artt. 276, comma 1, e 307, comma 1-bis (Cass. S.U., n. 29907/2006).

La novella legislativa rende quindi possibile l'applicazione congiunta di misure cautelari personali non più solo nelle ipotesi per così dire “patologiche”, quali quella della trasgressione alle prescrizioni relativa a misure in corso (art. 276, comma 1) o della scarcerazione per decorrenza termini dell'imputato o indagato per reati di particolare allarme (art. 307, comma 1-bis), ma anche nel momento iniziale — per così dire “fisiologico” — in cui il giudice, investito di una richiesta di applicazione della custodia in carcere, è chiamato a verificare la praticabilità di “risposte” cautelari gradate, in tal senso la nuova disposizione offre al giudice uno strumento che può rivelarsi particolarmente utile, al fine di graduare il proprio intervento nella fattispecie concreta (cfr. Cass. VI, n. 10278/2019).E' stato precisato che l'applicazione cumulativa di misure cautelari personali presuppone l'indicazione della misura cautelare più grave in luogo della quale appaia più adeguata l'applicazione congiunta di due misure, nel complesso meno cogenti, che, nell'ottica di proporzione e adeguatezza, consentano di preservare le esigenze cautelari con un minor sacrificio della libertà personale dell'interessato (Cass. V, n. 12503/2020).

Presunzione assoluta di adeguatezza

Il legislatore, adeguandosi alle citate pronunce della Corte costituzionale, con successive modifiche all'art. 275 (da ultimo con l. n. 47/2015), ha previsto la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere solo quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli artt. 270,270- bis  e 416-bis c.p. “salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari” (v. anche sub art. 274, § 4.2).

Di recente, la Corte costituzionale, con sentenza n. 191 del 2020, ha ritenuto non fondate, in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione, le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 275, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui - nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all'art. 270-bis del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non fa salva, altresì, l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possano essere soddisfatte con altre misure meno afflittive. Nella motivazione della sentenza si legge: «la compressione, peraltro solo parziale, dei poteri discrezionali del giudice trova qui giustificazione, nell'ambito di un bilanciamento che questa Corte non ritiene di poter censurare dal punto di vista della sua legittimità costituzionale, in relazione alla finalità di tutelare la collettività contro i gravissimi rischi che potrebbero derivare da dall'eventuale sopravvalutazione, da parte del giudice, dell'adeguatezza di una misura non carceraria a contenere il pericolo di commissione di reati, pur ritenuto sussistente nel caso di specie. Resta fermo, naturalmente, il dovere del giudice di valutare, nella fase genetica e poi nell'intero arco della vicenda cautelare, l'effettiva sussistenza e permanenza delle esigenze cautelari, e di disporre la revoca della misura in essere ogniqualvolta risulti che nel caso concreto tali esigenze non sussistano o siano cessate, anche alla luce dell'eventuale percorso di distacco dall'associazione e dai suoi programmi criminosi che l'imputato abbia nel frattempo compiuto».

 

La Corte costituzionale, già con la sentenza Corte cost. n. 450/1995, aveva ritenuto che la delimitazione della presunzione assoluta di adeguatezza della custodia in carcere all'area dei delitti di criminalità organizzata di tipo mafioso rende manifesta la non irragionevolezza dell'esercizio della discrezionalità legislativa, atteso il coefficiente di pericolosità per le condizioni di base della convivenza e della sicurezza collettiva che agli illeciti di quel genere è connaturato.

Pertanto, allorché ricorrano gravi indizi di colpevolezza per il delitto di associazione di stampo mafioso, deve essere senz'altro applicata la misura della custodia cautelare in carcere, senza necessità di accertare le esigenze cautelari, che sono presunte per legge, sicché al giudice di merito incombe solo l'obbligo di dare atto dell'inesistenza di elementi idonei a vincere tale presunzione, mentre l'obbligo della motivazione diventa più rigoroso nell'ipotesi in cui l'indagato abbia posto in evidenza elementi idonei a dimostrare l'insussistenza di esigenze cautelari, dovendosi allora addurre o, quanto meno, dedurre gli elementi di fatto sui quali la prognosi positiva può essere fatta (Cass.  S.U., n. 16/1994; Cass. I, n. 4291/1998; Cass. VI, n. 10318/2008; Cass. III, n. 1488/2014; Cass. III, n. 48706/2015; Cass. I, n. 5787/2016). 

Il che comporta, a livello motivazionale, che, invertendosi gli ordinari poli del ragionamento giustificativo, il giudice che applichi o confermi la misura cautelare non ha un obbligo di dimostrare in positivo la ricorrenza dei pericula líbertatís, ma deve soltanto apprezzare le ragioni di esclusione, eventualmente evidenziate dalla parte o direttamente evincibili dagli atti (Cass. V, n. 48285/2016; Cass. II, n. 19283/2017). Sussiste, peraltro, contrasto di giurisprudenza sulla rilevanza del tempo trascorso dalla commissione del reato su cui v. art. 274 § 4.2.

Conseguentemente, in presenza di esigenze cautelari presunte dovrà essere disposta la misura della custodia cautelare in carcere, mentre in assenza dei pericula — che deve essere dimostrata — l'imputato sarà libero, dovendosi escludere ogni ipotesi graduata (Spangher, 62).

In conformità alla citata dottrina, la giurisprudenza ha affermato che, in tema di custodia cautelare in carcere applicata nei confronti dell'indagato del delitto d'associazione di tipo mafioso, l'art. 275, comma 3, come novellato dalla l. n. 47 del 2015, pone una presunzione relativa di pericolosità sociale e una assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere, con la conseguenza che, in assenza della prova del superamento della presunzione anzidetta, è da ritenere illegittimo il provvedimento di sostituzione della custodia in carcere con gli arresti domiciliari con la prescrizione dell'adozione del cosiddetto braccialetto elettronico, motivato esclusivamente in riferimento alla sopravvenuta carenza di proporzionalità della misura custodiale rispetto alla pena irroganda nel giudizio di merito  (Cass. I, n. 3776/2016; Cass. V, n. 51742/2018).

Le Sezioni Unite della Corte di cassazione, risolvendo un contrasto giurisprudenziale, hanno precisato che la presunzione di adeguatezza della custodia in carcere di cui all'art. 275, comma 3, opera non solo nel momento di adozione del provvedimento genetico della misura coercitiva ma anche nelle successive vicende che attengono alla permanenza delle esigenze cautelari (Cass. S.U., n. 34473/2012).

Presunzione relativa di adeguatezza

Il legislatore, sempre per adeguarsi alle citate pronunce della Corte costituzionale, con successive modifiche all'art. 275 (da ultimo con l. n. 47/2015), ha previsto la presunzione relativa di adeguatezza della custodia cautelare in carcere solo quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui all'art. 51, comma 3- bis e 3- quater , del presente codice nonché in ordine ai delitti di cui agli artt. 575, 600-bisprimo comma, 600-ter, escluso il quarto comma, 600-quinquiese, quando non ricorrano le circostanze attenuanti contemplate, 609-bis, 609-quatere 609-octiesc.p., “salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari o che, in relazione al caso concreto, le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure”.

Sulla base della previsione contenuta nel comma 3-bis dell'art. 275 introdotto dalla legge n. 47 del 2015, si è ritenuto che ove non si sia al cospetto di una delle ipotesi di presunzione assoluta di adeguatezza, il giudice deve sempre motivare sulla inidoneità della misura degli arresti domiciliari con braccialetto elettronico (Cass. S.U, n. 20769/2016).

La presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari, quando sia contestata la fattispecie di concorso esterno in associazione di tipo mafioso  o quella ex art. 416 ter  c.p. nei confronti di soggetto decaduto dalle cariche pubbliche e di partito, costituenti il presupposto fattuale della condotta contestata, non è vincibile sulla base di un'astratta applicazione della massima di esperienza secondo cui le organizzazioni camorristico-mafiose non hanno interesse a servirsi di politici "bruciati", ma sono solite individuare referenti politici "dal potere in ascesa", dovendosi invece verificare la continuità dei rapporti dell'indagato o dell'imputato con gli ambienti criminali e la eventuale persistenza degli interessi scambievoli che possono in concreto mantenere inalterato, nonostante la perdita delle cariche, il legame con il sodalizio criminoso (Cass. II, n. 14773/2014; Cass. II, n. 21089/2018).

Sulla rilevanza del tempo trascorso dalla commissione del reato su cui v. art. 274 § 4.2.

Situazioni soggettive tutelate

Il comma 4 dell'art. 275, da ultimo modificato dalla l. n. 62/2011, disciplina alcune situazioni che comportano il divieto di disporre o anche mantenere al custodia cautelare in carcere “salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza”.

Nella logica delle puntualizzazioni applicative del principio di adeguatezza, operando un bilanciamento in concreto tra una pluralità di esigenze, la norma ha previsto che, ricorrendo, in positivo o in negativo, alcune condizioni soggettive, non venga applicata la misura della custodia cautelare in carcere. Il divieto di applicazione di tale misura, a norma dell'art 275 comma 4, non è basato su una presunzione che si contrapponga a quella di adeguatezza esclusiva della misura intramurale, nei casi previsti dal comma 3 dello stesso articolo, ben potendo riscontrarsi o presumersi la pericolosità, sotto il profilo criminologico, anche di soggetti che si trovino in taluna delle condizioni che danno luogo al suindicato divieto. Quest'ultimo trova invece fondamento nel giudizio di valore operato dal legislatore, nel senso che sulla esigenza processuale e sociale della coercizione intramuraria debba prevalere la tutela di altri interessi, considerati poziori in quanto correlati ai fondamentali diritti della persona umana, sanciti dall'art 2 Cost. (Cass. I, 5840/2008). Di qui la prevalenza, sulla norma di cui all'art 275 comma 3, che impone il regime intramurale ove si proceda per determinati reati, del disposto dell'art. 275 comma 4, che esclude l'applicabilità della custodia cautelare in carcere nei confronti di chi versi nelle particolari condizioni, tassativamente indicate dalla norma stessa, (Cass. I, n. 1438/2009; Cass. II, n. 11714/2012; Cass. I, n. 15911/2015), sempre che non ricorrano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza. 

E' stato, peraltro, precisato che tale prevalenza opera solo a condizione che risulti accertato il presupposto costituito dall'incompatibilità delle condizioni di salute del soggetto con lo stato di detenzione, intendendosi per tale anche quello attuabile presso taluna delle "idonee strutture sanitarie penitenziarie" di cui è menzione nel comma 4-ter del citato art. 275 (Cass. V, n. 22977/2008; Cass. VI, n. 18891/2017).

Le esigenze cautelari di eccezionale rilevanza richieste dall'art. 275, comma 4, perché possa essere superato il divieto, ivi stabilito, di applicazione della custodia cautelare in carcere nei confronti dei soggetti che si trovano nelle condizioni indicate nella norma predetta (donne incinte o che allattano la propria prole, persone di età superiore ai settanta anni e persone in condizioni di salute particolarmente gravi, che non consentono le cure necessarie in stato di detenzione), non possono identificarsi con quelle presunte per legge derivanti dal titolo del reato, ai sensi del precedente comma 3 del medesimo art. 275, né farsi derivare dalla semplice constatazione che l'imputato ha subito precedenti condanne, ma postulano l'esistenza di puntuali, specifici e attuali elementi dai quali emerga un non comune, spiccatissimo ed allarmante rilievo dei pericoli ai quali fa riferimento l'art. 274; il che implica l'obbligo, per il giudice, di una congrua e puntuale motivazione (Cass. I, n. 226/1995; Cass. V, n. 2127/1997; Cass. n. 14571/2011). Inoltre, a seguito della riformulazione dell'art. 309, comma 9, il Tribunale deve provvedere all'annullamento del provvedimento impugnato, e non alla sua integrazione, nel caso di mancanza di motivazione sul requisito delle esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, poichè anch'esso, al pari del presupposto dei gravi indizi di colpevolezza, deve formare oggetto dell'autonoma valutazione del giudice della cautela (Cass. V, n. 21201/2017).

Il divieto di disporre la custodia cautelare in carcere, previsto dall'art. 275, comma 4, costituendo norma eccezionale, non è applicabile estensivamente ad altre ipotesi non espressamente contemplate (Cass. IV, n. 42516/2009: in applicazione di detto principio, la Corte ha ritenuto la legittimità del provvedimento con il quale era stata respinta la richiesta di sostituzione della custodia cautelare in carcere con gli arresti domiciliari, avanzata da parte dell'indagato sul presupposto della imminente gravidanza della moglie, impossibilitata pertanto ad assistere gli altri figli minori; Cass. II, n. 795/ 1996: in applicazione di detto principio la Corte ha ritenuto la legittimità del provvedimento con il quale era stata respinta la richiesta di sostituzione della custodia cautelare in carcere con gli arresti domiciliari, avanzata sul presupposto della necessità, da parte dell'indagato, di assistere un figlio portatore di handicap e perciò bisognevole di cure continue).

Nel novero delle condizioni soggettive in disamina il legislatore include quella della donna incinta o madre di prole di età non superiore a sei anni con lei convivente, ovvero padre, qualora la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole: in questo caso “non può essere disposta né mantenuta” la custodia cautelare in carcere.

La ratio della norma è individuabile nella necessità di salvaguardare l'integrità psicofisica di soggetti in tenera età, dando prevalenza alle esigenze genitoriali ed educative su quelle cautelari e garantendo così ai figli l'assistenza familiare, in un momento particolarmente significativo e qualificante della loro formazione fisica e psichica. In quest'ottica, certamente il ruolo paterno risulta ancora circoscritto all'ambito di una mera supplenza, onde l'incompatibilità con il carcere sorge, per il padre, soltanto ove la madre sia in condizioni fisiche, psicologiche od esistenziali tali da non poter prestare assistenza ai minori.

In giurisprudenza sussiste uniformità di vedute circa la necessità dell'assolutezza dell'impedimento del genitore «libero» al fine di ritenere giustificato il divieto della custodia cautelare in carcere per l'altro genitore (ad es. Cass. IV, n. 40076/2015, ha ritenuto che il divieto della custodia cautelare in carcere per l'imputato padre di prole di età inferiore a sei anni non sussiste per il solo fatto che la madre presti giornalmente attività lavorativa, che di per sé non impedisce di prendersi cura dei figli; così anche Cass. IV, n. 23268/2019), vi è difformità di valutazione circa la possibilità di ritenere insussistente l'impedimento dinanzi alla possibilità di soluzioni alternative astrattamente praticabili per l'assistenza alla prole minore. Infatti, alcune pronunce ritengono che il divieto di custodia cautelare in carcere nei confronti dell'imputato, padre di prole di età inferiore a sei anni, opera anche nel caso in cui i minori possano essere affidati a congiunti disponibili o a strutture pubbliche (Cass. II, n. 47473/2004). Una volta infatti che sia stata accertata l'assoluta impossibilità della madre a dare assistenza alla prole e sia stato escluso il ricorrere di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, il giudice non può giustificare il mantenimento della misura intramurale prendendo in esame l'eventuale presenza di altri familiari, in quanto ad essi il legislatore non riconosce alcuna funzione sostitutiva, considerato che la formazione del bambino può essere gravemente pregiudicata dall'assenza di una figura genitoriale, la cui infungibilità deve, pertanto, fin dove possibile, essere assicurata, trovando fondamento nella garanzia che l'articolo 31 Cost. accorda all'infanzia (Cass. IV, n. 6691/2005; Cass. V, n. 41626/2007; Cass. VI, n. 29355/2014). L'ausilio di strutture pubbliche o di altri familiari potrà, infatti, eventualmente assumere una funzione integrativa e di supporto ma mai sostitutiva dell'assistenza genitoriale (Cass. V, n 8636/2008). Secondo un diverso orientamento, invece, il divieto della custodia cautelare in carcere per l'imputato padre di prole di età inferiore a tre anni non sussiste per la sola circostanza che la madre presti attività lavorativa continuativa, di per sé non ostativa all'assistenza e alla cura dei figli, le quali, se del caso, possono essere realizzate anche con l'aiuto di familiari disponibili o con il ricorso a strutture pubbliche (Cass. V, n. 33850/2006; Cass. II, n. 5664/2007; Cass. I, n. 8965/2008; Cass. II, n. 47073/2003; Cass. V, n. 27000/2009).

Altra condizione soggettiva ritenuta meritevole di tutela è quella della persona che ha superato l'età di settanta anni nei confronti della quale “non può essere disposta” la custodia cautelare in carcere. L'art. 275 comma 4 fa derivare dal superamento del settantesimo anno di età una presunzione di ridotta pericolosità sociale connessa all'inevitabile scadimento delle facoltà fisiche e psichiche dell'uomo, sicché il giudice può esercitare il potere coercitivo di assoggettamento dell'imputato al trattamento cautelare più afflittivo soltanto dando conto, con il rigore di una specifica motivazione, delle precise ragioni che legittimano una deroga al principio, dimostrando l'esistenza, nel caso concreto, di un periculum in libertate di intensità così elevata e straordinaria da far venire meno il divieto di applicazione della misura custodiale in relazione alla comprovata inidoneità di ogni altra misura a fronteggiare esigenze cautelari di inusuale gravità (Cass. I, n. 2342/1994; Cass. I, n. 3096/1999 ; Cass. I, n. 15911/2015).

E' stato precisato che il divieto di custodia in carcere per l'imputato ultrasettantenne opera, in assenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, anche quando il predetto abbia compiuto settant'anni dopo l'applicazione della misura per uno dei reati di cui all'art. 275, comma 3, dovendo quest'ultima conformarsi ai principi di adeguatezza e di gradualità durante tutto il corso del procedimento cautelare (Cass. VI, n. 18195/2019).

I commi 4-bis, ter, quater e quinquies dell'art. 275, introdotto dalla l. n. 231/1999, disciplinano situazioni in cui le condizioni di salute dell'imputato risultino “incompatibili con lo stato di detenzione e comunque tali da non consentire adeguate cure in caso di detenzione in carcere”: in questo caso “non può essere disposta né mantenuta” la custodia cautelare in carcere. Le norme fanno specifico riferimento all'imputato “affetto da Aids conclamata o da grave deficienza immunitaria accertata ai sensi dell'art. 286-bis, comma 2, ovvero da altra malattia particolarmente grave” (comma 4-bis).

Se sussistono esigenze cautelari di eccezionale rilevanza e non è possibile la custodia cautelare presso idonee strutture sanitarie penitenziarie senza pregiudizio per la salute dell'imputato o di quella degli altri detenuti, il giudice dispone la misura degli arresti domiciliari presso un luogo di cura o di assistenza o di accoglienza. Per le persone affette da Aids conclamata o da grave deficienza immunitaria gli arresti domiciliari possono essere disposti presso unità operative di malattie infettive ovvero presso una residenza collettiva o casa alloggio (comma 4-ter). L'applicazione degli arresti domiciliari presso un luogo di cura, di assistenza o di accoglienza non comporta come conseguenza necessaria la disposizione del piantonamento del detenuto, restando salva la possibilità per il giudice di prescrivere specifiche modalità di controllo (Cass. II, n. 22441/2003).

Il giudice può comunque disporre la  custodia cautelare in carcere presso un “istituto dotato di reparto attrezzato per la cura e l'assistenza necessarie”, qualora il soggetto risulti imputato o sia stato sottoposto ad altra misura cautelare per uno dei delitti previsti dall'articolo 380, relativamente a fatti commessi dopo l'applicazione delle misure disposte ai sensi dei commi 4-bis e 4-ter (comma 4-quater). E' necessario, a tal fine, che il giudice accerti, ai sensi dell'art. 275, comma 4-ter, fornendo puntuale motivazione: a) che l'istituto penitenziario sia dotato di adeguate strutture sanitarie; b) che la permanenza inframuraria possa svolgersi senza pericolo per la salute dell'indagato o imputato o degli altri detenuti; c) che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza le quali devono fondarsi su un pericolo di non comune, spiccatissimo rilievo da trarre in base ad elementi concreti e puntuali (Cass. III, n. 17746/2018).

Il comma 4-quinquies prevede, infine, con una norma di chiusura, che la custodia cautelare in carcere non può comunque essere disposta o mantenuta quando la malattia si trova in una fase così avanzata da non rispondere più, secondo le certificazioni del servizio sanitario penitenziario o esterno, ai trattamenti disponibili e alle terapie curative.

La valutazione della gravità delle condizioni di salute del detenuto e della conseguente incompatibilità col regime carcerario, deve essere effettuata sia in astratto, con riferimento ai parametri stabiliti dalla legge, sia in concreto con riferimento alla possibilità di effettiva somministrazione nel circuito penitenziario delle terapie di cui egli necessita (Cass. V, n. 23418/2003). La previsione di cui all'art. 275, comma 4-bis deve essere intesa nel senso che il detenuto non può essere mantenuto in vinculis, allorquando nell'istituto carcerario non sono praticabili adeguati interventi diagnostici e terapeutici, atti a risolvere o ad alleviare lo stato morboso, ed a tal fine non è certo sufficiente che il detenuto sia continuamente monitorato, posto che il controllo sulle condizioni di salute di un paziente attiene alla fase diagnostica e non implica la possibilità di effettive terapie intramurarie ( Cass. V, n. 26398/2004; Cass. V, n. 45645/2013).

Le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno stabilito che ove il giudice non ritenga di accogliere, sulla base degli atti, la richiesta di revoca o di sostituzione della custodia cautelare in carcere basata sulla prospettazione di condizioni di salute incompatibili con lo stato di detenzione o comunque tali da non consentire adeguate cure inframurarie, è tenuto a disporre gli accertamenti medici del caso, nominando un perito secondo quanto disposto dall'art. 299, comma 4-ter, precisando, peraltro, che è comunque consentito al giudice di delibare sull'ammissibilità della richiesta, onde attivare la procedura decisoria, ma solo al fine di verificare che sia stata prospettata una situazione di salute della specie prevista dall'art. 275, senza la possibilità di alcuna valutazione di merito, mentre gli è inibito respingere la domanda solo perché, in via preliminare, si prefiguri la sussistenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, non potendo tale apprezzamento che essere successivo all'accertamento peritale che offre il parametro di comparazione (Cass.  S.U. , n. 3/1999; conformi: Cass. II, n. 1414/2000; Cass. I, n. 4383/2001; Cass. IV, n. 89/2006; Cass. V, n. 23611/2008; Cass. VI, n. 4050/2008; Cass. V, n. 27295/2010; Cass. V, 132/2012; Cass. IV, n. 16524/2013; Cass. V, n. 5281/2014). Successive pronunce si segnalano, però, in contrasto con il principio formulato dalle Sezioni Unite, affermando che la previsione di cui all'art.299, comma 4-ter, — disponendo che se la richiesta è basata sulle condizioni di salute di cui all'art. 275, comma 4,  ovvero se tali condizioni di salute sono segnalate dal servizio sanitario penitenziario, il giudice, se non ritiene di accoglierla, dispone gli accertamenti medici del caso, nominando un perito — non impone automaticamente al giudice la nomina del perito se non sussista un apprezzabile fumus e cioè se non risulti formulata una diagnosi di incompatibilità o comunque non si prospetti una situazione patologica tale da non consentire adeguate cure in carcere (Cass. IV, n. 12271/2003; Cass. VI, n. 12838/2006; Cass. II, n. 11328/2011; Cass. II, n. 8462/2013; Cass. II, n. 13948/2014; Cass. III, n. 5934/2015). È dunque rilevabile, nella giurisprudenza di legittimità, l'esistenza di due diversi orientamenti interpretativi: il primo, in stretta aderenza ai principi contenuti nella sentenza delle Sezioni unite, impone l'obbligo dell'accertamento peritale al giudice che non intenda accogliere sulla base degli atti l'istanza de libertate basata su condizioni di salute incompatibili con il regime carcerario, limitando la delibazione preliminare alla verifica della prospettazione di tali condizioni ed escludendo la possibilità di procedere, prima dell'accertamento peritale, a qualsiasi altra valutazione di merito dell'istanza stessa; il secondo, invece, volto a ricollegare la necessità della perizia alla sussistenza “di un apprezzabile fumus” di incompatibilità, con la conseguente possibilità di un preliminare scrutinio dell'istanza anche alla luce delle risultanze trasmesse dalla struttura sanitaria del carcere, e di adottare quindi un provvedimento di rigetto dell'istanza stessa anche sulla sola base di tali risultanze. L'esame delle decisioni più recenti sembra evidenziare la prevalenza del secondo orientamento. .Si è affermato, infatti, che l'obbligo di disporre l'accertamento peritale non sorge a seguito della prospettazione di una qualsiasi malattia, occorrendo piuttosto “che venga evidenziata e circostanziata una patologia “particolarmente grave”: sicché “se non è onere del richiedente provare in maniera esaustiva tale incompatibilità, per contro tale richiesta deve contenere degli elementi che consentano al giudice una delibazione circa la ricaduta del caso in esame nella previsione di cui all'art. 275, comma 4-bis” (Cass. III, n. 5934/2015; nonché Cass. I, n. 55146/2016 ; Cass. II, n. 25248/2019). Sul tipo di patologia che rende incompatibili le condizioni di salute con lo stato di detenzione, la giurisprudenza ha ritenuto che per patologia psichiatrica, costituente stato morboso tale da incidere sulla compatibilità con il regime detentivo, deve intendersi quella condizione che si risolva anche in malattia fisica (Fattispecie relativa a diagnosi di «situazione depressiva, con disturbi di conversione somatica, collegati a fenomeni di ideazione ossessiva accompagnata da pensieri persecutori», nella quale la Corte ha ritenuto necessario rinviare per un nuovo esame al giudice di merito, onde accertare se tale diagnosi potesse tradursi o meno in uno stato morboso obiettivo) (Cass. II, n. 6384/2015;nello  stesso senso: Cass. II, n. 17034/2022).

Comunque, le condizioni di salute del detenuto sono previste e disciplinate, in via alternativa, dall'art. 275, comma 4-bis — che postula una malattia particolarmente grave ed incompatibile con lo stato di detenzione — e dall'art. 11, comma 2, l. n. 354/1975 (ord. pen.) — che presuppone una patologia contingente e curabile con il temporaneo trasferimento del detenuto in ospedale civile — e l'accertamento della sussistenza dei presupposti per l'applicazione dell'una o dell'altra delle due disposizioni forma oggetto di valutazione del giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità, ove sostenuta da motivazione adeguata e coerente (Cass. I, n. 15999/2014).

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