Codice di Procedura Penale art. 284 - Arresti domiciliari.Arresti domiciliari. 1. Con il provvedimento che dispone gli arresti domiciliari [21 min.], il giudice [279] prescrive all'imputato [60, 61] di non allontanarsi dalla propria abitazione o da altro luogo di privata dimora ovvero da un luogo pubblico di cura o di assistenza ovvero, ove istituita, da una casa famiglia protetta [275 4-ter; 22 att.; 9 reg.] 12. 1-bis. Il giudice stabilisce il luogo degli arresti domiciliari in modo da assicurare le esigenze di tutela della persona offesa dal reato 3. 1-ter. La misura cautelare degli arresti domiciliari non può essere eseguita presso un immobile occupato abusivamente4. 2. Quando è necessario, il giudice impone limiti o divieti alla facoltà dell'imputato di comunicare con persone diverse da quelle che con lui coabitano o che lo assistono. 3. Se l'imputato non può altrimenti provvedere alle sue indispensabili esigenze di vita ovvero versa in situazione di assoluta indigenza, il giudice può autorizzarlo ad assentarsi nel corso della giornata dal luogo di arresto per il tempo strettamente necessario per provvedere alle suddette esigenze ovvero per esercitare una attività lavorativa. 4. Il pubblico ministero o la polizia giudiziaria, anche di propria iniziativa, possono controllare in ogni momento l'osservanza delle prescrizioni imposte all'imputato [276]. 5. L'imputato agli arresti domiciliari si considera in stato di custodia cautelare [285, 286]. 5-bis. Non possono essere, comunque, concessi gli arresti domiciliari a chi sia stato condannato per il reato di evasione nei cinque anni precedenti al fatto per il quale si procede, salvo che il giudice ritenga, sulla base di specifici elementi, che il fatto sia di lieve entità e che le esigenze cautelari possano essere soddisfatte con tale misura. A tale fine il giudice assume nelle forme più rapide le relative notizie5.
[1] Per talune disposizioni per favorire l'esercizio dell’attività giurisdizionale nella vigenza dell'emergenza epidemiologica da COVID-19, in particolare per il collegamento da remoto per la partecipazione alle udienze o nel corso delle indagini preliminari vedi l’art. 23, commi 2 e 5, del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, conv., con modif., in l. 18 dicembre 2020, n. 176. Da ultimo, da ultimo v. art. 16 d.l. 30 dicembre 2021, n. 228, conv., con modif. in l. 25 febbraio 2022, n. 15, che stabilisce che «Le disposizioni di cui all'articolo 221, commi 3, 4, 5, 6, 7, 8 e 10 del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77, nonché le disposizioni di cui all'articolo 23, commi 2, 6, 7, 8, primo, secondo, terzo, quarto e quinto periodo, 8-bis, primo, secondo, terzo e quarto periodo, 9, 9-bis e 10, e agli articoli 23-bis, commi 1, 2, 3, 4 e 7, e 24 del decreto-legge 28 ottobre 2020 n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, in materia di processo civile e penale, continuano ad applicarsi fino alla data del 31 dicembre 2022»; in particolare, ai sensi dell'art. 16, comma 1-bis, aggiunto in sede di conversione, l'art. 23, comma 4, del d.l. n. 137/2020 cit., in materia di processo penale, continua ad applicarsi fino alla data di cessazione dello stato di emergenza epidemiologica da COVID-19. V. anche art. 16, comma 2, d.l. n. 228, cit. [2] Comma modificato dall'art. 1 l. 21 aprile 2011, n. 62, che ha aggiunto, in fine, le parole: «ovvero, ove istituita, da una casa famiglia protetta». Il comma 4 dello stesso articolo 1, recita: «Le disposizioni [...] si applicano a far data dalla completa attuazione del piano straordinario penitenziario, e comunque a decorrere dal 1° gennaio 2014, fatta salva la possibilità di utilizzare i posti già disponibili a legislazione vigente presso gli istituti a custodia attenuata». [3] Comma aggiunto dall'art. 1 d.l. 1° luglio 2013, n. 78, conv., con modif., dalla l. 9 agosto 2013, n. 94 . [4] Comma inserito, in sede di conversione, dall'art. 31-bis, comma 1, d.l. 4 ottobre 2018, n. 113, conv., con modif, in l. 1 dicembre 2018, n. 132. [5] L'art. 6, l. 16 aprile 2015, n. 47 dopo le parole: «per il quale si procede» ha aggiunto le seguenti: «, salvo che il giudice ritenga, sulla base di specifici elementi, che il fatto sia di lieve entità e che le esigenze cautelari possano essere soddisfatte con tale misura». Il comma era stato inserito dall'art. 16, comma 4, d.l. 24 novembre 2000, n. 341 , conv., con modif., in l. 19 gennaio 2001, n. 4, e sostituito dall'art. 5 l. 26 marzo 2001, n. 128. InquadramentoGli arresti domiciliari costituiscono una misura custodiale di minore afflittività rispetto al carcere e comportano l'obbligo per l'imputato di non allontanarsi da un determinato luogo, che può essere la propria abitazione o altro luogo di privata dimora ovvero un luogo pubblico di cura o di assistenza ovvero, ancora, ove istituita, una casa famiglia protetta, distinguendosi dalla misura di cui all'art. 283 per le ragioni indicate nel relativo commento. La misura è equiparata alla custodia in carcere (art. 283 comma 5), salva diversa previsione, come nel caso dei termini entro i quali deve espletarsi l'interrogatorio di garanzia (art. 294 comma 1) Luogo degli arresti domiciliariIn generale Il luogo degli arresti domiciliari, come risulta dal testo della norma, non è necessariamente privato, potendo essere anche pubblico, in considerazione del suo contenuto, che comporta soltanto un obbligo giuridico, sia pure penalmente sanzionato ex art. 385 c.p., di non allontanarsi dal luogo stabilito. Ciò non esclude che il giudice debba valutare in concreto la idoneità di tale contesto abitativo ad assicurare le esigenze cautelari, tenuto conto delle sue caratteristiche ambientali e strutturali e della effettiva possibilità delle forze di polizia di eseguire i dovuti controlli (in applicazione di tale principio la Corte ha annullato con rinvio il provvedimento con cui la Corte di appello aveva rigettato la richiesta di sostituzione della misura cautelare carceraria a fini estradizionali, basandosi su una astratta inidoneità del campo nomadi a fronteggiare il pericolo di fuga) (Cass. VI, n. 5371/2003). Circa la possibilità che la misura cautelare degli arresti domiciliari possa trovare esecuzione nello Stato membro dell'Unione europea di residenza dell'interessato, si è affermato che la misura cautelare degli arresti domiciliari non rientra nell'ambito applicativo del d.lgs 15 febbraio 2016, n. 36, recante disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2009/829/GAI del Consiglio, del 23 ottobre 2009, in quanto tale decreto legislativo si riferisce esclusivamente alle misure cautelari non detentive (Cass. III, n. 26010 del 29/04/2021). In contrasto con tale principio si è, invece, ritenuto che la misura cautelare degli arresti domiciliari possa trovare esecuzione nello Stato membro dell'Unione europea di residenza dell'interessato perché rientra nell'ambito di applicazione della decisione quadro 2009/829/GAI del Consiglio, del 23 ottobre 2009, sull'applicazione tra gli Stati membri dell'Unione europea del principio del reciproco riconoscimento delle decisioni sulle "misure alternative alla detenzione cautelare" e del d.lgs. 15 febbraio 2016, n. 36, recante disposizioni per conformare il diritto interno a tale decisione, trattandosi di misura che, imponendo l'obbligo di rimanere in un luogo determinato, rientra nelle ipotesi di cui all'art. 4, lett. c) del predetto decreto legislativo (Cass. IV, n. 37739/2021: in applicazione di tale principio la Corte ha annullato con rinvio l'ordinanza del tribunale del riesame che aveva rigettato l'istanza di revoca o sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere in ragione del pericolo di fuga desunto dall'assenza di stabili legami in Italia, rilevando che gli arresti domiciliari non possono essere ritenuti inadeguati a fronteggiare le esigenze cautelari solo in ragione della mancanza di un luogo di esecuzione sul territorio nazionale, ove sia disponibile un indirizzo di esecuzione presso un altro Stato dell'Unione in cui l'interessato sia radicato nello stesso senso: Cass. I, n. 8864/2022). Ai sensi della l. n. 94/2013 di conversione del d.l. n. 78/2013, che ha introdotto il comma 1-bis dell'art. 284, è necessario che il giudice, nell'individuare il luogo degli arresti domiciliari, assicuri le prioritarie esigenze di tutela della persona offesa. Ai sensi dell'art. 31-bis d.l. n. 113/2018, convertito con modif. in l. n. 132/2018, che ha introdotto il comma 1-bis, è vietato disporre la esecuzione della misura cautelare degli arresti domiciliari presso un immobile occupato abusivamente. Abitazione Per abitazione deve intendersi il luogo in cui la persona conduce la propria vita domestica e privata con esclusione di ogni altra appartenenza (aree condominiali, dipendenze, giardini, cortili e spazi simili) che non sia di stretta pertinenza dell'abitazione e non ne costituisca parte integrante, al fine di agevolare i controlli di polizia sulla reperibilità dell'imputato, che devono avere il carattere della prontezza e della non aleatorietà. Infatti, il fine primario e sostanziale della misura coercitiva degli arresti domiciliari è quello di impedire i contatti con l'esterno ed il libero movimento della persona, quale mezzo di tutela delle esigenze cautelari, che può essere vanificato anche dal trattenersi negli spazi condominiali comuni (Cass. VI, n. 3212/2008; Cass. VI, n. 4830/2015; Cass. VI, n. 47317/2016; Cass. II, n. 13825/2017). Luogo pubblico di cura Se viene applicata la misura degli arresti in un luogo pubblico di cura, incombe al giudice di indicare espressamente, nel provvedimento impositivo della misura, il luogo del ricovero che possa contemperare le esigenze di cura con quelle della sicurezza, senza che l'indagato possa reclamare alcun diritto o facoltà di intervento su tale individuazione (Cass. II, n. 2154/1995; Cass. V, n. 3598/2015). Idoneità del domicilio È legittima l'applicazione della misura cautelare della custodia in carcere nel caso in cui il giudice ritenga che la pericolosità del soggetto da sottoporre a cautela possa essere neutralizzata attraverso l'applicazione degli arresti domiciliari, ma il predetto soggetto non disponga di un domicilio all'uopo idoneo (Cass. II, n. 3429/2013). La misura cautelare degli arresti domiciliari non può essere eseguito presso un immobile oggetto di un sequestro preventivo (nella specie, finalizzato alla confisca di cui all'art. 12-sexies d.l. n. 306/1992, conv. in l. n. 356/1992) che sia stato disposto nei confronti dello stesso destinatario della misura coercitiva e/o del coniuge, dei parenti, degli affini e delle persone con lui conviventi (Cass. II, n. 42127/2010). Impugnabilità La giurisprudenza ha ritenuto non impugnabile il provvedimento che sostituisce il luogo di privata dimora di esecuzione degli arresti domiciliari, non determinando lo stesso un'attenuazione o un aggravamento della misura cautelare (Cass. II, n. 13495/2013; Cass. V, n. 10638/2009). Si tratta, peraltro, di un'affermazione di principio formulata con riferimento a casi in cui l'appello era stato proposto dal P.M.; in altri casi, invece, in cui l'appello era stato proposto dal soggetto sottoposto alla misura cautelare, la giurisprudenza della Suprema Corte ha affermato il diverso principio secondo il quale è impugnabile, nelle forme dell'appello cautelare, il provvedimento di rigetto della richiesta di modifica del luogo di esecuzione della misura degli arresti domiciliari (Cass. III, n. 13119/2013; Cass. VI, n. 26844/2015), chiarendo, appunto, che «nel caso di specie la richiesta di variazione del luogo di detenzione è motivata dalla impossibilità per il ricorrente di proseguire oltre nell'abitazione originariamente indicata la detenzione e contestualmente di rinvenire altro luogo utile nello stesso comune per proseguire la misura detentiva. Ciò premesso non si può non valutare che la dedotta impossibilità di reperire nello stesso comune altra abitazione presso la quale proseguire la misura coercitiva determina inevitabilmente la necessità di ripristinare il regime detentivo in carcere. Per i riflessi che ne conseguono non si può sostenere dunque la mancanza di interesse della persona sottoposta alla misura degli arresti domiciliari ad impugnare il provvedimento con cui si nega la possibilità di modificare il luogo di detenzione sostituendolo ad altro indicato», con la conseguenza della inapplicabilità del diverso principio affermato dalla stessa Corte con riferimento alla posizione del pubblico ministero. Limiti o divietiIl giudice ha la possibilità di applicare limiti o divieti alla facoltà dell'imputato di comunicare con persone diverse da quelle che con lui coabitano o che lo assistono, ma solo su conforme richiesta del pubblico ministero, dovendosi considerare illegittima la modifica ex officio della misura degli arresti domiciliari in senso maggiormente afflittivo disposta dal giudice in assenza di richiesta del Pubblico Ministero (Cass. V, n. 13271/2011; Cass. VI, n. 17950/2013; Cass. II, n. 53671/2014). Poiché la legge prevede che limiti o divieti possano essere imposti “quando è necessario”, tale necessità deve essere collegata a specifiche esigenze di cautela processuale e il giudice deve motivare sul punto e non può apporre limitazioni non consentite dall'art. 284. Se è vero, infatti, che le modalità esecutive degli arresti sono inoppugnabili, non possono tuttavia considerarsi modalità esecutive quelle che, incidendo sulla qualità della misura, la snaturano, rendendola diversa da quella disciplinata dal legislatore. Così, se certamente costituisce modalità esecutiva degli arresti domiciliari l'inibizione dell'uso del telefono, è illegittimo prescrivere all'indagato agli arresti domiciliari di rimanere ristretto in una determinata stanza dell'abitazione. Una prescrizione di tale genere, infatti, tramuta gli arresti domiciliari in una restrizione intramuraria, con snaturamento dell'istituto delineato dal legislatore, quale misura qualitativamente e quantitativamente diversa dalla custodia in carcere. Allo stesso modo, per gli arresti presso la casa di cura, non può essere consentito un regime che equipari la situazione dell'indagato al ricovero «in ospedali o luoghi esterni di cura», previsto dall'art. 11 l. n. 354/1975 sull'ordinamento penitenziario per gli indagati sottoposti a custodia cautelare in carcere. Una drastica e generale limitazione della possibilità di ricevere visite degli stretti congiunti, non motivata da specifiche e puntuali esigenze processuali, finisce con l'equiparare le due situazioni, che non possono ritenersi differenti soltanto per la possibilità di previsione di piantonamento ex art. 11 cit., giacché anche il ricovero ivi previsto può prescindere dal piantonamento, «quando non vi sia pericolo di fuga...(e) salvo che non sia necessario per la tutela della...incolumità personale» dello stesso indagato ricoverato (Cass. VI, n. 440/1995). Con riferimento agli arresti domiciliari in luogo pubblico di cura, nell'imposizione eventuale di limiti e divieti alla facoltà dell'imputato di comunicare con persone diverse da quelle che lo assistono, occorre considerare che il concetto di “assistenza” si correla anche al tipo e alla gravità della malattia. Compete al giudice del merito, da un lato, valutare, in concreto, se la partecipazione di uno stretto congiunto sia necessaria alla assistenza del degente (in particolare di quello in fase terminale), dall'altro, tenere conto delle esigenze di cautela processuale senza violare il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità. Questo principio, dettato dall'art. 27 comma 3 Cost. con riferimento alla pena, deve a maggior ragione ispirare la concreta disciplina delle misure cautelari, considerata la presunzione di non colpevolezza dell'imputato. Il divieto o la drastica limitazione dei contatti con gli stretti congiunti, con restrizioni analoghe alla disciplina dei colloqui negli istituti carcerari, senza l'esplicitazione della specifica necessità ravvisata nella specie e senza tener conto della fase e della gravità della malattia, viola l'art 284 (Cass. VI, n. 440/1995). Per quanto concerne il divieto di comunicazione con terzi, estranei al nucleo familiare, si tratta di una prescrizione che, pur accedendo alla misura coercitiva, ha una sua propria autonomia, trattandosi di una prescrizione dotata di specifica ed aggiuntiva efficacia afflittiva, di talché il giudice è tenuto ad una espressa e motivata statuizione in ordine alla sua adozione o a successive modifiche, che non possono ritenersi implicite in altre statuizioni (Cass. IV, n. 20380/2017). La giurisprudenza, però, ha chiarito che non integra, di per sé, una violazione del divieto di comunicare imposto ai sensi dell'art. 284, comma 2 l'invio a terzi non autorizzati a comunicare con l'indagato di documenti il cui contenuto integra esclusivamente il conseguimento di un atto giuridico e non esplica ulteriori finalità informative, poiché alle misure cautelari non compete la funzione di limitare la capacità di agire dei destinatari (In applicazione del principio, la Corte ha annullato con rinvio il provvedimento impugnato, che aveva disposto l'aggravante della misura cautelare ex art. 276 in conseguenza della predisposizione da parte dell'indagato di una lettera raccomandata contenente l'invito ad adempiere agli obblighi derivanti da un contratto preliminare, e della successiva consegna della stessa alla propria segretaria autorizzata a comunicare con lui, per l'inoltro al destinatario, evidenziando la necessità di accertare se il contenuto della missiva avesse l'unico scopo di tutelare aspettative contrattuali o, invece, implicasse più ampie finalità informative) (Cass. VI, n. 41120/2014). È ammissibile l'appello avverso il provvedimento con il cui il g.i.p. rigetti l'istanza di revoca del divieto di comunicare con persone terze trattandosi non di mera modalità accessoria, ma di misura che incide gravemente sulla afflittività della misura cautelare principale (Cass. VI, n. 21296/2009). Autorizzazione ad assentarsiIn generale La valutazione da compiere ai fini della concessione dell'autorizzazione ad assentarsi dal luogo di esecuzione degli arresti domiciliari ex art. 284, comma 3, deve essere improntata a criteri di particolare rigore e, a tal fine, non può certamente prescindersi dalla verifica anche della compatibilità di tale attività con le esigenze cautelari (Cass. IV, n. 45113/2005: Fattispecie nella quale si è ritenuto che la possibilità per l'indagato di restare fuori di casa per considerevoli periodi della giornata avrebbe vanificato, di fatto, ogni possibilità di sottoporlo ai necessari controlli a fini cautelari; Cass. VI, n. 12337/2008; Cass. II, n. 9004/2015). La condizione di assoluta indigenza La condizione di assoluta indigenza dell'imputato, cui la legge subordina l'autorizzazione ad allontanarsi dal luogo di arresto per esercitare un'attività lavorativa, deve essere riferita ai bisogni primari dell'individuo e dei familiari a suo carico, ai quali può essere data risposta solo attraverso il lavoro: la nozione di bisogni primari, peraltro, non deve essere intesa in senso restrittivo, dovendosi comprendere in essa, per l'evolversi delle condizioni sociali, anche le necessità ulteriori rispetto alla fisica sopravvivenza, quali le spese per l'educazione, per la comunicazione o per il mantenimento in salute (Cass. V, n. 9109/2005; Cass. IV, n. 10980/2007; Cass. III, n. 34235/2010; Cass. III, n. 24995/2018). L'autorizzazione ad allontanarsi dal luogo di esecuzione degli arresti domiciliari per lo svolgimento di attività lavorativa ha natura facoltativa ed è sempre adottata allo stato degli atti, di talché il giudice può modificarla o revocarla d'ufficio sulla base della mera segnalazione della polizia giudiziaria (Cass. VI, n. 57001/2017). Si è ritenuto, invece, che il giudice, investito della richiesta di autorizzazione ad allontanarsi dal domicilio per lo svolgimento di attività lavorativa, non può valutare, ai fini del rigetto dell'istanza, la compatibilità dell'autorizzazione con l'esistenza o la persistenza di atti amministrativi di sospensione dal lavoro, essendo compito dell'autorità amministrativa competente valutare, una volta intervenuta l'autorizzazione del giudice, se ricorrano le condizioni per rimuovere l'ostacolo di natura amministrativa che impedisce all'interessato di tornare al lavoro (Cass. IV, n. 9601/2016). Ai fini di accertare l'assoluta indigenza dell'imputato, il giudice deve fare riferimento alle condizioni reddituali e patrimoniali del soggetto, eventualmente comprensive delle utilità economiche costituenti anche esse reddito personale, che siano corrisposte dalle persone obbligate per legge o per rapporti contrattuali al suo mantenimento per motivi che prescindano dalla capacità al lavoro dell'assistito, mentre è escluso che a tali fini possa rilevare la situazione economica del nucleo familiare, in quanto non è presa in considerazione dalla legge, né sussiste alcun obbligo di mantenimento del sottoposto agli arresti domiciliari a carico dei componenti la famiglia, al di fuori di quello strettamente alimentare (Cass. I, n. 123/2003; Cass. VI, n. 32574/2005). Il giudice, peraltro, non può pretendere una sorta di prova legale dello stato di assoluta indigenza del nucleo familiare dell'indagato mediante produzione di una autocertificazione attestante la impossidenza dei redditi necessari a soddisfare le ordinarie esigenze di vita (Cass. II, n. 12618/2015). La giurisprudenza ha anche avuto modo di precisare che l'autorizzazione ad assentarsi dal luogo degli arresti in caso di assoluta indigenza non può basarsi sulla semplice circostanza dell'avvenuta ammissione dell'imputato al gratuito patrocinio, e ciò pur accedendo ad una nozione di «assoluta indigenza», non in senso esclusivamente pauperistico, ma correlata alle indispensabili esigenze di vita che ricomprendono le spese per vitto, alloggio, vestiario, educazione e tutela della salute dei membri della famiglia (Cass. III, n. 38860/2001). Le indispensabili esigenze di vita Le “indispensabili esigenza di vita” sono state interpretate dalla dottrina come tutte le attività non dilazionabili che richiedono la presenza fisica dell'imputato al di fuori dello spazio domestico, come ad esempio le cure mediche (così Diddi, in Scalfati, 8123) La giurisprudenza, da un lato, sottolinea la necessità che la valutazione del giudice in ordine alle "indispensabili esigenze di vita" sia improntata, stante l'eccezionalità della previsione di cui all'art. 284, comma 3, a criteri di particolare rigore, e possa risultare positiva solo in presenza di situazioni obbiettivamente riscontrabili che impediscano al soggetto ristretto di poter far fronte in altro modo all'esigenza di vita rappresentata (Cass. VI, n. 553/2016); dall'altro lato, in una visione più ampia, ha affermato che la nozione di "indispensabili esigenze di vita" deve essere intesa non in senso meramente materiale o economico, bensì tenendo conto della necessità di tutelare i diritti inviolabili della persona individuati dall'art. 2 Cost. (Cass. II, n. 16964/2016: fattispecie in cui la S.C. ha annullato l'ordinanza del Tribunale del riesame che aveva rigettato la richiesta dell'imputato, finalizzata a garantire il rapporto genitoriale, di poter incontrare la propria figlia minore fuori dal luogo di esecuzione degli arresti domiciliari, nei tempi prescritti nel provvedimento di separazione legale ; Cass. VI, n. 1733/2019 ). Peraltro, si è ritenuto che tra le indispensabili esigenze di vita non rientri la necessità di intraprendere un percorso rieducativo tramite la partecipazione ad attività di volontariato (Cass. III, n. 15426/2016 ; Cass. IV, n. 38652/2019 ) o ancora il soddisfacimento dei bisogni spirituali o religiosi dell'indagato (Cass. IV, n. 32364/2012), contrastando, in tal modo, una precedente pronuncia che aveva ritenuto legittimo il provvedimento del giudice di merito che aveva imposto all'imputato il divieto di incontro con soggetti diversi da parenti ed affini entro il secondo grado, concedendogli, peraltro, di assentarsi dalla abitazione unicamente per assistere, come da sua richiesta, alla celebrazione della messa festiva (Cass. I, n. 4298/1995). Impugnabilità I provvedimenti emessi ai sensi dell'art. 284 comma 3, contribuiscono ad inasprire o ad attenuare il grado di afflittività della misura cautelare e devono pertanto essere ricompresi nella categoria dei provvedimenti sulla libertà personale; ne consegue che ad essi si applicano le regole sull'impugnazione dettate dall'art. 310 (Cass. II, n. 34877/2008). Peraltro, sono appellabili soltanto i provvedimenti adottati per periodi permanenti o comunque prolungati, in quanto suscettibili di comportare una modifica strutturale, con effetti continuativi, del regime detentivo, mentre sono inoppugnabili quei provvedimenti i quali, per il loro carattere temporaneo e meramente contingente, non sono idonei a determinare apprezzabili e durature modificazioni dello status libertatis, non incidendo in modo stabile sul tasso di afflittività della misura cautelare (Cass. S.U. , n. 24/1997; Cass. I, n. 44320/2014; Cass. II, n. 17857/2015; Cass. V, n. 26601/2018; Cass. I, n. 1536/2019). Sul punto, peraltro, esiste un orientamento giurisprudenziale contrastante, sia pure minoritario e risalente (Cass. I, n. 103/2007; Cass. II, n. 27020/2011). Luogo di lavoro come luogo di custodia Nel caso in cui la persona che si trovi agli arresti domiciliari sia stata autorizzata al lavoro fuori dalla propria abitazione, si ha una semplice sostituzione temporanea del luogo di custodia, che coincide, per una parte della giornata, col luogo di lavoro (riferendosi l'art. 385, comma 3, c.p. alla «abitazione» o ad «altro luogo designato») e non già una sospensione temporanea dello stato di custodia cautelare, accompagnata dalla imposizione di obblighi la cui trasgressione importi unicamente la possibilità di inasprimento della misura cautelare, ai sensi dell'art. 276. Ne consegue che anche l'allontanamento dal luogo di lavoro, in quanto coincidente col luogo di custodia, integra gli estremi del reato di evasione, in ogni caso in cui non abbia brevissima durata ovvero si ponga in termini di inconciliabilità con la fascia oraria prefissata dall'autorità giudiziaria nel provvedimento cautelare e risulti, pertanto, incompatibile con le esigenze di sorveglianza e di controllo da parte dell'autorità amministrativa che la norma incriminatrice tutela (Cass. VI, n. 423/1999; Cass. VI, n. 44977/2005; Cass. VI, n. 21975/2006; Cass. VI, n. 3882/2010; Cass. VI, n. 3744/2013). Presunzione di inadeguatezza degli arresti domiciliariIl comma 5-bis dell'art. 284 formula una presunzione di inadeguatezza degli arresti domiciliari in caso di condanna per il reato di evasione nei cinque anni precedenti al fatto per il quale si procede: presunzione che inizialmente era iuris et de iure, ma che è stata poi modificata in presunzione semplice dall'art. 6 l. n. 47/2015, che ha aggiunto al comma la possibilità per il giudice di valutare “sulla base di specifici elementi, che il fatto sia di lieve entità e che le esigenze cautelari possano essere soddisfatte con tale misura”. Prima della modifica normativa, la Corte costituzionale aveva ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 284, comma 5-bis, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 13 e 32 Cost., poiché non può ritenersi soluzione costituzionalmente obbligata quella di affidare sempre e comunque al giudice l'apprezzamento del tipo di misura in concreto ritenuta necessaria, ben potendo tale scelta essere effettuata in termini generali dal legislatore, nel rispetto del limite della ragionevolezza e del corretto bilanciamento dei valori costituzionali coinvolti, né si può disconoscere al legislatore la facoltà di vincolare, con scelte non irragionevoli, il potere in concreto del giudice di adottare una specifica misura cautelare, fra quelle previste dalla legge; d'altro canto, non subisce alcuna limitazione il diritto alla salute, essendo previsto un sistema cautelare specifico nei confronti delle persone che versino in condizioni di salute particolarmente gravi (Corte cost. n. 130/2003). Sulla linea di quest'ultima affermazione della Corte costituzionale, la giurisprudenza ha chiarito che nei confronti del tossicodipendente che abbia in corso programmi di recupero, la condanna per il reato di evasione intervenuta nei cinque anni precedenti al fatto per il quale si procede non è d'ostacolo alla concessione degli arresti domiciliari, perché rispetto alla previsione generale di cui all'art. 284, comma 5-bis, che esprime una presunzione legale del pericolo di fuga, la norma di cui all'art. 89 d.P.R. n. 309/1990 ha natura speciale e prescrive che solo in presenza di eccezionali esigenze cautelari, che non si individuano nel solo pericolo di fuga presunto ex art. 284, comma 5-bis, possa essere disposta la misura più afflittiva della restrizione carceraria (Cass. II, n. 19348/2006). Il divieto di concessione degli arresti domiciliari al condannato per evasione prevale sulla disposizione di cui all'art. 275, comma secondo bis, in base alla quale non può essere applicata la misura cautelare della custodia in carcere quando il giudice ritiene che la pena irrogata non sarà superiore a tre anni (Cass. II, n. 14111/2015); inoltre, esso ha carattere assoluto e deve intendersi quale divieto di applicazione di qualsivoglia misura cautelare meno afflittiva della custodia carceraria (Nella specie, la Corte ha ritenuto preclusa la possibilità di concedere a soggetto condannato per evasione non solo gli arresti domiciliari ma anche l'obbligo di dimora) (Cass. IV, n. 31434/2013). La giurisprudenza ha chiarito che il divieto di concessione degli arresti domiciliari deve applicarsi con riferimento al momento della condanna per evasione e non a quello del fatto di evasione da cui la condanna medesima è scaturita (Cass. VI, n. 38148/2009), dovendosi intendere per “condanna” anche la sentenza di applicazione di pena patteggiata (Cass. VI, n. 21928/2003) e che il divieto stesso opera solo qualora la sentenza con la quale l'imputato sia stato condannato nei cinque anni precedenti per il reato di evasione sia passata in giudicato (Cass. VI, n. 44000/2010); inoltre, il divieto permane anche nel successivo svolgimento della vicenda cautelare, impedendo l'applicazione degli arresti domiciliari in sostituzione della custodia carceraria precedentemente irrogata (Cass. VI, n. 35164/2010; Cass. III, n. 1810/2014). La sentenza non irrevocabile di condanna per evasione, seppure non comporta la preclusione automatica della concessione degli arresti domiciliari, costituisce tuttavia elemento di valutazione del quale il giudice può tener conto per apprezzare il pericolo di fuga e per negare l'applicazione della custodia domestica (Cass. III, n. 8148/2012). BibliografiaAprile, Le misure cautelari nel processo penale, Milano, 2006; Scalfati (a cura di), Le misure cautelari, in Trattato di procedura penale, diretto da Spangher, Torino, 2008; Spangher, Le misure cautelari personali, in Procedura penale teoria e pratica del processo, Torino, 2015. |