Codice di Procedura Penale art. 310 - Appello 1 .Appello1. 1. Fuori dei casi previsti dall'articolo 309, comma 1, il pubblico ministero, l'imputato [60, 61] e il suo difensore possono proporre appello contro le ordinanze in materia di misure cautelari personali, enunciandone contestualmente i motivi. 2. Si osservano le disposizioni dell'articolo 309, commi 1 [99 att.], 2, 3, 4 e 7 [25 att. min.]. Dell'appello è dato immediato avviso all'autorità giudiziaria procedente che, entro il giorno successivo, trasmette al tribunale l'ordinanza appellata e gli atti su cui la stessa si fonda [590; 100 att.]. Il procedimento davanti al tribunale si svolge in camera di consiglio nelle forme previste dall'articolo 127. Fino al giorno dell'udienza gli atti restano depositati in cancelleria con facoltà per il difensore di esaminarli e di estrarne copia. Il tribunale decide entro venti giorni dalla ricezione degli atti con ordinanza depositata in cancelleria entro trenta giorni dalla decisione. L'ordinanza del tribunale deve essere depositata in cancelleria entro trenta giorni dalla decisione salvi i casi in cui la stesura della motivazione sia particolarmente complessa per il numero degli arrestati o la gravità delle imputazioni. In tali casi, il giudice può indicare nel dispositivo un termine più lungo, non eccedente comunque il quarantacinquesimo giorno da quello della decisione 2. 3. L'esecuzione della decisione con la quale il tribunale, accogliendo l'appello del pubblico ministero, dispone una misura cautelare è sospesa fino a che la decisione non sia divenuta definitiva [588].
[1] [1] In tema di disposizioni per la decisione dei giudizi penali di appello nel periodo di emergenza epidemiologica da COVID-19, v. quanto disposto dagli artt. 23-bis, comma 7, e 23, comma 4 del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, conv., con modif., in l. 18 dicembre 2020, n. 176. Da ultimo, da ultimo v. art. 16, comma 1, d.l. 30 dicembre 2021, n. 228, conv., con modif. in l. 25 febbraio 2022, n. 15, che stabilisce che «Le disposizioni di cui all'articolo 221, commi 3, 4, 5, 6, 7, 8 e 10 del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77, nonché le disposizioni di cui all'articolo 23, commi 2, 6, 7, 8, primo, secondo, terzo, quarto e quinto periodo, 8-bis, primo, secondo, terzo e quarto periodo, 9, 9-bis e 10, e agli articoli 23-bis, commi 1, 2, 3, 4 e 7, e 24 del decreto-legge 28 ottobre 2020 n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, in materia di processo civile e penale, continuano ad applicarsi fino alla data del 31 dicembre 2022»; in particolare, ai sensi dell'art. 16, comma 1-bis, aggiunto in sede di conversione, l'art. 23, comma 4, del d.l. n. 137/2020 cit., in materia di processo penale, continua ad applicarsi fino alla data di cessazione dello stato di emergenza epidemiologica da COVID-19. V. anche art. 16, comma 2, d.l. n. 228, cit. [2] [2] Comma così sostituito dall'art. 12, l. 16 aprile 2015, n. 47, che ha aggiunto, in fine, le parole: «con ordinanza depositata in cancelleria entro trenta giorni dalla decisione. L'ordinanza del tribunale deve essere depositata in cancelleria entro trenta giorni dalla decisione salvi i casi in cui la stesura della motivazione sia particolarmente complessa per il numero degli arrestati o la gravità delle imputazioni. In tali casi, il giudice può indicare nel dispositivo un termine più lungo, non eccedente comunque il quarantacinquesimo giorno da quello della decisione». Precedentemente il comma era stato modificato dall'art. 17 l. 8 agosto 1995, n. 332. La Corte cost., con sentenza 15 marzo 1996, n. 71, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 309 e 310 illegittimi con «nella parte in cui non prevedono la possibilità di valutare la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza nell'ipotesi in cui sia stato emesso il decreto che dispone il giudizio a norma dell'art. 429 dello stesso codice». InquadramentoOltre a rinviare a quanto esposto subart. 309, deve ulteriormente osservarsi che, a differenza di quanto previsto per il riesame, quale mezzo totalmente devolutivo, la regola del tantum devolutum, quantum appellatum delimita anche i poteri di cognizione del giudice di appello in materia di impugnazione di ordinanze aventi ad oggetto misure cautelari personali. Nei successivi paragrafi verranno evidenziate le caratteristiche differenziali dell'appello cautelare rispetto al riesame, per il resto valgono, in quanto applicabili, i principi generali esposti subart. 309. Provvedimenti impugnabili
In genere Rinviando a quanto esposto subart. 309, si osserva, in linea generale, che sono appellabili tutte le ordinanze in materia di misure cautelari personali che non siano soggetta a riesame, trattandosi di un mezzo di impugnazione il cui oggetto si determina in via residuale. Pertanto, sono impugnabili con appello, in primo luogo, le ordinanze applicative di misure interdittive, posto che, ai sensi dell'art. 309, comma 1, con il riesame sono impugnabili solo le ordinanze che dispongono una misura coercitiva; in secondo luogo e in generale, tutte le ordinanze che decidono sulla cessazione, revoca o modifica di misure cautelari. Casistica Il provvedimento di rigetto della richiesta di emissione di una misura coercitiva adottato contestualmente alla decisione sulla convalida ha rispetto ad essa un'autonomia funzionale e, conseguentemente, può essere impugnato dal pubblico ministero non già col ricorso per cassazione, bensì con l'appello al tribunale, come previsto in via generale dall'art. 310, comma 1 (Cass. V, n. 1052/1992; Cass. IV, n. 832/1997). La sostituzione, disposta dal giudice delle indagini preliminari, della misura personale interdittiva della sospensione cautelare dall'ufficio con quella della custodia cautelare in carcere, ha la natura e gli effetti di primo provvedimento restrittivo della libertà personale, con la conseguenza che l'impugnazione proposta contro tale ordinanza, anche se viene indicata come appello ai sensi dell'art. 310, deve essere qualificata, a norma dell'art. 568, comma 5, come richiesta di riesame, per la quale vale la disposizione dell'art. 309, comma 9 (Cass. I, n. 2911/1995). Il provvedimento di ripristino della misura coercitiva - emesso, anche su richiesta del pubblico ministero, dopo l'erronea scarcerazione per decorrenza termini dell'interessato, disposta con ordinanza non impugnata dal pubblico ministero - è impugnabile ex art. 310 (Cass. II, n. 7284/2020). I provvedimenti emessi ai sensi dell'art. 284, comma 3, che regolano le modalità di attuazione degli arresti domiciliari relativamente alla facoltà dell'indagato di allontanarsi dal luogo di custodia, contribuiscono ad inasprire o ad attenuare il grado di afflittività della misura cautelare e devono pertanto essere ricompresi nella categoria dei provvedimenti sulla libertà personale; ne consegue che ad essi si applicano le regole sull'impugnazione dettate dall'art. 310, che prevede, in proposito, un sindacato di secondo grado esteso anche nel merito. È stato, però, precisato che detto principio non trova tuttavia applicazione con riferimento a quei provvedimenti i quali, per il loro carattere temporaneo e meramente contingente, non sono idonei a determinare apprezzabili e durature modificazioni dello status libertatis (Cass. II, n. 34877/2008; Cass. IV, n. 38768/2011: con riferimento all'ordinanza di autorizzazione ad allontanarsi dal luogo di esecuzione degli arresti domiciliari per svolgere attività lavorativa; Cass. IV, n. 18202/2013; Cass. I, n. 44320/2014; Cass. II, n. 17857/2015); in particolare, in tema di arresti domiciliari, il provvedimento di diniego di concessione dell'autorizzazione ad assentarsi per lo svolgimento di attività lavorativa, risolvendosi in una modalità di carattere permanente che incide in misura apprezzabile sul regime cautelare, deve qualificarsi come "ordinanza in materia di misure cautelari" e, conseguentemente, è impugnabile mediante appello ex art. 310 (Cass. IV, n. 11406/2016 ; Cass. V, n. 26601/2018 ); sono inoppugnabili i provvedimenti di autorizzazione ad allontanarsi dal luogo di detenzione relativi a singoli eventi o necessità (Cass. I, n. 1536/2019: fattispecie in cui la Corte ha ritenuto inoppugnabile la decisione di rigetto dell'istanza dell'interessato volta ad ottenere l'autorizzazione ad allontanarsi dal domicilio, libero e senza scorta, per recarsi con mezzi propri presso lo studio del difensore). In tema di misure coercitive non detentive, sono impugnabili i provvedimenti afferenti le modalità di esecuzione, che incidono in modo apprezzabile e prolungato sul regime di vita della persona e sul tasso di afflittività della misura (Cass. VI, n. 13718/2020: fattispecie relativa a provvedimento di rigetto di istanza di modifica del luogo di adempimento dell'obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria). È esperibile incidente di esecuzione, ai sensi dell'art. 666, avverso il provvedimento con il quale il presidente del tribunale, rilevata la mancata impugnazione di ordinanza cautelare emessa all'esito di appello proposto ai sensi dell'art.310, abbia disposto la trasmissione di detta ordinanza, per la sua esecuzione, agli organi di polizia giudiziaria (Cass. I, n. 4104/2000); ugualmente, avverso il provvedimento di carcerazione non è proponibile l'appello ex art. 310, ma esclusivamente l'incidente di esecuzione, trattandosi di provvedimento che non può configurarsi come ordinanza in materia di misure cautelari, in quanto questa ultima categoria va riferita ai provvedimenti di carattere decisorio e non semplicemente esecutivo (Cass. V, n. 985/2000). Analogamente, è inquadrabile nella disciplina dettata in materia di esecuzione dagli artt. 666 e 670 e non in quella dettata per l'appello in materia cautelare dall'art. 310 l'atto con il quale l'interessato intenda impugnare il provvedimento del giudice per le indagini preliminari che abbia respinto l'istanza di scarcerazione avanzata dallo stesso interessato sull'assunto della pretesa illegittimità dell'avvenuta riapplicazione della custodia cautelare in carcere avvenuta in esecuzione di ordinanza non ancora definitiva emessa dal tribunale del riesame in sede di rinvio a seguito di annullamento, da parte della corte di cassazione, in accoglimento di ricorso proposto dal P.M., della precedente ordinanza dello stesso tribunale che aveva annullato quella con la quale la suddetta misura era stata originariamente applicata (Cass. VI, n. 20479/2005). Non rientra nel novero dei provvedimenti impugnabili a norma dell'art. 310, in quanto non idoneo ad incidere sullo status libertatis, il provvedimento con il quale il giudice respinge la richiesta di revoca del divieto di incontro con i coimputati imposto per ragioni di giustizia nei confronti di persona sottoposta alla misura della custodia cautelare in carcere (Cass. I, n. 6520/2000). È stato, invece, ritenuto ammissibile l'appello avverso il provvedimento con il cui il g.i.p. rigetti l'istanza di revoca del divieto di comunicare con persone terze, imposto ex art. 284, trattandosi non di mera modalità accessoria, ma di misura che incide gravemente sulla afflittività della misura cautelare principale (Cass. VI, n. 21296/2009). Non è impugnabile il provvedimento che sostituisce il luogo di privata dimora di esecuzione degli arresti domiciliari, non determinando un'attenuazione o un aggravamento della misura cautelare, né una modifica della stessa (Cass. V, n. 10638/2009; Cass. II, n. 13495/2013). In tema di misure cautelari previste ai fini della estradizione per l'estero, contro le ordinanze che decidono sulle richieste di revoca o di sostituzione delle misure, adottate a norma dell'art. 718, non è proponibile il rimedio generale dell'appello ex art. 310, ma, in virtù di espressa deroga ad opera dell'art. 719, esclusivamente il ricorso per cassazione per violazione di legge; sicché, ove sia stato proposto appello, quest'ultimo va qualificato come ricorso ex art. 568, comma 5 (Cass. VI, n. 4497/1998). Legittimazione all'impugnazioneOltre a quanto esposto sub art. 309, si osserva, con particolare riferimento alle ordinanze appellabili dall'ufficio del pubblico ministero in quanto reiettive di sue richieste in materia cautelare, che vale il principio generale secondo il quale la legittimazione a impugnare spetta al pubblico ministero presso il giudice che ha emesso il provvedimento. Tale principio si applica, in particolare, con riferimento al provvedimento con il quale il G.I.P. ha negato, in sede di udienza di convalida dell'arresto, l'applicazione della misura cautelare, dovendo ritenersi irrilevante, ai fini della legittimazione ad impugnare, se la competenza ad indagare sul reato per cui si procede spetti al pubblico ministero periferico o a quello distrettuale (Cass. VI, n. 35214/2007). Pertanto, legittimato all'impugnazione dei provvedimenti de libertate emessi dalla Corte d'Appello è il pubblico ministero presso detto ufficio, e cioè il Procuratore Generale, e non il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale del riesame, che è legittimato a proporre impugnazione avverso i provvedimenti emessi da tale Tribunale (Cass. I, n. 4270/1992; Cass. I, n. 11285/2008). Trova anche applicazione in materia cautelare, atteso il suo carattere generale, il principio stabilito dall'art. 570, comma 1, secondo cui il procuratore della Repubblica presso il tribunale e il procuratore generale presso la corte d'appello possono proporre impugnazione quali che siano state le conclusioni del rappresentante del pubblico ministero (Cass. VI, n. 30891/2008: fattispecie in cui la Corte ha escluso l'inammissibilità dell'appello presentato ai sensi dell'art. 310 dal P.M. avverso l'ordinanza con la quale il giudice delle indagini preliminari, su parere favorevole dello stesso ufficio del P.M., aveva sostituito la misura cautelare della custodia in carcere con quella degli arresti domiciliari; Cass. II, n. 11209/2016). Termini dell'appelloIl termine per la proposizione dell'appello è quello di dieci giorni di cui al comma 1 dell'art. 309, espressamente richiamato dall'art. 310, comma 2, che rinvia anche ai commi 2 e 3 dello stesso articolo. Sul punto si rinvia a quanto esposto sub art. 309. E' stato affermato il principio secondo il quale, qualora, a seguito di richiesta del P.M. di misura cautelare nei confronti di più indagati, il g.i.p. accolga la domanda per alcuni e la respinga per altri, la comunicazione al P.M. dell'ordinanza del g.i.p., comprensiva sia del provvedimento cautelare adottato per alcuni sia del provvedimento di rigetto per gli altri, ai fini della esecuzione delle misure nei confronti degli indagati ad esse assoggettati, non equivale a notizia legale anche dei provvedimenti di rigetto, essendo la comunicazione finalizzata esclusivamente allo scopo anzidetto e non anche a quello di portare a conoscenza del P.M. le statuizioni di rigetto. Da tale affermazione si è tratta la conseguenza che non decorre da tale data il termine per la proposizione dell'appello del P.M. avverso i provvedimenti di reiezione, bensì dalla data di comunicazione degli stessi (Cass. VI, n. 287/2000; Cass. I, n. 22705/2005). In contrasto con tale affermazione di principio, si è, invece, ritenuto che il termine per la proposizione da parte del P.M. dell'appello ai sensi dell'art. 310 avverso l'ordinanza del g.i.p. che, con un unico provvedimento, accolga parzialmente la richiesta di misura cautelare personale, rigettandola per alcuni indagati o per alcune imputazioni, decorre dal momento in cui il provvedimento medesimo viene comunicato per l'esecuzione all'Ufficio di Procura mediante consegna in segreteria (Cass. I, n. 19203/2012; Cass. VI, n. 28843/2013; Cass. III, n. 9147/2016; Cass. VI, n. 30033/2022 ). Forme della presentazioneSi rinvia a quanto esposto sub art. 309, poiché il comma 2 dell'art. 310 rinvia ai commi 4 e 7 di quell'articolo. E’ stato precisato che è esclusa l'applicabilità all'appello cautelare degli specifici oneri formali previsti, ai fini della notifica del decreto di citazione per il giudizio di appello, dall'art. 581, commi 1-ter e 1-quater, novellato dall'art. 33, comma 1, lett. d), d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, posto che le indicate disposizioni stabiliscono adempimenti specificamente riferiti alla celebrazione della fase processuale del giudizio di merito di secondo grado e, pertanto, non sono astrattamente inquadrabili nel novero dei principi generali che regolano il sistema impugnatorio (Cass. IV, n. 22140/2023 nello stesso senso: Cass. I, 7 giugno 2023). Con D.M. 4 luglio 2023 (GU Serie Generale n.155 del 05-07-2023) sono stati individuati gli atti il cui deposito da parte dei difensori deve avvenire esclusivamente mediante il portale del processo penale telematico ai sensi dell'art. 87, comma 6-ter, del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, e con le modalità individuate con provvedimento del direttore generale dei sistemi informativi automatizzati del Ministero della giustizia, tra questi atti vi è anche l’appello avverso ordinanze in materia di misure cautelari personali. Il deposito degli atti si intende eseguito al momento del rilascio della ricevuta di accettazione da parte dei sistemi ministeriali, secondo le modalità stabilite dal provvedimento. Il deposito è tempestivo quando è eseguito entro le ore ventiquattro del giorno di scadenza. Con successivo D.M. 18 luglio 2023 (G.U. serie generale n. 166 del 18 luglio 2023) è stato disposto che «L'efficacia del decreto del Ministro della giustizia del 4 luglio 2023, nella parte in cui dispone che il deposito da parte dei difensori degli atti indicati nell'elenco di cui all'art. 1 dello stesso decreto avviene esclusivamente mediante il portale del processo penale telematico, decorre dal quindicesimo giorno successivo alla pubblicazione dei regolamenti di cui ai commi 1 e 3 dell'art. 87 del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150. Sino alla scadenza del termine di cui al periodo che precede, negli uffici indicati dal decreto del Ministro della giustizia del 4 luglio 2023, è possibile, in via sperimentale, il deposito da parte dei difensori degli atti elencati nell'art. 1 del medesimo decreto anche mediante il portale del processo penale telematico con le modalità individuate con provvedimento del direttore generale dei sistemi informativi automatizzati del Ministero della giustizia». Con riferimento all'atto di appello del pubblico ministero in materia cautelare, è stato precisato che esso può essere presentato, a norma dell'art. 582, richiamato dal combinato disposto degli artt. 309 comma 4 e 310 comma 2, anche a mezzo di persona incaricata addetta all'ufficio della procura della Repubblica, senza che sia necessario né un atto formale di delega, né l'attestazione, da parte del pubblico ufficiale che riceve l'atto, del suo nominativo, dal momento che la stessa ricezione dell'atto presuppone un'attività di verifica dell'identità dell'incaricato, il quale svolge un'attività meramente materiale nell'ambito delle funzioni dell'ufficio di cui fa parte, che non può che essere ricondotta a disposizioni impartite dal titolare dell'ufficio stesso (Cass. II, n. 35345/2002; Cass. II, n. 29608/2006;Cass. I, n. 17549/2021). La norma che prevede la notifica dell'avvenuta impugnazione alle altre parti (art. 584) non trova applicazione nell'ambito dei procedimenti de libertate, dato che essa è funzionale alla facoltà di proposizione dell'appello incidentale, estraneo al sistema delle impugnazioni in materia cautelare (Cass. S.U. , n. 1235/2011). Contenuto dell'appelloA differenza della richiesta di riesame, l'appello, in quanto impugnazione a carattere parzialmente devolutivo, richiede la specificazione dei motivi a pena di inammissibilità, con la precisazione che la cognizione del giudice dell'appello cautelare è limitata, in applicazione al principio devolutivo, ai punti della decisione impugnata ma non all'ambito dei motivi dedotti, quando i punti investiti dal gravame si trovano in rapporto di pregiudizialità, dipendenza, inscindibilità o connessione con altri non oggetto di gravame, così da rendere necessaria, per il giudice del gravame, una completa cognitio causae nell'ambito del «devoluto» (Cass. V, n. 30828/2014: fattispecie in cui la Corte ha ritenuto che il Tribunale, adito contro il rigetto della richiesta di autorizzazione al lavoro a persona sottoposta alla misura degli arresti domiciliari, legittimamente avesse esteso la propria verifica ai profili della praticabilità ed efficacia dei controlli sul rispetto delle prescrizioni imposte, sebbene il primo giudice avesse respinto l'istanza per difetto della dimostrazione dello stato di indigenza e l'indagato avesse proposto appello contestando tale specifica valutazione). In particolare, con riferimento all'appello proposto dal P.M. avverso ordinanza di rigetto di misura cautelare, è stato ritenuto che esso è inammissibile se motivato con il mero richiamo al contenuto della originaria richiesta cautelare, perché non soddisfa il requisito di specificità, consistente nella precisa indicazione dei punti censurati e delle questioni di fatto e di diritto da sottoporre al giudice del gravame, tranne che nel caso in cui, per motivi formali ritenuti assorbenti o per l'apoditticità della decisione del g.i.p, sia mancata qualsiasi valutazione della richiesta medesima (Cass. I, n. 32993/2013; Cass. VI, n. 46025/2013; Cass. VI, n. 47546/2013; Cass. VI, n. 277/2014; Cass. VI, n. 45948/2015). Interesse all'appelloSi rinvia a quanto esposto sub art. 309. Deve ulteriormente precisarsi che il pubblico ministero che abbia richiesto una misura per plurime esigenze cautelari ha interesse ad impugnare l'ordinanza del giudice per le indagini preliminari che abbia adottato la richiesta misura soltanto per una di dette esigenze, potendo l'unica esigenza riconosciuta sussistente dal giudice venire meno in seguito ai successivi sviluppi processuali (Cass. I, n. 1428/1992; Cass. VI, n. 3344/1992; Cass. II, n. 2691/2014). Secondo la prevalente giurisprudenza, sussiste l'interesse del pubblico ministero a proporre appello avverso l'ordinanza che abbia applicato la misura solo per alcuni dei reati contestati, al fine di conseguirne l'estensione anche agli altri reati, per i quali il giudice abbia ritenuto insussistenti i gravi indizi di colpevolezza (Cass. V, n. 19540/2022; Cass. I, n. 20286/2020; Cass. II, n. 2230/2013; Contra: è inammissibile per carenza di interesse il ricorso per cassazione del pubblico ministero che si dolga esclusivamente della ritenuta insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza per taluni dei delitti contestati, nel caso in cui l'ordinanza resa dal tribunale del riesame abbia comunque confermato la sussistenza della gravità indiziaria relativamente ad altri delitti, disponendo il mantenimento della misura (Cass. VI, n. 23241/2019). Inoltre, si è ritenuto che sia inammissibile, per sopravvenuta carenza di interesse all'impugnazione, l'appello del P.M. volto a far valere l'illegittimità dell'autorizzazione all'indagato a recarsi per motivi di lavoro in un comune diverso da quello per il quale è soggetto alla misura cautelare di cui all'art. 283, allorché nelle more l'occasione di lavoro per l'indagato abbia perso di attualità (Cass. VI, n. 40395/2007). La revoca o la sopravvenuta estinzione di una misura interdittiva o la sua perdita di efficacia, nel corso del procedimento di gravame, determina il venir meno dell'interesse all'impugnazione e la conseguente inammissibilità della stessa, considerato che l'interesse di cui all'art. 568, comma 4, deve essere concreto e cioè preordinato a rimuovere un effettivo pregiudizio subito dalla parte con il provvedimento oggetto di impugnazione, essendo esclusa la possibilità di una riparazione pecuniaria (prevista solo per l'ingiusta detenzione) e non residuando alcun effetto giuridico extrapenale pregiudizievole per il soggetto nei cui confronti la misura sia stata applicata, una volta che l'applicazione sia comunque venuta meno (Cass. VI, n. 12816/2006; Cass. VI, n. 24637/2006; Cass. I, n. 52781/2017; nonché: Cass. S.U., n. 22/1993). Inammissibile, per carenza di interesse, è stata ritenuta anche l'impugnazione dell'imputato avverso il provvedimento inerente le modalità di esecuzione della misura cautelare personale, allorquando, nelle more, sia sopravvenuto l'ordine di esecuzione di diverso titolo detentivo, di carattere definitivo (Cass. IV, n. 49173/2017). In tema di responsabilità da reato degli enti, la revoca della misura interdittiva disposta a seguito di condotte riparatorie poste in essere ai sensi degli art.17 e 49, d.lgs. n.231 del 2001, intervenuta nelle more dell'appello cautelare proposto nell'interesse della società indagata, non determina automaticamente il venir meno dell'interesse all'impugnazione; l'adozione ed il mantenimento delle condotte riparatorie costituiscono un onere per l'ente, che viene meno solo nel caso di accertata carenza ab origine delle ragioni della cautela (Cass. S.U., n. 51515/2018); con la stessa sentenza è stato precisato che l'appello avverso la suddetta misura interdittiva non può essere dichiarato inammissibile "de plano", ai sensi dell'art.127, comma 9, ma deve essere deciso nell'udienza camerale e nel contraddittorio tra le parti, atteso che la revoca può implicare valutazioni di ordine discrezionale in merito al perdurante interesse all'impugnazione.
Trasmissione degli attiPoiché l'art. 310, comma 2, non richiama, tra i commi dell'art. 309 applicabili, anche il comma 5, disponendo soltanto che gli atti sono trasmessi entro il giorno successivo a quello in cui è dato avviso all'autorità giudiziaria procedente, anche dopo l'entrata in vigore della legge n. 47 del 2015, che ha novellato l'art. 324, comma 7, non è applicabile il termine perentorio di cinque giorni per la trasmissione degli atti al tribunale, previsto dall'art. 309, comma 5, con conseguente perdita di efficacia della misura cautelare impugnata in caso di trasmissione tardiva, bensì il diverso termine indicato dall'art. 324, comma 3, che ha natura meramente ordinatoria, per cui, nel caso di trasmissione frazionata degli atti, il termine perentorio di dieci giorni, entro cui deve intervenire la decisione a pena di inefficacia della misura, decorre dal momento in cui il tribunale ritiene completa l'acquisizione degli atti (Cass. III, n. 44640/2015; Cass. VI, n. 47883/2019). Procedimento davanti al TribunaleSi rinvia a quanto esposto sub art. 309, con le seguenti caratteristiche peculiari dell'appello cautelare. Nel procedimento d'appello avverso le ordinanze emesse dal g.i.p. in materia di misure cautelari personali, il termine per l'avviso alle parti e ai difensori del giorno dell'udienza è quello generale di dieci giorni stabilito dall'art. 127 per il procedimento in camera di consiglio — alle cui forme fa rinvio l'art. 310, comma 2, — e non già quello di tre giorni, specificamente ed eccezionalmente previsto, per la sola udienza di riesame, dall'art. 309, comma 8, peraltro non richiamato dall'art. 310, comma 2: l'inosservanza di detto termine comporta la nullità dell'udienza ex art. 127, comma 5, nullità che secondo una parte della giurisprudenza è di natura assoluta (Cass. VI, n. 1767/1997; Cass. VI, n. 1806/2003), mentre, secondo un diverso orientamento la nullità sarebbe a regime intermedio e non una nullità assoluta ex art. 179, in quanto quest'ultima presuppone l'omessa (e non l'intempestiva) citazione dell'interessato o del suo difensore (Cass. V, n. 48423/2014; Cass. III, n. 41723/2018). L'art. 310 non rinvia ai commi 6 e 8-bis dell'art. 309, che prevedono il diritto dell'imputato di comparire personalmente, introdotto dall'art. 11 l. 16 aprile 2015, n. 47, pertanto, è applicabile il disposto dell'art. 127, comma 3, il quale prevede la facoltà di chi è detenuto o internato in luogo posto fuori della circoscrizione del giudice e ne abbia fatto richiesta, di essere sentito, prima del giorno fissato per l'udienza, dal competente magistrato di sorveglianza. Peraltro, le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno affermato che la mancata traduzione all'udienza camerale d'appello, perché non disposta o non eseguita, dell'imputato che abbia tempestivamente manifestato in qualsiasi modo la volontà di comparire e che si trovi detenuto o soggetto a misure limitative della libertà personale, determina la nullità assoluta e insanabile del giudizio camerale e della relativa sentenza (Cass. S.U., n. 35399/2010). È legittima la partecipazione al relativo procedimento del P.M. presso il Tribunale del riesame, ancorché diverso da quello che abbia richiesto l'applicazione della misura, e, per l'effetto, l'esclusione di quest'ultimo dall'udienza camerale, ex art. 310, in quanto la competenza funzionale dell'Ufficio del rappresentante della pubblica accusa, exart. 51, comma 3, si uniforma, in via generale, alla regola del suo carattere derivato, normalmente connessa a quella del giudice presso il quale esercita le sue funzioni. Infatti, l'inosservanza di tale regola generale può essere invocata solo in virtù di espressa deroga legislativa ed in subiecta materia tale volontà derogatoria riguarda esclusivamente il procedimento del riesame di misure cautelari personali nel quale, ex art. 309, commi 8 e 8-bis, il P.M. che ha richiesto l'applicazione della misura può partecipare all'udienza in luogo del P.M. presso il Tribunale del riesame (Cass. V, n. 34961/2010). Decisione sulla richiesta di riesameL'art. 310, comma 2, stabilisce che il Tribunale decide entro venti giorni dalla ricezione degli atti, ma tale termine, non essendo richiamato il comma 10 dell'art. 309, è solo un termine ordinatorio, il cui mancato rispetto non comporta la perdita di efficacia del provvedimento cautelare (Cass. I, n. 3630/2000 ; Cass. III, n. 44013/2015). L'art. 12 l. 16 aprile 2015, n. 47, analogamente a quanto previsto nella seconda parte del comma 10 dell'art. 309, ha introdotto nell'ultima parte del comma 2 dell'art. 310 la previsione di un termine di trenta giorni per il deposito delle decisioni, prorogabile a quarantacinque, ma anche tale termine è ordinatorio, in quanto non c'è rinvio alla prima parte del comma 10 che prevede la perdita di efficacia della ordinanza cautelare in caso di mancato rispetto anche di questo termine (Cass. VI, n. 47413/2021). È stata ritenuta manifestamente infondata l'eccezione di illegittimità costituzionale della disposizione di cui all'art. 310 comma 2, nella parte in cui non prevede, al pari di quanto disposto dall'art. 309 comma 10, la cessazione dell'efficacia dell'ordinanza impugnata, nel caso in cui il tribunale non si pronunci nel termine previsto, sollevata con riferimento all'art. 3 Cost. che impone il pari trattamento di situazioni sostanzialmente omogenee. Invero la situazione processuale relativa al riesame è ben diversa da quella dell'appello che, se da un lato si riferisce anche alle misure interdittive, dall'altro, quando abbia riguardo ad una misura coercitiva, presuppone appunto che questa sia stata applicata antecedentemente con ordinanza non più impugnabile (perché l'interessato vi ha fatto acquiescenza o perché la sua impugnazione è stata respinta) e che già vi sia stata, quindi, prima di tale provvedimento, un'esauriente valutazione vuoi degli indizi di colpevolezza, vuoi delle esigenze cautelari (Cass. VI, n. 3411/1994). Altra particolarità dell'appello cautelare è la previsione della sospensione della esecuzione del provvedimento fino a che la decisione non sia divenuta definitiva (art. 310, comma 3), sospensione che si applica sia quando il provvedimento sia emesso per la prima volta dal giudice dell'impugnazione a seguito del ricorso del P.M. avverso il diniego del G.I.P., sia quando il P.M. proponga appello avverso la revoca di una misura cautelare (Cass. I, n. 4386/1995). Tuttavia, l'ordinanza con la quale il tribunale del riesame, a seguito di annullamento con rinvio disposto su ricorso del P.M., confermi l'originaria ordinanza di custodia cautelare, in un primo tempo annullata dal medesimo tribunale, è immediatamente esecutiva e determina il ripristino dello stato di custodia, anche in caso di nuova proposizione di ricorso per cassazione, in quanto a tale ipotesi non si estende per analogia l'effetto sospensivo previsto dall'art. 310, comma 3, operando invece la regola generale di cui all'art. 588, comma 2, secondo cui le impugnazioni contro i provvedimenti in materia di libertà personale non hanno effetto sospensivo (Cass. V, n. 39029/2008; Cass. VI, n. 37773/2010; Cass. III, n. 2888/2014). E' stato, inoltre, osservato che è necessario porre in correlazione l'art. 310, comma 3, con quanto previsto in tema di impugnazioni dall'art. 588 dello stesso codice. Questa seconda norma, regolando il profilo della esecutività dei provvedimenti impugnati, prevede una disposizione generale, al comma 1 («Dal momento della pronuncia, durante i termini per impugnare e fino all'esito del giudizio di impugnazione, l'esecuzione del provvedimento impugnato è sospesa, salvo che la legge disponga altrimenti»), derogata per le impugnazioni contro i provvedimenti in materia di libertà personale, che «non hanno in alcun caso effetto sospensivo» (comma 2). Questa ultima disposizione ha una portata di ordine generale ed è coerente con la natura delle misure cautelari, che presuppongono un pericolo rilevante e la correlativa necessità di un rimedio immediato. L'art. 310, comma 3, dunque, costituisce, una eccezione alla regola generale secondo la quale i provvedimenti in materia di libertà personale sono immediatamente esecutivi. In ragione della natura eccezionale, di stretta interpretazione, dell'art. 310, comma 3, non vi sono i presupposti per derogare alla disposizione generale, dettata per i provvedimenti in materia di libertà personale dall'art. 588, comma 2, del codice di rito, nel caso in cui il tribunale, in accoglimento dell'appello del pubblico ministero, dia al fatto una diversa qualificazione giuridica ovvero riconosca la sussistenza di una circostanza aggravante a effetto speciale (Cass. II, n. 21826/2022). Ambito del giudizio di appelloSi è già detto sopra che la cognizione del giudice di appello nel procedimento incidentale sulla libertà è limitata ai punti della decisione impugnata attinti dai motivi di gravame nonché a quelli con essi strettamente connessi o da essi dipendenti, e non riguarda, invece, le deduzioni in fatto e le argomentazioni in diritto svolte dal giudice della decisione impugnata (Cass. S.U., n. 8/1997; Cass. I, n. 6989/1998; Cass. III, n. 28253/2010; Cass. II, n. 18057/2014; Cass. V, n. 30828/2014). Anzi, la giurisprudenza ha ulteriormente precisato, in applicazione del principio cd. della doppia devoluzione, che in ragione della natura pienamente devolutiva del giudizio la cognizione del giudice è circoscritta entro il limite segnato non solo dai motivi dedotti dalla parte impugnante, ma anche dal decisum del provvedimento gravato, dimodoché il thema decidendum proposto nell'atto di impugnazione deve coincidere con quello sottoposto al giudice a quo; non possono pertanto con l'appello proporsi motivi del tutto nuovi rispetto a quelli avanzati nell'istanza sottoposta al giudice di primo grado, né al giudice ad quem è attribuito il potere di estendere d'ufficio la sua cognizione a questioni neppure prese in esame dal giudice a quo (Cass. VI, n. 335/1998; Cass. II, n. 3418/1999; Cass. I, n. 43913/2012; Cass. III, n. 30483/2015; Cass. VI, n. 19008/2016: fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da vizi il provvedimento con il quale il tribunale aveva dichiarato l'inammissibilità della questione relativa alla inutilizzabilità delle risultanze delle intercettazioni ambientali disposte nella dimora dell'indagato, attesa la mancata deduzione del tema nella richiesta ex art. 299 e, comunque, la mancata contestazione del profilo relativo alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza). È stato, peraltro, precisato che, qualora il giudice per le indagini preliminari abbia rigettato la richiesta di adozione di un provvedimento coercitivo per la ritenuta insussistenza delle esigenze cautelari, sul presupposto della configurabilità, nel caso sottoposto al suo esame, dei gravi indizi di colpevolezza, la cognizione del tribunale non è limitata ai singoli punti oggetto di specifica censura, in applicazione del principio devolutivo, ma, investito dell'appello proposto dal pubblico ministero, ha l'onere, al fine di disporre la richiesta misura in accoglimento del gravame, di prendere in considerazione tutti gli elementi di cui all'art. 292 e pertanto di adeguatamente motivare non solo in relazione al novellato giudizio di sussistenza delle esigenze cautelari, ma anche in ordine alla già ritenuta configurabilità dei gravi indizi di colpevolezza, della quale l'indagato non aveva alcun interesse a dolersi essendo stata comunque disattesa nei suoi confronti la richiesta di applicazione della misura coercitiva, spettando al giudice dell'impugnazione tutti i poteri rientranti nella competenza funzionale del primo giudice (Cass. I, n., 27792/2006; Cass. III, n. 37086/2015; Cass. VI, n. 41997/2019). Quando, invece, l'impugnazione del pubblico ministero riguardi il provvedimento di diniego di emissione dell'ordinanza cautelare per insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza è devoluta al giudice la verifica di tutte le risultanze processuali e lo legittima a riconsiderare anche i punti della motivazione dell'ordinanza, che non abbiano formato oggetto di specifica critica nell'atto di appello (Cass. I, n. 38681/2016: in applicazione del principio, la Corte ha ritenuto legittima la decisione di accoglimento dell'appello del P.M., cui il Tribunale era pervenuto, estendendo il sindacato all'intero compendio indiziario, lì dove l'impugnante si era limitato a contestare la valutazione degli elementi desumibili da intercettazioni ambientali, specificamente indicate nell'atto di gravame). Le Sezioni Unite, all’udienza del 30 novembre 2023, chiamate a decidere se , nel giudizio sull'appello ex art. 310 proposto avverso provvedimenti in materia di misure cautelari personali, l'oggetto della cognizione sia delimitato dagli elementi sui quali era fondata la richiesta formulata ai sensi dell'art. 299 cod. proc. pen. e decisa con il provvedimento appellato, ha affermato il seguente principio di diritto: «nel giudizio di appello cautelare, celebrato nelle forme e con l’osservanza dei termini previsti dall’art. 127 cod. proc. pen., possono essere prodotti dalle parti elementi probatori “nuovi” nel rispetto del contraddittorio e del principio di devoluzione, contrassegnato dalla contestazione, dalla richiesta originaria e dai motivi contenuti nell’atto di appello» (Cass. S.U., n. 15403/2024). In ogni caso, è stato affermato che la riforma in senso sfavorevole all'indagato della decisione impugnata impone al tribunale, in assenza di mutamenti del materiale probatorio acquisito, un rafforzato onere motivazionale, tale da superare le lacune dimostrative evidenziate dal primo giudice (Cass. I, n. 16029/2016; Cass. VI, n. 17581/2017). Cass. I, n. 47361/2022, la quale precisa che è necessario confrontarsi con le ragioni del provvedimento riformato e giustificare, con assoluta decisività, la diversa scelta operata, ma non è necessaria la dimostrazione, oltre ogni ragionevole dubbio, della insostenibilità della decisione riformata, anche se ogni divergente valutazione adottata dal tribunale deve essere comunque dotata di maggiore persuasività e credibilità razionale). In senso contrario, è stato, invece, ritenuto che, in sede di appello del pubblico ministero avverso il rigetto della richiesta di misura cautelare, la riforma sfavorevole all'indagato del provvedimento del giudice per le indagini preliminari non impone una motivazione rafforzata in quanto è sufficiente che il giudice d'appello cautelare compia una valutazione totale, autonoma e completa degli elementi addotti dalle parti nel contraddittorio pieno, confrontandosi con gli argomenti che fondano la decisione impugnata, in quanto, diversamente da quanto richiesto nel giudizio di merito, non è necessaria la dimostrazione, oltre ogni ragionevole dubbio, della insostenibilità della soluzione adottata dal primo giudice (Cass. VI, n. 11550/2017; Cass. VI, n. 44713/2019; Cass. V, n. 28580/2020: in motivazione la Corte ha precisato che, nel procedere ad una verifica, sia pure implicita, degli argomenti a sostegno della decisione liberatoria impugnata, ogni divergente valutazione adottata dal tribunale deve comunque essere dotata di maggiore persuasività e credibilità razionale rispetto a quella riformata). Peraltro, non viola il principio devolutivo il giudice dell'appello cautelare che, in luogo della misura richiesta dal P.M., ne applichi una meno afflittiva, implicitamente insita nella prima, non essendo egli in tal caso vincolato alla rigida alternativa tra l'accoglimento integrale dell'impugnazione ed il rigetto integrale della stessa (Cass. VI, n. 30 del 1999; Cass. III, n. 27506/2008; Cass. II, n. 53376/2014; Cass. VI, n. 1832/2020: fattispecie in cui la Corte ha confermato l'ordinanza del tribunale del riesame che, pronunciando sull'appello del pubblico ministero che chiedeva l'applicazione degli arresti domiciliari a fronte della misura interdittiva del divieto di contrarre con la pubblica amministrazione adottata dal g.i.p., disponeva congiuntamente l'obbligo di dimora ed il divieto temporaneo di esercitare imprese e uffici direttivi per un anno). Nel procedimento conseguente all'appello proposto dal P.m. contro l'ordinanza reiettiva della richiesta di misura cautelare personale, è legittima la produzione di documentazione relativa ad elementi probatori « nuovi », preesistenti o sopravvenuti, sempre che, nell'ambito dei confini segnati dal devolutum, quelli prodotti dal P.m. riguardino lo stesso fatto contestato con l'originaria richiesta cautelare e in ordine ad essi sia assicurato nel procedimento camerale il contraddittorio delle parti, anche mediante la concessione di un congruo termine a difesa, e quelli prodotti dall'indagato, acquisiti anche all'esito di investigazioni difensive, siano idonei a contrastare i motivi di gravame del P.M. ovvero a dimostrare che non sussistono le condizioni e i presupposti di applicabilità della misura cautelare richiesta (Cass. S.U., n. 18339/2004; Cass. V, n. 42847/2014; Cass. II, n. 30313/2017).
Occorre tenere presente, inoltre, che qualora il pubblico ministero, nelle more della decisione su una impugnazione incidentale de libertate, intenda utilizzare, nei confronti dello stesso indagato e per lo stesso fatto, elementi probatori «nuovi» può scegliere se riversarli nel procedimento impugnatorio ovvero porli a fondamento di una nuova richiesta cautelare, ma, una volta effettuata, la scelta gli preclude di coltivare l'altra iniziativa cautelare (Cass. S .U. , n. 7931/2011). La decisione del giudice sull'appello avverso l'ordinanza di rigetto dell'istanza di revoca di una misura cautelare è vincolata, oltre che dall'effetto devolutivo proprio di questo tipo di impugnazione, per cui la sua cognizione non può superare i confini tracciati dai motivi, anche dalla natura del provvedimento impugnato, che è del tutto autonomo rispetto all'ordinanza impositiva della misura. Il giudice, pertanto, non è tenuto a riesaminare la questione della sussistenza delle condizioni di applicabilità della misura stessa ma solo a stabilire se il provvedimento gravato sia immune da violazioni di legge ed adeguatamente motivato in relazione all'eventuale allegazione di fatti nuovi, preesistenti o sopravvenuti, idonei a modificare il quadro probatorio o ad influire sull'esigenza della misura cautelare, fermo restando il dovere, in ogni caso, e cioè anche indipendentemente da qualsiasi sollecitazione dell'interessato, di revocare immediatamente la misura allorché ne siano venute meno le condizioni di applicabilità (Cass. III, n. 43112/2015; Cass. II, n. 18130/2016; Cass. VI, n. 45826/2021). Contenuto della decisione di appelloIl tribunale competente a decidere sull'appello proposto in materia cautelare può dichiarare l'inammissibilità del gravame soltanto in presenza di una delle cause generali di inammissibilità, di ordine essenzialmente formale, previste dall'art. 591 e non, quindi, in considerazione del contenuto sostanziale del gravame stesso, per il quale può darsi luogo soltanto a pronuncia di rigetto nel merito (Cass. I, n. 3021/1994). Nel disciplinare l'istituto dell'appello in materia di misure cautelari, l'art. 310, mentre espressamente si richiama alle disposizioni dettate dall'art. 309 per quanto concerne la procedura, nulla specifica circa i poteri decisori del Tribunale e la tipologia dei provvedimenti adottabili a seguito della proposta impugnazione. Per ragioni di coerenza dell'ordinamento, tale silenzio assume il significato di un rinvio implicito, per tutto ciò che non trova espressa previsione nel disposto dell'art. 310, ai principi e alle norme che disciplinano l'istituto dell'appello, nelle parti che si rendono applicabili. Ne consegue che il tribunale, quale giudice di appello dei provvedimenti in materia di libertà personale, essendo tenuto a pronunciarsi unicamente con le formule conclusive proprie del giudizio di merito — conferma o riforma del provvedimento impugnato —, non può annullare lo stesso per difetto di motivazione, ma deve invece, nel rispetto del principio tantum devolutum quantum appellatum, provvedere a completare la stessa, integrandola in tutto o in parte; tale affermazione di principio rimane ferma anche in seguito alle modifiche apportate dalla l. n. 47/2015, pertanto, il giudice dell'appello cautelare può integrare il provvedimento impugnato, rispetto a motivazioni mancanti o non contenenti una autonoma valutazione degli indizi e delle esigenze cautelari o degli elementi forniti dalla difesa, in quanto l'art. 310, che disciplina tale forma di impugnazione, non richiama l'art. 309, comma 9, che deve ritenersi norma di carattere eccezionale, e quindi insuscettibile di applicazione analogica, nella misura in cui deroga al principio generale secondo il quale la motivazione del provvedimento impugnato è, di regola, sostituita, nei limiti del devoluto, dalla pronuncia del giudice dell'impugnazione (Cass. VI, n. 1040/1994; Cass. I, n. 670/1995; Cass. VI, n. 3286/1996; Cass. IV, n. 8982/2003; Cass. I, n. 27677/2009; Cass. III, n. 845/2016). Il tribunale, in accoglimento dell'appello del pubblico ministero avverso la decisione di rigetto del g.i.p., può applicare una misura cautelare coercitiva, in tal caso non è necessario procedere all'interrogatorio di garanzia a pena di inefficacia della misura suddetta (Cass. S.U. n. 17274/2020). 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