Codice di Procedura Penale art. 358 - Attività di indagine del pubblico ministero.Attività di indagine del pubblico ministero. 1. Il pubblico ministero [50] compie ogni attività necessaria ai fini indicati nell'articolo 326 [330] e svolge altresì accertamenti su fatti e circostanze [187] a favore della persona sottoposta alle indagini [292 2-ter]1.
[1] Per l'attività di indagine concernente i reati ministeriali e quelli indicati nell'art. 90 Cost., v. l. cost. 16 gennaio 1989, n. 1 e l. 5 giugno 1989, n. 219. V. anche sub art. 343. InquadramentoÈ norma “manifesto”: ribadisce le attribuzioni processuali del titolare dell’azione penale e apre il capitolo dedicato agli atti che può compiere nell’ambito delle sue prerogative investigative. Le indagini del pubblico ministero.Il pubblico ministero è il titolare dell'azione penale (art. 112, Cost.; art. 50, al cui commento si rinvia) ed a tal fine può e deve compiere ogni attività necessaria per le determinazioni inerenti l'esercizio dell'azione stessa (art. 326, richiamato dalla norma ed al cui commento si rinvia). Nell'ordinamento processuale italiano, il pubblico ministero non è organo deputato esclusivamente alla raccolta delle prove a carico dell'imputato; egli non solo non deve “scartare” le prove contrarie alla tesi accusatoria ma deve positivamente svolgere accertamenti su fatti e circostanze che sono a favore della persona sottoposta alle indagini. Si tratta, però, di dovere non presidiato da alcuna sanzione processuale sicché la sua violazione non può essere dedotta con ricorso per cassazione fondato sulla mancata assunzione di una prova decisiva (Cass. III, n. 47013/2018 che ha precisato che la valutazione della necessità di accertare fatti e circostanze favorevoli spetta unicamente al pubblico ministero, che agisce come organo di giustizia, non essendo vincolato, in tale veste, dalle indicazioni della difesa; Cass. II, n. 10061/2013, che ha evidenziato che la difesa può comunque svolgere attività di indagine in via autonoma rispetto al P.M. nonché formulare proprie richieste istruttorie nel giudizio ordinario o abbreviato; nello stesso senso Cass. III, n. 34615/2010). Se il dovere di compiere accertamenti a favore della persona sottoposta alle indagini non è processualmente sanzionato, è però vero che il pubblico ministero deve, prima di esercitare l'azione penale, informare la persona sottoposta alle indagini delle sue intenzioni mediante l'avviso di conclusione delle indagini preliminari (art. 415-bis), pena la nullità della richiesta di rinvio a giudizio (416, c. 1) o del decreto di citazione diretta a giudizio (552, comma 2); se, a seguito dell'avviso, la persona sottoposta alle indagini chieda di essere sottoposta a interrogatorio, il pubblico ministero deve procedervi (art. 415-bis, comma 3) se non vuole rendere nullo l'atto con cui promuove l'azione penale (artt. 416, comma 1;552, comma 2). Resta, però, privo di sanzione il mancato compimento degli atti di indagine che pure l'avvisato può chiedere ai sensi del comma terzo dell'art. 415-bis. L'affiancamento all'attività di indagine del pubblico ministero dell'attività investigativa del difensore (prevista dall'art. 327-bis, aggiunto dall'art. 7, legge n. 397/2000, e regolamentata dagli artt. 391-bis e segg.) consegna alla storia il principio affermato dalla giurisprudenza di legittimità secondo il quale «in conformità alle direttive della legge-delega (art. 2, n. 37), il pubblico ministero è deputato al ruolo di titolare esclusivo delle indagini necessarie per le determinazioni inerenti all'esercizio dell'azione penale, comprese le indagini su fatti e circostanze a favore della persona indagata (art. 358). E poiché in detta fase il pubblico ministero non è parte, non essendo ancora insorto alcun conflitto fra l'ordinamento e un determinato soggetto privato, ma è l'unico organo preposto, nell'interesse generale, alla raccolta ed al vaglio dei dati positivi e negativi afferenti fatti di possibile rilevanza penale, ne deriva che tutti i dati utili devono essere canalizzati sul pubblico ministero: ivi comprese le informazioni acquisite (direttamente o anche a mezzo di sostituti, consulenti tecnici od investigatori privati autorizzati) dai difensori, cui l'art. 38 delle norme di attuazione ha esteso l'esercizio del diritto alla prova. Il che risulta confermato dalla disposizione contenuta in detto articolo che limitando le facoltà del difensore alla scoperta degli elementi favorevoli (mediante investigazioni esplorative o conferimento con persone in grado di fornire informazioni), non le estende alla diretta acquisizione dei dati, essendo quest'ultimo, nella fase anteriore all'inizio dell'azione penale, compito del pubblico ministero e nella fase successiva compito del giudice (Cass. VI, n. 3066/1992 che aveva ritenuto corretta la soluzione adottata dal giudice di merito che aveva considerato inutilizzabili le dichiarazioni rese, nel corso delle indagini preliminari, da un teste al difensore dell'indagato, da quest'ultimo raccolte per scrittura autenticata e direttamente proposte al G.I.P. assente il pubblico ministero). Ciò nondimeno la positiva, persistente affermazione del dovere di compiere accertamenti anche a favore della persona sottoposta alle indagini e di aprire un'interlocuzione con quest'ultima prima dell'esercizio dell'azione penale è espressione del principio di completezza delle indagini preliminari che, come affermato dalla Corte costituzionale con sentenza n. 88/1991, «assolve una duplice, fondamentale funzione. La completa individuazione dei mezzi di prova è, invero, necessaria, da un lato, per consentire al pubblico ministero di esercitare le varie opzioni possibili (tra cui la richiesta di giudizio immediato, “saltando” l'udienza preliminare) e per indurre l'imputato ad accettare i riti alternativi: ciò che è essenziale ai fini della complessiva funzionalità del sistema, ma presuppone, appunto, una qualche solidità del quadro probatorio. Dall'altro lato, il dovere di completezza funge da argine contro eventuali prassi di esercizio “apparente” dell'azione penale, che, avviando la verifica giurisdizionale sulla base di indagini troppo superficiali, lacunose o monche, si risolverebbero in un ingiustificato aggravio del carico dibattimentale». Sul piano ordinamentale, infatti, il pubblico ministero «veglia alla osservanza delle leggi, alla pronta e regolare amministrazione della giustizia, alla tutela dei diritti dello Stato, delle persone giuridiche e degli incapaci, richiedendo, nei casi di urgenza, i provvedimenti cautelari che ritiene necessari; promuove la repressione dei reati e l'applicazione delle misure di sicurezza (...)» (art. 73, r.d. n. 12/1941, Ordinamento giudiziario). CasisticaÈ manifestamente infondata, in relazione agli art. 24 e 111 Cost., la questione di legittimità costituzionale della disciplina concernente le perquisizioni ed il sequestro probatorio disposti dal Pubblico Ministero, nella parte in cui non prevede alcun preventivo controllo giurisdizionale, in quanto i principi del giusto processo e della parità delle armi tra difesa ed accusa, recepiti dal novellato art. 111 Cost., attengono alla fase del “processo” e non a quella delle indagini preliminari. La perquisizione ed il sequestro probatorio, finalizzati al riscontro della notitia criminis e all'eventuale raccolta degli elementi di prova, non rientrano infatti nel processo, né hanno natura cautelare come il sequestro preventivo, per cui non devono conformarsi ai principi dell'art. 111 Cost. (Cass. III, n. 40974/2002). BibliografiaMari A., sub art. 358, in Codice di procedura penale. Rassegna di giurisprudenza e dottrina, a cura di G. Lattanzi e E. Lupo, Vol. V, Milano, 2017. |