Codice di Procedura Penale art. 442 - Decisione 1 .

Andrea Pellegrino

Decisione1.

1. Terminata la discussione [421, 523], il giudice provvede a norma degli articoli 529 e seguenti [651 2, 652 2].

1-bis. Ai fini della deliberazione il giudice utilizza gli atti contenuti nel fascicolo di cui all'articolo 416, comma 2, la documentazione di cui all'articolo 419, comma 3, e le prove assunte nell'udienza 2.

2. In caso di condanna [533], la pena che il giudice determina tenendo conto di tutte le circostanze è diminuita della metà se si procede per una contravvenzione e di un terzo se si procede per un delitto3. [Alla pena dell'ergastolo4 è sostituita quella della reclusione di anni trenta5]6. [Alla pena dell'ergastolo con isolamento diurno, nei casi di concorso di reati e di reato continuato, è sostituita quella dell'ergastolo7]8.

2-bis. Quando né l'imputato, né il suo difensore hanno proposto impugnazione contro la sentenza di condanna, la pena inflitta è ulteriormente ridotta di un sesto dal giudice dell'esecuzione910.

[3. La sentenza è notificata all'imputato che non sia comparso [545 3; 134 att.] ]11.

4. Si applica la disposizione dell'articolo 426, comma 2.

 

[1] V. nota all'art. 438.

[3] L' art. 1, comma 44, l. 23 giugno 2017, n.103 ha sostituito le parole: «è diminuita di un terzo» con le seguenti: «è diminuita della metà se si procede per una contravvenzione e di un terzo se si procede per un delitto». Ai sensi dell’art. 1, comma 95, l. n. 103, cit., la stessa legge entra in vigore il trentesimo giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale (G.U. n. 154 del 4 luglio 2017).

[4] V. l'art. 7, comma 1, d.l. 24 novembre 2000, n. 341, conv., con modif., in l. 19 gennaio 2001, n. 4, secondo il quale l'espressione «pena dell'ergastolo» deve intendersi riferita «all'ergastolo senza isolamento diurno». Tale art. 7, è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo, con sentenza della Corte cost. 18 luglio 2013, n. 210. V. pure l'art. 8 d.l. n. 341, cit., nel testo risultante dalla legge di conversione.

[5] Il secondo periodo di questo comma, corrispondente a quello dichiarato incostituzionale per eccesso di delega da Corte cost. 23 aprile 1991, n. 176, è stato reinserito dall'art. 30, comma 1 lett. b) l. n. 479, cit.

[6] Periodo abrogato dall'art. 3, comma 1,  l. 12 aprile 2019, n. 33. L'art. 5 l. n. 33, cit. prevede che: «1. Le disposizioni di cui alla presente legge si applicano ai fatti commessi successivamente alla data di entrata in vigore della medesima legge. 2. La presente legge entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana.» ( 20 aprile 2019).

[7] Periodo aggiunto dall'art. 7, comma 2, d.l. n. 341, cit.

[8] Periodo abrogato dall'art. 3, comma 1,  l. 12 aprile 2019, n. 33. L'art. 5 l. n. 33, cit. prevede che: «1. Le disposizioni di cui alla presente legge si applicano ai fatti commessi successivamente alla data di entrata in vigore della medesima legge. 2. La presente legge entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana.» ( 20 aprile 2019).

[10] La Corte Cost. , con sentenza 19 dicembre 2024, n. 208, dichiara l’illegittimità costituzionale del presente comma, nella parte in cui non prevede che il giudice dell’esecuzione può concedere altresì la sospensione della pena e la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, quando il giudice della cognizione non abbia potuto provvedervi perché la pena allora determinata era superiore ai limiti di legge che consentono la concessione di tali benefici.

Inquadramento

Nell'art. 442 il carattere della premialità in caso di condanna risulta totalmente disancorato dai criteri di valutazione oggettiva e/o soggettiva propri delle circostanze attenuanti: si tratta, infatti, semplicemente di una sorta di compensazione rispetto al vantaggio che l'amministrazione della giustizia ricava dalla celebrazione di un rito «accelerato». La diminuzione ha riguardo, però, solo alla pena principale e non anche alle pene accessorie, alcune delle quali (come l'interdizione perpetua dai pubblici uffici) sono addirittura ontologicamente incompatibili con meccanismi di riduzione proporzionale. Le sanzioni accessorie vanno, quindi, parametrate sulla pena principale finale, cioè su quella risultante all'esito della riduzione per il rito. Resta evidente, infine, che questa diminuente non incide sul calcolo massimo della pena ai fini della prescrizione (stante anche l'irrilevanza generale delle diminuenti stabilita dalla novella all'art. 157 c.p.).

Nella legge di riforma del processo penale (l. n. 103/2017) si è proceduto a diversificare la misura della diminuente per la scelta del rito, elevandola alla metà per le contravvenzioni e lasciandola inalterata nella misura di un terzo per i delitti.

La base probatoria e gli atti utilizzabili per valida acquisizione probatoria

Ai fini della deliberazione, il giudice utilizza gli atti contenuti nel fascicolo che il P.m. deposita con la richiesta di rinvio a giudizio, gli atti delle eventuali indagini suppletive, le prove assunte nell'udienza preliminare, ex artt. 421-bis e 422, prima che venga richiesto il rito speciale nonché quelle frutto delle integrazioni ex artt. 438, comma 5 e 441, comma 5. Risulta evidente che il giudice utilizza per la decisione prevalentemente atti di parte; si tratta di una delle deroghe al principio del contraddittorio previsto dall'art. 111, comma 5 Cost., con il consenso dell'imputato che si manifesta nella stessa richiesta di ammissione al rito speciale.

Il divieto di ulteriori acquisizioni probatorie ha ad oggetto solo le prove concernenti la ricostruzione storica del fatto e l’attribuibilità del reato all’imputato, ma non i documenti riguardanti l’accertamento di responsabilità o l’accertamento di presupposti e condizioni per l’applicazione di attenuanti e benefici, come si desume dall’art. 421, comma 3, richiamato dall’art. 441, secondo cui, ai fini delle conclusioni, le parti possono utilizzare anche “gli atti e i documenti ammessi dal giudice prima dell’inizio della discussione” (Cass. I, n. 13739/2020).

Nel novero degli atti utilizzabili rientrano i risultati dell'attività d'indagine difensiva, svolta secondo i dettami dell'art. 11 l. n. 397/2000, presentati al giudice prima della richiesta di giudizio abbreviato. Se la difesa al momento della richiesta del rito speciale indica acquisizioni probatorie frutto della propria attività, non presentate ex art. 391-octies prima della richiesta di rinvio a giudizio, si ritiene che la richiesta del rito assuma la forma condizionata, con il conseguente diritto del P.m. all'ammissione di prova contraria. Parimenti, qualora il deposito degli atti di indagine avvenga, a cura del difensore, nel corso dell'udienza preliminare e contestualmente l'imputato formuli richiesta di rito speciale, questa si deve intendere subordinata all'integrazione probatoria ex art. 438, comma 5, con diritto del P.m. alla prova contraria.

 Gli atti formati unilateralmente dalla polizia giudiziaria, tra i quali la comunicazione di notizia di reato, o dal P.m., riproducono, seppure nella dimensione cartolare, una prova dichiarativa e devono essere valutati sulla base dei parametri che regolano l’apprezzamento di tale prova, ove compatibili (Cass. II, n. 28960/2017).Sono utilizzabili ai fini della decisione le dichiarazioni contenute nelle denunzie e nelle querele presentate nel corso delle indagini preliminari, anche se provenienti da persona giudicata in procedimento per reato collegato, in quanto dalla stessa spontaneamente rese, sicchè non trovano applicazione le previsioni di cui all’art.63 (Cass. VI, n. 32373/2019).

L'incidenza delle investigazioni difensive nel giudizio abbreviato

 

Le fattispecie

La definizione degli ambiti di conoscibilità da parte del giudice dell'abbreviato del materiale assunto in sede di sede di investigazioni difensive costituisce questione controversa. Le situazioni che nella pratica possono verificarsi sono le seguenti:

a. deposito del fascicolo delle investigazioni difensive già nella fase terminativa delle indagini preliminari e successiva richiesta di giudizio abbreviato incondizionato formulata in udienza preliminare o nella fase degli atti introduttivi al dibattimento nei casi di citazione diretta a giudizio;

b. deposito del fascicolo delle investigazioni difensive in udienza preliminare o nella fase degli atti introduttivi al dibattimento a seguito di citazione diretta e contestuale richiesta di giudizio abbreviato incondizionato;

c. medesima situazione considerata nel punto precedente e richiesta di giudizio abbreviato subordinata ad ulteriore integrazione probatoria. In realtà, l'affermazione secondo cui le investigazioni difensive sarebbero “geneticamente” incluse nel materiale conoscibile dal giudice dell'abbreviato ai sensi dell'art. 442, comma 1-bis, non sembra trovare riscontro nell'esame diretto del solo dato letterale; tuttavia essa si fonda su un'interpretazione giurisprudenziale della Corte costituzionale e della S.C. sviluppatasi già prima dell'introduzione nel codice di rito degli artt. 391-bis ss.

Invero, l'art. 442, comma 1-bis, fa riferimento a tre gruppi di “materiali”:

1) gli atti contenuti nel fascicolo di cui all'art. 416, comma 2 (notizia di reato, documentazione relativa alle indagini espletate e verbali degli atti compiuti dinanzi al G.i.p., corpo del reato e cose pertinenti al reato se allegabili);

2) la documentazione di cui all'art. 419, comma 3 (cioè quella relativa alle indagini eventualmente compiute dopo la richiesta di rinvio a giudizio e che sia stata trasmessa al G.u.p.);

3) le prove assunte nell'udienza.

La modifica dell'art. 419, comma 3, avrebbe normativizzato il principio secondo cui, con l'avviso di fissazione dell'udienza preliminare, il giudice richiede al P.m. ed alle parti private di trasmettere la documentazione relativa alle “indagini eventualmente espletate dopo la richiesta di rinvio a giudizio”. Peraltro, già l'espressione normativa “indagini” appare infelice, essendo la medesima collegata solo all'attività del P.m. e della polizia giudiziaria, mentre per le parti private la locuzione utilizzata è quella di “investigazioni”; inoltre, il richiamo alla richiesta di rinvio a giudizio come momento procedurale che “marca” il dies ad quem dell'attività suppletiva ha un senso se collegato al soggetto da cui proviene l'atto di esercizio dell'azione penale, mentre meno si presta a qualificare le investigazioni delle parti private, in quanto queste vengono a conoscenza della richiesta di rinvio a giudizio solo con la notifica del decreto di fissazione dell'udienza preliminare (cronologicamente successivo a causa della non perentorietà del termine di cui all'art. 418).

Peraltro, la soluzione interpretativa ricavata dalla modifica dell'art. 419, comma 3, non è evocabile nei casi di citazione diretta a giudizio: qui non risulta essere individuabile nel codice un momento per il deposito ulteriore rispetto a quello dell'art. 415-bis.

Inoltre, non appare convincente nemmeno il ragionamento secondo cui il “principio di continuità investigativa” (Corte cost. n. 16/1994) giustificherebbe l'esistenza di una facoltà “senza termini” di produzione del fascicolo delle investigazioni difensive.

Le attività

Orbene, se l'attribuzione al difensore della facoltà di svolgere investigazioni, anche finalizzate al giudizio di revisione, rende incontestabile che questi possa essere autorizzato a compierle durante tutta la durata della vicenda processuale, altrettanto indubbio è però che l'art. 327-bis è una disposizione che attiene al rapporto professionale tra difensore ed assistito, tant'è che la norma parla dell'attribuzione della facoltà compiuta col mandato conferito dal secondo al primo. Essa, però, non stabilisce anche che gli esiti delle investigazioni compiute possano essere rappresentati al giudice in qualunque momento del percorso procedimentale.

In virtù della disciplina introdotta dalla l. n. 397/2000, i difensori di tutte le parti possono svolgere attività investigativa non solo durante le indagini preliminari ma anche prima dell'instaurazione di un procedimento penale (cfr. art. 391-nonies); inoltre i difensori possono, al pari del P.m., svolgere, dopo la presentazione della richiesta di rinvio a giudizio, attività investigativa cd. “suppletiva” (cfr., art. 419, comma 3) e, dopo l'emissione del decreto che dispone il giudizio, attività investigativa cd. “integrativa” (cfr., art. 430).

Tuttavia, la facoltà riconosciuta dall'art. 391-octies al difensore di presentare direttamente “all'udienza preliminare” gli elementi di prova a favore del proprio assistito, va contemperata con il profilo strutturale dell'udienza preliminare, caratterizzato — secondo la prevalente concezione bifasica — da due momenti: costituzione delle parti e discussione.

Dal combinato disposto degli artt. 419, comma 3 e 421, comma 3, si desume che la documentazione relativa alle indagini espletate da tutte le parti dopo la richiesta di rinvio a giudizio va ammessa dal giudice “prima dell'inizio della discussione”. A contrario, dalle norme appena richiamate si evince che dopo l'inizio della discussione le parti non possono chiedere l'ammissione di atti o documenti non prodotti prima (eccezion fatta per la sollecitazione all'esercizio dei poteri di cui agli artt. 421-bis e 422).

Pertanto, l'inizio della discussione segna il limite per l'ammissione della documentazione relativa alle indagini espletate dal P.m. e dalle altre parti dopo la richiesta di rinvio a giudizio. In questo senso si è espressa anche la Corte costituzionale (Corte cost. n. 117/2011) allorquando ha segnalato che «sono certamente riconoscibili talune previsioni dirette a procurare una anticipata presentazione di questo materiale documentale: il fascicolo delle indagini compiute dal P.m. deve essere trasmesso unitamente alla richiesta di rinvio a giudizio (art. 416, comma 2); la documentazione delle eventuali indagini “suppletive”, prima dell'udienza, al pari dei documenti difensivi (art. 419, commi 2 e 3); quella delle eventuali indagini difensive, “in vista” di una decisione anche interlocutoria nell'udienza (art. 391-octies, comma 1).

Tuttavia, fuori di questi casi, per detta presentazione, è pure riconoscibile un favor nella norma che la consente “fino all'inizio della discussione” (art. 421, comma 3), come implicazione della continuità delle indagini che si è inteso assicurare prima della decisione sul rinvio a giudizio. Una volta iniziata la discussione, non sono più ammesse produzioni.

In sintesi, se con riferimento alla fase delle indagini preliminari ed a quella dell'udienza preliminare è rintracciabile un dato normativo utilizzabile per individuare l'occasione di produzione del fascicolo delle investigazioni difensive, altrettanto non può dirsi per la fase del dibattimento attivato a citazione diretta. In questo caso (ma lo stesso vale anche con riferimento al rito abbreviato attivato all'esito di decreto di giudizio immediato o in sede di opposizione a decreto penale di condanna), il fondamento va rintracciato in termini di lettura costituzionalmente orientata (il parametro sono gli artt. 3, 24 e 111 Cost.) delle norme sul giudizio abbreviato ed, in particolar modo, dell'art. 442 nel richiamo operato agli artt. 416 e 419 alla luce degli approdi di sistema contenuti nella sentenza della Corte cost. n. 184/2009.

Le produzioni

La mancanza di una base normativa espressa si spiega, d'altronde, in considerazione del fatto che non avrebbe avuto senso collegare una produzione di atti d'investigazione alla fase del giudizio (tal è sia quello ordinario che quello premiale), eccezion fatta per i documenti che entrano nel materiale di cognizione attraverso i canali predeterminati per la fase. Nella sent. n. 184/2009, la Consulta, per argomentare la compatibilità con l'art. 111 Cost. della produzione delle investigazioni difensive in costanza di richiesta di abbreviato incondizionato, è giunta ad una lettura del parametro costituzionale in cui le tradizionali accezioni del contraddittorio ivi richiamate (in senso oggettivo — comma 2 — ed in senso soggettivo — comma 4) non risultano rivolte alla tutela di valori disgiunti ma costituiscono entrambe “un aspetto del diritto di difesa”. Catalogare i diritti sanciti dall'art. 111 Cost. in due classi contrapposte — ora, cioè, tra le «garanzie oggettive», ora tra quelle «soggettive» — risulta in effetti fuorviante, nella misura in cui pretenda di reinterpretare, in una prospettiva di protezione dell'efficienza del sistema e delle posizioni della parte pubblica, garanzie dell'imputato, introdotte nello statuto costituzionale della giurisdizione e prima ancora nelle Convenzioni internazionali essenzialmente come diritti umani. Il senso della scelta costituzionale è in realtà immediatamente percepibile: nel momento stesso in cui prevede una deroga basata sul “consenso dell'imputato” (e non già sul “consenso delle parti” o della “parte controinteressata”), ponendola per giunta al vertice della terna di ipotesi derogatorie ivi contemplate, il quinto comma dell'art. 111 Cost. rivela chiaramente che il principio del contraddittorio nel momento genetico della prova rappresenta precipuamente — nella volontà del legislatore costituente — uno strumento di salvaguardia “del rispetto delle prerogative dell'imputato” (Corte cost. n. 29/2009).

Nelle previsioni dell'art. 111 Cost. è stata delineata una protezione costituzionale specifica per l'imputato, particolarmente in tema di prove: insieme al suo diritto di confrontarsi con le fonti di prova a carico e di ottenere la convocazione e l'interrogatorio di persone a sua difesa (terzo comma), insieme altresì al divieto di provare la sua colpevolezza sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all'interrogatorio da parte sua o del suo difensore (quarto comma, secondo periodo), si è infine riconosciuta la sua facoltà di rinunciare unilateralmente all'assunzione delle prove in contraddittorio (quinto comma). Trattasi, secondo la Consulta, di previsioni normative coerenti con la fase dibattimentale in cui si collocano, destinata al pieno sviluppo del contraddittorio attraverso l'assunzione dialettica della prova. Onde si giustifica che una deroga a esso possa fondarsi solo sulla rinuncia “incrociata” delle parti, a fronte di una regola generale — discendente dal principio della separazione delle fasi — di inutilizzabilità, se non per le contestazioni, degli atti di indagine, sia del P.m. che del difensore. Ciò non avviene nel giudizio abbreviato «ove gli atti di investigazione difensiva acquistano valore solo come effetto della più generale rilevanza probatoria riconosciuta all'intera indagine preliminare, alla pari con quelli dell'indagine del P.m. e quindi con rinuncia generalizzata al contraddittorio per la formazione della prova». Quindi, in tale contesto, il principio di parità delle parti, sancito dal secondo comma dell'art. 111 Cost., viene in rilievo non nel senso che sia richiesto sempre e comunque il consenso del P.m. e delle altre parti, bensì in quello d'impegnare il legislatore (e, può aggiungersi, l'interprete) ad evitare che «i presupposti e le modalità operative del riconoscimento all'imputato della facoltà di rinunciare alla formazione della prova in contraddittorio determinino uno squilibrio costituzionalmente intollerabile tra le posizioni dei contendenti o addirittura una alterazione del sistema». Di qui la conclusione secondo cui l'utilizzo degli atti d'investigazione difensiva per effetto del consenso del solo imputato non può ritenersi lesiva del principio di parità delle parti (che non implica identità delle posizioni processuali) e la disparità di trattamento è giustificata, nei limiti della ragionevolezza, dalla peculiare posizione del P.m., sia dalla funzione allo stesso affidata, sia da esigenze di funzionale e corretta amministrazione della giustizia; e ciò anche in una prospettiva di complessivo riequilibrio dei poteri dei contendenti, avuto riguardo alle disparità di segno opposto riscontrabili in fasi del procedimento distinte da quella in cui s'innesta la singola norma discriminatrice avuta di mira (tra le molte, v. sentt. Corte cost. n. 320/2007 e Corte cost. n. 26/2007).

Rispetto a questa impostazione, non è distonica l'affermazione contenuta in un precedente costituzionale (Corte cost. n. 32/2002), secondo cui, dal principio enunciato nel primo periodo del comma 4 dell'art. 111 Cost., discende quale corollario «il divieto di attribuire valore di prova alle dichiarazioni raccolte unilateralmente dagli organi investigativi (ed evidentemente anche dal difensore)». Non può, infatti, non evidenziarsi il diverso “contesto di rito” in cui si muove quella pronuncia, cioè quello della legittimità della testimonianza indiretta degli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria: siamo, infatti, nella fase del dibattimento (e si tratta di prove a carico) in cui il momento della formazione e quello della rappresentazione della prova coincidono e con un equilibrio dei poteri probatori delle parti innanzi al giudice differente da quello considerato in sede di giudizio abbreviato. Né elementi di contraddizione sono rintracciabili nella sentenza della Corte cost. n. 26/2007, che si limita a sottolineare come l'ineludibile vaglio di ragionevolezza della disparità di trattamento vada condotto «sulla base del rapporto comparativo tra la ratio che la ispira e lo “scalino” da essa creato tra le posizioni delle parti». Ed è la stessa Consulta che indica i meccanismi di compensazione al potere di allegazione probatorio riconosciuto alla difesa, attraverso l'affermazione della rintracciabilità nel sistema processuale degli strumenti di riconduzione a ragionevolezza del disequilibrio. Questi, infatti, consistono nel riconoscimento di congrui rinvii per consentire al P.m. di esaminare le risultanze “a sorpresa” delle investigazioni difensive ed effettuare indagini suppletive con attitudine dimostrativa di prova contraria (cfr., Corte cost., ord. n. 245/2005) e nella sollecitazione del giudice all'esercizio dei poteri/doveri d'integrazione officiosa che questi è chiamato ad attivare a tutela dei valori costituzionali che presiedono l'esercizio della funzione giurisdizionale (cfr. Corte cost., ord. n. 245/2005 cit. e Cass. III, n. 15236/2009).

Da questa ricostruzione di sistema discendono altri corollari logici che concernono i procedimenti speciali in cui può innestarsi la richiesta di giudizio abbreviato. La fattispecie nella quale  la Consulta ha affermato l'utilizzabilità delle investigazioni difensive depositate contestualmente alla richiesta di abbreviato incondizionato era quella dell'istanza di giudizio avanzata nella fase degli atti preliminari all'apertura del dibattimento a citazione diretta. Si è già detto che, per i giudizi derivanti da citazione diretta, non è possibile rintracciare un fondamento normativo che in via immediata consenta questo risultato. È evidente che, per ammettere questa possibilità, occorra accedere ad una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 556 che, non potendo far direttamente rinvio alla norma dell'art. 419, comma 3 (per incompatibilità), apra alla possibilità delle produzioni difensive allo scopo di scongiurare una disparità di trattamento di situazioni omogenee. Diversamente opinando, infatti, si farebbe dipendere dalla tipologia di rito l'ampiezza delle possibilità di allegazione probatoria in sede di abbreviato. Se, quindi, la “strada” alla tutela offerta dalla Consulta è di tipo interpretativo, occorre coerentemente ammettere che analoga tutela vada riconosciuta anche nei casi in cui la richiesta di rito abbreviato consegua all'emissione del decreto di giudizio immediato od a quello penale di condanna. Per entrambi, inoltre, non è prevista nemmeno la facoltà di deposito del fascicolo delle investigazioni di cui all'art. 415-bis, comma 3, consentita per i procedimenti a citazione diretta. Inoltre per il giudizio immediato la sperequazione risulterebbe ancor più evidente con riferimento ai casi di attivazione del rito ai sensi dell'art. 453, comma 1-bis, in cui non è condizionante l'evidenza della prova bensì il solo stato custodiale dell'imputato. Se poi si riflette sulla circostanza che, come ulteriormente chiarito dalla S.C. (Cass. IV, n. 41073/2010), il giudizio immediato può riguardare solo i reati per i quali è prevista l'udienza preliminare, appare ancora più chiaro come dalla scelta del tipo di azione effettuata dal P.m. si farebbe discendere una ingiustificata restrizione delle possibilità di difesa dell'imputato con il rito alternativo dell'abbreviato. Analoghe considerazioni valgono, ovviamente, con riferimento all'abbreviato “da decreto penale di condanna”. Deve, quindi, coerentemente ammettersi la possibilità che, nelle more della celebrazione del rito abbreviato, la difesa dell'imputato possa depositare il fascicolo delle investigazioni difensive presso la cancelleria del G.i.p. Analogamente opererebbero, per converso, i meccanismi compensativi dello squilibrio precedentemente segnalati.

Gli atti viziati utilizzabili

Fino alla novella approvata con l. n. 479/1999, era questione controversa quale fosse, nell'ambito del procedimento speciale, il regime di utilizzabilità degli atti affetti da una qualche forma di invalidità.

Il contrasto sull'operatività nel rito in esame della categoria dell'inutilizzabilità della prova è stato risolto dalle Sezioni unite (Cass. S.U., n. 16/2000) che hanno osservato come l'atto processuale negoziale di tipo abdicativo che consente l'accesso al rito a prova contratta può avere ad oggetto esclusivamente i poteri rientranti nella sfera di disponibilità degli interessati, ma resta privo di negativa incidenza sul potere-dovere del giudice di essere, anche in quel giudizio speciale, garante della legalità del procedimento probatorio. Va pertanto attribuita piena rilevanza alla categoria sanzionatoria dell'inutilizzabilità inerente agli atti probatori assunti contra legem la cui utilizzazione è vietata in modo assoluto in tutte la fasi del procedimento salvo il potere del giudice di assumere, anche d'ufficio, gli elementi necessari ai fini della decisione nelle forme previste dall'art. 422. Si è poi ritenuta ammissibile l'eccezione di inutilizzabilità proposta dall'imputato anche successivamente alla richiesta di giudizio abbreviato, alla quale non può essere attribuita alcuna efficacia sanante (Cass. III, n. 43956/2004; in senso contrario, Cass. I, n. 663/2000).

Nel giudizio abbreviato sono utilizzabili a fini di prova le dichiarazioni spontanee – e non quelle sollecitate – rese dalla persona sottoposta alle indagini alla polizia giudiziaria, perchè l'art. 350, comma 7,  ne limita l'inutilizzabilità esclusivamente al dibattimento (cfr.,Cass. V, n. 32015/2018; Cass. V, n. 18048/2018).

Le sanatorie

Si è detto come nel giudizio abbreviato siano deducibili e rilevabili solo le nullità di carattere assoluto e le inutilizzabilità cosiddette patologiche. Ne consegue che tutta una serie di nullità (c.d. fisiologiche), attraverso la scelta del rito, inevitabilmente, finiscono per sanarsi, con conseguente piena utilizzabilità ai fini della decisione dell'atto viziato.

Nella giurisprudenza, le ipotesi di maggior frequenza sono le seguenti: —omesso o tardivo (nella fattispecie, dopo la presentazione della richiesta di rinvio a giudizio) espletamento dell'interrogatorio a seguito dell'avviso di cui all'art. 415-bis, benché sollecitato dall'imputato (Cass. II, n. 39474/2014); —invalidità della notifica del decreto di citazione a giudizio dell'imputato, conseguente alla sua effettuazione con modalità diverse da quelle previste (Cass. III, n. 19454/2014); —omessa notifica dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari (Cass. III, n. 7336/2014); —ordinanza di rigetto da parte del G.u.p. della richiesta difensiva di accedere ai supporti audiovisivi di una conversazione fra presenti, indicata fra gli elementi probatori a sostegno della richiesta di rinvio a giudizio, sanabile, ex art. 183, comma 1, lett. b), con la richiesta di giudizio abbreviato e comunque non più deducibile, per carenza di interesse, ex art. 182, qualora nel corso del giudizio abbreviato il supporto sia acquisto e su di esso espletata perizia audiovisiva nel contraddittorio delle parti (Cass. I, n. 4429/2014); —mancato rilascio di copia dei supporti delle registrazioni delle conversazioni da parte del P.m. (Cass. V, n. 39837/2013); —effettuazione di un accertamento tecnico irripetibile non preceduto dagli avvisi alle parti (Cass. I, n. 28459/2013); —omissione dell'avviso di deposito degli atti concernenti intercettazioni telefoniche in favore di uno dei difensori dell'imputato, non essendo compresa la disposizione che lo prescrive (comma quarto dell'art. 268) tra le norme la cui violazione comporta il divieto di utilizzazione, posto dal primo comma dell'art. 271 (Cass. II, n. 19483/2013); — impossibilità per l'imputato di ascoltare ed esaminare le video-riprese effettuate (Cass. VI, n. 19191/2013, in fattispecie in cui l'imputato, detenuto in regime di cui all'art. 41-bis r.d. n. 12/1941 (ord. pen.), non aveva potuto esercitare l'accesso alle registrazioni, perché l'ingresso nella casa circondariale della strumentazione necessaria per la lettura audio-video dei supporti, pur se autorizzato dal G.i.p., era stato impedito per ragioni di sicurezza dal direttore dell'istituto); —genericità della richiesta di rinvio a giudizio ed indeterminatezza del capo di imputazione (Cass. VI, n. 21265/2012; contra, Cass. IV, n. 26653/2009).

La sentenza e i poteri del giudice ex art. 521 c.p.p.

In virtù del rinvio alle disposizioni previste per il giudizio ordinario, il giudice può pronunciare una sentenza di non doversi procedere perché l'azione penale non poteva essere promossa o proseguita (art. 529), ovvero per estinzione del reato (art. 531). Inoltre, nel procedimento speciale, valgono le regole di giudizio previste dall'art. 530 per l'adozione della sentenza di condanna nel processo ordinario; da ciò discende che il giudice non può dichiarare la responsabilità penale dell'imputato se non quando le prove acquisite dimostrino la sua colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio. L'assoluzione dell'imputato è naturalmente dovuta anche in presenza di un quadro probatorio insufficiente o contraddittorio.

Il giudice può dare al fatto una diversa qualificazione giuridica e ciò anche quando la condotta sia punita più gravemente, trattandosi di un potere che prescinde totalmente dal tipo di procedimento celebrato. D'altra parte, l'esercizio di tale facoltà — che presuppone che il fatto contestato rimanga inalterato nei suoi elementi identificativi essenziali — nulla ha a che vedere con l'inapplicabilità dell'art. 423, che regola il potere del P.m. di modificare l'imputazione (Cass. VI, n. 9213/1996). Quanto poi al rispetto del contraddittorio in ordine alla diversa qualificazione giuridica del fatto, si è ritenuto che questo sia assicurato quando tale mutamento sia effettuato dal giudice di primo grado nella sentenza pronunciata all'esito del giudizio abbreviato, in quanto con i motivi d'appello l'imputato è posto nelle condizioni di interloquire sulla stessa, chiedendo una sua rivalutazione e l'acquisizione di integrazioni probatorie utili a smentirne il fondamento (Cass. VI, n. 10093/2012).

Quando invece il giudice ritenga che il fatto sia diverso da come descritto nell'imputazione, deve restituire gli atti al P.m. ai sensi dell'art. 521, comma 2, senza assolvere l'imputato dall'originaria contestazione, pena il formarsi della cosa giudicata (Cass. V, n. 595/2009).

La natura della diminuente ed il computo della pena

 

La nuova disciplina

La l. n. 103/2017, modificando il comma 2 dell'art. 442, dispone che, in caso di condanna, la pena che il giudice determina, dopo aver tenuto conto di tutte le circostanze e delle norme sul concorso dei reati, è diminuita di un terzo se si procede per un delitto per un delitto e di un mezzo se si procede per una contravvenzione: previsione – quest'ultima – con l'evidente fine di rendere più “appetibile” la scelta del rito.

La l. n. 33/2019 ha sancito l'inapplicabilità del giudizio abbreviato ai delitti puniti con la pena dell'ergastolo ed ha conseguentemente abrogato il secondo ed il terzo periodo del comma 2 dell'art. 442, che prevedevano rispettivamente che alla pena dell'ergastolo fosse sostituita quella della reclusione di anni trenta e che alla pena dell'ergastolo con isolamento diurno, nei casi di concorso di reati e di reato continuato, fosse sostituita quella dell'ergastolo.

La diminuente di un mezzo si applica alle fattispecie anteriori all'entrata in vigore della l. n. 103/2017, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile, ai sensi dell'art. 2, comma 4, c.p., in quanto, pur essendo norma di carattere processuale, ha effetti sostanziali, comportando un trattamento sanzionatorio più favorevole seppure collegato alla scelta del rito (Cass. IV, n. 5034/2019).

La previsione della decurtazione della metà della pena inflitta per le contravvenzioni, configurandosi come norma penale di favore, impone che, quando sia ritenuta la continuazione tra delitti e contravvenzioni, la riduzione per il rito si debba effettuare distintamente sugli aumenti disposti per le contravvenzioni nella misura della metà e su quelli disposti per i delitti (nonché sulla pena base prevista per il delitto più grave) nella misura di un terzo (Cass. II, n. 14068/2019; Cass. I, n. 39087/2019). Il principio è stato riaffermato recentemente dalle Sezioni Unite (ud. 27/02/2025, ric. Elian, sentenza non ancora depositata) che ha così definitivamente superato l'orientamento (Cass. II, n. 40079/2023) che invece riconosceva che, nel caso in cui sia stata riconosciuta la continuazione tra delitti e contravvenzioni, la riduzione per il rito andasse operata dopo che la pena fosse stata determinata, in osservanza delle norme sulla continuazione, nella misura unitaria di un terzo prevista per i delitti (e non distintamente sugli aumenti di pena disposti per le contravvenzioni nella misura della metà, e sugli aumenti di pena disposti per i delitti – oltre che sulla pena base – nella misura di un terzo) essendo la pena del reato continuato parametrata su quella stabilita per il delitto in applicazione della regola del cumulo delle pene concorrenti ex art. 76 c.p.Le Sezioni Unite hanno anche riconosciuto come la questione riguardante l'erronea determinazione della diminuente per il giudizio abbreviato in caso di continuazione tra delitti e contravvenzioni è soggetta al principio devolutivo e non può essere dedotta per la prima volta in sede esecutiva, trattandosi di ipotesi afferente a pena illegittima e non a pena illegale.

E' ammissibile il ricorso per cassazione volto a far valere, per i fatti pregressi, la erronea applicazione per le contravvenzioni, della diminuente per il rito abbreviato nella misura di un terzo anziché della metà, introdotta dalla l. n. 103/2017, attesi gli effetti sostanziali della stessa, pur se non dedotta con i motivi d'appello, stante la rilevabilità d'ufficio dell'applicabilità del trattamento sanzionatorio più favorevole essendo l'art. 2, comma quarto, cod. pen. divenuto strumento interno di attuazione del principio sovranazionale della retroattività della "lex mitior" (Cass. IV, n. 24897/2021).

Peraltro nel giudizio abbreviato celebrato dopo le modifiche introdotte all'art. 442, comma 2, dall'art. 1, comma 44 l. n. 103/2017, nel caso di omessa riduzione – non dedotta in sede di impugnazione – della metà della pena inflitta con sentenza definitiva di condanna per contravvenzione, non sono esperibili i rimedi né dell'incidente di esecuzione né della correzione di errore materiale, non vertendosi in ipotesi di pena illegale e neppure di errore nel computo aritmetico della pena, bensì di violazione del criterio stabilito dalla legge processuale nella determinazione della riduzione di pena per il rito, come tale denunciabile solo con gli ordinari mezzi di gravame (Cass. I, n. 22313/2020).

Il giudice d'appello, investito dell'impugnazione del solo imputato che, giudicato con il rito abbreviato per reato contravvenzionale, lamenti l'illegittima riduzione della pena ai sensi dell'art. 442 nella misura di un terzo anziché della metà, deve applicare detta diminuente nella misura di legge anche quando la pena irrogata dal giudice di primo grado non rispetti le previsioni edittali e sia di favore per l'imputato (Cass. S.U., n. 7578/2021).

Le Sezioni unite, chiamate a stabilire se in tema di reati contravvenzionali, la Corte di cassazione possa applicare la corretta diminuzione della metà prevista per un reato contravvenzionale, giudicato con rito abbreviato, non disposta dal giudice di merito, pur se la questione non sia stata prospettata con l'atto di appello, ma unicamente con il ricorso per cassazione, hanno accolto la soluzione negativa, precisando che qualora la pena concretamente irrogata rientri nei limiti edittali, l'erronea applicazione da parte del giudice di merito della misura della diminuente, prevista per il reato contravvenzionale giudicato con rito abbreviato, integra un'ipotesi di violazione di legge che, ove non dedotta nell'atto di appello, non è deducibile per la prima volta nel ricorso per cassazione 

(Cass. S.U., n. 47182/2022).

Gli effetti

Detta diminuente non è soggetta a giudizio di comparazione (Cass. V, n. 7200/1999), non influisce sui termini prescrizionali (Cass. S.U., n. 7707/1991) e nemmeno spiega influenza sugli istituti di cui all'art. 597, relativi al divieto generale della reformatio in pejus stabilito in materia di impugnazione, che vanno necessariamente riferiti alla pena ritenuta equa in base alle norme di diritto sostanziale.

L'eventuale riduzione della pena in misura inferiore al terzo non è causa di annullamento della sentenza, trattandosi di mero errore materiale rettificabile exart. 619, comma 2 (Cass. II, n. 5840/1995).

Si discute ancora in giurisprudenza se la riduzione premiale incontri o meno i limiti di cui all'art. 67, comma 2, c.p. (in senso favorevole, Cass. VI, n. 4923/2000; in senso contrario, Cass. I, n. 1300/1992).

Nel giudizio di cognizione, la riduzione della pena in conseguenza della scelta del rito, si applica dopo che la pena è stata determinata in osservanza delle norme sul concorso di reati e di pene stabilite dagli artt. 71 e ss. c.p., fra le quali vi è anche la disposizione limitativa del cumulo materiale, in forza della quale la pena della reclusione non può essere superiore ad anni trenta, e ciò anche nell'ipotesi di applicazione della continuazione tra il reato per cui si procede ed altro reato per il quale sia intervenuta sentenza irrevocabile (Cass. IV, n. 827/2018).

La diminuzione del terzo riguarda solo la pena principale e non anche le pene accessorie (Cass. I, n. 14412/2003) e le misure di sicurezza (Cass. I, n. 17951/2004). I limiti di pena fissati dagli artt. 29 e 32 c.p. vanno individuati con riguardo alla pena principale irrogata in concreto, quale risultante a seguito della diminuzione effettuata per la scelta del rito (Cass. S.U., n. 8411/1998).

Secondo la S.C., in caso di patteggiamento sulla pena o sul rito per più reati uniti dal vincolo della continuazione, il giudizio sulla concedibilità della pena sostitutiva alla pena detentiva breve ex art. 53 l. n. 689/1981 deve essere fatto con riferimento alla quantificazione della pena risultante all'esito della diminuzione di un terzo della pena da irrogare in concreto, e perciò necessariamente dopo l'aumento determinato dalla continuazione. Ciò in deroga al principio stabilito dall'ultimo comma dell'art. 53 l. n. 689/1981, cit., che prevede come riferimento la pena per il reato più grave prima dell'aumento per la continuazione. Tale trattamento, derivante dalla disciplina specifica dei procedimenti speciali, costituisce una situazione di maggior favore per l'imputato ed è coerente con la funzione deflattiva attribuita a tali riti (Cass. III, n. 3837/1997).

Le Sezioni unite, chiamate a stabilire se il riconoscimento della continuazione, ai sensi dell'art. 671, tra reati giudicati separatamente con rito abbreviato, fra cui sia compreso un delitto punito con la pena dell'ergastolo per il quale il giudice della cognizione abbia applicato la pena di anni trenta di reclusione per effetto della diminuente di un terzo ex art. 442, comma 2, terzo periodo (nel testo vigente fino al 19 aprile 2019), comporti che, in sede esecutiva, per “pena più grave inflitta”, che identifica la “violazione più grave” ai sensi dell'art. 187 disp. att., debba intendersi quella risultante dalla riduzione per il rito speciale ovvero quella antecedente alla suddetta riduzione, hanno affermato che “ai sensi dell'art. 187 disp. att., il giudice dell'esecuzione deve considerare come pena più grave inflitta, che identifica la violazione più grave, quella conseguente alla riduzione per il giudizio abbreviato” (Cass. S.U., n. 7029/2024)..

La riforma Cartabia

Il decreto legislativo n. 150 del 10 ottobre 2022, di attuazione della l. 27 settembre 2021, n. 134 recante delega al Governo per l'efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari, con l'art. 24, interpolando l'art. 442 ed inserendo il comma 2-bis, ha previsto che la pena inflitta con la sentenza di primo grado sia ulteriormente ridotta di un sesto nel caso di mancata proposizione dell'impugnazione da parte dell'imputato, riduzione applicabile dal giudice dell'esecuzione. La disposizione appare volta a disincentivare le impugnazioni avverso la sentenza pronunciata all'esito del giudizio abbreviato assicurando all'imputato un ulteriore sconto qualora rinunci al controllo dei giudici superiori. S'introduce così una compensazione, ragionevole e certamente compatibile con il dettato costituzionale, fra la rinuncia dell'imputato, consapevole e volontaria, all'esercizio del diritto di difesa come declinato nei giudizi d'impugnazione ed il rilevante vantaggio sul piano sanzionatorio dallo stesso conseguibile, per avere reso possibile un risparmio di tempi e risorse.

Con sentenza n. 208 del 19 dicembre 2024, la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 442, comma 2-bis, nella parte in cui non prevede che il giudice dell'esecuzione può concedere altresì la sospensione della pena e la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, quando il giudice della cognizione non abbia potuto provvedervi perché la pena allora determinata era superiore ai limiti di legge che consentono la concessione di tali benefici; ha dichiarato, altresì, in via consequenziale, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l'illegittimità costituzionale dell'art. 676, comma 3-bis, nella parte in cui non prevede che il giudice dell'esecuzione può concedere altresì la sospensione della pena e la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, quando il giudice della cognizione non abbia potuto provvedervi perché la pena allora determinata era superiore ai limiti di legge che consentono la concessione di tali benefici.

E' stata dichiarata manifestamente infondata la  questione di legittimità costituzionale dell'art. 442, comma 2-bis, per contrasto con l'art. 117 Cost., in riferimento all'art. 7 Conv. EDU (oltre che con gli artt. 3, 25, 27 Cost.), nella parte in cui non prevede che il  beneficio dell'ulteriore riduzione di pena nella misura di un sesto, conseguente alla mancata impugnazione della sentenza di condanna si applichi anche ai procedimenti penali pendenti in fase d'impugnazione ed a quelli definiti con sentenza divenuta irrevocabile prima dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2022, osservando che il beneficio è accordato dalla novella soltanto in presenza della mancata impugnazione della sentenza di primo grado, laddove, nel caso in esame, «l'atto che impedisce l'accesso alla riduzione di pena è già stato compiuto e ha introdotto la fase processuale dell'impugnazione, fase che la norma premiale vuole evitare», versandosi addirittura in sede di legittimità, a seguito di una doppia impugnazione. Ha, inoltre, ritenuto insussistente l'evocata lesione del principio di retroattività della lex mitior, asseritamente riguardante, secondo la Corte EDU, «le sole disposizioni che definiscono i reati e le pene che li reprimono», specificando che opera, nell'ordinamento interno, il (più favorevole) principio di cui all'art. 2, comma quarto, c.p., che «riguarda ogni disposizione penale successiva alla commissione del fatto, che apporti modifiche in melius di qualunque genere alla disciplina di una fattispecie criminosa, incidendo sul complessivo trattamento riservato al reo, mentre il principio convenzionale ha una portata più circoscritta, concernendo le sole norme che prevedono i reati e le relative sanzioni», ma incontra «il limite del giudicato» (Cass. I, n. 16054/2023); contra, Cass. II, n. 4237/2024, secondo cui la disciplina prevista dall'art. 442, comma 2-bis è astrattamente applicabile anche ai procedimenti penali per i quali era stata già proposta impugnazione al momento dell'entrata in vigore del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, atteso che, incidendo sul trattamento sanzionatorio, in quanto determina una ridefinizione della pena stessa, ha natura sostanziale ).

In tema di giudizio abbreviato, la ulteriore diminuzione di pena di un sesto, prevista dall'art. 442, comma 2-bis, non può essere riconosciuta nel caso di rinuncia al ricorso per cassazione, proposto avverso la sentenza d'appello (Cass. I, n. 30281/2024).

Invero, la previsione della riduzione della pena a seguito della mancata proposizione dell'impugnazione, non può che essere riferita alla sola sentenza di primo grado. E' stato affermato che «il presupposto a regime, per l'applicazione dell'ulteriore sconto di pena nel rito speciale, è l'irrevocabilità della decisione di primo grado per mancata proposizione dell'impugnazione da parte dell'imputato (quando è ammessa l'impugnazione personale) e del difensore. La riforma delineata dal d.lgs. n. 150 del 2022 ha, infatti, lo scopo di ridurre la durata del procedimento penale celebrato con rito alternativo, favorendo la definizione del giudizio dopo la decisione di primo grado e senza dare luogo ai gradi successivi (appello, ove previsto, o giudizio di legittimità) quando la loro introduzione, alla luce della valutazione rimessa alla parte privata, non sia giustificata da un preminente interesse: a fronte della mancata impugnazione della sentenza di primo grado, l'imputato otterrà, in sede esecutiva, l'ulteriore riduzione di un sesto della pena irrogata» (Cass. I, n. 49255/2023; nello stesso senso, Cass. I, n. 51180/2023).

Profili di diritto intertemporale

In mancanza di diversa disposizione, trattandosi di norma processuale, si applica il principio del “tempus regit actum”. Si richiamano le considerazioni esposte nel par. 8.1 a commento dell’art. 438.

La motivazione e la pubblicazione della sentenza

A differenza delle altre fasi del rito abbreviato che seguono la disciplina dell'udienza preliminare, quella della decisione è regolata dalle disposizioni relative al dibattimento.

La sentenza deve soddisfare tutti i requisiti previsti dall'art. 546: in particolare, quello della concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata, con l'indicazione delle prove poste a base della stessa e l'enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie.

La sentenza va pubblicata mediante lettura del dispositivo in udienza e non mediante deposito in cancelleria ex art. 128 in virtù dell'art. 442, comma 1, che rinvia alle norme degli artt. 529 e ss. (Cass. III, n. 5659/2002). La mancata lettura del dispositivo in udienza non comporta comunque nullità — né di ordine generale, né assoluta e neppure relativa — in virtù del disposto dell'art. 546, comma 3 (Cass. I, n. 2596/2003).

In caso di impedimento del giudice ai sensi dell'art. 426, comma 2, la sentenza è sottoscritta dal presidente del tribunale; tale specificazione è motivata dal fatto che, pur essendo applicabile al provvedimento finale la disciplina dibattimentale, l'art. 546, comma 2, contempla il giudice collegiale mentre il giudice del rito abbreviato è monocratico.

La parificazione degli effetti si ha anche con riferimento alla decisione sulle questioni civili ex artt. 538-543; il G.u.p. è anche giudice dell'esecuzione.

La rinnovazione dell’istruzione in grado di appello

Secondo la giurisprudenza, la previsione contenuta nell'art. 6, § 3, lett. d) della CEDU e delle libertà fondamentali, relativa al diritto dell'imputato di esaminare o fare esaminare i testimoni a carico ed ottenere la convocazione e l'esame dei testimoni a discarico, come definito dalla giurisprudenza consolidata della Corte EDU - che costituisce parametro interpretativo delle norme processuali interne - implica che il giudice di appello, investito della impugnazione del P.m. avverso la sentenza di assoluzione di primo grado, anche se emessa all'esito del giudizio abbreviato, con cui si adduca una erronea valutazione delle prove dichiarative, non può riformare la sentenza impugnata, affermando la responsabilità penale dell'imputato, senza avere proceduto, anche d'ufficio, ai sensi dell'art. 603, comma 3, a rinnovare l'istruzione dibattimentale attraverso l'esame dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni sui fatti del processo, ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado (Cass. S.U., n. 27620/2016).  Pochi mesi dopo, la medesima giurisprudenza di legittimità (Cass. III, n. 43242/2016), discostandosi dal predetto principio e ponendo in essere le basi per un nuovo contrasto, ha affermato che nel rito abbreviato non condizionato, il giudice di appello che, sulla base di un diverso apprezzamento degli apporti dichiarativi assunti in sede di indagine, intenda riformare l’assoluzione pronunciata in primo grado non è obbligato a rinnovare l’istruttoria mediante l’esame dei dichiaranti, fermo restando il dovere di fornire una motivazione "rafforzata" dotata di una forza persuasiva superiore a quella della sentenza di prime cure e fatta comunque salva la scelta di incrementare il compendio probatorio con l’audizione dei dichiaranti, qualora lo reputi necessario per superare, nel caso concreto, ogni ragionevole dubbio.

Casistica

L' applicazione della continuazione tra reati giudicati con rito ordinario ed atri giudicati con rito abbreviato comporta che solo nei confronti di questi ultimi deve operare la riduzione di un terzo della pena a norma dell'art. 442, comma 2 (Cass. S.U., n. 35852/2018 , in cui si è espressamente riconosciuto che l'ordine che il giudice deve seguire nelle operazioni di calcolo della pena, nel quale la diminuente del rito è successiva a tutte le altre, è funzionale ad un processo in cui sono stati giudicati tutti i reati riuniti per continuazione al fine di determinare una pena complessiva e non lo è più se alcuni reati sono stati giudicati in separati processi celebrati con rito ordinario; benché i precedenti fatti siano riconsiderati dal giudice dell'abbreviato che sta giudicando altri reati, al fine di verificare la sussistenza del vincolo della continuazione, e benché il giudice possa intervenire sulle pene inflitte per tali reati con le sentenze irrevocabili, è evidente che per essi non si celebra affatto un nuovo processo, né sarebbe possibile farlo; così come non celebra un nuovo processo il giudice dell'esecuzione che verifica la sussistenza del vincolo della continuazione tra reati definitivamente ma separatamente giudicati e ridetermina la pena complessiva).

Il condannato con sentenza passata in giudicato alla pena dell'ergastolo per reati che non comportano l'applicazione della misura aggiuntiva dell'isolamento diurno può ottenere in sede esecutiva la riduzione nella pena temporanea massima, secondo quanto stabilito dalla Corte Edu con la sentenza del 17 settembre 2009 nel caso Scoppola contro Italia, soltanto se nel corso del giudizio di cognizione sia stato ammesso al rito abbreviato e la sentenza di condanna sia stata pronunciata all'esito di quel giudizio (Cass. I, n. 34158/2014).

L'omessa notifica dell'avviso di fissazione dell'udienza preliminare alla persona offesa non costituisce motivo di nullità della eventuale sentenza emessa all'esito del giudizio abbreviato, non essendo tale nullità prevista da alcuna disposizione, a differenza di quanto stabilito, per la sentenza di non luogo a procedere, dall'art. 428, comma 2 (Cass. VI, n. 29331/2014)

Ai fini della determinazione del trattamento sanzionatorio, non può essere valorizzata la scelta dell'imputato di procedere con rito abbreviato, che già implica per legge l'applicazione di una predeterminata riduzione della pena (Cass. II, n. 18379/2014).

La sentenza emessa all'esito del giudizio abbreviato è assimilata, quanto ai termini per l'impugnazione, a quella dibattimentale e pertanto tali termini decorrono dai diversi momenti specificati nelle lettere b) e c) dell'art. 585, comma 2, ed hanno la diversa durata stabilita dal primo comma dello stesso articolo in rapporto al tempo impiegato dal giudice per la redazione della motivazione (Cass. VI, n. 12003/2014).

A seguito della riforma della disciplina della contumacia, l'estratto della sentenza emessa nel giudizio abbreviato non deve essere più notificato, ai sensi degli artt. 442, comma 3 e 134 disp. att., all'imputato assente (Cass. S.U. n. 698/2020).

Il G.u.p. che ha emesso il decreto che dispone il giudizio nei confronti di un concorrente nel reato non è incompatibile a giudicare con il rito abbreviato, in quanto non è stato chiamato a svolgere attività di giudizio o ad esprimere valutazioni sul merito dell'accusa (Cass. VI, n. 41474/2024, in fattispecie relativa ad associazione finalizzata al narcotraffico costituita da soli tre componenti).

In tema di rito abbreviato non condizionato, nel caso in cui sia contestato un reato per il quale l'oblazione non è prevista, l'imputato, qualora ritenga che il fatto possa essere diversamente qualificato in un reato che la consente, ha l'onere, in sede di discussione, di sollecitare il giudice alla riqualificazione del fatto e di formulare espressa istanza di oblazione, su cui il P.m. ha facoltà di replicare ai sensi degli artt. 421, comma 2, e 441, comma 1, con la conseguenza che il giudice il quale, con la sentenza che definisce il giudizio, assegni al fatto la diversa qualificazione che consentirebbe l'applicazione del beneficio, è tenuto a contestualmente ammettere l'imputato all'oblazione, fissando termini e modalità di pagamento della somma prevista per il conseguimento dell'effetto estintivo del reato in conformità allo schema procedimentale indicato dall'art. 141, comma 4-bis, disp. att. (Cass. I, n. 20573/2021).

È ammissibile il ricorso per cassazione del P.m. avverso la sentenza di condanna emessa all'esito di giudizio abbreviato che abbia omesso di statuire sull'applicazione di una pena accessoria, ove questa non sia di durata fissa e richieda di essere commisurata in base ai parametri di cui all'art. 133 c.p., la cui determinazione è rimessa al giudice del merito e non al giudice dell'esecuzione (Cass. VI, n. 46089/2021).

Le modifiche introdotte dal “collegato Cartabia”

La riduzione del trattamento sanzionatorio in conseguenza della mancata impugnazione della sentenza di condanna resa in esito all'abbreviato costituisce un beneficio introdotto, in attuazione dell'art. 1, comma 10, lett. b), n. 2, legge n. 134 del 2021, dall'art. 24, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 150 del 2022. Esigenze di coordinamento avevano imposto la coeva modifica dell'art. 676, comma 1, nel senso di introdurre, nell'ambito della disciplina da questi dedicata alla competenza del giudice dell'esecuzione, il riferimento all'applicazione della riduzione della pena prevista dall'art. 442, comma 2-bis Il presente correttivo, introdotto dal d.lgs. n. 31/2024, c.d. “collegato Cartabia”, sul presupposto che, in tale caso, si è di fronte ad una riduzione del trattamento sanzionatorio che consegue obbligatoriamente ex lege e che, pertanto, risulta necessario evitare – come spiega la Relazione illustrativa al d.lgs. n. 31 – una “inutile attivazione del procedimento di esecuzione su istanza di parte”, introduce un'espressa deroga al principio generale secondo il quale il giudice dell'esecuzione procede, di norma, a richiesta del pubblico ministero, dell'interessato o del difensore. Mediante la soppressione del richiamo contenuto al citato comma 1 dell'art. 676 alla riduzione conseguente alla mancata impugnazione e la previsione del nuovo comma 3-bis , si attribuisce, dunque, al giudice dell'esecuzione la competenza a decidere «in ordine all'applicazione della riduzione della pena prevista dall'art. 442, comma 2-bis » e si contempla espressamente che, in tal caso, proceda «d'ufficio prima della trasmissione dell'estratto del provvedimento divenuto irrevocabile». La modifica, che ambisce a rendere più celere il conseguimento della riduzione del trattamento sanzionatorio così da incoraggiare, in un'ottica deflativa del giudizio di appello, la scelta di non proporre il relativo gravame, sembra eliminare talune incertezze applicative sorte all'indomani delle modifiche del 2022 circa la natura officiosa o meno della decisione adottata, in tal caso, dal giudice dell'esecuzione. Resta ferma la necessità pratica che lo stesso giudice dell'esecuzione venga in concreto a conoscenza della circostanza che dà diritto all'applicazione della riduzione premiale (eventualmente anche su sollecitazione del p.m. competente per l'esecuzione). Per beneficiare della norma premiale non va impugnata la sentenza di condanna (non altre sentenze quali, ad es., la sentenza di appello che abbia confermato la sentenza di condanna) e senza che rilevi, a questi fini, la rinuncia all'impugnazione già proposta ( Cass. I, n. 51180/2023 ). In pratica, l'incentivo continua ad applicarsi “solo se l'imputato non propone appello o direttamente ricorso per cassazione” (nella prima giurisprudenza conseguente al d.lgs. n. 150, nel senso che il beneficio ha natura mista - processuale e sostanziale - e quindi non se ne può invocare l'applicazione retroattiva né ai processi già definiti prima dell'entrata in vigore della riforma, né a quelli pendenti a seguito di gravame e, conseguentemente non può essere chiesta la restituzione nel termine per rinunciare al gravame: Cass. I, n. 16054/2023 , che ha altresì ritenuto manifestamente infondata la relativa questione di costituzionalità per presunto contrasto dell'art. 442, comma 2- bis con gli artt. 3,25,27 e 117 Cost. in relazione all'art. 7 CEDU; conf., Cass. I, n. 42681/2023 , che ha riconosciuto come la condizione processuale che consente l'applicazione del beneficio, costituita dall'irrevocabilità della sentenza per mancata impugnazione, in quanto soggetta al principio del "tempus regit actum" , è ravvisabile solo rispetto a sentenze di primo grado divenute irrevocabili dopo l'entrata in vigore dell'indicato d.lgs., pur se pronunciate antecedentemente, sicché non risulta violato né il principio di retroattività della "lex mitior" , che riguarda le sole disposizioni che definiscono i reati e le pene che li sanzionano e la cui applicazione è preclusa ex art. 2, comma quarto, cod. pen. ove sia stata pronunziata sentenza definitiva, né quelli di eguaglianza e di responsabilità penale, in quanto il trattamento sanzionatorio difforme è giustificato dalla diversità delle situazioni da disciplinare e non può essere percepito come ingiusto dal condannato che abbia inteso perseguire il medesimo obiettivo con una diversa scelta processuale; v. anche, Cass. VI, n. 8115/2024 ; in senso difforme, Cass. II, n. 4237/2024 , secondo cui, invece, il beneficio premiale si applica, “previa rinuncia all'appello, anche ai procedimenti penali pendenti in fase di impugnazione antecedentemente all'entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2022, posto che la disposizione che lo prevede ha natura sostanziale, incidendo anche sul trattamento sanzionatorio).

Bibliografia

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