Codice di Procedura Penale art. 444 - Applicazione della pena su richiesta.Applicazione della pena su richiesta. 1. L'imputato [60, 61] e il pubblico ministero possono chiedere [446, 447] al giudice l'applicazione, nella specie e nella misura indicata, di una pena sostitutiva o di una pena pecuniaria, diminuita fino a un terzo, ovvero di una pena detentiva quando questa, tenuto conto delle circostanze e diminuita fino a un terzo, non supera cinque anni soli o congiunti a pena pecuniaria [135-137, 188 att.; 248 trans.; 25 min.]. L'imputato e il pubblico ministero possono altresì chiedere al giudice di non applicare le pene accessorie o di applicarle per una durata determinata, salvo quanto previsto dal comma 3-bis, e di non ordinare la confisca facoltativa o di ordinarla con riferimento a specifici beni o a un importo determinato.12. 1-bis. Sono esclusi dall'applicazione del comma 1 i procedimenti per i delitti di cui all'articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, i procedimenti per i delitti di cui agli articoli 600-bis, 600-ter, primo, secondo, terzo e quinto comma, 600-quater, secondo comma, 600-quater.1, relativamente alla condotta di produzione o commercio di materiale pornografico, 600-quinquies, nonché 609-bis, 609-ter, 609-quater e 609-octies del codice penale, nonché quelli contro coloro che siano stati dichiarati delinquenti abituali, professionali e per tendenza, o recidivi ai sensi dell'articolo 99, quarto comma, del codice penale, qualora la pena superi due anni soli o congiunti a pena pecuniaria3 4. 1-ter Nei procedimenti per i delitti previsti dagli articoli 314, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater e 322-bis del codice penale, l'ammissibilità della richiesta di cui al comma 1 è subordinata alla restituzione integrale del prezzo o del profitto del reato 5 . 2. Se vi è il consenso anche della parte che non ha formulato la richiesta e non deve essere pronunciata sentenza di proscioglimento a norma dell'articolo 129, il giudice, sulla base degli atti, se ritiene corrette la qualificazione giuridica del fatto, l'applicazione e la comparazione [69 c.p.] delle circostanze prospettate dalle parti, le determinazioni in merito alla confisca, nonché congrue le pene indicate, ne dispone con sentenza [448] l'applicazione enunciando nel dispositivo che vi è stata la richiesta delle parti. Se vi è costituzione di parte civile [76], il giudice non decide sulla relativa domanda; l'imputato è tuttavia condannato al pagamento delle spese sostenute dalla parte civile, salvo che ricorrano giusti motivi per la compensazione totale o parziale. Non si applica la disposizione dell'articolo 75, comma 3. Si applica l'articolo 537-bis 6. 3. La parte, nel formulare la richiesta, può subordinarne l'efficacia alla concessione della sospensione condizionale della pena [34, comma quinto, 163 c.p.]. In questo caso il giudice, se ritiene che la sospensione condizionale non può essere concessa, rigetta la richiesta [448]. 3-bis. Nei procedimenti per i delitti previsti dagli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, primo comma, 320, 321, 322, 322-bis e 346-bis del codice penale, la parte, nel formulare la richiesta, può subordinarne l'efficacia all'esenzione dalle pene accessorie previste dall'articolo 317-bis del codice penale ovvero all'estensione degli effetti della sospensione condizionale anche a tali pene accessorie. In questi casi il giudice, se ritiene di applicare le pene accessorie o ritiene che l'estensione della sospensione condizionale non possa essere concessa, rigetta la richiesta7.
[1] [1] Comma modificato dall'art. 25, comma 1, lett. a), n. 1, d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, che ha sostituito la parola «pena» alla parola «sanzione» e ha aggiunto il periodo: «L'imputato e il pubblico ministero possono altresì chiedere al giudice di non applicare le pene accessorie o di applicarle per una durata determinata, salvo quanto previsto dal comma 3-bis, e di non ordinare la confisca facoltativa o di ordinarla con riferimento a specifici beni o a un importo determinato.» dopo il primo periodo. Precedentemente l'art. 1 l. 12 giugno 2003, n. 134 aveva sostituito l'originario comma 1 con i commi 1 e 1-bis. Per una disposizione transitoria v. l'art. 5 l. n. 134, cit. [2] [2] Per il riferimento alle sanzioni sostitutive, v. artt. 53 s. l. 24 novembre 1981, n. 689. [3] [3] L'art. 1 l. 12 giugno 2003, n. 134 ha sostituito l'originario comma 1 con i commi 1 e 1-bis. Per una disposizione transitoria v. l'art. 5 l. n. 134, cit. [4] [4] L'art. 5, l. 1° ottobre 2012, n. 172, ha sostituito le parole «600-bis, primo e terzo comma,» con le parole: «600-bis». Precedentemente le parole da «i procedimenti» a «codice penale», erano state inserite dall'art. 11 l. 6 febbraio 2006, n. 38. [5] [5] Comma inserito dall'art. 6 l. 27 maggio 2015, n. 69. [6] [6] Comma modificato dall'art. 25, comma 1, lett. a), n. 2, d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, che ha inserito le parole «le determinazioni in merito alla confisca,» dopo le parole «circostanze prospettate dalle parti,» e ha sostituito le parole «congrue le pene indicate,» alle parole «congrua la pena indicata». Precedentemente la Corte cost., con sentenza 2 luglio 1990, n. 313, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale del presente comma prima nella parte in cui non prevedeva che, ai fini e nei limiti di cui all'art. 273 Cost., il giudice potesse valutare la congruità della pena indicata dalle parti, rigettando la richiesta in ipotesi di sfavorevole valutazione, e successivamente, con sentenza 12 ottobre 1990, n. 443, nella parte in cui non prevedeva che il giudice condannasse l'imputato al pagamento delle spese processuali in favore della parte civile, salvo che ritenesse di disporne, per giusti motivi, la compensazione totale o parziale, e successivamente il presente comma è stato sostituito dall'art. 32 l. 16 dicembre 1999, n. 479 e modificato dall'articolo 5, comma 3, legge 11 gennaio 2018, n. 4, che aveva aggiunto, in fine, il seguente periodo «Si applica l'articolo 537-bis» [7] [7] Comma aggiunto dall'art. 1, comma 4, lett. d) l. 9 gennaio 2019, n. 3, in vigore dal 31 gennaio 2019. InquadramentoIl legislatore non fornisce la nozione di “procedimento speciale”, ma l'esame dei diversi istituti delineati nel libro VI consente di cogliere, pur nella difformità e peculiarità del singolo meccanismo processuale, quei comuni tratti fisionomici che vengono a distinguere il rito speciale da quello ordinario e che si identificano in una connotazione negativa e precisamente la mancanza di uno dei segmenti fondamentali del processo: indagini preliminari, udienza preliminare e giudizio dibattimentale. In tale ottica, il patteggiamento si caratterizza per l'assenza della fase dibattimentale (se il procedimento viene attivato durante gli atti preliminari al dibattimento), dell'udienza preliminare (se richiesto avanti al G.u.p.) o addirittura della fase delle indagini preliminari (se la richiesta venga formulata tempestivamente, anche subito dopo l'iscrizione dell'indagato nel relativo registro, non riscontrandosi nella normativa la previsione di alcun termine iniziale). Lo schema del patteggiamento deriva dalla tradizione angloamericana (plea bargaining) ove, peraltro, l'istituto trova un'applicazione assai più generalizzata: secondo quel modello, prima del giudizio, l'accusato si dichiara colpevole dei fatti contestati e l'accusa rinuncia a provare i fatti, a formulare una richiesta di pena differente e a contestare ulteriori reati: a fronte dell'occorso, il giudice si limita a considerare la volontarietà e la consapevolezza della dichiarazione di colpevolezza dell'accusato e ad applicare la pena negoziata dalle parti, rimanendo ipotesi residuale quella del rigetto della richiesta per incongruità della sanzione o per inconsistenza dell'addebito. Modifiche introdotte dalla l. 9 gennaio 2019 n. 3Il legislatore, dopo aver ampliato, modificando l'art. 317-bis c.p., il catalogo dei reati per i quali la condanna alla pena della reclusione nella misura superiore ad anni due, importa l'interdizione dai pubblici uffici (precedentemente solo per i reati di cui agli artt. 314, 317, 319 e 319-ter c.p., ora anche per quelli di cui agli artt. 318, 319-bis, art. 319-quater comma 1, 320, 321, 322, 322-bis e 346-bis c.p.), prevedendo altresì l'incapacità in perpetuo di contrattare con la pubblica amministrazione salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio, ha scelto di affidare al giudice la valutazione circa l'applicazione delle sanzioni accessorie dell'interdizione dai pubblici uffici e dell'incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione nel caso di concessione della sospensione condizionale ovvero di applicazione della pena su richiesta. Nei procedimenti per i delitti previsti dagli artt. 314, comma 1, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater , comma 1, 320, 321, 322, 322-bis e 346-bis c.p., la parte, nel formulare la richiesta di applicazione pena, potrà subordinarne l'efficacia all'esenzione dalle pene accessorie previste dall'art. 317-bis c.p. ovvero all'estensione degli effetti della sospensione condizionale anche a tali pene accessorie: in questi casi, il giudice, se riterrà di applicare le pene accessorie ovvero riterrà che l'estensione della sospensione condizionale della pena non possa essere concessa, rigetterà la richiesta. In tema di reati contro la P.A., il patteggiamento, anche nella forma cd. allargata, preclude l'applicazione della riparazione pecuniaria di cui all'art. 322-quater cod. pen. poiché quest'ultima presuppone la pronunzia di una sentenza di condanna e non anche quella di applicazione di pena che, nel prescindere dall'accertamento positivo della penale responsabilità dell'imputato, è solo equiparata ad una pronuncia di condanna (Cass. VI, n. 33260/2021, nella quale la S.C. ha precisato che la riparazione pecuniaria ha natura di sanzione civile accessoria, sicché la sua applicazione in assenza dei presupposti di legge è riconducibile nell'ambito delle ipotesi di irrogazione di "pena illegale", con conseguente ammissibilità del ricorso per cassazione ai sensi del novellato art.448, comma 2-bis). La riforma CartabiaIl decreto legislativo n. 150 del 10 ottobre 2022, di attuazione della l. 27 settembre 2021, n. 134 recante delega al Governo per l'efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari, con l'art. 25 prevede che, quando la pena detentiva da applicare supera i due anni (la delimitazione si raccorda al disposto dell'art. 445, comma 1, là dove esonera espressamente l'imputato dall'applicazione delle pene accessorie in caso di patteggiamento ad una pena non superiore a due anni), l'accordo tra imputato e P.m. possa estendersi alle pene accessorie e alla loro durata e che, in tutti i casi di applicazione della pena su richiesta, l'accordo tra l'imputato e il P.m. possa estendersi alla confisca facoltativa e alla determinazione del suo oggetto ed ammontare. La novella è tesa ad ampliare l'ambito della negoziazione tra le parti, consentendo loro di definire – già in fase di preparazione del patto – l'intero quadro delle conseguenze sanzionatorie derivanti dalla sentenza e, dunque, di scongiurare statuizioni introdotte in via officiosa dal giudice, e la conseguente prevedibilità del dispositivo della sentenza dovrebbe fungere da incentivo alla definizione del procedimento con il rito de quo. La negoziazione in punto di pene accessorie assumerà una declinazione diversa a seconda che si tratti di pene accessorie previste come facoltative ovvero come obbligatorie; nel primo caso, l'accordo potrà investire sia l'an sia il quantum della pena accessoria, mentre nel secondo caso, potrà riguardare soltanto la durata della conseguenza secondaria, ove essa non sia già stabilita dalla legge. Giova ricordare che il codice già prevede la possibilità per le parti di concordare l'esclusione delle pene accessorie anche in caso di patteggiamento ad una pena detentiva non superiore ai due anni nei procedimenti per taluni dei delitti contro la P.A., nell'ipotesi prevista dal combinato disposto del comma 3-bis dell'art. 444 e dell'ultima parte del comma 1 e del comma 1-ter dell'art. 445. Il legislatore delegato, nell'inserire la previsione che l'imputato e il P.m. possono chiedere al giudice di non applicare le pene accessorie (non è fatto distinzione tra pene accessorie facoltative e pene accessorie obbligatorie) o di applicarle per una durata determinata “salvo quanto previsto dal comma 3-bis”, ha inteso tenere separata la nuova previsione da quella secondo la quale la parte, nel formulare la richiesta di patteggiamento nei procedimenti di cui alla citata previsione possa subordinarne l'efficacia all'esenzione delle pene accessorie previste dall'art. 317-bis c.p. ovvero all'estensione degli effetti della sospensione condizionale anche a tali pene accessorie (l'art. 166, primo comma, c.p. stabilisce che la sospensione condizionale della pena si estende alle pene accessorie, ma che, nel caso di condanna per i delitti anzidetti, il giudice possa disporre che la sospensione non estenda i suoi effetti alle pene accessorie dell'interdizione dai pubblici uffici e dell'incapacità di contrattare con la P.A.). In questi casi il giudice, qualora ritenga che le pene accessorie debbano essere applicate o che l'estensione della sospensione condizionale non possa essere concessa, deve rigettare la richiesta, come si verifica nel caso in cui la richiesta sia subordinata alla concessione della sospensione condizionale della pena. Va ricordato, inoltre, che, nei procedimenti per i delitti previsti dagli artt. 314, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quatere 322-bis c.p., l'ammissibilità della richiesta di patteggiamento è subordinata alla restituzione integrale del prezzo o del profitto del reato. Per come espressamente sottolineato nella Relazione illustrativa allo schema del decreto legislativo menzionato, la finalità perseguita dalla riforma è indubbiamente quella di stimolare l'accesso al rito alternativo, consentendo alle parti di far rientrare nell'accordo anche le pene accessorie e la confisca facoltativa ed affermando così «la piena negoziabilità del trattamento sanzionatorio penale nel suo complesso considerato» (così, Cass. S.U., n. 23400/2022), dando seguito al precedente di identico segno rappresentato dall'art. 1, comma 4, lett. d) della legge 9 gennaio 2019, n. 3, che aveva introdotto nell'art. 444 l'inedito comma 3-bis (che è stato espressamente conservato dalle modifiche apportate dal decreto al comma 1 del citato art. 444), il quale, ancorchè limitatamente ai procedimenti per i reati contro la P.A. selezionati dalla norma, ha consentito all'imputato di subordinare la propria richiesta alla «esenzione» dalle pene accessorie previste dall'art. 317-bis c.p. ovvero all'estensione alle stesse della sospensione condizionale, ma con effetto vincolante per il giudice. Con specifico riferimento alla confisca, la legge attribuisce alle parti la facoltà di accordarsi in ordine alla confisca facoltativa e alla determinazione del suo oggetto e ammontare in tutti i casi di applicazione della pena su richiesta: viene così codificata una prassi assai diffusa, secondo cui, nel patteggiamento, l'accordo delle parti può avere ad oggetto anche l'applicazione delle misure di sicurezza, personali e patrimoniali (Cass. S.U., n. 21368/2020). E, a seconda della situazione, la confisca potrà essere disposta in forma diretta (cd. confisca di proprietà) ovvero, in caso di impossibilità dell'aggressione in forma specifica, per equivalente (cd. confisca di valore). Peraltro, nonostante la delimitazione della negoziabilità alla sola confisca facoltativa, v'è da chiedersi se, in caso di confisca obbligatoria, non possa comunque ritenersi legittimo l'accordo fra le parti che abbia ad oggetto non l'an della misura di sicurezza patrimoniale, ma il quantum dell'ablazione. La possibilità di definire l'ambito dell'aggressione patrimoniale prevista come conseguenza obbligatoria – soprattutto nei casi in cui sia controverso l'esatto ammontare del prezzo o del profitto del reato e l'aggressione concerna somme rilevanti o bei di cospicuo valore – potrebbe invero rappresentare un significativo incentivo all'opzione per il rito alternativo, consentendo all'imputato di proteggersi da ablazioni disposte ex officio di entità indeterminata e non prevedibile: la praticabilità di tale via, del resto, non è esclusa dall'iter argomentativo a sostegno della pronuncia delle Sezioni unite n. 21368/2020, cit. Va ricordato che, dall'accordo fra le parti sulla confisca facoltativa, discendano dei limiti al ricorso per cassazione avverso la sentenza di patteggiamento. Sempre le Sezioni unite (sent. n. 21368/2020, cit.) hanno chiarito che la sentenza che applichi una misura di sicurezza è ricorribile negli stretti limiti di cui all'art. 448, comma 2-bis ove la misura sia stata oggetto dell'accordo tra le parti, mentre è ricorribile ai sensi della disciplina generale prevista dall'art. 606 ove si tratti di statuizione extra pactum. Nel caso in cui il patto includa anche le pene accessorie e/o la confisca, gli spazi valutativi riservati al giudice su detti punti verranno ad essere ridotti, analogamente a quanto accade in relazione alla pena principale: il giudice, investito della richiesta, si troverà dinanzi all'alternativa decisoria “secca” di recepire nella sentenza l'accordo nella sua integralità, cioè inclusivo di tutte le componenti di pena (principale e accessoria) e di confisca, ovvero di rigettare tout court la richiesta. Continuano a rimanere fuori dell'accordo le sanzioni amministrative accessorie, che, per giurisprudenza consolidata, avuto riguardo agli effetti, non sono negoziabili fra le parti e, conseguentemente, derivano de iure dal reato e legittimamente possono essere applicate ex officio dal giudice anche in caso di patteggiamento (Cass. S.U., n. 21369/2020; Sez. F, 24023/2020; Corte cost. ord. n. 25 e 264 del 1999). Anche a seguito della modifica dell'art. 444, comma 1, introdotta dall'art. 25, comma 1, lett. a), n. 1), d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, che ha previsto la possibilità di richiedere al giudice di non applicare le pene accessorie o di applicarle per una durata determinata, la clausola che determini il contenuto e la durata delle sanzioni amministrative accessorie deve ritenersi come non apposta, non essendo la loro applicazione nella disponibilità delle parti (Cass. IV, n. 48556/2023, in fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza di applicazione della pena per il delitto di omicidio stradale aggravato dallo stato di alterazione dovuto all'uso di alcool o di sostanze stupefacenti, con la quale il giudice, prescindendo dall'accordo delle parti, che prevedeva l'applicazione della sospensione temporanea del titolo abilitativo, aveva disposto, d'ufficio, la più grave sanzione della revoca della patente di guida, prevista in via automatica dall'art. 222, comma 2, cod. strada). Profili di diritto intertemporale In mancanza di diversa disposizione, trattandosi di norma processuale, si applica il principio del “tempus regit actum”. Si richiamano le considerazioni esposte nel par. 8.1 a commento dell'art. 438. La giustizia negozialeNell'accordo tra le parti sono rinvenibili tutti i requisiti del contratto esplicitati dall'art. 1325 c.c.: l'accordo delle parti, la causa, l'oggetto e la forma. Il giudice, infatti, avalla l'intesa, verificatane l'autenticità. L'esame sulla volontà dell'imputato e sui motivi del possibile dissenso del P.m. (art. 446, comma 6) è essenziale, stante l'importanza degli interessi in gioco: la funzione economico-individuale dell'accordo (la sua causa) è, da un lato, per l'inquisito, di ottenere una riduzione della pena, dall'altro, per l'accusatore, di contribuire alla deflazione dei carichi giudiziari (ciò che è desumibile dall'art. 444, comma 1). Oggetto dell'intesa sono sia la sanzione (da diminuirsi e da associarsi agli effetti dell'art. 445) unitamente alla qualificazione normativa del fatto e al giudizio di comparazione tra circostanze, che le sorti del procedimento, destinato, con l'accoglimento della convenzione, a una rapida fine, in largo anticipo rispetto ai tempi di fisiologica gestione degli affari giudiziari. La forma del contratto è scritta od orale in base al contesto, ex artt. 446 e 447. L'art. 1324 c.c., di analogica applicazione delle norme che regolano i contratti, si estende, così, ben oltre ‹‹gli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale››, giungendosi, con il patteggiamento, a regolare con una disciplina semi-privatistica i rapporti tra Stato e individuo in tema di libertà personale di quest'ultimo. Il carattere della “negozialità” dell'istituto ha trovato la sua formale legittimazione con la riforma dell'art. 111 Cost., che ha riconosciuto specifica rilevanza al consenso dell'imputato. Proprio con riferimento alla revisione costituzionale dell'art. 111 Cost. — con cui il legislatore ha abbandonato una sorta di “neutralità” per definire il volto costituzionale del processo penale — ed alle implicazioni sistematiche che ne discendono, la dottrina (Tonini, 2011, 111) ha osservato che la lettura tradizionale dell'art. 24, comma 2 Cost. che attribuisce valenza costituzionale al “diritto di difendersi provando” va correlata alle nuove esigenze della giustizia penale ed in particolare a quella di una durata ragionevole del processo, anch'essa tutelata dalla Carta costituzionale nonché alle varie forme di negoziazione introdotte nel sistema. L'oggetto dell'accordo ed il compito del giudiceLe parti chiedono al giudice di applicare una sanzione sostitutiva, una pena pecuniaria diminuita fino a un terzo, o una pena detentiva che, tenuto conto delle circostanze e ridotta fino a un terzo, non superi i cinque anni, da sola o congiunta a multa o ammenda. L'oggetto dell'accordo, quindi, è la pena da irrogarsi in relazione ai fatti addebitati all'imputato; vi rientrano anche le sanzioni sostitutive, ma non le misure cautelari o la richiesta di restituzione di cose sequestrate. Non possono formularsi alternative richieste di pena; è, tuttavia, ammissibile l'istanza ex art. 444 in subordine alla domanda per accedere ad altro rito. In definitiva, l'accordo ha un contenuto essenziale, che dev'essere considerato dal giudice e che si riduce a quanto specificato dall'art. 444, comma 1, cioè al solo trattamento sanzionatorio. L'art. 444, comma 1, parla di pene ‹‹diminuit[e] fino a un terzo››: la giurisprudenza, in particolare di merito, si era domandata se la norma si riferisse alla terza parte della pena in concreto o alla riduzione praticabile dal giudice. La S.C. ha optato per l'ultima ipotesi, negando validità all'accordo che accorci la pena oltre il limite dei suoi due terzi (Cass. S.U., n. 6179/1990). La Corte cost. n. 83/2024 ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 444, in riferimento all'art. 3 Cost., nella parte in cui, nel caso di applicazione della pena su richiesta delle parti per reati contravvenzionali, prevede la diminuzione della pena fino a un terzo, anziché fino alla metà. Nella pronuncia si afferma che “… la scelta operata con la legge n. 103 del 2017 – di incrementare alla metà la riduzione di pena connessa al giudizio abbreviato quando si proceda per contravvenzioni, senza operare un corrispondente incremento dello sconto di pena connesso al patteggiamento – deve essere considerata … espressiva dell'ampia discrezionalità che … compete al legislatore nella disciplina degli istituti processuali, il cui esercizio è censurabile solo ove decampi nella manifesta irragionevolezza o nell'arbitrio (ex plurimis, sentenze n. 67 del 2023, n. 230 e n. 74 del 2022, n. 95 del 2020 e n. 155 del 2019). Evenienza, questa, non ravvisabile nella specie, posto che l’incremento in questione, se accresce l’incentivo all’accesso al giudizio abbreviato, non appare tale da compromettere, di riflesso, la convenienza del patteggiamento, tenuto conto della struttura di tale ultimo rito e del corposo insieme di altri vantaggi che esso assicura”. La S.C. ha optato per l'ultima ipotesi, negando validità all'accordo che accorci la pena oltre il limite dei suoi due terzi (Cass. S.U., n. 6179/1990). Sulla natura della diminuente è assolutamente da escludersi che si tratti di circostanza attenuante: non entra, così, in bilanciamento con eventuali aggravanti, né prevale su di esse, non inibendone, quindi, l'effetto aumentativo della pena di cui si terrà conto nella stipula dell'accordo (Cerqua, 1702). Si guarderà, invece, alla sanzione diminuita ex art. 444, comma 1, ai fini dell'applicazione delle pene accessorie (per il giudizio abbreviato, v. Cass. S.U., n. 4/1998: medesimi argomenti valgono per il patteggiamento). Eventuali errori di calcolo o materiali rilevano solo in quanto esorbitino i limiti imposti dal codice determinando una pena illegale: l'accordo delle parti verte non sulla pena inizialmente individuata, né sui passaggi successivi (bilanciamento delle circostanze, computo della continuazione e di altri accidentalia delicti, riduzione per il rito, ecc.); il giudice è tenuto al controllo del risultato finale in rapporto alle prescrizioni dell'art. 444, comma 1, e non delle scelte di parte sulla pena iniziale e sulla quantità ridotta, purché compresa nel limite di un terzo. In tal senso, Cass. S.U., n. 877/2023 hanno ritenuto che la pena determinata a seguito dell'erronea applicazione del giudizio di comparazione tra circostanze eterogenee è illegale soltanto nel caso in cui essa ecceda i limiti edittali generali previsti dagli artt. 23 e ss., nonché 65 e 71 e ss., c.p., oppure i limiti edittali previsti per le singole fattispecie di reato, a nulla rilevando il fatto che i passaggi intermedi che portano alla sua determinazione siano compiuti in violazione di legge. Peraltro, altra giurisprudenza ha ritenuto che, oltre al giudizio di congruità della pena da compiere sul risultato finale dell'accordo, il giudice sia anche tenuto a verificare la legalità del procedimento di computo, ossia a verificare la correttezza dell'applicazione e della comparazione delle circostanze (imposta dall'art. 444, comma 2), la conformità a criteri legali degli aumenti e delle diminuzioni di pena (Cass. III, n. 12691/2019) e, più in generale, la legittimità della stessa scansione temporale delle singole operazioni di calcolo. La domanda di liquidazione delle spese a favore della parte civile è estranea all'accordo tra il P.m. e l'imputato ed è oggetto di un autonomo capo della sentenza che deve essere adeguatamente motivato dal giudice quanto alle singole voci riferibili all'attività svolta dal patrono di parte civile e alla congruità delle somme liquidate (Cass. IV, n. 3756/2020). Si è affermato che il danneggiato è legittimato a costituirsi parte civile in udienza preliminare anche laddove l'imputato abbia precedentemente depositato in cancelleria la richiesta di applicazione della pena munita del consenso del pubblico ministero, sì che il giudice deve provvedere anche sulla regolamentazione delle relative spese di costituzione (Cass. S.U., n. 16403/2024). Con riferimento alle sanzioni sostitutive, ci si chiede se la riduzione per il rito valga o meno pure per loro (Peroni, 2003, 1067). Sulla base degli insegnamenti giurisprudenziali, si ritiene che le parti dovranno prima calcolare la sanzione detentiva o pecuniaria con la diminuzione dell'art. 444, comma 1, e, poi, in rapporto al risultato finale, applicare la pena sostitutiva secondo la l. n. 689/1981, senza operare su di essa alcuna ulteriore diminuzione (Cass. S.U., n. 295/1994). Il tenore letterale della norma conferma, invero, questa conclusione. L'art. 444, comma 1, parla, sì, di sanzioni sostitutive, ma il sintagma ‹‹diminuita fino a un terzo›› si riferisce alla sola pena pecuniaria, essendo il participio al singolare e all'interno di una proposizione incidentale, subito dopo il riferimento a multa e ammenda. Dubbia è, invece, l'ammissibilità del cd. patteggiamento parziale: un primo orientamento lo nega, essendo incompatibile con la finalità del rito alternativo di favorire la rapida conclusione del procedimento (Cass. II, n. 6703/2006); secondo altra posizione, invece, è legittimo ogni volta in cui i reati non siano riconducibili ad un'unica realtà fattuale: così, se non c'è continuazione o concorso formale, le parti possono sottoporre al giudice un accordo sulla pena solo per alcuni addebiti, svolgendosi per gli altri l'iter ordinario (Cass. VI, n. 22427/2008). La S.C. ha ritenuto che, in tema di reati transnazionali, sia legittimo che, con la sentenza di patteggiamento, venga disposta la confisca per equivalente ex art. 11 della l. 16 marzo 2006, n. 146, atteso che il legislatore, nel recepire la Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale del 15 dicembre 2000, ha utilizzato il medesimo riferimento alla “condanna” adottato dalla Convenzione, senza alcun richiamo ad uno specifico modello procedimentale e, dunque, da intendersi come comprensivo anche della sentenza ex art. 444 (Cass. II, n. 16100/2019). V'è contrasto giurisprudenziale in ordine alle conseguenze dell'intervenuta abrogazione di un reato ricompreso tra quelli per i quali era intervenuto l'accordo negoziale: ad un orientamento che propugna la necessità di procedere all'annullamento parziale della sentenza, espungendo dall'accordo complessivo la frazione di pena afferente al reato abrogato, allorquando questa sia perfettamente individuabile (come nell'ipotesi in cui il reato abolito non sia quello sul quale è stata calcolata la pena base bensì quello in relazione al quale sia stato effettuato l'aumento di pena ex art. 81 c.p.) e non comportando la sua elisione una necessaria revisione dell'intero accordo (cfr., Cass. II, n. 40259/2017), si contrappone altro orientamento secondo cui in una fattispecie del genere, il patto deve ritenersi sciolto, imponendosi conseguentemente l'annullamento totale della sentenza per consentire una possibile nuova riformulazione del negozio processuale, in ossequio del principio di inscindibilità dell'accordo raggiunto tra le parti ostativo ad una sua rivisitazione parziale (cfr., Cass. III, n. 40522/2015). Il contrasto, ancorchè non espressamente devoluto, è stato risolto dalle Sezioni Unite (Cass. S.U., n. 40256/2018) secondo cui, il venir meno di uno dei termini essenziali dell'accordo per abrogazione di uno dei delitti in contestazione, non impone l'annullamento della sentenza nella sua interezza in vista di una nuova riformulazione dell'accordo che tenga conto della sopravvenienza, ma, al contrario, consente di espungere direttamente dall'accordo negoziale quella parte di pena – peraltro solo se perfettamente individuabile, come nell'ipotesi che la pena per il delitto abolito non costituisca la pena-base dell'accordo bensì una frazione dell'aumento di pena per la continuazione – applicata in relazione al delitto successivamente abrogato. Evidenzia il giudice di legittimità come, in tal caso, l'eliminazione di pena, lungi dal determinare conseguenze sull'accordo in generale precedentemente intervenuto (non essendovi motivo per ritenere che l'accordo raggiunto fra le parti sulle residue condotte sarebbe stato diverso), già potrebbe essere di competenza della Suprema Corte qualora ci si trovasse nella fase dell'esecuzione della pena; inoltre, la soppressione diretta della pena afferente il delitto abrogato finisce sempre e comunque per risolversi in una decisione favorevole per l'imputato, comportando comunque una riduzione della misura della sanzione da lui stesso precedentemente accettata. La motivazione della sentenza di applicazione della pena su richiesta deve essere depositata contestualmente alla pronuncia; qualora la motivazione non sia depositata contestualmente, anche per l'irrituale indicazione in dispositivo di un termine per il deposito, il termine di quindici giorni per l'impugnazione della sentenza pronunciata in camera di consiglio decorre – esclusa qualsiasi nullità della sentenza stessa ed indipendentemente dal fatto che il termine irritualmente indicato dal giudice sia stato o meno osservato – dall'ultima notificazione o comunicazione dell'avviso di deposito del provvedimento (Cass. S.U., n. 40986/2018). E' stata ritenuta inammissibile per manifesta infondatezza la questione di legittimità costituzionale, in relazione agli artt. 27 e 111 Cost., della disciplina in tema di revisione della sentenza di patteggiamento, nella interpretazione che, per simmetria, impone di valutare le prove nuove o sopravvenute secondo la regola di giudizio di cui all'art. 129, comma 1, propria del patteggiamento, atteso che il consenso prestato per la definizione del processo con l'applicazione della pena implica l'accettazione integrale del relativo "statuto" anche per la fase di revisione (Cass. V, n. 12096/2021). Il patteggiamento allargatoÈ l'accordo per applicare una pena detentiva che, sola o congiunta a sanzione pecuniaria, superi i due anni ma non i cinque. Le sue caratteristiche si ricavano per via residuale dal patteggiamento ordinario: l'allargato, infatti, non dà diritto all'esenzione da spese processuali, misure di sicurezza e pene accessorie, né all'estinzione del reato ex art. 445, comma 2; dall'accesso al rito deriva solo la riduzione della pena in concreto fino a un terzo. L'estensione dei confini della giustizia negoziale non veniva condivisa dalla dottrina, preoccupata del possibile accesso al patteggiamento da parte degli accusati di reati anche molto gravi e suscitanti un pesante allarme sociale (cfr., Kostoris, 4; Peroni, 2006, II, c. 18). Già la l. n. 134/2003, per ovviare al problema, aveva escluso dall'applicazione dell'art. 444, comma 1, ‹‹i procedimenti per i delitti di cui all'art. 51, commi 3-bis e 3-quater nonché quelli contro coloro che siano stati dichiarati delinquenti abituali, professionali e per tendenza, o recidivi ai sensi dell'art. 99, comma 4, c.p., qualora la pena superi due anni soli o congiunti a pena pecuniaria›› (così il nuovo comma 1-bis dell'art. 444); rimanevano, però, illeciti parimenti gravi quali quelli di violenza sessuale o di pedofilia. La l. 6 febbraio 2006, n. 38 è intervenuta nuovamente sull'art. 444, inibendo il patteggiamento agli accusati di: a) prostituzione minorile (art. 600-bis, commi 1 e 3, c.p.); b) pornografia minorile (art. 600-ter, commi 1, 2, 3 e 5, c.p.); c) detenzione di materiale pornografico (art. 600-quater, comma 2, c.p.); d) pornografia virtuale (art. 600-quater, comma 1, c.p.); e) violenza sessuale (artt. 609-bis e 609-ter c.p.); f) atti sessuali con minorenne (art. 609-quater c.p.); g) violenza sessuale di gruppo (art. 609-octies c.p.). Ad oggi rimane comunque ampia la zona del patteggiamento allargato: al di là delle esclusioni dell'art. 444, comma 1-bis, è negoziabile la pena per reati punibili in concreto con la reclusione fino a sette anni e mezzo o, addirittura, prevalendo le attenuanti sulle aggravanti, fino a undici anni.
Qualora una sentenza di condanna in grado di appello venga annullata con rinvio limitatamente all'applicazione della recidiva reiterata (essendo intervenuto, prima di tale sentenza, un provvedimento di unificazione ex art. 671 delle due condanne che avevano fondato la contestazione della predetta forma di recidiva), il giudice del rinvio è tenuto a procedere ad un nuovo giudizio di comparazione delle circostanze e alla eventuale rideterminazione del trattamento sanzionatorio, dovendo invece escludersi la possibilità di rivalutare la fondatezza della richiesta di patteggiamento "allargato", rigettata in primo grado per la contestazione della recidiva reiterata (Cass. IV, n. 3377/2016; nello stesso sostanziale senso, Cass. II, n. 12408/2020, in fattispecie – peraltro, in parte, differente – nella quale il G.i.p. aveva respinto una prima richiesta di patteggiamento in presenza di contestazione di recidiva reiterata; il Tribunale, in predibattimento, aveva respinto una seconda richiesta di patteggiamento a pena diversa richiamando il medesimo motivo ostativo rilevato dal G.i.p.; infine, il Tribunale, in sentenza, confermata in appello, aveva escluso la recidiva reiterata, senza tuttavia accogliere la richiesta di patteggiamento rilevando come, quand'anche nella seconda richiesta non si fosse tenuto conto ai fini del calcolo della pena della recidiva reiterata, nondimeno la pena indicata dalle parti non poteva ritenersi congrua in relazione al reale disvalore del fatto. Da qui la riaffermazione del principio secondo cui il giudice di primo grado aveva legittimamente rigettato la richiesta di patteggiamento allargato, perché "si trovava di fronte un imputato gravato da una recidiva reiterata che riteneva di non poter escludere dandone adeguata motivazione"; l'evento – esclusione della recidiva reiterata – conseguito all'esito dell'accertamento compiuto in sede di giudizio, non poteva far conseguire l'effetto voluto dalle parti, ossia quello di far retroagire il processo dal momento che la stessa era ormai superata. Inoltre, si è riconosciuto come anche una rivalutazione dell'operato del Tribunale da parte della Corte territoriale, ai fini di un eventuale sconto di pena da riconoscersi ex post, non avrebbe potuto far altro che rivalutare il diniego del Tribunale alla luce dei dati disponibili al momento della proposizione della richiesta di applicazione di pena dal momento che l'istante, in quel momento, era gravato a tutti gli effetti da una recidiva reiterata). In tema di patteggiamento cd. "allargato", anche a seguito della modifica dell'art. 444, comma 1, introdotta dall'art. 25, comma 1, lett. a), n. 1, d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, che ha previsto la possibilità di richiedere al giudice di non applicare le pene accessorie o di applicarle per una durata determinata, è ammissibile il ricorso per cassazione avverso la sentenza per censurare l'omessa applicazione di una pena accessoria, che debba essere obbligatoriamente disposta e non abbia formato oggetto di diverso accordo tra le parti (Cass. III, n. 4768/2024). Non di meno qualora le parti si siano accordate per l'esclusione delle pene accessorie ovvero sulla loro commisurazione, qualora il giudice ritenga in tale parte l'accordo non accoglibile, dovrà rigettare il patteggiamento nella sua interezza e non potrà limitarsi a recepirlo nella parte relativa alla pena principale negoziata. Si pone, dunque, il problema di stabilire l'esatta estensione della disposizione introdotta dalla novella ed in particolare è necessario interrogarsi se l'ampliamento del potere negoziale delle parti riguarda tutte le pene accessorie ovvero solo quelle la cui applicazione è rimessa alla decisione del giudice. Interrogativo che sorge in ragione del fatto che la previsione dell'obbligo di applicare una determinata pena accessoria potrebbe ritenersi idoneo a ridimensionare l'ambito dell'inedito potere negoziale attribuito alle parti dalla riforma, alla luce del fatto che il novellato primo comma dell'art. 444 nulla specifica in merito. Interrogativo che deve essere sciolto nel senso che rientra nel potere negoziale delle parti anche l'applicazione delle pene accessorie obbligatorie (Cass. V, n. 21177/2024). In tal senso, si è sostenuto che l'apparente ambiguità della nuova disposizione viene immediatamente dissolta dal confronto con un altro dato testuale ricavabile dallo stesso secondo periodo del primo comma dell'art. 444, nel quale la facoltà di negoziare con effetto vincolante per il giudice anche sull'an e sul quantum della confisca viene espressamente perimetrata alle ipotesi di confisca facoltativa. È dunque allora evidente che la mancata espressa limitazione in senso analogo dell'accordo sulle pene accessorie rivela l'intenzione del legislatore di consentire alle parti di accordarsi di escludere anche quelle che devono essere altrimenti disposte obbligatoriamente. Conclusione che trova conferma sul piano sistematico dal confronto con l'art. 445, comma 1, il quale vieta l'applicazione delle pene accessorie in caso di patteggiamento ad una pena detentiva non superiore ai due anni e che per consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità deve essere interpretato nel senso per cui il suddetto divieto riguarda anche le pene accessorie obbligatorie (Cass. V, n. 10988/2020). Risulta così evidente la simmetria della scelta legislativa, tesa a parificare, attraverso il ricorso a formule testuali identiche, l'effetto premiale nelle due forme di patteggiamento, nell'ottica dell'incentivazione del ricorso anche a quello cd "allargato". Patteggiamento e delitti contro la p.a. nella l. 27 maggio 2015, n. 69
Il presupposto della restituzione dei proventi illeciti Con l'art. 6 della l. n. 69/2015 s'inserisce nell'art. 444, il comma 1-ter, in base al quale per specifiche tipologie di reati contro la pubblica amministrazione — si tratta dei delitti previsti dagli artt. 314, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater e 322-bis c.p. — l'accesso al rito è subordinato alla restituzione integrale del prezzo o del profitto del reato. La variante introdotta genera non pochi dubbi interpretativi. In particolare, oltre a talune questioni inerenti alla dimensione operativa e all'incidenza pratica dell'impegno restitutorio, emergono nodi problematici in rapporto a due istituti preesistenti — il sequestro preventivo (art. 321, comma 2-bis) e la confisca (art. 322-ter c.p.) — e ad una nuova realtà normativa, costituita dalla riparazione pecuniaria (art. 322-quater c.p.). L'operata restituzione integrale del prezzo o del profitto del reato si pone pertanto come una condicio sine qua non, per chiudere la vicenda penale attraverso il rito deflattivo. L'obbligo restitutorio, peraltro, prescinde dall'entità della pena applicata e si prospetta, quindi, anche qualora la sanzione oggetto dell'accordo fra le parti non superi la soglia dei due anni di pena detentiva. Da una prospettiva “esterna” di raffronto sistematico, il particolare nuovo presupposto, introdotto nell'art. 444, comma 1-ter, costituito dalla previa restituzione di quanto indebitamente percepito, contraddistingue la sentenza applicativa di pena rispetto alle pronunce di condanna, in rapporto alle quali si prospetta, invece, la riparazione pecuniaria (art. 322-quater c.p.). Quest'ultima, rappresenta una specifica misura sanzionatoria, che si pone in termini obbligatori soltanto nel caso di condanna. Inducono a concludere in questo senso due considerazioni: in primo luogo, a differenza dell'art. 322-ter c.p., relativo alla confisca, manca nell'art. 322-quater c.p., che prevede la nuova misura, un espresso richiamo alla sentenza applicativa della pena su richiesta delle parti; l'esclusiva pertinenza della riparazione pecuniaria alla pronuncia di condanna emerge, inoltre, dagli stessi lavori parlamentari. Infatti, l'originaria versione del testo dell'art. 322-quater c.p. nel d.d.l. A.S. n. 19 (Disposizioni in materia corruzione, voto di scambio, falso in bilancio e riciclaggio) prevedeva la riparazione pecuniaria anche con riguardo alla sentenza ex art. 444; successivamente, si è inteso sopprimere nella norma sostanziale il richiamo alla riparazione anche per il procedimento speciale in discorso per la ragione che l'accesso al patteggiamento era stato subordinato al presupposto della restituzione. In tal senso la S.C. ha riconosciuto come, in tema di reati contro la P.A., il patteggiamento, anche nella forma cd. allargata, preclude l'applicazione della riparazione pecuniaria di cui all'art. 322-quater c.p., poiché quest'ultima presuppone la pronunzia di una sentenza di condanna resa a seguito di rito ordinario o abbreviato, avendo la riparazione pecuniaria natura di sanzione civile accessoria, di tal che la sua applicazione, in assenza dei presupposti di legge, è riconducibile nell'ambito delle ipotesi di irrogazione di “pena illegale”, con conseguente ammissibilità del ricorso per cassazione ai sensi del novellato art. 448, comma 2-bis (Cass. VI, n. 12541/2019). Ai fini della sussistenza del requisito di ammissibilità dell’integrale restituzione del prezzo o del profitto dei reati contro la P.A. previsti dall’art. 444, comma 1-ter, non rileva la circostanza che essa sia avvenuta ad opera di un terzo (Cass. VI, n. 27606/2019, in cui si è precisato che l’onere economico può non essere sopportato personalmente dall’imputato in quanto l’anzidetto requisito di ammissibilità non ha natura sanzionatoria, ma carattere processuale). L'inserimento del nuovo requisito d'accesso segna la distanza del patteggiamento dal giudizio abbreviato, la cui ammissibilità, nella forma condizionata, resta legata a parametri probatori, ma risulta sempre svincolata da qualunque limite soggettivo od oggettivo. A prima vista, l'introduzione dell'obbligo restitutorio sembra soltanto convalidare prassi preesistenti dirette a sollecitare comportamenti collaborativi finalizzati ad assicurare la confisca di quanto illecitamente percepito, rappresentando un ulteriore ostacolo sulla via del patteggiamento. Alla luce del nuovo quadro sanzionatorio relativo ai delitti contro la P.A., però, il fatto che, a differenza della sentenza di condanna, l'applicazione della pena su richiesta delle parti non comporti anche la riparazione pecuniaria, pare costituire non certo un freno, ma, al contrario, un motivo in più per ricorrere al rito speciale. La (previa) restituzione integrale del prezzo o del profitto del reato consentirebbe, infatti, di chiudere la vicenda penale evitando quell'ulteriore (successivo) esborso — che si configura in termini obbligatori ex art. 322-quater c.p. e si aggiunge alla confisca imposta ex art. 322-ter c.p. — costituito dal “pagamento di una somma pari all'ammontare di quanto indebitamente ricevuto dal pubblico ufficiale o dall'incaricato di un pubblico servizio”. Per effetto della modifica apportata all'art. 165 c.p., alla riparazione pecuniaria resterebbe invece sempre subordinata la sospensione condizionale anche quando il beneficio costituisca un elemento dell'intesa fra le parti o una condizione per l'efficacia dell'accordo (art. 444, comma 3): di conseguenza, per tutte le fattispecie delittuose indicate nell'art. 165, comma 4 c.p. — fatta salva l'ipotesi di corruzione di persona incaricata di pubblico servizio (art. 320 c.p.), non richiamata espressamente dall'art. 444, comma 1-ter — oltre alla restituzione integrale del prezzo o del profitto del reato, cui è vincolato l'accesso al rito premiale, si prospetta anche l'ulteriore onere rappresentato dal previo pagamento di una somma equivalente al profitto del reato o all'ammontare di quanto indebitamente percepito dal pubblico ufficiale, al fine di guadagnare il beneficio della sospensione condizionale della pena. L'ambito applicativo Dall'elenco dei delitti sopra elencati per i quali è consentito il rito speciale subordinatamente alla restituzione integrale del prezzo o del profitto del reato. rimangono escluse altre fattispecie criminose ai danni della P.A. previste sempre nel capo I, titolo II, libro II del codice penale. Si tratta di: peculato mediante profitto dell'errore altrui (art. 316); malversazione a danno dello Stato (art. 316-bis); indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato (art. 316-ter); corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio (art. 320). Per tutti questi altri delitti — sempre che la pena sia suscettibile di rientrare nell'ambito della soglia prevista per il patteggiamento — è pertanto da escludersi la rilevanza espressa della indicata condizione di accesso al rito. Tuttavia, quanto indebitamente percepito — denaro o altra utilità (art. 316), contributi, sovvenzioni o finanziamenti (art. 316-bis), contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni (art. 316-ter) — verrà comunque sottoposto a confisca: infatti, ai sensi dell'art. 322-ter, comma 1 c.p., nel caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti per i delitti previsti dagli artt. 314-320 c.p. è sempre ordinata la misura ablativa dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo del reato, a meno che appartengano a persona estranea al reato; quando invece non sia possibile la confisca di tali beni, sarà disposta la surrogatoria forma della confisca per equivalente. Il recupero dei proventi della corruzione è disposto, perciò, con sentenza e il giudice, in base all'art. 322-ter, comma 3 c.p., nel disporre la confisca è tenuto a determinare specificamente le somme di denaro e ad individuare i beni da sottoporre a vincolo. In sintesi, in rapporto al patteggiamento e in base all'innovato quadro normativo, i delitti risultano così ripartiti: per quelli di cui agli artt. 314, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, 322-bis c.p. si prospetta un “accesso vincolato” alla restituzione; per quelli di cui agli artt. 316, 316-bis, 316-ter, 320 c.p. si profila invece un “accesso libero”, ferma restando la confisca disposta dal giudice con la sentenza applicativa di pena. Ulteriori indicazioni si traggono, sul piano operativo, allorché si consideri che nel comma 1-ter dell'art. 444 non risulta espressamente richiamato, a differenza di quanto previsto per la sospensione condizionale della pena, l'art. 320 c.p. Dall'omissione di uno specifico riferimento a questa disposizione, secondo la quale i delitti di corruzione per l'esercizio della funzione (art. 318 c.p.) e per un atto contrario ai doveri d'ufficio (art. 319 c.p.) possono riferirsi anche all'incaricato di pubblico servizio, consegue che, in rapporto a quest'ultimo, la condizione di accesso al patteggiamento, si riferisce soltanto ai delitti di peculato (art. 314 c.p.), di concussione (art. 317 c.p.), di induzione indebita a dare o promettere utilità (art. 319-quater c.p.), e, nei limiti in cui tale posizione rileva, di peculato, concussione, induzione indebita a dare o promettere utilità, corruzione e istigazione alla corruzione di membri della Corte penale internazionale o degli organi delle Comunità europee e di funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri (art. 322-bis c.p.). Invece, in virtù dell'esplicito riferimento (anche) all'art. 320 c.p., nei confronti dell'incaricato di pubblico servizio, nelle fattispecie di corruzione di cui agli artt. 318 e 319 vale la previsione per cui con la sentenza di condanna (art. 322-ter c.p.) è ordinato il pagamento di una somma a titolo di riparazione pecuniaria; tale riparazione, peraltro, si pone, come si è detto, quale specifica condizione per poter fruire del beneficio della sospensione condizionale (art. 165, comma 4, c.p.). La scelta legislativa operata con riguardo all'incaricato di pubblico servizio è discutibile, in quanto il trattamento differenziato in rapporto al patteggiamento non pare del tutto giustificato. Inoltre, il mancato richiamo a quella disposizione — l'art. 321 — che viene ad estendere al corruttore le pene previste — nel primo comma dell'art. 318, negli artt. 319, 319-bis, 319-ter, e nell'art. 320 c.p. in relazione alle fattispecie di cui agli artt. 318 e 319 (corruzione per l'esercizio della funzione e corruzione in atti giudiziari) — per il corrotto pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio comporta che il nuovo requisito d'accesso al patteggiamento non riguarda il privato corruttore, che, quale intermediario, abbia trattenuto per sé parte del prezzo o del profitto, ma solo il funzionario pubblico corrotto. In definitiva, soltanto se provvede alla “restituzione”, il funzionario pubblico corrotto è ritenuto meritevole di una soluzione concordata da cui consegue un trattamento penale più favorevole. Peraltro, l'assenza di un riferimento espresso all'art. 321 c.p., si riscontra anche negli artt. 322-quater e 165, comma 4 c.p., laddove prevedono, rispettivamente, il pagamento di una somma a titolo di riparazione pecuniaria in favore dell'amministrazione quale statuizione ulteriore della sentenza di condanna o condizione specifica a cui è subordinata la sospensione condizionale della pena. Per il privato corruttore vale, comunque, la previsione della confisca di cui all'art. 322-ter, che richiama espressamente l'art. 321 c.p. Nella prospettiva aperta dal mancato richiamo all'art. 321 c.p., che limita l'operatività del vincolo restitutorio e della sanzione riparatoria soltanto nei confronti del funzionario pubblico, risulterebbe ingiustificata, nonostante “il richiamo integrale” agli artt. 319-quater e 322-bis c.p., ogni diversa soluzione diretta a porre limiti al patteggiamento anche nei confronti del privato corruttore nelle due figure delittuose, di induzione indebita a dare o promettere utilità e di corruzione internazionale, previste dalle disposizioni appena citate. Sussiste l'interesse dell'imputato a proporre ricorso per cassazione avverso la sentenza di patteggiamento emessa "de plano", anziché previa fissazione di udienza camerale, anche nel caso di applicazione della pena nei termini indicati dalle parti, qualora il predetto rappresenti la volontà di interloquire in ordine alla destinazione dei beni in sequestro, rimasta estranea all'accordo ex art. 444 (Cass. III, n. 10100/2024). I contenuti del vincolo Il riferimento alla restituzione, proprio in quanto rapportata al “prezzo” o al “profitto” del reato, non corrisponde a quell'obbligo di natura civile derivante da reato, considerato dall'art. 185 c.p., che comporta la riconsegna di quanto sottratto e il ripristino della situazione preesistente. Va tenuto in conto che, a livello normativo, è escluso dal patteggiamento ogni profilo risarcitorio, tanto che se vi è costituzione di parte civile, il giudice non decide sulla relativa domanda (art. 444, comma 2). Anche se non si può negare che, nella prassi, provvedere al risarcimento del danno, o almeno adoperarsi in tal senso, costituisce implicito presupposto per l'adesione del P.m. alla proposta di patteggiamento dell'imputato, l'avvenuto risarcimento non mai ha rappresentato, espressamente, un'ulteriore condizione di ammissibilità del rito: ciò, infatti, implicherebbe la compenetrazione, fra i presupposti dell'accordo, di un elemento eccentrico rispetto alla logica di fondo che pospone le esigenze di tutela della parte civile e all'impianto strutturale che resiste a contaminazioni con obblighi civili derivanti da reato. E così la giurisprudenza ha ritenuto, per un verso, che sia ingiustificato il dissenso del P.m. motivato esclusivamente dal mancato risarcimento (v. Cass. IV, n. 10393/2000) e, per altro verso, che il giudice non possa apporre una condizione non prevista e così modificare unilateralmente i termini dell'accordo, subordinando la concessione della sospensione condizionale della pena alla restituzione del bene o al risarcimento del danno. La restituzione in parola assume, invece, diretto rilievo penale, in quanto essa è tesa ad elidere le conseguenze dannose del reato ed è, quindi, inerente al c.d. danno criminale. L'oggetto della restituzione, infatti, individuato mediante il riferimento al “prezzo” o al “profitto” del reato, viene a corrispondere a quello della confisca ex art. 322-ter c.p. Posto che, in relazione a quei beni di cui è consentita la confisca, il giudice è tenuto a disporre il sequestro preventivo — previsto dall'art. 321, comma 2-bis in relazione ai procedimenti per delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A. — l'atto della restituzione si prospetta come requisito di carattere processuale relativo alla formale “offerta” di quanto, in pratica, potrebbe essere già stato oggetto di sequestro preventivo in funzione della futura misura ablativa ex art. 322-ter c.p. In sostanza, attraverso la restituzione si viene ad assicurare ex ante — mettendo a disposizione quanto illecitamente percepito — ciò che solo ex post — mediante l'esecuzione della confisca disposta con la pronuncia della sentenza applicativa della pena concordata — può realizzarsi. A differenza di quanto previsto per la riparazione pecuniaria — per cui viene espressamente previsto che sia disposta “in favore” dell'amministrazione cui il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio appartiene o, nel caso di corruzione in atti giudiziari, dell'amministrazione della giustizia — la restituzione qui in esame non vede analoga specifica destinazione. Essa, da questo punto di vista, sembra avere destinazione analoga a quanto oggetto di confisca, e perciò i beni vengono acquisiti al patrimonio dello Stato e le somme di denaro versate al Fondo unico di giustizia. Il riferimento alla restituzione correlato al prezzo e al profitto, d'altra parte, pare assorbire soltanto le ipotesi in cui vi sia stato un corrispettivo — e non solo la promessa di denaro o altra utilità — che abbia valore e sia valutabile sul piano economico: si verrebbe così ad escludere il rilievo dell'impegno restitutorio quando l'utilità o il vantaggio conseguiti non abbiano una connotazione economica perché si tratta di favori non monetizzabili o perché quanto indebitamente percepito o conseguito non è “qualificabile o quantificabile sotto il profilo materiale”. La restituzione, che implica la determinazione del prezzo e del profitto da parte dell'organo inquirente, deve essere “integrale”: questa precisazione, che qualifica in termini effettivi e totali l'adempimento da parte dell'imputato, induce, in primo luogo, a ipotizzare la possibilità che, come per la confisca, si prefiguri anche una restituzione per equivalente, ossia per un valore corrispondente al prezzo o profitto del reato, in chiave surrogatoria quando non sia possibile la confisca ordinaria. In questa prospettiva, si aprono ulteriori fronti problematici, relativi alla possibilità che alla restituzione si possa provvedere anche con il contributo di terzi. Se è certamente ostativo all'accesso al rito il fatto che l'imputato non possa provvedere integralmente alla restituzione, resta da definire se, nel caso di concorso di persone, sia sufficiente una restituzione parziale, per quanto personalmente ricevuto, oppure se essa debba essere comunque totale, e quindi diretta a consentire l'intero recupero del profitto o del prezzo del reato. Il raffronto con le disposizioni relative alla sospensione condizionale della pena, per cui il beneficio è subordinato “al pagamento di una somma equivalente al profitto del reato ovvero all'ammontare di quanto indebitamente percepito” a titolo riparazione pecuniaria in favore dell'amministrazione lesa, può indurre a ritenere che, nel caso di patteggiamento, sia la mancata specificazione di una restituzione che possa essere soltanto limitata a quanto percepito da chi intenda patteggiare, sia il riferimento al suo carattere “integrale”, impongano la restituzione per intero. Sarebbe quindi da escludersi che con il patteggiamento si recuperino solo pro quota i proventi del reato. L'incidenza sull'accordo e le verifiche giudiziali Per i delitti contro la P.A. indicati dall'art. 444, comma 1-ter, la mancata restituzione, o la restituzione non integrale, legittima il dissenso del P.m.; analogo discorso, rapportato alla riparazione pecuniaria, vale nel caso in cui la richiesta della sospensione condizionale avanzata ex art. 444, comma 3, non sia accompagnata dal pagamento di una somma pari a quanto indebitamente ricevuto dal funzionario pubblico a titolo di riparazione pecuniaria. La ragionevolezza della mancata adesione del P.m., ostativa alla realizzazione dell'accordo, sarà oggetto di controllo giudiziale, secondo le cadenze che consentono all'imputato di provocare subito un prima verifica in limine judicii, ed offrono poi successive occasioni di verifica, in esito al dibattimento e al giudizio d'impugnazione. Nell'intesa dovrebbero essere previamente determinate dalle parti “le somme di denaro” o individuati “i beni assoggettabili a confisca in quanto costituenti il profitto o il prezzo del reato ovvero in quanto di valore corrispondente” agli stessi; diversamente, nel caso di condanna, è il giudice a operare tali determinazioni, in linea con quanto previsto dall'art. 322-ter c.p. Già prima della riforma, vi sono state affermazioni giurisprudenziali nel senso di ricomprendere nell'accordo anche l'individuazione dei beni o valori soggetti a confisca. È da ritenere, però, che, al di fuori dei casi in cui si configura la previa restituzione quale condizione d'ammissibilità del rito, l'oggetto del provvedimento ablativo sfugge alle determinazioni delle parti, il cui perimetro è definito dall'art. 444, commi 1, 2 e 3: mentre spetta a P.m. e imputato la qualificazione giuridica del fatto, l'applicazione/la comparazione delle circostanze, la pena applicabile, e l'eventuale richiesta accessoria della sospensione condizionale della pena, ogni specificazione ulteriore, quale è quella relativa a beni o somme destinate a confisca, potrà guidare il giudice nella determinazione di ciò che, in quanto pertinente al reato, è suscettibile di confisca, ma non rappresenta un'area pertinente al patto, dato che la misura ablativa rientra nell'orbita degli effetti della sentenza (art. 445). Invece, proprio in quanto l'avvenuta restituzione del profitto illecito costituisce, nei delitti indicati e con riferimento ai soggetti per cui opera, un elemento imprescindibile del patteggiamento, essa deve essere pienamente rappresentata al giudice, costituendo un contenuto ulteriore e distinto rispetto all'accordo sulla pena. I soggetti dell'accordoSe il P.m. e l'imputato sono le parti contrattuali vincolate all'accordo preso ed esplicitato, nei confronti del negozio processuale, il giudice assume una funzione di sostanziale controllo della regolarità dello stesso, vigilando sul rispetto del principio di legalità ed assicurandosi che le parti abbiano ricondotto il fatto a una fattispecie ontologicamente compatibile con i suoi elementi oggettivi e soggettivi. La verifica attiene agli accadimenti così come prospettabili dagli atti e dedotti in imputazione. Il controllo sulla congruità della pena, poi, è la diretta conseguenza di quello sulla qualificazione giuridica del fatto: sarebbe, infatti, assurdo se il giudice vigilasse sul primo aspetto, permettendo, poi, alle parti di domandare una pena totalmente diversa da quella prevista dalla legge per la fattispecie di riferimento. Come la prima verifica, anche questa va riferita all'accadimento in concreto nella totalità dei suoi elementi, oggettivi, soggettivi e accidentali (Cass. IV, n. 15429/2005). Da questi controlli si ritiene che non derivi l'obbligo di una motivazione estesa, essendo al contrario sufficiente una succinta attestazione dei presupposti sui quali il giudice avalla l'accordo e, quindi, del positivo vaglio su fatto e pena: questo conferma che non c'è un esame di merito del negozio, ma solo della sua rispondenza ai paradigmi normativi. La giurisprudenza ha ritenuto che l'apprezzamento sulla congruità o meno della pena proposta non può essere espressione di un giudizio arbitrario, svincolato da qualsivoglia parametro, non solo di legittimità, ma anche di ragionevolezza, ma deve costituire l'esito di un giudizio complesso che, utilizzando i criteri previsti nell'art. 444, comma 2, tenuto conto delle finalità della pena di cui all'art. 27 Cost., pervenga ad una valutazione di sostanziale adeguatezza del trattamento sanzionatorio concordato rispetto all'oggettiva entità del fatto in contestazione ed alla personalità dell'imputato, secondo i parametri dell'art. 133 c.p. (Cass. V, n. 3779/2021). A chiusura del sistema c'è, infine, una regola di favore per l'imputato: sussistendo una delle circostanze dell'art. 129, l'ordinamento la fa prevalere sull'accordo delle parti; l'accusato può, così, beneficiare di una sentenza di proscioglimento e non di una decisione equiparabile ad una condanna. Occorre, in realtà, un quadro probatorio lampante a sostegno dell'ipotesi di proscioglimento; diversamente, laddove gli elementi d'indagine siano insufficienti ad attestare taluna delle cause dell'art. 129, il giudice dà efficacia alla volontà delle parti. Come previsto dall'art. 448 comma 2-bis, a seguito delle modifiche apportate dalla novella Orlando, il P.m. e l'imputato possano proporre ricorso per cassazione, ex art. 606, contro la sentenza solo per motivi attinenti all'espressione della volontà dell'imputato, al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, all'erronea qualificazione giuridica del fatto e all'illegalità della pena o della misura di sicurezza. Allorquando nessuno di tali temi risulti investito nel ricorso che si limiti invece a contestare il mancato accertamento da parte del giudice della ricorrenza di cause di esclusione della punibilità ovvero di proscioglimento (art. 129), la pur sintetica motivazione eventualmente adottata dal giudice, avuto riguardo alla (consapevole e volontaria) rinunzia alla contestazione delle prove dei fatti costituenti oggetto di imputazione, implicita nella domanda di patteggiamento, nonché alla speciale natura dell'accertamento devoluto al giudice del merito in sede di applicazione della pena su richiesta delle parti che ne consegue, si ritiene essere pienamente adeguata ai parametri indicati per tale genere di decisioni dalla ormai consolidata giurisprudenza, con conseguente inammissibilità del proposto ricorso per cassazione (cfr., Cass. IV, n. 28132/2019). La l. n. 4/2018 introduce la fattispecie della “sospensione dalla successione” per il coniuge, anche legalmente separato nonché per la parte dell'unione civile indagati per l'omicidio volontario o tentato nei confronti dell'altro coniuge o dell'altra parte dell'unione civile, fino al decreto di archiviazione o alla sentenza definitiva di proscioglimento. L'art. 463 c.p., inoltre, estende la sospensione dalla successione anche ai casi di persona indagata per l'omicidio volontario o tentato nei confronti di uno o entrambi i genitori, del fratello o della sorella. Il nuovo art. 463-bis c.c. dispone che, in tale ipotesi, si faccia luogo alla nomina di un curatore in attesa della sentenza definitiva; in caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti il responsabile è escluso definitivamente dalla successione (art. 537-bis). Un ruolo eventuale è rimesso rispettivamente alla parte civile, al responsabile civile e al civilmente obbligato per la pena pecuniaria. Ci si domanda, in particolare, se il civilmente obbligato per la pena pecuniaria risponda per l'imputato insolvente anche dopo una sentenza di patteggiamento, visto che l'art. 445, comma 1-bis, equipara detta decisione a una condanna, ‹‹salve diverse disposizioni di legge››; l'art. 534, poi, non specifica se la pronuncia in relazione alla quale l'obbligato è tenuto a pagare invece dell'imputato sia di condanna o di patteggiamento; per l'art. 89, comma 1, il civilmente obbligato è citato per l'udienza preliminare o per il giudizio a richiesta del P.m. o dell'imputato. Coordinando le norme citate, ne deriva che: a) se il P.m. o l'imputato hanno citato il civilmente obbligato prima della richiesta ex art. 444, comma 1, quest'ultimo sarà vincolato, nei casi di legge, dalla decisione del giudice; b) se l'istanza di patteggiamento è antecedente alla citazione del civilmente obbligato bisogna distinguere ulteriormente. La chiamata è ammissibile, se effettuata entro l'udienza in cui il giudice deciderà sulla richiesta (quindi, per l'udienza preliminare o per il giudizio); diversamente, non potendo il civilmente obbligato essere citato, scaduti i termini dell'art. 89, una sua eventuale chiamata in giudizio rimarrà priva di effetti. Quanto detto vale anche per il patteggiamento proposto durante le indagini preliminari; a nulla serve richiamare la giurisprudenza sulla parte civile: l'art. 89 vuole la costituzione per il giudizio (e l'udienza ex art. 447 è sicuramente un giudizio); inoltre il civilmente obbligato è vincolato da un rapporto che sorge e trae la propria ragion d'essere dal processo penale all'imputato e che, pertanto, lì deve risolversi, non potendo — come, invece, accade per la parte civile — trasferirsi avanti ad altro giudice. Passando al danneggiato, nella dinamica del patteggiamento, questi gioca un ruolo assai marginale. Secondo l'art. 444, comma 2, il giudice non decide sulla domanda dell'eventuale parte civile; tranne nei casi di compensazione, l'imputato è condannato al pagamento delle spese sostenute dal danneggiato costituitosi. Due sono gli aspetti meritevoli di attenzione: la pronuncia sull'istanza per il risarcimento e le restituzioni, e il pagamento delle spese della parte civile. L'azione per i danni è meramente accessoria al processo penale (cfr., Corte cost., n. 532/1995): per tale ragione, nell'economia di un rito a funzione deflattiva, quale il patteggiamento, gli unici soggetti ammessi alla contrattazione sulla pena, sono l'imputato e il P.m. Gli interessi civili non rilevano, e il danneggiato può farli valere davanti all'apposito giudice, sulla cui pronuncia, peraltro, la sentenza ex art. 444, comma 2, non produrrà effetti (così, l'art. 445, comma 1-bis). Non solo: se nel patteggiamento egli azionasse il proprio diritto, l'intero istituto perderebbe ogni aspetto incentivante sull'accusato, che dovrebbe mettere in conto, oltre alla pena — ancorché diminuita — il risarcimento o le restituzioni. La regola sull'irrilevanza della domanda civile è temperata da due eccezioni. In primo luogo, si stabilisce che, se c'è costituzione del danneggiato non si applica l'art. 75, comma 3 (art. 444, comma 2): è, infatti, inutile sospendere il giudizio per il risarcimento se su di esso la decisione ex art. 444 non produce effetti. In secondo luogo, il giudice dell'impugnazione, se accoglie la proposta di pena avanzata tempestivamente dall'imputato, ritenendo infondato il dissenso del P.m., comunque deciderà sull'azione civile ex art. 578 (art. 448, comma 3): diversamente, sarebbe irragionevole, e ingiusto per il danneggiato, averlo trattenuto nel processo penale per un grado di giudizio e poi escluderlo all'ultimo, allorché il giudice del grado successivo volesse recuperare l'originaria proposta di patteggiamento dell'accusato. La giurisprudenza ha affermato l'abnormità del provvedimento con cui il giudice condanna il responsabile civile a pagare le spese del danneggiato (Cass. IV, n. 4936/2010) e di quello con cui all'imputato è imposto rifondere quanto versato dal responsabile civile (Cass. IV, n. 22922/2001). Dal canto suo, il responsabile civile non può interloquire nell'accordo sulla pena, né resistere all'azione della parte civile; non possono essergli addebitate le spese del danneggiato costituitosi, né l'imputato può essere condannato a rimborsargli alcunché (Cass. V, n. 1406/2002). La revocabilità del consensoSecondo un primo orientamento il negozio è irrevocabile quando produce effetti irreversibili nel processo, ovvero dalla ratifica del giudice che, quindi, rende immutabile la volontà delle parti (Cass. III, n. 3580/2009). Per altra posizione, invece, il patteggiamento è un accordo recettizio che produce effetti da quando la proposta viene a conoscenza del suo destinatario, diventando da quel momento indisponibile a chi l'ha formulata (Cass. IV, n. 7300/2010). Una terza opinione (Caprioli, II, c. 30) distingue tra P.m. e imputato, essendo in presenza di una situazione che incide pesantemente sugli interessi di quest'ultimo, a cui si garantisce sempre di definire come vuole la propria situazione processuale. Ecco, allora, che fino alla sentenza l'imputato può modificare i termini dell'accordo, revocando, se del caso, il proprio consenso; ciò non sarebbe consentito al P.m. Una siffatta disparità di ruoli è peraltro connaturata nel sistema: lo stesso art. 446, comma 6, impone all'accusatore l'onere di motivare l'eventuale dissenso; ciò non vale per l'inquisito a cui è lasciata la massima libertà di aderire o meno all'altrui proposta, proprio per l'importanza dei (suoi) interessi in gioco, senza vincolo di motivazione. Una ricostruzione sistematica dell'istituto impone di considerare due dati. In primo luogo, parlando di giustizia contrattuale, si applica il principio per cui ‹‹la proposta può essere revocata finché il contratto non sia concluso›› (art. 1328, comma 1, c.c.), e cioè fino a che ‹‹chi ha fatto la proposta [abbia] conoscenza dell'accettazione dell'altra parte›› (art. 1326, comma 1, c.c.). In secondo luogo, vale il discorso della diversa situazione di P.m. e imputato, che non reggeva troppo durante le indagini preliminari, ma di cui, invece, nel processo deve tenersi conto proprio perché, sottoponendogli l'accordo, il giudice sarebbe in grado di operare una valutazione di congruità del fatto e della pena su un quadro investigativo ormai completo; in rapporto alla totalità degli elementi raccolti, l'accusato deve determinare la propria situazione come meglio crede, anche ripensando eventuali scelte passate. Ha senso, quindi, durante il processo distinguere le due posizioni; così, la proposta del P.m. è irrevocabile fino a che su di essa l'imputato si sarà espresso; quest'ultimo può, invece, ripensare alla propria, finché il giudice avrà avallato l'accordo con sentenza. La logica di sistema impone di ragionare analogamente per l'accettazione che, nell'ottica del P.m., ‹‹può essere revocata purché la revoca giunga al proponente [cioè all'imputato] prima dell'accettazione›› (art. 1328, comma 2, c.c.); in quella dell'imputato, potrà essere ritirata sempre prima della decisione giudiziale sull'accordo. Né il successivo mutamento della persona fisica del giudice può consentire la revoca del consenso già manifestato atteso che il principio di immutabilità del giudice riguarda l'attività di assunzione della prova ed il momento decisionale ma non quella della valutazione incidentale sulla ammissibilità di un rito alternativo (Cass. III, n. 30416/2016). Patteggiamento e sospensione condizionale della penaL'art. 444, comma 3, concede alla parte di richiedere una pena subordinata alla sospensione condizionale della pena. Nei suoi poteri di controllo, il giudice considera i presupposti del beneficio e, ritenendoli esistenti, accoglie l'istanza delle parti. La condizione rientra negli elementi essenziali dell'accordo: così, se il giudice ritiene inesistenti i requisiti della sospensione, rigetta integralmente l'intesa. L'erronea valutazione sul punto è motivo di ricorso per cassazione. Il giudice, vincolato a un controllo formale, non può disporre la sospensione se non richiesta dalle parti, nemmeno considerando presenti i requisiti di legge. Peraltro, anche se l'imputato non ha subordinato l'efficacia della richiesta di definizione del giudizio con il rito speciale alla concessione della sospensione condizionale della pena, il giudice deve comunque pronunciarsi sulla concedibilità del beneficio, qualora tale questione sia stata devoluta anche da una sola delle parti, tanto più qualora l'altra, con il proprio silenzio, abbia apprestato sostanziale acquiescenza alla richiesta (Cass. II, n. 21071/2016). Sempre in tema di rapporti tra patteggiamento e sospensione condizionale, l'equivalenza della decisione ex artt. 444 ss. con la condanna importa l'applicazione dell'art. 164 c.p.: anche la pronuncia di patteggiamento impedisce una seconda sospensione, salvo che la pena concordata, cumulata alla precedente condanna non superi il limite di due anni. Esiste contrasto giurisprudenziale sul fatto che la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti che ometta di pronunciarsi in dispositivo sulla richiesta di sospensione condizionale della pena, cui l'accordo è subordinato, possa essere o meno oggetto del procedimento di correzione materiale ex art. 130. Alla posizione che teorizza che, in difetto di cause ostative alla concessione del beneficio, l'omissione possa essere emendata ai sensi dell'art. 130 anche dalla Corte di cassazione mediante diretta integrazione della sentenza sul punto (Cass. I, n. 37423/2019, in fattispecie soggetta "ratione temporis" alla disciplina anteriore alle previsioni di cui agli artt. 130, comma 1-bis, e 448, comma 2-bis, introdotte dalla l. n. 103/2017, in relazione alle quali, peraltro, la Corte ha osservato che la tipizzazione, come particolare causa di correzione, della rettifica della specie e della quantità della pena per errore di denominazione o di computo non esclude l'applicabilità della procedura di cui all'art. 130 alla sentenza ex art. 444 nel caso in cui essa sia affetta da altre ipotesi di errore materiale; nello stesso senso, Cass. IV, n. 5357/2020), si contrappone altra teoria che nega la legittimità del ricorso al procedimento di correzione ex art. 130, ritenendo che tale omissione finisca per integrare un vizio afferente al contenuto decisionale della pronuncia, censurabile tramite ricorso per cassazione (Cass. I, n. 1768/2018, nella quale Corte ha precisato che la distinzione fra le ipotesi di mero errore materiale e quelle di vizio della sentenza di applicazione della pena ha trovato definitivo accreditamento nel nuovo art. 130, comma 1-bis, introdotto dalla l. n. 103/2017, che ha ammesso la procedura di correzione dell'errore materiale limitatamente ai casi in cui "si devono rettificare solo la specie e la quantità della pena per errore di denominazione e di computo" e nel nuovo art. 448, comma 2-bis, introdotto dalla medesima legge, che ha individuato tra i casi di ricorso per cassazione il "difetto di correlazione fra la richiesta e la sentenza"). Nel procedimento speciale di cui all'art. 444, l'accordo delle parti sulla applicazione di una pena detentiva, con efficacia subordinata alla concessione della sospensione condizionale della pena stessa, deve estendersi anche agli obblighi ulteriori eventualmente connessi ex lege alla concessione del beneficio, indicandone, quando previsto, la durata, con la conseguenza che, in mancanza di pattuizione pure su tali elementi, la richiesta deve essere integralmente rigettata (Cass. S.U., n. 23400/2022, in fattispecie relativa a richiesta di patteggiamento di pena subordinata alla sospensione condizionale, da parte di persona che ne aveva già usufruito - in quanto tale, sottoposta, ex art. 165, comma 2, c.p., agli obblighi previsti dal primo comma - ed alla quale il giudice ha applicato la prestazione di attività non retribuita a favore della collettività). In tema di patteggiamento, allorquando la Corte di cassazione annulli la pronuncia del giudice relativamente alla liquidazione delle spese a favore della parte civile, il rinvio deve essere fatto al giudice penale "a quo", nel caso in cui la statuizione sul punto sia del tutto omessa o, invece, al giudice civile competente per valore in grado d'appello, ai sensi all'art. 622, nel caso in cui l'annullamento riguardi la statuizione circa il diritto della parte civile alla liquidazione delle spese o la determinazione della somma effettivamente liquidata (Cass. IV, n. 48081/2023). Rapporti con altri riti specialiA) Rito abbreviato. Al pari del patteggiamento, è un rito premiale che collega una diminuzione della pena a una scelta deflattiva dell'imputato. Si esclude che l'accusato possa cumulare un doppio sconto, prima chiedendo l'abbreviato e poi formulando istanza ex art. 444; egli può subordinare l'accesso a un rito al rigetto della domanda per l'altro: così, chiederà l'applicazione di una pena nell'ipotesi in cui il giudice non accolga l'istanza di abbreviato condizionata ex art. 438, comma 5, ovvero formulerà richiesta ex art. 438, comma 1, davanti al rigetto di un accordo ex artt. 444 ss. o al mancato consenso del P.m. Come è possibile il “patteggiamento parziale”, la giurisprudenza ammette anche che l'imputato possa chiedere l'applicazione di una pena per talune imputazioni ed il rito abbreviato per le altre. Stante l'alternatività delle richieste di accesso ai procedimenti in parola, la Corte costituzionale negava l'applicazione analogica dell'art. 448, comma 1, nell'abbreviato (Corte cost., n. 225/2003); a seguito di rigetto della proposta di patteggiamento, l'imputato ha due possibilità: o riformula l'istanza nei limiti previsti dalla norma, o fa domanda per il rito abbreviato; in quest'ultima ipotesi, però, il giudice non potrà recuperare l'accordo per la pena in precedenza censurato, nemmeno nell’ipotesi in cui ritenga il rigetto non giustificato (Cass. V, n. 17014/2024). B) Rito direttissimo. È pacifica la compatibilità con il patteggiamento: l'istanza è formulata entro la dichiarazione di apertura del dibattimento; se l'imputato domanda un termine a difesa, nulla gli impedisce di richiedere l'applicazione della pena nell'udienza successiva, purché entro il limite dell'art. 446, comma 1 (Cass. II, n. 8032/1992). Anche nel direttissimo, a fronte di un'istanza di patteggiamento, il giudice ordina l'esibizione del fascicolo d'indagine (art. 135, disp. att.); gli atti lì contenuti entrano in quello del dibattimento, se la richiesta è accolta; diversamente, sono restituiti al P.m. C) Rito immediato. Occorre innanzitutto distinguere tra immediato a richiesta dell'imputato (art. 419, comma 5) e su domanda del P.m. Nel primo caso, l'imputato sceglie di saltare l'udienza preliminare; supera il limite temporale per la richiesta di patteggiamento e addiviene al giudizio in tempi rapidi. Con una tale determinazione rifiuta implicitamente l'opportunità di stipulare l'accordo ex art. 444, preferendo che si celebri velocemente il processo. La seconda ipotesi è compatibile con il patteggiamento: notificato il decreto di giudizio immediato, nei quindici giorni successivi l'imputato può chiedere l'applicazione di pena. Per le Sezioni Unite (Cass. S.U., n. 3088/2006, giudice competente a decidere sull'istanza è il G.i.p., che ha la disponibilità degli atti; s'applica, così, in via analogica l'art. 447, pure per le modalità del consenso del P.m. D) Giudizio per decreto. L'art. 461, comma 3, ammette la richiesta di patteggiamento contestuale all'opposizione a decreto penale di condanna. L'istanza è rivolta al G.i.p. che può pure rigettarla, ammettendosi, in questo caso, la ripetibilità della domanda avanti al giudice del dibattimento nei casi e nei modi dell'art. 448, comma 1. E) Procedimenti che escludono il patteggiamento. Sono quelli avanti al giudice di pace e al giudice minorile. CasisticaLa condizione di abitualità rilevante ex art. 131-bis c.p. è desumibile anche dalla sentenza di patteggiamento, che può, pertanto, porsi come condizione ostativa al riconoscimento della speciale causa di non punibilità. La sentenza ex art. 444 è idonea a disvelare l'abitualità del comportamento: conclusione che trova giustificazione anche sulla base di un preciso dato testuale, rappresentato dal fatto che il concetto di “commissione” evocato dall'art. 131-bis c.p., prescinde dalla pronuncia di una sentenza di condanna (Cass. II, n. 2484/2022). Non è preclusa la dichiarazione di estinzione del reato oggetto di una sentenza di patteggiamento dalla commissione, nel termine di cinque anni, di un nuovo delitto dichiarato estinto per esito positivo della messa alla prova, non comportando la sentenza emessa ai sensi dell'art. 464-septies l'accertamento della commissione di un reato (Cass. I, n. 23920/2022). La revoca della sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, disposta per mancata osservanza delle prescrizioni, comporta il ripristino della sola pena residua, calcolata sottraendo dalla pena complessivamente inflitta il periodo di positivo svolgimento dell'attività, mediante i criteri di ragguaglio dettati dall'art. 58 d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274 (Cass. IV, n. 4176/2022). Non è preclusa la dichiarazione di estinzione del reato oggetto di una sentenza di patteggiamento dalla commissione, nel termine di cinque anni, di un nuovo delitto dichiarato estinto per esito positivo della messa alla prova, non comportando la sentenza emessa ai sensi dell'art. 464-septies l'accertamento della commissione di un reato (Cass. I, n. 23920/2022). La revoca della sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, disposta per mancata osservanza delle prescrizioni, comporta il ripristino della sola pena residua, calcolata sottraendo dalla pena complessivamente inflitta il periodo di positivo svolgimento dell'attività, mediante i criteri di ragguaglio dettati dall'art. 58 d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274 (Cass. IV, n. 4176/2022). In caso di annullamento con rinvio della sentenza di applicazione di pena su richiesta per nuovo giudizio sulla disposta confisca, seguito a ricorso per cassazione proposto antecedentemente all'entrata in vigore del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, rientra nella competenza funzionale del giudice del rinvio ogni questione connessa all'applicazione in via transitoria, ex art. 95, comma 1, d.lgs. citato, del nuovo regime sulla sostituzione delle pene detentive brevi, sicché a quest'ultimo l'imputato potrà eventualmente presentare l'istanza di commutazione (Cass. III, n. 51/2024). In tema di sentenza di applicazione della pena pronunciata all'esito del giudizio di appello ex art. 448, comma 1, ultima parte, il ricorso in cassazione è assoggettato ai limiti di deducibilità di cui all'art. 448, comma 2-bis, poiché è rimessa all'imputato la scelta di insistere nella richiesta di patteggiamento ovvero optare per il giudizio ordinario (Cass. V, n. 16129/2024). BibliografiaArru, L'applicazione della pena su richiesta delle parti, in Spangher (diretto da), Trattato di procedura penale, vol. IV, t. I, in Filippi (a cura di), Procedimenti speciali, Torino, 2008, 8; Capitta, Patteggiamento e decreto penale di condanna, in Amodio-Galantini (a cura di), Giudice unico e garanzie difensive. La procedura penale riformata, Milano, 2000; Caprioli, Il consenso dell'imputato all'applicazione della pena: revocabile o no?, in Giur. it. 1993, II, 30; Cerqua, Riti alternativi e incentivi premiali: implicazioni di natura sostanziale, in Cass. pen. 1992, 1702; Chiliberti - Roberti, L'applicazione della pena su richiesta delle parti, in Aa.Vv., Manuale pratico dei procedimenti speciali, Milano, 1994; Kostoris, Con il nuovo «patteggiamento allargato» il rischio di una gigantesca negoziazione, in Guida dir. 2003, 25, 4; Macchia, Il patteggiamento, Milano, 1992; Marcolini, Il patteggiamento nel sistema della giustizia penale negoziata, Milano, 2005; Orlandi, Procedimenti speciali, in Compendio di procedura penale, in Conso-Grevi (a cura di), Padova, 2003; Peroni, La sentenza di patteggiamento, Padova, 1999; Peroni, Le novità in tema di patteggiamento, in Peroni (a cura di), Il processo penale dopo la riforma del giudice unico, Padova, 2000; Peroni, “Patteggiamento allargato” e nuove diatribe sulla natura della sentenza applicativa di pena concordata, in Foro it. 2006, II, 18; Peroni, Le nuove norme in materia di patteggiamento “allargato” e di sanzioni sostitutive, in Dir. pen. e proc. 2003, 1067; Pisani, Italian style: figure e forme del nuovo processo penale, Padova, 1998; Romano, Brevi note sulla motivazione della sentenza di applicazione della pena, in Giur. mer. 2003, 791; Randazzo, Limiti minimi della pena e la diminuente del patteggiamento, in Cass. pen. 1993, 119; Scalfati, L'applicazione della pena dinanzi al giudice di pace nella prospettiva processuale, in Dir. pen. proc. 2003, 401; Tonini, Diritto processuale penale. Manuale breve, Milano, 2011; Vigoni, Nuovo art. 444, privilegiati i «premi» a scapito delle vittime, in Dir. giust. 2002, n. 31, 19; Vigoni, L'applicazione della pena su richiesta delle parti, in I procedimenti speciali in materia penale, in Pisani (a cura di), Milano, 2003; Vigoni, Patteggiamento “allargato”: riflessi sul sistema e sull'identità della sentenza, in Cass. pen. 2004, 710; Gatta, Riforma della giustizia penale: contesto, obiettivi e linee di fondo della “legge Cartabia”, in Sistema penale, 15 ottobre 2021; Varraso, La “legge Cartabia” e l’apporto dei procedimenti speciali al recupero dell’efficienza processuale, in Sistema penale, 2/2022, 29 e ss.; Conte, L’immediatezza nella riforma Cartabia, in Giur. pen. web, 2022, 6; Donini, Efficienza e principi della legge Cartabia. Il legislatore a scuola di realismo e cultura della discrezionalità, in Politica del diritto, 4/2021, 591 e ss.; Bassi, I riti speciali nella riforma Cartabia: un’occasione mancata ?, in Il Penalista, 25 ottobre 2021; Relazione dell’Ufficio del Massimario n. 60/2021, 3 novembre 2021; Relazione dell’Ufficio del Massimario n. 68/2022, 7 novembre 2022; Bricchetti, Prime riflessioni sulla riforma Cartabia: i procedimenti speciali. L’applicazione della pena su richiesta delle parti, in Il Penalista, 6 dicembre 2022; Gialuz, Per un processo penale più efficiente e giusto. Guida alla lettura della Riforma Cartabia, in Sistema penale, 2 novembre 2022; Relazione dell’Ufficio del Massimario n. 2/2023, 5 gennaio 2023. |