Codice di Procedura Penale art. 448 - Provvedimenti del giudice.

Andrea Pellegrino

Provvedimenti del giudice.

1. Nell'udienza prevista dall'articolo 447, nell'udienza preliminare [416 s.], nel giudizio direttissimo e nel giudizio immediato, il giudice, se ricorrono le condizioni per accogliere la richiesta prevista dall'articolo 444, comma 1, pronuncia immediatamente sentenza. Nel caso di dissenso da parte del pubblico ministero o di rigetto della richiesta da parte del giudice per le indagini preliminari, l'imputato, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado [492 1], può rinnovare la richiesta e il giudice, se la ritiene fondata, pronuncia immediatamente sentenza [135 att.]. La richiesta non è ulteriormente rinnovabile dinanzi ad altro giudice. Nello stesso modo il giudice provvede dopo la chiusura del dibattimento di primo grado [524] o nel giudizio di impugnazione [601 s.] quando ritiene ingiustificato il dissenso del pubblico ministero [446 6] o il rigetto della richiesta1.

1-bis. Nei casi previsti dal comma 1, quando l'imputato e il pubblico ministero concordano l'applicazione di una pena sostitutiva di cui all'articolo 53 della legge 24 novembre 1981, n. 689, il giudice, se non è possibile decidere immediatamente, sospende il processo e fissa una apposita udienza non oltre sessanta giorni, dandone contestuale avviso alle parti e all'ufficio di esecuzione penale esterna competente. Si applica, in quanto compatibile, l'articolo 545-bis, comma 22.

2. In caso di dissenso, il pubblico ministero può proporre appello [594]; negli altri casi la sentenza è inappellabile.

2-bis. Il pubblico ministero e l’imputato possono proporre ricorso per cassazione contro la sentenza solo per motivi attinenti all’espressione della volontà dell’imputato, al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, all’erronea qualificazione giuridica del fatto e all’illegalità della pena o della misura di sicurezza3.

3. Quando la sentenza è pronunciata nel giudizio di impugnazione, il giudice decide sull'azione civile a norma dell'articolo 578, comma 14.

 

[1] [1] Comma così sostituito dall'art. 34 l. 16 dicembre 1999, n. 479.

[3] [3] Comma inserito dall’articolo 1, comma 50, l. 23 giugno 2017, n. 103. A norma del comma 51 della medesima legge, le disposizioni del comma 2-bis non si applicano nei procedimenti nei quali la richiesta di applicazione della pena ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale è stata presentata anteriormente alla data di entrata in vigore della l. n. 103,cit. Ai sensi dell’art. 1, comma 95, l. n. 103, cit., la stessa legge entra in vigore il trentesimo giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale (G.U. n. 154 del 4 luglio 2017).

[4] [4] Le parole «, comma 1» sono state aggiunte dall'art. 25, comma 1, lett. e), n. 2, d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150.

Inquadramento

Qualora il P.m. neghi il proprio consenso ovvero il giudice rigetti la proposta congiunta, l’imputato può rinnovare l’istanza di applicazione pena davanti al giudice del dibattimento. Con tale istituto, il legislatore ha offerto all’imputato uno strumento che gli consente di ottenere un controllo anticipato sulle ragioni della mancata adesione della parte pubblica alla proposta formulata o del rigetto del giudice.

Nel testo della legge di riforma del processo penale (l. 23 giugno 2017, n. 103), con l’inserimento del comma 2-bis, si sono disciplinate le ipotesi che consentono al P.m. e all’imputato di proporre ricorso per cassazione, disposizioni non applicabili nei confronti delle richieste di applicazione pena formalizzate precedentemente all’entrata in vigore della riforma.

I provvedimenti del giudice

Secondo l'art. 448, comma 1, la richiesta di applicazione di pena è formulabile, oltre che nei casi dell'art. 447:

— nell'udienza preliminare, cioè fino alla presentazione delle conclusioni di cui agli artt. 421, comma 3, e 422, comma 3 (art. 446, comma 1);

— nel giudizio direttissimo, entro la dichiarazione di apertura del dibattimento in primo grado (sempre art. 446, comma 1);

— nel giudizio immediato, se l'imputato deposita la richiesta ex art. 444 (con prova dell'avvenuta notificazione al P.m.) nella cancelleria del G.i.p. entro quindici giorni dalla notificazione del decreto che dispone il giudizio (artt. 446, comma 1, e 458, comma 1).

— nel procedimento per citazione diretta a giudizio, entro la dichiarazione di apertura del dibattimento, esattamente come per il rito direttissimo (artt. 555, comma 2, e 556).

Se la richiesta è tempestiva, sussistendo l'accordo tra imputato e P.m., il giudice, previo controllo dei requisiti di validità della domanda, pronuncia immediatamente sentenza; se il P.m. dissente dalla richiesta dell'imputato o se, nei casi dell'art. 447, il G.i.p. rigetta l'istanza, la medesima è formulabile entro la dichiarazione di apertura del dibattimento: ritenendola fondata, il giudice può accoglierla ed emettere sentenza; diversamente, la richiesta non è più proponibile avanti ad altro giudice. Allo stesso modo, se il giudice riterrà immotivato il dissenso del P.m., al termine del giudizio, nella propria decisione, potrà uniformarsi alla richiesta dell'imputato: in questo caso è ammesso l'appello del P.m. (art. 448, comma 2).

Il decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, di attuazione della l. 27 settembre 2021, n. 134 recante delega al Governo per l'efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari, con l'art. 25 ha inserito, nel corpo dell'art. 448, il comma 1-bis, in base al quale, quando l'imputato ed il P.m. concordano l'applicazione di una sanzione sostitutiva, il giudice, se non è in grado di decidere immediatamente, sospende il processo e fissa una nuova apposita udienza non oltre sessanta giorni, dandone contestuale avviso alle parti e all'Ufficio esecuzione penale esterna competente.

L'ordinanza con la quale il g.i.p./g.u.p., dopo aver pronunciato la sentenza di patteggiamento fissa apposita udienza per decidere sull'applicazione delle sanzioni sostitutive ai sensi dell'art. 448, comma 1-bis, non è ricorribile per cassazione (Cass. VI, n. 43947/2023, nella quale si è precisato che, ferma la possibilità per l'imputato di sollecitare la valutazione del giudice formulando apposita istanza, ove quest'ultimo non ritenga sussistenti i presupposti per la sostituzione della pena, può addirittura omettere di darne avviso alle parti, ad ulteriore conferma dei margini di discrezionalità entro i quali si muove la valutazione del giudice).

Il giudice negli stessi casi di cui al comma 1, se è patteggiata l'applicazione di una pena sostitutiva di cui all'art. 53 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (semilibertà, detenzione domiciliare, lavoro di pubblica utilità, pena pecuniaria) e non è possibile decidere immediatamente, sospende il processo e fissa una apposita udienza non oltre sessanta giorni, dandone contestuale avviso alle parti e all'UEPE competente. Il comma si chiude stabilendo che si applicano, in quanto compatibili, i commi 2 e 3 dell'art. 545-bis.

 Il disposto dell'art. 545-bis, comma 1, che prevede, per il caso di condanna a pena detentiva non superiore a quattro anni, l'obbligo per il giudice di dare avviso alle parti della possibilità della sua conversione in una sanzione sostitutiva, non si applica al procedimento che conduce alla definizione del giudizio con pena patteggiata, trattandosi di norma che, per ragioni di carattere testuale e sistematico, risulta dettata esclusivamente per il giudizio ordinario (Cass. II, n. 50010/2023).

L'ampia possibilità di degradare la risposta sanzionatoria del carcere a pene non carcerarie è la “contropartita” che il sistema offre in cambio di una rinuncia alla piena giurisdizione, senza doversi affidare all'ampia (e rischiosa) discrezionalità sanzionatoria del giudice nel rito ordinario.

La rinnovazione dell'istanza

Introduzione

Qualora il P.m. neghi il proprio consenso ovvero il giudice rigetti la proposta congiunta, l'imputato può rinnovare l'istanza di applicazione della pena davanti al giudice del dibattimento. Con tale strumento, il legislatore ha offerto all'imputato uno strumento che gli consente di ottenere un controllo anticipato (c.d. sindacato) sulle ragioni della mancata adesione della parte pubblica alla proposta formulata o del rigetto del giudice. Solo attraverso la espressa rinnovazione dell'istanza nei medesimi termini originariamente proposti, presentata prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, al giudice è consentito ed imposto tale controllo (Cass. I, n. 17306/2009). Ne consegue che, se l'imputato non riformula la richiesta di applicazione della pena, il giudice decide nel merito secondo le regole dell'art. 529 ss.; se l'imputato, invece, ripropone l'istanza, il giudice del dibattimento, qualora ritenga giustificato il dissenso del P.m. o il rigetto della richiesta congiunta e vi sia la prova della responsabilità dell'imputato, dovrà condannare quest'ultimo secondo le norme del rito ordinario (in tal senso, anche anteriormente alla novella introdotta con l. n. 479/1999, si era espressa Cass. III, n. 8494/1994).

Al quesito se il potere di rinnovare la richiesta di patteggiamento possa essere esercitato anche quando non è prevista la celebrazione dell'udienza preliminare (e, dunque, in caso di dissenso del P.m. o di rigetto del giudice sull'istanza formulata dopo l'emissione del decreto di giudizio immediato ovvero con il decreto penale di condanna) si dà generalmente risposta affermativa (Cass. IV, n. 46367/2007), giustificata con l'ampiezza della lettera della norma in esame. Nonostante l'art. 448, comma 1, faccia esplicito riferimento solo al rigetto del G.i.p. e non anche a quello del G.u.p., deve ritenersi che la rinnovazione non riguardi soltanto l'udienza di cui all'art. 447, ma abbia ad oggetto qualsiasi ipotesi di mancata omologazione dell'accordo da parte di un giudice. Qualche dubbio potrebbe sorgere con riferimento al rito monocratico a citazione diretta in considerazione delle peculiarità di tale procedimento, nel quale l'istanza di patteggiamento è fisiologicamente formulata negli atti introduttivi al dibattimento, ossia nella medesima fase processuale prevista per la rinnovazione: si ritiene che, in tale procedimento, l'imputato potrebbe solo rinnovare la richiesta di patteggiamento non accolta nella fase delle indagini preliminari.

Per contro, la rinnovazione è, di regola, logicamente incompatibile con il giudizio direttissimo su cui si innesti il rito del patteggiamento, dal momento che, in siffatta ipotesi, il dibattimento non contempla una fase pregressa nella quale l'imputato possa manifestare la volontà di definire il procedimento a norma degli artt. 444 ss., fatta salva l'ipotesi nella quale la convalida sia celebrata dinanzi al G.i.p. e la domanda di applicazione della pena sia formulata dall'imputato nell'udienza prevista dall'art. 391 e si proceda poi secondo lo schema disciplinato dall'art. 449, comma 4.

Forme e limiti della rinnovazione

Non c'è dubbio che la rinnovazione introduca una sorta di “terza via” rispetto al patteggiamento ordinario e a quello cui il giudice addiviene all'esito del dibattimento o nel giudizio di impugnazione.

Tale facoltà deve essere esercitata prima della dichiarazione di apertura del dibattimento e deve avere per oggetto la medesima richiesta che nella fase precedente aveva trovato il dissenso del P.m. o il rigetto del G.u.p.: infatti, una richiesta dal diverso contenuto sarebbe, in realtà, una nuova istanza, inammissibile per il decorso del termine di cui all'art. 446, comma 1 (Cass. IV, n. 46367/2007, cit)Per quanto tale soluzione sia maggiormente aderente alla logica delle preclusioni conseguente all'imposizione di un termine di decadenza, si deve evidenziare che è stata avanzata anche la soluzione contraria, secondo la quale la rinnovazione della richiesta di applicazione della pena possa essere formulata anche in termini diversi da quella precedente (cfr., Cass. VI, n. 20794/2010; Cass. III, n. 28641/2009). Legittimato a rinnovare la richiesta, anche quando il P.m. abbia in precedenza prestato il proprio consenso, è unicamente l'imputato: è infatti nulla, per violazione del principio della domanda, la sentenza di applicazione della pena pronunciata d'ufficio dal giudice in assenza dell'istanza di rinnovazione (Cass. I, n. 17306/2009).

Nell'ipotesi di rinnovazione di un'istanza di patteggiamento alla quale in precedenza si era opposto il P.m., ci si chiede se sia necessario che l'accusa manifesti la propria adesione, o se invece il giudice possa prescindere dal consenso della parte pubblica. Sulla questione, assai dibattuta, è intervenuta la Corte costituzionale che ha ribadito, anche con riferimento all'istituto della rinnovazione, quanto aveva già in passato sostenuto con riguardo alla necessità che la sentenza di patteggiamento trovi fondamento in un accordo tra le parti, non potendo il giudice pronunciare sentenza ex art. 444 senza il consenso del P.m., ad eccezione dell'ipotesi della sentenza di patteggiamento emessa all'esito del giudizio ordinario (Corte cost. n. 426/2001). Deve pertanto ritenersi affetta da nullità la sentenza predibattimentale che, pur in presenza del dissenso del P.m., abbia applicato la pena richiesta dall'imputato a seguito di rinnovazione di precedente istanza (Cass. I, n. 17306/2009, cit.): l'unico caso nel quale al giudice è consentito di applicare la pena in assenza di manifestazione del consenso da parte del P.m. è all'esito del dibattimento, perché soltanto dopo la celebrazione di quella fase processuale egli dispone degli elementi per valutare se il dissenso sia giustificato o meno (Cass. VI, n. 42374/2009). Pertanto, in caso di mancata adesione alla richiesta rinnovata, il giudice non può vagliare immediatamente la fondatezza del dissenso del P.m., ma deve procedere al dibattimento e solo all'esito della discussione, nell'ipotesi in cui ritenga ingiustificato il dissenso medesimo e il rigetto dell'istanza di rinnovazione, può applicare la pena se considerata congrua (Cass. IV, n. 877/2008).

Come previsto espressamente dall'art. 448, il medesimo potere di applicare la pena chiesta dall'imputato e non accolta spetta anche al giudice dell'impugnazione, sempre che l'imputato, nei motivi di appello, si richiami alla precedente richiesta.

L'art. 448, comma 1, stabilisce espressamente che la richiesta di rinnovazione non è reiterabile davanti ad altro giudice. Pertanto, qualora la richiesta rinnovata, ottenuto il necessario consenso del P.m., sia rigettata dal giudice, alle parti è preclusa la facoltà di riformulare una nuova istanza di patteggiamento — che sarebbe inammissibile — e il nuovo organo giudicante, costituito al posto di quello divenuto incompatibile a causa dell'adozione dell'ordinanza di rigetto, dovrà necessariamente celebrare il giudizio ordinario.

Nessun problema si pone, invece, nell'ipotesi in cui l'imputato abbia rinnovato l'istanza senza ottenere il consenso del P.m., poiché in tal caso l'accesso al dibattimento si presenterebbe come soluzione obbligata.

Il giudice di appello può accogliere la richiesta dell'imputato rigettata in primo grado, ritenendo ingiustificato il dissenso del P.m., solo a condizione che sia chiamato a decidere sulle medesime imputazioni originariamente contestate (Cass. VI, n. 37653/2021). 

La reiterazione della richiesta di applicazione della pena rigettata dal giudice

Prima della novella della l. n. 479/1999, la giurisprudenza era orientata nel senso di ritenere ammissibile la reiterazione di una nuova proposta congiunta di applicazione della pena qualora la precedente fosse stata rigettata (Cass. I, n. 2265/1992), anche in una diversa fase (Cass. V, n. 5154/1992).

Pur ammettendo la riproponibilità della richiesta di patteggiamento, si era peraltro negato che la nuova istanza potesse avere il medesimo contenuto di quella precedente rigettata dal giudice (Cass. VI, n. 1167/1999; sul punto si era pronunciata anche la Consulta che aveva ritenuto inammissibile una nuova istanza di applicazione della pena identica alla precedente: Corte cost. n. 439/1993).

Il principio della reiterabilità della richiesta di patteggiamento deve oggi essere coordinato con la disciplina che preclude alle parti di proporre istanza di applicazione della pena davanti al giudice del dibattimento, fatta eccezione per i procedimenti che difettano della fase dell'udienza preliminare. Fermo restando il disposto dell'art. 446, comma 4, secondo cui ciascuna parte può prestare il consenso all'istanza presentata dall'altra anche se in precedenza esso era stato negato, non si può escludere che nel corso dell'udienza preliminare, dopo un primo rigetto da parte del giudice, le parti ripropongano una nuova istanza che, in quanto diversa da quella rigettata in precedenza, sia ratificata dall'organo giudicante. Tuttavia, quanto alla necessità che la nuova istanza abbia un diverso contenuto della precedente, giova precisare che la decisione della Corte costituzionale sopra richiamata (Corte cost. n. 439/1993, cit.) concerne l'ipotesi della reiterazione di una proposta congiunta in precedenza rigettata dal giudice e non anche quella in cui il P.m. abbia manifestato il proprio dissenso all'istanza dell'imputato, fattispecie nella quale alla parte privata non potrebbe essere impedito di riproporne una nuova avente il medesimo contenuto della precedente, per quanto questa, evidentemente, avrà scarse possibilità di essere condivisa dalla pubblica accusa, a meno che il consenso postumo non sia giustificato dal mutamento in melius della base probatoria sulla quale la domanda si fonda. Peraltro, non sembra sia possibile negare alle parti anche la facoltà di riproporre la medesima istanza già rigettata dal giudice se, a seguito delle nuove indagini disposte ai sensi degli artt. 421-bis o 422, il nuovo quadro probatorio muti in senso favorevole all'imputato, così da indurre il giudice a ratificare la richiesta prima rigettata.

Quando il processo approda alla fase del dibattimento, mentre l'art. 448, comma 1, stabilisce espressamente che la richiesta di rinnovazione non è reiterabile davanti ad altro giudice, è dubbio se nel procedimento a citazione diretta e nel giudizio direttissimo le parti possano riproporre davanti ad un nuovo giudice un'istanza di applicazione della pena diversa da quella rigetta nella fase degli atti introduttivi al dibattimento. Se da un lato, l'art. 448, comma 1, pone un esplicito divieto soltanto con riguardo alla rinnovazione della richiesta, dall'altro la S.C. è orientata in senso negativo, avendo statuito che la richiesta di patteggiamento, respinta dal giudice del dibattimento che abbia poi dichiarato la propria incompatibilità, non possa essere riproposta davanti ad altro giudice (Cass. I, n. 16889/2010).

L'ordinanza di rigetto della richiesta di patteggiamento non è immediatamente impugnabile per abnormità, trattandosi di provvedimento non definitivo in relazione al quale è riconosciuto un potere impugnatorio specifico, benché differito, essendo consentito appellare la sentenza che, all'esito del giudizio ordinario, non abbia riconosciuto la legittimità della richiesta di applicazione della pena concordata (Cass. VI, n. 33764/2021).

Costituisce provvedimento abnorme, come tale ricorribile per cassazione, la sentenza emessa ai sensi dell'art. 448, comma 1, che, avendo ritenuto, all'esito del dibattimento, ingiustificato il dissenso del pubblico ministero, determini la pena secondo criteri discrezionali, senza applicare quella oggetto della richiesta, ove ritenuta congrua (Cass. II, n. 51679/2023).

La sentenza di patteggiamento

In generale

L'accordo delle parti è avallato dal giudice con sentenza di cui, in via preliminare, occorre inquadrare la natura. Di certo, non si tratta di proscioglimento: ve ne deriva una pena e, nei casi dell'art. 129, l'istanza delle parti non è accolta, segno dell'incompatibilità del rito con situazioni meritevoli della non-condanna.

La decisione in parola consegue a un accertamento, ancorché minimo, dei fatti: il giudice possiede il fascicolo delle indagini e lo consulta almeno per valutare se la proposta di pena è coerente alla logica del codice.

Di qui si pone l'accento, ora sul fatto che comunque la responsabilità dell'accusato è acclarata, ancorché in modo sommario, ora sulla circostanza che il giudice si limita a prendere atto della rinuncia dell'imputato a contestare l'accusa, in assenza di cause di proscioglimento e in costanza dei requisiti formali di legge (Cass. V, n. 3555/2003). Aderendo al primo orientamento, si finisce per qualificare la sentenza di patteggiamento come una pronuncia di condanna; considerando il secondo, come un genus a sé stante.

Sul finire degli anni novanta, la S.C. (Cass. S.U., n. 5/1998) affermava che: a) il giudice non fornisce un pieno accertamento della responsabilità penale dell'inquisito; b) il codice equipara quoad effectum la decisione di patteggiamento alla condanna.

La novella del 2003 esplicitava detta equivalenza in chiusura dell'art. 445, comma 1-bis, e provvedeva ad allargare il novero dei procedimenti accessibili al rito, limitando i benefici a quelli meritevoli delle pene più basse: ciò induceva le Sezioni Unite (Cass. S.U., n. 17781/2006) a riscontrare un marcato avvicinamento della sentenza ex artt. 444 e ss. al paradigma della condanna.

In relazione agli effetti extrapenali della pronuncia, si evidenzia come per l'art. 445, comma 1-bis, la decisione non abbia efficacia nel rito civile o amministrativo. La norma fa poi salvo l'art. 653: nei giudizi disciplinari avanti alle pubbliche autorità, la sentenza di patteggiamento vale come condanna, esplicando gli effetti di cui al comma 1-bis.

Altro esempio di deroga all'inefficacia extrapenale della decisione è prevista, poi, dagli artt. 58 e 59, d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 sulle cause ostative alla candidatura negli enti locali.

Contro la decisione sono proponibili, pur a condizioni diverse: a) l'appello; b) il ricorso per cassazione; c) la revisione.

A) Appello. Di regola la sentenza è inappellabile (art. 448, comma 2): lo giustifica la contrattualità del rito, non avendo senso una critica nel merito delle stesse parti che hanno proposto l'accordo. C'è un'eccezione: se il giudice del dibattimento riprende l'istanza dell'imputato su cui il P.m. aveva già dissentito, la pronuncia è appellabile dall'accusatore. L'imputato non può mai proporre appello, né in via principale, né incidentale (Cass. S.U., n. 36084/2005). La giurisprudenza ha recentemente ribadito il principio riconoscendo come non sia appellabile dall’imputato la sentenza di applicazione pena pronunciata dal giudice che, in chiusura del dibattimento, ritenga ingiustificato il dissenso espresso dal P.m. o il provvedimento del G.i.p. di rigetto della richiesta, poiché tutte le sentenze che applicano la pena su richiesta delle parti presentano analoga natura e, salvo particolari disposizioni normative, esplicano i medesimi effetti (Cass. IV, n. 12157/2021).

B) Ricorso per cassazione. Sulla base dell'art. 111 Cost., la decisione è ricorribile in cassazione. Compatibili con il rito sono i motivi dell'art. 606, comma 1, lett. b) e c) (Cass. II, n. 7683/2015, secondo cui una volta che l'accordo tra l'imputato ed il P.m. sia stato ratificato dal giudice con la sentenza, il ricorso per cassazione è proponibile solo nel caso di pena illegale o per questioni inerenti all'applicazione delle cause di non punibilità di cui all'art. 129, comma 1); con qualche difficoltà è ammissibile il ricorso per vizio di motivazione; sicuramente non lo è quello ex art. 606, comma 1, lett. d), e l'impugnazione per eccesso di potere rimane, per lo più, ipotesi di scuola. Sugli errores in iudicando (art. 606, comma 1, lett. b), rilevano quelli inerenti alla qualificazione del fatto e al computo della pena: il ricorrente potrà lamentare che il giudice di merito ha avallato un accordo che sussume il fatto sotto un'erronea fattispecie astratta o che sbaglia nel computare la pena. Gli errores in procedendo (art. 606, comma 1, lett. c) importano solo in quanto vizi inficianti la formazione della volontà di parte. Un esempio: la polizia giudiziaria documenta dichiarazioni dell'accusato in spregio all'art. 350, comma 6; tali asserzioni, inserite nel fascicolo d'indagine, convincono l'inquisito ad accettare la proposta di pena del P.m.; il giudice non si avvede della violazione del divieto e avalla l'intesa. L'inutilizzabilità può essere rilevata utilmente davanti alla S.C. Sono sempre rilevabili le nullità assolute; quelle relative e intermedie vengono sanate dalla sentenza che accoglie l'accordo, beninteso con il limite di cui si è detto, potendosi, cioè, sempre rilevare avanti al giudice di legittimità qualora si tratti di vizi con essenziale incidenza sul consenso delle parti.

L'errore di motivazione (art. 606, comma 1, lett. e) è compatibile con il patteggiamento solo in teoria: il giudice, infatti, deve riferirsi ai presupposti di accoglimento dell'accordo; non ci sono margini di discrezionalità davanti a un'ipotesi conforme alla legge: se avalla l'intesa, significa di per sé che ritiene la corretta qualificazione del fatto e il giusto computo della pena, non occorrendo articolate motivazioni e bastando un rinvio alla proposta delle parti. In un tal contesto, è difficile ipotizzare una motivazione manifestamente illogica o carente; altro discorso per quella mancante, posto che, pur sinteticamente, il giudice è sempre tenuto a spiegare l'iter logico che lo ha portato alla decisione.

C) Revisione. Su espressa previsione dell'art. 629 le sentenze di patteggiamento sono revisionabili: il riferimento all'art. 444, comma 2, è stato inserito dalla l. n. 134/2003, essendo in precedenza rimessa al giudice la decisione sull'ammissibilità della revisione nel contesto in parola (peraltro, le Sezioni Unite arrivarono a negare quest'ipotesi: cfr., Cass. S.U., n. 6/1998).

La motivazione

Il tema si presenta strettamente correlato a quello dei poteri di accertamento del giudice, poiché l'obbligo per il giudice di indicare le ragioni della propria decisione sarà tanto più ampio quanto più penetranti saranno i poteri di accertamento che l'organo giurisdizionale potrà esercitare.

La motivazione della sentenza di applicazione della pena si esaurisce in una duplice delibazione, una positiva e l'altra, negativa.

Positiva, quanto all'accertamento: a) della sussistenza dell'accordo tra le parti sull'applicazione di una determinata pena; b) della correttezza della qualificazione giuridica del fatto, nonché dell'applicazione o della comparazione delle eventuali circostanze; c) della congruità della pena patteggiata, ai fini e nei limiti di cui all'art. 27, comma 3 Cost.; d) della concedibilità della sospensione condizionale della pena, qualora l'efficacia della richiesta sia stata subordinata al riconoscimento del beneficio.

Negativa, quanto all'esclusione della sussistenza di cause di non punibilità o di non procedibilità o di estinzione del reato.

Le delibazioni positive devono essere necessariamente sorrette dalla concisa esposizione dei relativi motivi di fatto e di diritto, mentre per quanto riguarda il giudizio negativo sulla ricorrenza di alcuna delle ipotesi previste dall'art. 129, l'obbligo della motivazione, per la natura stessa della delibazione, sussiste soltanto nel caso in cui dagli atti o dalle dichiarazioni delle parti risultino elementi concreti in ordine alla non ricorrenza delle suindicate ipotesi; in caso contrario, è sufficiente la semplice enunciazione, anche implicita, di avere effettuato, con esito negativo, la verifica richiesta dalla legge e cioè che non ricorrono gli estremi per la pronuncia di sentenza di proscioglimento ex art. 129.

Invero, l'accertamento della responsabilità, proprio perché solo implicito, non deve essere espressamente motivato essendo estraneo alla sentenza di patteggiamento che si fonda su un accordo delle parti su tutti gli elementi relativi al reato e alla pena nonché su una sostanziale ammissione di responsabilità dell'imputato (cfr., Cass. S.U. , n. 5777/1992).

Di conseguenza, si è affermato in giurisprudenza che, quando il giudice accetta integralmente la proposta delle parti dopo aver valutato la presenza delle condizioni previste dalla legge per la pronuncia della sentenza di patteggiamento, la motivazione dev'essere necessariamente sintetica ed essenziale, non avendo l'imputato interesse a lamentarsi di siffatta motivazione censurandola come insufficiente e sollecitandone una più analitica posto che la statuizione del giudice coincide esattamente con la volontà pattizia del giudicabile (Cass. I, n. 4951/1994).

Pertanto, con specifico riferimento alla nullità della sentenza per difetto di motivazione si è statuito che non può essere denunciata per vizio di motivazione la sentenza che, sia pur sinteticamente, ma compiutamente e comunque con adeguatezza, palesa che il giudice abbia preso in esame i fatti salienti evidenziati dagli atti ed abbia indicato le ragioni essenziali del convincimento al quale il medesimo è pervenuto in ordine alla corretta qualificazione giuridica dei fatti stessi e alla congruità della pena applicabile (Cass. VI, n. 1109/1991).

Anche con riferimento alla mancata assoluzione ai sensi dell'art. 129, il dovere di motivazione è di regola circoscritto entro limiti assai ridotti. Invero, il richiamo all'art. 129 è sufficiente a far ritenere che il giudice abbia verificato ed escluso la presenza di cause di proscioglimento, non occorrendo ulteriori e più analitiche disamine al riguardo (Cass. VI, n. 15927/2015). Un più puntuale obbligo di motivazione si sollecita solo nel caso in cui dagli atti o dalle deduzioni delle parti emergano concreti elementi della possibile applicazione di cause di non punibilità. Si è ritenuto in tal senso il difetto di motivazione allorquando il giudice, in presenza di una memoria difensiva con la quale espressamente si deduceva l'esistenza di una specifica causa estintiva, pronunci sentenza senza farsi carico di indicare le ragioni per le quali disattende le argomentazioni difensive svolte, limitandosi apoditticamente ad affermare che tale memoria non contiene ragioni che impongano il proscioglimento nel merito (Cass. III, n. 580/1996). Analogamente, è stata annullata per difetto di motivazione, la sentenza di patteggiamento nella quale la motivazione era costituita da poche righe di un modulo prestampato in cui non vi era nemmeno un cenno all'art. 129 (Cass. IV, n. 31392/2010).

Un'indagine più approfondita è imposta al giudice con riguardo alla correttezza della qualificazione giuridica del fatto. Tale controllo è infatti compito fondamentale del giudice che deve esercitarlo per evitare che il patteggiamento sulla pena si risolva in un accordo sui reati e sulle stesse imputazioni in violazione dell'art. 444 e dell'art. 112 Cost.: ne deriva che il giudice deve dare adeguatamente conto in motivazione di aver compiuto la verifica concernente la qualificazione giuridica del fatto (Cass. VI, n. 1282/2003). La motivazione deve essere particolarmente rigorosa ed approfondita quando le parti abbiano modificato l'originaria imputazione non potendosi, in tal caso, il giudice ridursi a dare atto di conformarsi alla nuova prospettazione, limitandosi ad un' apodittica correttezza della qualificazione giuridica del fatto (Cass. II, n. 46205/2005), essendosi affermato che, in una situazione del genere, il giudice ha il dovere di fornire adeguata motivazione circa la corretta qualificazione giuridica del fatto come derubricato dalle parti, indicando le differenze risultanti tra il fatto quale emerge dagli atti e quello contestato nel capo d'imputazione e precisando da quali elementi tale diversità sia stata desunta nonché le ragioni della difforme qualificazione giuridica (Cass. III, n. 4453/2021).

Un limitato onere di motivazione è ribadito con riferimento agli altri elementi essenziali del negozio processuale, e segnatamente in tema di applicazione e comparazione tra circostanze, essendosi, prevalentemente, riconosciuto come al giudice spetti solo un giudizio di correttezza che deve ritenersi implicito ogni volta che lo stesso abbia accettato la pena proposta (Cass. VI, n. 32004/2003).

La pena determinata a seguito dell'erronea applicazione del giudizio di comparazione tra circostanze eterogenee è illegale soltanto nel caso in cui essa ecceda i limiti edittali generali previsti dagli artt. 23 e ss., nonché 65 e 71 e ss., c.p., oppure i limiti edittali previsti per le singole fattispecie di reato, a nulla rilevando il fatto che i passaggi intermedi che portano alla sua determinazione siano compiuti in violazione di legge (Cass. S.U., n. 877/2023).

Parimenti si è esclusa la necessità di una specifica motivazione in ordine alla sussistenza del vincolo della continuazione prospettato dalle parti fra i reati per i quali si procede o fra gli stessi reati ed altri già giudicati, essendo sufficiente che il giudice enunci di avere positivamente effettuato l'accertamento ed il controllo sulla ricorrenza dei suoi presupposti, ovvero offra una succinta motivazione anche attraverso una sommaria indicazione degli elementi idonei a giustificare la formulazione di un logico convincimento sul punto (Cass. VI, n. 14563/2011; Cass. V, n. 37307/2010). Nemmeno esiste uno specifico dovere di indicare le ragioni poste a fondamento della decisione con riferimento alla quantificazione dell'aumento di pena per la continuazione, posto che i parametri al riguardo sono identici a quelli valevoli per la pena base (Cass. V, n. 11945/1999).

Una motivazione sintetica è richiesta anche con riferimento alla congruità della pena (Cass. V, n. 489/2000): nessuna censura può infatti essere mossa alla sentenza di applicazione della pena quando il giudice si sia limitato ad affermare che la pena richiesta dalle parti è congrua, in quanto ciò dimostra l'avvenuto controllo di tale rilevante elemento dell'accordo intervenuto tra imputato e P.m. e la valutazione favorevole operata ai fini dell'art. 27, comma 3 Cost. (Cass. I, n. 1878/1995) ovvero quando il giudice si sia richiamato alla pena proposta, non occorrendo un'indicazione specifica delle ragioni del suo convincimento, richiesta solo nel caso di una valutazione negativa della proposta delle parti stesse (Cass. V, n. 3276/1993).

L'orientamento della giurisprudenza è invece più rigoroso con riguardo alla necessità che il giudice dia conto delle valutazioni aventi ad oggetto la sospensione condizionale della pena richiesta dalle parti. In questa ipotesi, il giudice deve fornire adeguata motivazione sul punto, sia perché la prognosi prevista dall'art. 164 c.p. è di sua competenza. Invero, pur in presenza dell'accordo delle parti in ordine al beneficio de quo, il giudice rimane investito del potere-dovere di verificare se la sospensione condizionale sia concedibile o meno o deve darne atto in motivazione. avendo riguardo non solo agli eventuali precedenti ostativi non rilevati dal P.m., ma anche delle condizioni legittimanti la prognosi favorevole di cui all'art. 164, comma 1 (Cass. I, n. 3534/1990).

Si è ritenuto che, qualora nella motivazione e nel dispositivo della sentenza, il giudice abbia omesso di concedere il beneficio della sospensione condizionale della pena, cui sia stata subordinata l'efficacia dell'accordo, e possa tuttavia desumersi che siffatta mancata pronuncia sia da ascrivere ad una mera svista, si configura un'ipotesi di errore materiale che, in difetto di cause ostative alla concessione del beneficio, può essere emendato ai sensi dell'art. 130 (Cass. III, n. 3741/2021).

Le Sezioni unite (Cass. S.U., n. 5352/2024) hanno stabilito che non è ammissibile il ricorso per cassazione del P.m. avverso la sentenza resa ai sensi dell'art. 444 che, in relazione alla subordinazione della sospensione condizionale della pena, oggetto dell'accordo tra le parti, abbia omesso di disporre l'adempimento degli obblighi previsti dall'art. 165, comma quinto, c.p., nei casi dei reati ivi indicati, in quanto, in tal caso, non si determina quella illegalità della pena che sola consente il ricorso ai sensi dell'art. 448, comma 2-bis(cfr., Cass. II, n. 47918/2023).

Un più analitico dovere di motivazione grava sul giudice anche quando ordina la confisca, di tal che, in generale, il difetto di motivazione legittima il ricorso per cassazione e determina, in caso di accoglimento, l'annullamento della sentenza limitatamente al capo concernente la misura di sicurezza (Cass. V, n. 8840/2007). In particolare, il giudice deve non soltanto dar conto di aver accertato l'esistenza del nesso tra la res e il reato commesso ma, nel caso di confisca facoltativa, deve dar conto dell'esercizio dei suoi poteri discrezionali, indicando le ragioni per le quali ha ritenuto di applicare la misura di sicurezza reale (Cass. IV, n. 41560/2010). Qualora la confisca sia disposta ai sensi dell'art. 12-sexies d.l. n. 306/1992, il giudice ha l'obbligo di motivare sia sulle ragioni per cui non ritiene attendibili le giustificazioni eventualmente addotte in ordine alla provenienza del denaro o dei beni confiscati, sia sull'esistenza di una sproporzione tra i valori patrimoniali accertati ed il reddito dell'imputato o la sua effettiva attività economica (Cass. VI, n. 11497/2014).

Con riferimento alla confisca diretta del profitto del reato, si è riconosciuto come l'obbligo di motivazione debba essere parametrato alla particolare natura della sentenza, rispetto alla quale – pur non potendo ridursi il compito del giudice a una funzione di semplice presa d'atto del patto concluso tra le parti – lo sviluppo argomentativo della decisione è necessariamente correlato all'atto negoziale con cui l'imputato dispensa l'accusa dall'onere di provare i fatti dedotti nell'imputazione (Cass. II, n. 28850/2019).

Con riguardo, infine, al termine di durata della sanzione amministrativa accessoria, il giudice è invece tenuto ad una specifica motivazione soltanto quando intenda discostarsi significativamente dal minimo edittale e non anche quando applichi tale sanzione entro tale limite o se ne allontani di poco o quando la sua durata sia più prossima al minimo che al massimo edittale (Cass. IV, n. 21194/2012).

Il ricorso per cassazione e la nuova disciplina

La norma introdotta dalla l. 23 giugno 2017, n. 103, con l'art. 448, comma 2-bis, limita la proponibilità del ricorso per cassazione avverso la sentenza di patteggiamento, consentendolo nei soli casi in cui:

- sia dubbia o non correttamente interpretata la volontà dell'imputato di accedere al rito (per esempio, per erronea interpretazione da parte dello stesso delle conseguenze previste dalla legge in ipotesi di patteggiamento; per manifestazione di volontà in qualche modo viziata, dubbia o palesemente contraddittoria);

- non vi sia correlazione tra richiesta e sentenza (ivi compresi i casi nei quali la mancata correlazione involga l'accordo delle parti, anche in relazione ad un segmento o frazione dello stesso: per esempio, sull'applicazione della sospensione condizionale della pena);

- il fatto come contestato ed oggetto del negozio tra le parti abbia una qualificazione giuridica errata (nella prassi, non è infrequente una modifica dell'imputazione da parte del P.m. con eventuale contestazione di un reato diverso o diversamente circostanziato ed un accordo con l'imputato a definire il procedimento sulla base della “diversa” imputazione che pure andrà sottoposta al vaglio – certamente più rigoroso – da parte del giudice);

- vi sia pena o misura di sicurezza illegale (ossia non applicabile, perché al di fuori delle previsioni normative, nella specie o nella misura concordata).

Deve ritenersi che l'art. 1, comma 51, della l. 23 giugno 2017, n. 103, che ha interpolato l'art. 448 inserendovi la nuova disposizione del comma 2-bis, che restringe la possibilità di impugnare la sentenza di patteggiamento di primo grado con riferimento alle sopraindicate tassative ipotesi, configuri una previsione da intendersi come norma speciale rispetto al canone generale delineato dall'art. 606.

E' stata ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 448, comma 2-bis, in relazione agli artt. 2,24 e 111 Cost., in quanto la limitazione della facoltà di ricorso alle sole ipotesi espressamente previste dalla norma trova ragionevole giustificazione, nell'ambito delle scelte discrezionali riservate al legislatore, nell'esigenza di limitare il controllo di legittimità alle sole decisioni che contrastano con la volontà espressa dalle parti o che costituiscono disapplicazione dell'assetto normativo disciplinante l'illecito oggetto di cognizione (Cass. V, n. 21497/2021).

 La rilevanza dell'intervento riformatore è consistita nella esclusione dal novero dei casi di ricorso per cassazione di tutte le possibili eccezioni di nullità riguardanti il compimento degli atti precedenti la formulazione della richiesta di patteggiamento che assume piena efficacia sanante: orientamento che era già stato affermato dalla giurisprudenza della S.C. in epoca antecedente la riforma, secondo cui l'applicazione concordata della pena postula la rinuncia a far valere qualunque eccezione di nullità, anche assoluta, diversa da quelle attinenti alla richiesta di patteggiamento ed al consenso ad essa prestato (Cass. V, n. 2525/2017).

Il ricorso per cassazione che si incentri sul profilo della erronea qualificazione giuridica del fatto deve necessariamente sostanziarsi nell'articolazione di una critica specificamente argomentata e puntualmente correlata alla disamina degli elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) del fatto delineato nel tema d'accusa e della sua sussumibilità nello schema normativo della contestazione (Cass. VI, n. 3108/2018).

In ogni caso, la possibilità di ricorrere per cassazione deducendo l'erronea qualificazione giuridica del fatto è limitata ai soli casi di qualificazione palesemente eccentrica rispetto al contenuto del capo di imputazione o comunque da profili risultanti con immediatezza, in relazione alle ragioni fondanti della qualificazione proposta, con conseguente inammissibilità della denuncia di errori valutativi in diritto che non risultino evidenti dal testo del provvedimento impugnato e che contrappongano non consentite diverse letture della vicenda fattuale (Cass. III, n. 23150/2019).

Per erronea qualificazione giuridica del fatto si deve intendere la cornice utilizzata per inquadrare il fatto nelle sue varie componenti, comprese quelle che rendono configurabili le circostanze del reato (Cass. II, n. 16442/2021). E così può essere dedotta con ricorso per cassazione l'erronea applicazione di una circostanza in realtà insussistente ed anche la mancata applicazione di una circostanza effettivamente esistente, in quanto l'elemento circostanziale attiene alla corretta qualificazione giuridica del fatto e può influire sulla determinazione della pena (Cass. VI, n. 44393/2019, con la quale la S.C. ha annullato senza rinvio la sentenza con la quale era stata riconosciuta la recidiva nei confronti di un imputato gravato da un solo precedente per delitto colposo).

Non si ha erronea qualificazione giuridica del fatto e, quindi, non si legittima ricorso per cassazione nell'ipotesi in cui, al di là della mera enunciazione del motivo, venga proposta una diversa ricostruzione del fatto: in tal caso la Corte provvede a dichiarare l'inammissibilità con ordinanza de plano ai sensi dell'art. 610, comma 5-bis.

E' inammissibile ai sensi dell'art. 448, comma 2-bis, il ricorso per cassazione che deduca motivi concernenti, non l'illegalità della pena intesa come sanzione non prevista dall'ordinamento giuridico ovvero eccedente, per specie e quantità, il limite legale, ma profili commisurativi della stessa, discendenti dalla violazione dei parametri di cui all'art. 133 c.p., ovvero attinenti al bilanciamento delle circostanze del reato o alla misura delle diminuzioni conseguenti alla loro applicazione (Cass. V, n. 19757/2019).

Allorquando nella determinazione della pena finale, in ipotesi di reato continuato, si indichi come pena base quella più bassa (ovvero più alta) del limite edittale normativamente previsto ma non si eccedano i limiti generali previsti dagli artt. 23 e seguenti, nonchè 65, 71 e seguenti e 81, terzo e quarto comma, c.p., non ricorre un’ipotesi di illegalità della stessa, dovendosi aver riguardo alla misura finale complessiva della pena, a nulla rilevando il fatto che i passaggi intermedi che portano alla sua determinazione siano compiuti in violazione di legge (Cass. II, n. 15438/2024).

Le Sezioni Unite hanno ritenuto che la pena determinata a seguito dell'erronea applicazione del giudizio di comparazione tra circostanze eterogenee concorrenti è illegale soltanto nel caso in cui essa ecceda i limiti edittali generali previsti dagli artt. 23 e seguenti, nonché 65 e 71 e ss., c.p., oppure i limiti edittali previsti per le singole fattispecie di reato, a nulla rilevando il fatto che i passaggi intermedi che portano alla sua determinazione siano computati in violazione di legge (Cass. S.U., n. 877/2023, in fattispecie relativa a procedimento di applicazione della pena).

E' ammissibile il ricorso per cassazione, ai sensi del novellato art. 448, comma 2-bis, avverso la sentenza con la quale, ritenuta sussistente la recidiva reiterata, sia stato disposto un aumento per la continuazione inferiore al minimo di un terzo della pena irrogata per il reato più grave, il che determina l'illegalità della pena (Cass. VI, n. 4726/2021).

Pacifica è poi la ricorribilità per cassazione per vizio di motivazione in ordine all'applicazione di misure di sicurezza (personali e patrimoniali) che non abbiano formato oggetto dell'accordo tra le parti (Cass. S.U., n. 21368/2020).

Sembra non esservi mai stato reale contrasto, invece, sulla non ricorribilità in cassazione da parte del P.m. della sentenza di applicazione pena che abbia omesso di disporre l'espulsione dal territorio dello Stato dello straniero per uno dei reati di cui all'art. 86 d.P.R. 309/1990, ostandovi la previsione dell'art. 448, comma 2-bis che individua ipotesi tassative per la proponibilità di detta impugnazione, tra cui quella della effettiva adozione - e non della mancata adozione - di una misura di sicurezza (Cass. III, n. 45559/2018;  contra Cass. III, n. 29428/2019, secondo cui è ammissibile il ricorso per cassazione del P.m., ex art. 448, comma 2-bis, volto a denunciare l'omessa applicazione della confisca obbligatoria prevista dall'art. 12-bis d.lgs. n. 74/2000, nonostante la ricorrenza dei relativi presupposti, in quanto tale omissione determina una illegalità sul piano quantitativo delle statuizioni conseguenti alla realizzazione del reato per il quale detta confisca è prevista come obbligatoria).

Diversa è invece l'ipotesi in cui le parti abbiano concordato anche l'espulsione dello straniero dal territorio dello Stato come sanzione sostitutiva della pena detentiva a norma dell'art. 16 d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286: in tal caso, l'omessa applicazione dell'espulsione da parte del giudice comporta la nullità della sentenza di patteggiamento, con trasmissione degli atti al giudice di merito per nuovo giudizio (Cass. V, n. 40198/2018).

Ulteriore contrasto giurisprudenziale superato afferisce alla riconosciuta ricorribilità in cassazione, ai sensi dell'art. 606, delle sentenze di applicazione pena su richiesta che applichino ovvero omettano di applicare sanzioni amministrative accessorie (Cass. S.U. , n. 21369/2020) ). Queste ultime, non potendo essere equiparate alla pena avendo caratteristiche del tutto peculiari e, proprio in ragione di tale natura, si collocano necessariamente al di fuori della sfera di operatività dell'accordo che investe il patteggiamento.

L'annullamento della statuizione relativa alla applicazione delle pene accessorie illegali, perché in difetto dei presupposti di legge, non concordate dalle parti, determina l'eliminazione di tali sanzioni senza travolgere l'accordo e l'intera sentenza (Cass. V, n. 19400/2021).

Il ricorso per cassazione avverso la sentenza di applicazione pena su richiesta con il quale si deduce l'omessa valutazione da parte del giudice delle condizioni per pronunciare sentenza di proscioglimento ex art. 129, è inammissibile non essendo tale motivo denunciabile ai sensi del nuovo comma 2-bis dell'art. 448: anche in tal caso la Corte provvede a dichiarare l'inammissibilità de plano (Cass. II, n. 4727/2018).

La maturata prescrizione del reato al momento della sentenza che omologa l'accordo raggiunto dalle parti non è deducibile in cassazione, in quanto non determina l'illegalità della pena ai sensi dell'art. 448, comma 2-bis, ma può essere rilevata dal giudice al quale è sottoposto l'accordo che non implica di per sé rinuncia alla prescrizione (Cass. V, n. 26425/2019).

Il difetto di correlazione tra richiesta delle parti e sentenza costituisce motivo ammissibile di ricorso per cassazione, ai sensi dell'art. 448, comma 2-bis, a condizione che non risulti, con indiscussa immediatezza, che si tratti di asserzione palesemente eccentrica rispetto al contenuto dell'accordo, frutto di un errore manifesto del ricorrente: in tale ipotesi, il ricorso è inammissibile, ed il procedimento adottabile è quello de plano, ai sensi dell'art. 610, comma 5-bis.

E' parimenti inammissibile il ricorso per cassazione proposto per far valere la remissione di querela intervenuta dopo il perfezionamento dell'accordo e la pronuncia della sentenza ex art. 444, non configurandosi in tal caso un'ipotesi di pena illegale, che si ha soltanto quando venga applicata una pena di specie diversa da quella stabilita dalla legge per un determinato reato ovvero quella quantificata in misura inferiore o superiore ai limiti edittali (Cass. V, n. 11251/2019).

Del pari, va ritenuta illegale la pena applicata in presenza di disposizione dichiarata costituzionalmente illegittima, ovvero individuata in violazione del principio di irretroattività della legge penale più sfavorevole, ovvero determinata applicando una diminuzione non consentita (Cass. III, n. 552/2020).

L'integrale restituzione del prezzo o del profitto dei reati contro la P.A. previsti dall'art. 444, comma 1-ter, costituisce un requisito di ammissibilità del rito, la cui mancanza, inficiando l'espressione della volontà dell'imputato, può formare oggetto di ricorso per cassazione ai sensi del novellato art. 448, comma 2-bis (Cass. VI, n. 27606/2019).

 E' inammissibile, ai sensi dell'art. 448, comma 2-bis, il ricorso per cassazione con cui si deduca l'omessa applicazione di circostanze attenuanti non menzionate nella richiesta di applicazione di pena (Cass. V, n. 17982/2020).

Casistica

In caso di richiesta di applicazione concordata della pena subordinata alla sua sospensione condizionale, il giudice, che ritenga accoglibile l'istanza condizionando la concessione del beneficio allo svolgimento di attività lavorativa non retribuita in favore della collettività, ha l'obbligo di motivare adeguatamente in ordine a modalità esecutive e protrazione nel tempo della prestazione di pubblica utilità, qualora la durata della stessa non venga fissata in misura prossima ai minimi edittali (Cass. III, n. 17131/2015).

È ammissibile la richiesta di revisione di una sentenza di patteggiamento per inconciliabilità con l'accertamento compiuto in giudizio nei confronti di altro imputato per il quale si sia proceduto separatamente ma è, tuttavia, necessario che l'inconciliabilità si riferisca ai fatti stabiliti a fondamento della sentenza di condanna e non già alla loro valutazione (Cass. V, n. 10405/2015).

Il giudice ha l'obbligo di verificare la correttezza della qualificazione giuridica del fatto, dando conto con argomenti privi di vizi logici del percorso motivazionale seguito, specie nell'ipotesi in cui, in sede di accordo delle parti, si sia proceduto alla qualificazione giuridica del fatto in termini diversi rispetto all'imputazione originariamente contestata (Cass. II, n. 6859/2015).

In caso di omessa dichiarazione di falsità di un documento con la sentenza di patteggiamento, la S.C. non può adottare i provvedimenti previsti dall'art. 537, che richiedono una specifica motivazione implicante valutazioni di merito a sostegno della ritenuta falsità ed avverso i quali è riconosciuto alle parti il diritto di proporre, anche autonomamente, impugnazione (Cass. IV, n. 2258/2015contra, Cass. V, n. 20744/2014).

È ammissibile il ricorso per cassazione avverso la statuizione di condanna alla refusione delle spese di parte civile, trattandosi di questione sottratta all'accordo delle parti, rispetto alla quale non operano le limitazioni all'impugnabilità previste dal novellato art. 448, comma 2-bis (Cass. VI, n. 28013/2019).

La sentenza di patteggiamento che abbia applicato una pena precisamente determinata o determinabile in relazione ad un reato satellite, ritenuto nel giudizio di legittimità interamente assorbito in altro reato più grave, deve essere annullata senza rinvio a norma dell'art. 620, comma 1, lett. l, limitatamente al reato assorbito, posto che, per il principio di conservazione degli atti giuridici, il giudice di legittimità può, in tal caso, limitarsi ad eliminare la relativa pena e a rideterminare il trattamento sanzionatorio in attuazione dell'originario accordo concluso tra le parti per il reato base (Cass. III, n. 2011/2015).

V'è contrasto in giurisprudenza in ordine al potere del giudice di liquidare d'ufficio le spese processuali a favore della parte civile che non ne abbia fatto domanda mediante deposito della relativa nota spese (favorevole alla liquidazione ufficiosa, Cass. V, n. 48731/2014; contraria, Cass. IV, n. 3964/2021).

Il G.u.p. deve conformare i suoi poteri valutativi al rito scelto dalle parti, con la conseguenza che gli è precluso di prosciogliere l'imputato che ha chiesto di definire la sua posizione con l'applicazione di pena concordata, facendo ricorso ai parametri indicati dall'art. 425, che governano la valutazione della validità processuale della richiesta di rinvio a giudizio (Cass. II, n. 47444/2014).

Il provvedimento di confisca adottato con sentenza di applicazione della pena, pronunciata nei confronti di coimputati diversi da quelli che sono anche i titolari dei beni in sequestro, è legittimo solo in ipotesi di confisca di tipo pertinenziale, disposta cioè in ragione dell'asservimento dei beni al reato o dell'identificazione diretta del profitto nei beni medesimi, ma non anche quando l'ablazione sia stabilita per equivalente ed abbia quindi natura sanzionatoria (Cass. I, n. 44238/2014).

Ai fini della determinazione della pena nella sentenza di patteggiamento, relativa a più fatti unificati sotto il vincolo della continuazione, è necessario innanzitutto individuare la violazione più grave, desumibile dalla pena da irrogare per i singoli reati, tenendo conto della eventuale applicazione di circostanze aggravanti o attenuanti, dell'eventuale giudizio di comparazione tra circostanze di segno opposto, e di ogni altro elemento di valutazione; una volta determinata la pena per il reato base, la stessa deve essere poi aumentata per la continuazione ed infine ridotta fino ad un terzo, ai sensi dell'art. 444, comma 1 (Cass. VI, n. 44368/2014).

La confisca «diretta» o «per equivalente» del profitto del reato, qualora questo sia individuato o altrimenti individuabile, va sempre obbligatoriamente disposta con la sentenza di applicazione della pena ex art. 444, mentre, se dal capo di imputazione o dagli atti processuali non sia possibile determinare l'ammontare del profitto conseguito dall'imputato, il giudice deve fornire una specifica motivazione di tale impossibilità, restando comunque salva la possibilità di disporre tale misura ablatoria nella fase esecutiva (Cass. III, n. 19461/2014).

Non integra alcuna nullità della sentenza di patteggiamento la mancata indicazione da parte del giudice delle modalità di svolgimento del lavoro di pubblica utilità, applicato in sostituzione della pena detentiva per il reato di guida in stato di ebbrezza, giacché tale omissione non investe l'ambito decisionale ma riguarda le modalità attuative della statuizione e, come tale, può trovare risoluzione nel procedimento di esecuzione (Cass. IV, n. 34774/2014).

Integra propriamente una causa di ricusazione, ex art. 37, comma 1 lett. b) (Corte cost. n. 283/2000) e non una causa di incompatibilità di cui all'art. 34 la circostanza che il medesimo magistrato chiamato a decidere sulla responsabilità di un imputato abbia già pronunciato sentenza di applicazione della pena su richiesta nei confronti di un concorrente nel medesimo reato, allorquando nella motivazione di essa risultino espresse valutazioni di merito sullo stesso fatto nei confronti del soggetto sottoposto a giudizio (Cass. S.U. , n. 36847/2014).

L'ipotesi di incompatibilità del giudice derivante dalla sentenza della Corte cost. n. 371/1996 – che ha dichiarato la incostituzionalità dell'art. 34, comma 2, «nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio nei confronti di un imputato il giudice che abbia pronunciato o concorso a pronunciare una precedente sentenza nei confronti di altri soggetti, nella quale la posizione di quello stesso imputato in ordine alla sua responsabilità penale sia già stata comunque valutata» – sussiste anche con riferimento alla ipotesi in cui il giudice del dibattimento abbia, in separato procedimento, pronunciato sentenza di applicazione della pena su richiesta nei confronti di un concorrente necessario nello stesso reato (Cass. S.U., n. 36847/2014).

Per l'esclusione dal patteggiamento a pena detentiva superiore a due anni, non è sufficiente che dal certificato penale dell'imputato emerga una situazione di recidiva qualificata, ma occorre che la stessa sia stata espressamente riconosciuta e dichiarata dal giudice (Cass. II, n. 23548/2019, nella quale si è precisato che l'ammissione al patteggiamento “allargato” in presenza di una tale causa di esclusione comporta l'applicazione di una pena illegale, che consente il ricorso per cassazione ex art. 448, comma 2-bis).

A seguito di sentenza di applicazione pena non possono essere fatti valere con il successivo ricorso per cassazione vizi attinenti la citazione per la precedente udienza preliminare (Cass. II, n. 46775/2018).

In tema di ricorso per cassazione avverso la sentenza di patteggiamento relativa a plurimi reati, successivamente unificati dal vincolo della continuazione, all'errore in iudicando non può porsi rimedio eliminando la frazione di pena applicata in aumento, essendo invece necessario annullare senza rinvio la sentenza impugnata, con trasmissione degli atti al giudice procedente, per consentire alle parti di rinegoziare l'accordo (Cass. III, n. 23150/2019, cit.).

In tema di riti speciali, la definizione del processo con sentenza di patteggiamento preclude all'imputato la possibilità di dedurre, con il ricorso per cassazione, il carattere ingiustificato del rigetto della richiesta di sospensione con messa alla prova, in quanto l'applicazione concordata della pena postula la rinuncia a far valere qualunque eccezione di nullità, anche assoluta, diversa da quelle attinenti alla richiesta di patteggiamento ed al consenso ad essa prestato (Cass. IV, n. 8531/2022).

Contro una sentenza di “patteggiamento”, non è ammissibile il ricorso per cassazione per lamentare che il giudice, in difetto di richiesta delle parti, non abbia sostituito d'ufficio la pena detentiva  con una sanzione sostitutiva ex artt. 53 e ss. l. n. 689 del 1981 e 545-bis, e l'inammissibilità può essere dichiarata de plano (Cass. II, 43286/2023).

Invero, la richiesta di sostituzione della pena concordata con taluna delle misure di cui agli artt. 53 e ss. della l. n. 689 del 1981, per essere delibata dal giudice del patteggiamento, deve essere espressamente prevista e ricompresa nell'accordo tra le parti, con la conseguenza che l'omessa previsione di applicazione di tale sanzione sostitutiva, ovvero la richiesta di sostituzione formulata da una sola delle parti al di fuori dell'accordo di patteggiamento non attribuisce alcun motivo per proporre ricorso per cassazione, essendo detta previsione non ricompresa nell'alveo delle ipotesi legittimanti il ricorso a norma dell'art. 448, comma 2-bis (Cass. II, n. 46128/2023).

Invero, la richiesta di sostituzione della pena concordata con taluna delle misure di cui agli artt. 53 e ss. della l. n. 689 del 1981, per essere delibata dal giudice del patteggiamento, deve essere espressamente prevista e ricompresa nell'accordo tra le parti, con la conseguenza che l'omessa previsione di applicazione di tale sanzione sostitutiva, ovvero la richiesta di sostituzione formulata da una sola delle parti al di fuori dell'accordo di patteggiamento non attribuisce alcun motivo per proporre ricorso per cassazione, essendo detta previsione non ricompresa nell'alveo delle ipotesi legittimanti il ricorso a norma dell'art. 448, comma 2-bis (Cass. II, n. 46128/2023).

E' inammissibile per carenza d'interesse, il ricorso contro la sentenza che non concede espressamente la non menzione della condanna cui sia stata condizionata la richiesta, atteso che detto beneficio opera direttamente per effetto degli artt. 24, comma 1, lett. e) e 25, comma 1, lett. e), d.P.R. n. 313 del 2002 (Cass. II, n. 36767/2023).

Non è ricorribile per cassazione l'ordinanza con cui il giudice, contestualmente alla pronuncia di sentenza di patteggiamento, fissi apposita udienza, ai sensi degli artt. 448, comma 1-bis, e 545-bis, per decidere sulla richiesta di applicazione della pena sostitutiva concordata tra le parti (Cass. VI, n. 43947/2023, nella quale si è precisato che si tratta di provvedimento interlocutorio che non può essere considerato abnorme e non ha effetti pregiudizievoli per l'imputato, atteso che nelle more dell'udienza di rinvio il processo rimane sospeso).

La richiesta di sostituzione della pena concordata con taluna delle misure di cui agli artt. 53 e ss. della l. n. 689 del 1981, per essere delibata dal giudice del patteggiamento, deve essere espressamente prevista e ricompresa nell'accordo tra le parti, con la conseguenza che l'omessa previsione di applicazione di tale sanzione sostitutiva, ovvero la richiesta di sostituzione formulata da una sola delle parti al di fuori dell'accordo di patteggiamento non attribuisce alcun motivo per proporre ricorso per cassazione, essendo detta previsione non ricompresa nell'alveo delle ipotesi legittimanti il ricorso a norma dell'art. 448, comma 2-bis (Cass. II, n. 46128/2023). 

Bibliografia

Aprile, Giudice unico e processo penale, Milano, 2000; Bricchetti, Il patteggiamento si adegua alla Consulta, in Guida dir. 2000, 1, LXV; Chiliberti-Roberti, L'applicazione della pena su richiesta delle parti, in Chiliberti-Roberti-Tuccillo, Manuale pratico dei procedimenti speciali, Milano, 1994; De Roberto, La motivazione della sentenza di “patteggiamento” secondo le Sezioni Unite della Corte di cassazione, in Giur. it. 1993, II, 203; Di Chiara, L'architettura dei presupposti, in AA. VV., Il patteggiamento, Milano, 1999; Lupo, Procedimenti speciali, in Quad. C.S.M., 20, 167; Melillo, Osservazioni in tema di applicazione della pena su richiesta delle parti, in Cass. pen., 1990, I, 531; Orlandi, Procedimenti speciali, in Compendio di procedura penale, in Conso-Grevi (a cura di), Padova, 2003; Peroni, La sentenza di patteggiamento, Padova, 1999; Ramajoli, I procedimenti speciali nel codice di procedura penale, Padova, 1996; Relazione dell’Ufficio del Massimario n. 2/2023, 5 gennaio 2023.

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