Codice di Procedura Penale art. 459 - Casi di procedimento per decreto 1 .

Andrea Pellegrino

Casi di procedimento per decreto1.

1. Nei procedimenti per reati perseguibili di ufficio [249 trans.] ed in quelli perseguibili a querela se questa è stata validamente presentata e se il querelante non ha nella stessa dichiarato di opporvisi, il pubblico ministero, quando ritiene che si debba applicare soltanto una pena pecuniaria, anche se inflitta in sostituzione di una pena detentiva, può presentare al giudice per le indagini preliminari, entro un anno dalla data in cui il nome della persona alla quale il reato è attribuito è iscritto nel registro delle notizie di reato [335] e previa trasmissione del fascicolo, richiesta motivata di emissione del decreto penale di condanna, indicando la misura della pena23.

1-bis. Nel caso di irrogazione di una pena pecuniaria in sostituzione di una pena detentiva, il giudice, per determinare l'ammontare della pena pecuniaria, individua il valore giornaliero al quale può essere assoggettato l'imputato e lo moltiplica per i giorni di pena detentiva. Il valore giornaliero non può essere inferiore a 5 euro e superiore a 250 euro e corrisponde alla quota di reddito giornaliero che può essere impiegata per il pagamento della pena pecuniaria, tenendo conto delle complessive condizioni economiche, patrimoniali e di vita dell'imputato e del suo nucleo familiare. Alla pena pecuniaria irrogata in sostituzione della pena detentiva si applica l'articolo 133-ter del codice penale. Entro gli stessi limiti, la pena detentiva può essere sostituita altresì con il lavoro di pubblica utilità di cui all'articolo 56-bis della legge 24 novembre 1981, n. 689, se l'indagato, prima dell'esercizio dell'azione penale, ne fa richiesta al pubblico ministero, presentando il programma di trattamento elaborato dall'ufficio di esecuzione penale esterna con la relativa dichiarazione di disponibilità dell'ente.4

1-ter. Quando è stato emesso decreto penale di condanna a pena pecuniaria sostitutiva di una pena detentiva, l'imputato, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, nel termine di quindici giorni dalla notificazione del decreto, può chiedere la sostituzione della pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità di cui all'articolo 56-bis della legge 24 novembre 1981, n. 689, anche senza formulare l'atto di opposizione. Con l'istanza, l'imputato può chiedere un termine di sessanta giorni per depositare la dichiarazione di disponibilità dell'ente o dell'associazione di cui all'articolo 56-bis, primo comma, e il programma dell'ufficio di esecuzione penale esterna. Trascorso detto termine, il giudice che ha emesso il decreto di condanna può operare la sostituzione della pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità. In difetto dei presupposti, il giudice respinge la richiesta e, se non e' stata proposta, congiuntamente o successivamente, tempestiva opposizione, dichiara esecutivo il decreto5.

2. Il pubblico ministero può chiedere l'applicazione di una pena diminuita sino alla metà rispetto al minimo edittale.

3. Il giudice, quando non accoglie la richiesta, se non deve pronunciare sentenza di proscioglimento a norma dell'articolo 129, restituisce gli atti al pubblico ministero.

4. Del decreto penale è data comunicazione al querelante.

5. Il procedimento per decreto non è ammesso quando risulta la necessità di applicare una misura di sicurezza personale.

 

[1] Articolo così sostituito dall'art. 37, comma 1 l. 16 dicembre 1999, n. 479.

[2] Comma modificato dall'art. 28, comma 1, lett. a), n. 1, d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 che ha sostituito le parole «un anno» alle parole «sei mesi».

[3] La Corte cost. 27 febbraio 2015, n. 23, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente comma « nella parte in cui prevede la facoltà del querelante di opporsi, in caso di reati perseguibili a querela, alla definizione del procedimento con l'emissione di decreto penale di condanna ».

[4] Comma  sostituito dall'art. 28, comma 1, lett. a), n. 2, d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, Il testo del comma, come  inserito dall’articolo 1, comma 53, l. 23 giugno 2017 n. 103, era il seguente: «1-bis Nel caso di irrogazione di una pena pecuniaria in sostituzione di una pena detentiva, il giudice, per determinare l’ammontare della pena pecuniaria, individua il valore giornaliero al quale può essere assoggettato l’imputato e lo moltiplica per i giorni di pena detentiva. Nella determinazione dell’ammontare di cui al periodo precedente il giudice tiene conto della condizione economica complessiva dell’imputato e del suo nucleo familiare. Il valore giornaliero non può essere inferiore alla somma di euro 75 di pena pecuniaria per un giorno di pena detentiva e non può superare di tre volte tale ammontare. Alla pena pecuniaria irrogata in sostituzione della pena detentiva si applica l’articolo 133-ter del codice penale ». 

[5] Comma inserito dall'art. 28, comma 1, lett. a), n. 3, d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 e da ultimo modificato dall'art. 2, comma 1, lett. s) d.lgs. 19 marzo 2024, n. 31, che ha inserito la parola «anche» dopo le parole «1981, n. 689,»  e le parole «e, se non e' stata proposta, congiuntamente o successivamente, tempestiva opposizione, dichiara esecutivo il decreto» sono state sostituite alle parole «ed emette decreto di giudizio immediato».

Inquadramento

È del tutto discrezionale la facoltà rimessa dall'ordinamento nelle mani dell'inquirente il quale, nella ricorrenza di pochi e ben determinati presupposti di legge, può far sì che il procedimento penale derivi dal suo corso tipico e s'insinui in un percorso monitorio che conduce alla pronuncia di un provvedimento di condanna, ad opera del G.i.p., senza che si sia tenuto alcun processo. Per tale ragione, il procedimento per decreto penale di condanna si differenzia dagli altri riti “speciali” in quanto la decisione è presa inaudita altera parte con potenziale efficacia diretta esecutiva nei confronti dell'imputato che può “fermarne” l'efficacia solo opponendosi nel termine di quindici giorni. Pur tuttavia, potendosi ricorrere a tale rito speciale soltanto ove si debba applicare la sola pena pecuniaria (anche se risultante dalla sostituzione di una pena detentiva breve), l'incidenza nel sistema penale di un procedimento che affonda le sue radici nel pieno medioevo (processus ex informata conscientia) appare marginale.

Nel testo di riforma (l. 23 giugno 2017, n. 103) si prevede che, nel caso di irrogazione di una pena pecuniaria in sostituzione di una pena detentiva, il giudice, per determinare l’ammontare della pena pecuniaria, individui il valore giornaliero al quale può essere assoggettato l’imputato e lo moltiplichi per i giorni di pena detentiva.

Caratteristiche generali

L'imperfetta continuità normativa con il sistema previgente

In determinati casi, il P.m. può decidere di esercitare l'azione penale inoltrando al G.i.p. una richiesta di emissione di un provvedimento monitorio; qualora venga emesso il decreto, all'imputato viene chiesto di scegliere se opporsi o meno a tale decisione inaudita altera parte, eventualmente optando per un altro rito speciale. In caso di acquiescenza dell'imputato, la condanna si perfeziona attraverso una manifestazione postuma di “rinuncia” al contraddittorio per la prova. È, così, demandata all'imputato la scelta definitiva sulla prosecuzione o meno del procedimento, con l'eliminazione delle fasi dell'udienza preliminare e del dibattimento. A rime invertite, dunque, lo schema fondato sul consenso delle parti e sul conseguente intervento giurisdizionale presenta notevoli analogie con il patteggiamento.

Le origini della massima contrazione giudiziaria vanno individuate, in una prospettiva utilitarista, nell'ideale binomio tra economia processuale e scarsa gravità del reato; la ricognizione legislativa delle fattispecie interessate segue, infatti, parametri meramente sanzionatori riservando l'accesso al rito a fattispecie concretamente punibili solo con una pena pecuniaria e con riferimento alle quali è possibile una definizione sine strepitu et figura iudicii (cfr., Corte cost. n. 27/1996 in cui si afferma: «adottato per ragioni di economia processuale... è un procedimento che, appunto per la semplicità della forma, che tuttavia non menoma le garanzie difensive, ha dato ottimi risultati, tanto che... è stato esteso anche ai delitti perseguibili di ufficio»).

Nonostante la ristretta platea dei destinatari, lo strumento in esame mantiene, comunque, nella pratica notevoli potenzialità deflattive direttamente connesse, come si vedrà, al ruolo svolto dal titolare dell'azione penale.

Spesso, le riflessioni sull'istituto nate nei sistemi precedenti esprimevano scetticismo per un «istituto antipatico e odioso» e, al contempo, apprezzamento per la rapidità della soluzione giudiziaria.

In una prospettiva di massimizzazione delle potenzialità acceleratorie, era addirittura sorto il dibattito, con riferimento al sistema precedente, sulla possibilità di instaurazione automatica del rito, senza una preventiva raccolta di elementi probatori. La qual cosa manifestava come, all'estrema agilità della procedura, si accompagnassero celate tentazioni minimaliste, dirette a polverizzare la fase investigativa.

Sul piano più generale, si registra un'imperfetta continuità con l'omonima disciplina prevista dal codice di procedura del 1930.

Istituto dagli spiccati tratti inquisitori, il decreto penale di condanna è apparso anche nei precedenti modelli processuali, mutuandone di volta in volta le ispirazioni di fondo; ferma restando la condanna inaudita altera parte, le differenze hanno riguardato, più che altro, l'ambito applicativo e l'opponibilità o meno da parte dell'imputato. Nel sistema previgente, dal naturale cumulo di poteri requirenti e decisori in capo al giudice era scaturito un sistema che prescriveva al pretore di procedere in via ordinaria (con l'istruzione sommaria) «quando non procede[va]... con decreto» (art. 389, comma 4, c.p.p. 1930); dunque, si era dinanzi a uno “speciale” evolversi del processo che doveva rappresentare, al contempo, la prima scelta dell'autorità procedente. Le spinte autoritarie del sistema assecondavano, perciò, la struttura autoritaria dello strumento consegnandolo unicamente nelle mani dell'organo giurisdizionale. Tale quadro metteva in discussione l'idea stessa di “processo” nella misura in cui l'eventuale assenza di un'attività istruttoria impediva di scorgere qualsiasi scansione procedimentale.

La sintesi tra impulso della procedura speciale ed emissione del decreto affidata al medesimo organo scompare dallo scenario del codice del 1988. L'adeguamento dello schema monitorio alle esigenze discendenti dalla separazione dei ruoli non ha, tuttavia, accresciuto lo stimolo a compiere indagini complete prima della richiesta di decreto penale. Ciò influisce sulla tenuta del provvedimento, poiché le probabilità di opposizione crescono proporzionalmente alle lacune investigative. Ecco che, salvo la reiezione della domanda, la mancata previsione di contromisure per indagini incomplete e la tendenza a calibrare il provvedimento sulla pena applicabile possono comprometterne l'efficacia.

Il decreto penale e l'art. 24 Cost.

La straordinaria snellezza del mezzo può stimolare l'eccessiva contrazione della fase preliminare, dove il decreto penale consegue ad «una semplice delibazione della notitia criminis». È lo stesso desiderio di “accertamenti lampo” a compromettere, paradossalmente, la funzionalità dell'istituto. Da qui il sostanziale “fondamento” dei numerosi interventi della Corte costituzionale con riferimento al rito monitorio.

Invero, la particolare struttura a contraddittorio posticipato rispetto alla condanna concentra i dubbi di legittimità attorno all'art. 24, comma 2, Cost., nella misura in cui risulta (quantomeno) problematico ammettere l'affermazione di responsabilità penale senza avere mai preventivamente dato la possibilità all'imputato di esporre le proprie ragioni.

L'inevitabile abbassamento di garanzie comporta, da una parte, la verifica delle esigenze in nome delle quali tale deminutio si attua e, dall'altra, l'individuazione di contrappesi adeguati in grado di ristabilire un ragionevole equilibrio.

Invero, il leit motiv presente nelle prime pronunce dei giudici della Consulta è rappresentato dalla facoltà di scelta concessa all'imputato raggiunto da decreto penale: l'accettazione non solo elimina di per se stessa qualsiasi questione difensiva, ma dimostra che l'imputato non ha motivo né interesse per il dibattimento. In tale prospettiva, dunque, l'esistenza di un diritto di opposizione riequilibrerebbe l'assetto inizialmente sbilanciato dall'assenza di contraddittorio.

I dubbi circa l'effettività del diritto di difesa nell'ambito della procedura in esame si riaffacciano, ancora più prepotentemente, all'indomani dell'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale. Nella versione originaria della disciplina, la mancata previsione di un difensore (di fiducia o d'ufficio) previamente designato — questione proposta a cavallo dei due codici — è considerata in linea con i parametri statuiti dalle convenzioni internazionali.

In particolare, la Corte costituzionale, esclude la violazione degli artt. 6, § 3, lett. b) e c), CEDU e 14, § 3, lett. b) e d), Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici adottato a New York il 19 dicembre 1966 (l. ratifica 25 ottobre 1977, n. 881), dimensionando il diritto di difesa in relazione allo scopo ed alle funzioni dell'atto da compiere: il carattere “preliminare” del decreto di condanna nonché l'asserita superfluità di cognizioni tecniche per la presentazione dell'opposizione non impongono, sotto questa luce, la previa presenza di un difensore. Sotto altro versante, la necessità della difesa tecnica viene negata sulla base di un bilanciamento con le esigenze di speditezza dell'attività giudiziaria (Corte cost. n. 344/1991).

Maggiori attenzioni alle esigenze difensive spuntano con l'art. 20, l. 6 marzo 2001, n. 60 che, novellando l'originario disposto dell'art. 460, comma 3, prevede espressamente la notifica del decreto al difensore, anche se si trattasse di un avvocato d'ufficio designato in luogo di quello di fiducia. Dopo una lunga resistenza della Corte costituzionale — ferma nella difesa delle ragioni di economia processuale — il legislatore interviene per rafforzare quella stessa possibilità di scelta rimessa all'imputato.

In prospettiva assai vicina, tuttavia, la verifica di legittimità si è spostata sull'idoneità del sistema delle notificazioni a garantire (rendendo consapevole l'imputato del provvedimento monitorio) l'esercizio del diritto di opposizione. La disciplina codicistica non è apparsa in linea con la Costituzione laddove limitava alla sola irreperibilità i casi di revoca del decreto attesa la mancata notificazione personale all'imputato; oggi, anche l'impossibilità di notificazione nel domicilio dichiarato ex art. 161 conduce alla revoca del decreto: l'anticipazione della pronuncia di condanna fa assurgere i meccanismi informativi del provvedimento monitorio a elemento essenziale del diritto dell'autodifesa. In quest'ottica, deve essere garantita la conoscenza effettiva dell'atto da parte del destinatario in modo che questi «sia posto in condizione di esercitare concretamente la scelta tra opposizione e acquiescenza» (Corte cost. n. 504/2000, in cui si sottolinea come «l'impossibilità di eseguire la notificazione al domicilio dichiarato dall'imputato comporta l'alta probabilità che questi non abbia conoscenza effettiva del decreto e che l'eventuale proposizione dell'opposizione sia rimessa esclusivamente alla valutazione e alla iniziativa del difensore»). La questione prescinde dalla legittimazione del difensore ad opporsi, attenendo più che altro alla necessaria partecipazione dell'imputato alla scelta definitiva sul prosieguo del procedimento atteso che, nell'ambito del rito monitorio, non può essere mantenuta alcuna forma di conoscenza meramente legale del decreto.

In definitiva, la complessiva tenuta costituzionale della disciplina, pressoché inalterata nei suoi tratti essenziali (indispensabili a perseguire le esigenze ispiratrici), è giustificata dal “polimorfismo” del diritto di difesa e, al contempo, dal rafforzamento delle garanzie a base del contraddittorio posticipato.

Il vaglio di legittimità costituzionale ha riguardato, invero, anche l'art. 111 Cost. sotto il profilo della violazione del principio audiatur et altera pars. Oltre che sulla particolare struttura del rito storicamente disegnata dallo stesso giudice delle leggi, la manifesta infondatezza della questione viene affermata, in questo caso, sul duplice rilievo che «il dettato costituzionale... non impone che il contraddittorio si esplichi con le medesime modalità in ogni tipo di procedimento e, soprattutto, che debba sempre essere collocato nella fase iniziale del procedimento stesso» (Corte cost. n. 8/2003) e che «se, poi, l'imputato chiede il giudizio abbreviato o l'applicazione della pena, ovvero, non opponendosi, presta acquiescenza al decreto penale di condanna, mediante tali scelte manifesta anche il consenso alla utilizzazione degli atti di indagine raccolti dal pubblico ministero» (Corte cost. n. 32/2003). Il consenso di cui all'art. 111, comma 5, Cost. si può, dunque, esprimere anche dopo l'utilizzazione della prova e, persino, dopo il giudizio.

Peraltro, pur fugati i dubbi di costituzionalità sul punto, i riflessi di un simile assetto non si esauriscono, tuttavia, nell'ambito dell'effettiva utilità dello strumento, atteso che la completezza delle indagini dovrebbe costituire la premessa di qualsiasi scelta in ordine all'azione. Ma non solo. Se, astrattamente, la prestazione del consenso inerisce all'accettazione che il provvedimento giudiziale si fondi sul materiale probatorio unilateralmente raccolto nelle indagini, non necessariamente detto consenso involge e comprende anche la rinuncia ad un contraddittorio quanto meno argomentativo così accettandosi anche che la decisione venga presa al di fuori di ogni forma di contrapposizione dialettica tra le parti.

Va, poi, segnalato l'ulteriore intervento della Consulta (Corte cost. n. 23/2015) che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 459, comma 1, nella parte in cui prevede la facoltà del querelante di opporsi, in caso di reati perseguibili a querela, alla definizione del procedimento con l'emissione di decreto penale di condanna per contrasto con gli artt. 3 e 111 Cost., in cui si afferma che una volta ampliato il campo dei reati per i quali è possibile definire il procedimento con il decreto penale di condanna comprendendovi anche i reati procedibili a querela (con il dichiarato scopo di favorire sempre più il ricorso ai riti alternativi di tipo premiale per assicurare la deflazione del carico penale necessaria per l'effettivo funzionamento del rito accusatorio), l'attribuzione di una mera facoltà al querelante, consistente nell'opposizione alla definizione del procedimento mediante il decreto penale di condanna, introduce un evidente elemento di irrazionalità. Ciò in quanto: a) distingue irragionevolmente la posizione del querelante rispetto a quella della persona offesa dal reato per i reati perseguibili d'ufficio; b) non corrisponde ad alcun interesse meritevole di tutela del querelante stesso; c) reca un significativo vulnus all'esigenza di rapida definizione del processo; d) si pone in contrasto sistematico con le esigenze di deflazione proprie dei riti alternativi premiali; e) è intrinsecamente contraddittoria rispetto alla mancata previsione di una analoga facoltà di opposizione alla definizione del processo mediante l'applicazione della pena su richiesta delle parti, in quanto tale rito speciale può essere una modalità di definizione del giudizio nonostante l'esercizio, da parte del querelante, del suo potere interdittivo.

L'ambito operativo di applicazione

La richiesta di decreto penale rientra tra le cause di assunzione della qualità di imputato: ciò spinge a considerare l'impulso del P.m. quale speciale forma di esercizio dell'azione penale.

Il disposto codicistico lascia intendere un carattere facoltativo della scelta accusatoria direttamente connesso all'individuazione della specie di pena applicabile.

L' ambito di applicabilità del procedimento è stato, da una parte, ampliato dalla l. n. 479/1999 tramite l'inclusione dei reati perseguibili a querela di parte e, da un'altra parte, ristretto da d.lgs. n. 274/2000 che ne ha escluso espressamente l'applicabilità nei procedimenti penali dinanzi al giudice di pace, in quest'ultimo caso, avendo il legislatore inteso sottrarre alla “microgiurisdizione” delicati aspetti coinvolgenti plurimi risvolti costituzionali.

In mancanza di una diversa disposizione normativa, continuano a non poter essere definiti con il decreto penale i procedimenti perseguibili a istanza o richiesta. Riguardo i procedimenti per i quali è necessaria un'autorizzazione a procedere, invece, tale prospettiva è implicitamente ammessa dall'art. 344, comma 1.

Rispetto al codice previgente, non costituisce preclusione la qualità di delinquente o contravventore abituale o professionale o di delinquente per tendenza; non si può, invece, ricorrere alla procedura per decreto quando si deve applicare una misura di sicurezza personale. L'accertamento della pericolosità sociale dell'imputato è incompatibile con le esigenze di speditezza del rito; oltretutto, l'eventuale estensione dell'apparato afflittivo a misure personali avrebbe certamente reso scontata l'opposizione, oltre che rivelarsi incompatibile con una condanna senza previo contraddittorio.

Il termine per l'instaurazione del rito

L'instaurazione del rito deve intervenire entro un anno dall'iscrizione del destinatario nel registro delle notizie di reato. La presenza di un limite temporale ha la funzione di rammentare come il rito monitorio sia riferibile a «un quadro fattuale di agevole e pronto accertamento» (Corte cost. n. 217/1999); la conferma dell'intenzione legislativa si evince dall'originario termine di quattro mesi poi innalzato per effetto del d.lgs. n. 161/1990.

Si deve rilevare, invero, come tale sottolineatura legislativa abbia un tratto debole, non essendo prevista alcuna conseguenza preclusiva in caso di richiesta di decreto penale fuori dai predetti limiti cronologici: secondo lo stesso diritto vivente, è da escludere la natura perentoria del termine (Cass. S.U., n. 3/1992). Tuttavia, sulla scia di tale lettura, si deve registrare un orientamento giurisprudenziale teso a rafforzare i rimedi contro l'inosservanza del termine, affermando la legittimità del diniego del G.i.p.  preliminari ad emettere un decreto a fronte di richieste tardive (Cass. III, n. 5850/2004). Sulla scorta di tale impostazione, è sorto un contrasto sull'abnormità o meno del diniego di emissione del decreto in casi del genere (v. Cass. III, n. 40978/2002, che esclude l'abnormità non essendo prevista, in questo caso, alcuna delimitazione del potere discrezionale concesso al giudice; contra, Cass. I, n. 5566/2004, che dalla natura di termine per le indagini fa discendere l'assenza di limiti alle scelte del P.m. sull'azione penale; nonché Cass. III, n. 3562/2000, per l'illegittimità di una revoca — disposta per evitare sanzioni disciplinari — di un decreto emesso oltre termine). La soluzione della giurisprudenza maggioritaria affermativa del potere di diniego (con la sostanziale attrazione del termine in questione nell'alveo di quelli perentori) viene criticata per l'allargamento praeter legem delle cause di inammissibilità della richiesta.

La riforma Cartabia

Il decreto legislativo n. 150 del 10 ottobre 2022, di attuazione della l. 27 settembre 2021, n. 134 recante delega al Governo per l'efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari, con l'art. 28 ha innanzitutto previsto – come si è detto – che la richiesta di decreto penale di condanna possa essere formulata dal P.m. entro un anno dall'iscrizione ai sensi dell'art. 335, e non più di sei mesi dalla data in cui il nome della persona indagata è iscritto nell'apposito registro. Con tale modifica si è inteso allineare tale termine alla nuova durata delle indagini e dare un messaggio metodologico al P.m. di utilizzare nel modo più ampio possibile il rito monitorio, grazie al maggior tempo investigativo a disposizione, con la possibilità correlata di chiedere l'applicazione della pena pecuniaria ridotta della metà rispetto al minimo edittale nei limiti ben più ampi previsti per la nuova sanzione sostitutiva e con tassi di quantificazione più vantaggiosi. Peraltro, la novella non prende posizione in ordine alla natura di tale termine e alle conseguenze processuali in caso di omesso rispetto dello stesso. Ulteriori novità sono contenute nel testo del comma 1-bis come novellato e nel nuovo comma 1-ter. Con il primo, si prevede la possibilità di sostituzione della pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità qualora l'indagato, prima dell'esercizio dell'azione penale, ne faccia richiesta al P.m., presentando il programma di trattamento elaborato dall'Ufficio di esecuzione penale esterna con la relativa disponibilità dell'ente; con il secondo, si prevede che, allorquando venga emesso un decreto penale a pena pecuniaria sostitutiva di una pena detentiva, l'imputato, nel termine di quindici giorni dalla notificazione del decreto, possa chiedere la sostituzione della pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità di cui all'art. 56-bis della l. 689 del 1981, senza formulare l'atto di opposizione: con l'istanza, l'imputato può chiedere un termine di sessanta giorni per depositare la disponibilità dell'ente o dell'associazione di cui all'art. 56-bis, primo comma, e il programma dell'Ufficio di esecuzione penale esterna; trascorso detto termine, il giudice che ha emesso il decreto penale può operare la sostituzione della pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità; in difetto dei presupposti, il giudice respinge la richiesta ed emette decreto di giudizio immediato.

Profili di diritto intertemporale

In mancanza di diversa disposizione, trattandosi di norma processuale, si applica il principio del “tempus regit actum”. Si richiamano le considerazioni esposte nel par. 8.1 a commento dell’art. 438.

La mancanza di obblighi informativi nei confronti dell'imputato

Tra le garanzie difensive concesse all'imputato manca l'avviso di conclusione delle indagini preliminari. Il P.m. che si determini per la richiesta di decreto penale di condanna non deve inviare l'atto previsto dall'art. 415-bis. È, questa, un'impostazione fondata prevalentemente sull'incompatibilità di una siffatta tutela con la celerità propria del rito.

In realtà, la previsione di un contraddittorio anticipato con lo schema dell'art. 415-bis potrebbe consentire una massimizzazione dell'economia processuale, incentivando un fascicolo sicuramente più completo. Tuttavia, la previsione di una nullità per omesso invio dell'avviso solo per la richiesta di rinvio a giudizio e il decreto di citazione diretta (artt. 416, comma 1 e 552, comma 2) spinge a considerare la garanzia ex art. 415-bis quale prerogativa esclusiva del procedimento ordinario (in questo senso, Cass. I, n. 33751/2001, secondo cui «il procedimento per decreto, fondato sull'evidenza della prova, con funzione di deflazione del dibattimento, tiene luogo dell'avviso di cui all'art. 415-bis attesa la previsione di un contraddittorio differito in seguito solo ad una eventuale fase di opposizione»; nello stesso senso, Cass III, n. 41292/2006; Cass. fer., n. 39541/2004).

Il dibattito si è esteso, altresì, ai profili di legittimità costituzionale della mancata previsione di un avviso all'indagato prima della richiesta di decreto penale. La Corte costituzionale esclude un contrasto con la Carta fondamentale ricollegandosi alla propria impostazione — manifestata a più riprese, anche con riferimento al sistema precedente — in virtù della quale il diritto di difesa è garantito dalla riconosciuta facoltà di opposizione, strumento in grado di offrire un recupero pieno del contraddittorio (Corte cost. n. 292/2004). D'altro canto, le perplessità circa l'impossibilità di calare l'ordinario meccanismo di discovery nelle dinamiche monitorie non riguardano la citazione a giudizio successiva all'opposizione; in questo caso, il contraddittorio già si è instaurato e, perciò, non sussistono più le esigenze sottostanti la garanzia informativa.

Con la richiesta ai sensi dell'art. 459, il P.m. deve inviare al G.i.p. tutto il fascicolo formato ai sensi dell'art. 373, comma 5. È da escludere un potere di selezione degli atti da parte dell'organo dell'accusa. Oltre che l'assenza di qualsiasi riferimento legislativo, è la peculiarità strutturale del rito ad imporre un dovere di trasmissione completa. Invero, l'art. 140 disp. att. concede alle parti e ai difensori la facoltà di prendere visione del fascicolo trasmesso con la richiesta di decreto; pertanto, rilevata l'assenza di un avviso di conclusione delle indagini preliminari, è questo l'unico momento in cui l'imputato viene a conoscenza delle indagini svolte. Se si ammettesse la possibilità per il P.m. di inviare il fascicolo non nella sua integralità, l'esercizio del diritto di difesa risulterebbe inevitabilmente menomato; inoltre, le stesse valutazioni cui è chiamato l'organo giurisdizionale non potrebbero essere svolte compiutamente, con l'effetto di amplificare l'assenza di un contraddittorio anticipato rispetto alla decisione.

La sanzione

Le pene applicabili sono solamente la multa o l'ammenda anche se inflitte «in sostituzione di una pena detentiva»; quindi, la sanzione pecuniaria può intervenire a titolo esclusivo, alternativo o in sostituzione. A tale ultimo proposito, rileva l'art. 53, l. 24 novembre 1981, n. 689, che detta la disciplina delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi. Il tenore letterale dell'art. 459, comma 1, non lascia dubbi sulla necessità di riferirsi alla pena irrogabile in concreto; pertanto, il calcolo sanzionatorio per verificare la sostituibilità della pena detentiva deve fondarsi su tutte le circostanze attenuanti e aggravanti eventualmente applicabili alla fattispecie concreta. L'art. 459, comma 2, prevede, inoltre, la possibilità di una riduzione di pena sino alla metà del minimo edittale.

La nuova disciplina introdotta con la legge Orlando

L'art. 459, comma 1-bis, introdotto dalla l. 23 giugno 2017, n. 103 , prevede l'individuazione, nei confronti dell'imputato, del valore giornaliero della pena pecuniaria disposta in sostituzione della pena detentiva, determinazione, per così dire “personalizzata”, che terrà conto della condizione economica complessiva dell'imputato e del suo nucleo familiare. Il valore giornaliero non potrà essere inferiore a settantacinque euro (per un giorno di pena detentiva) e superiore a duecentoventicinque euro.

Tale disposizione deroga a quanto disposto dall'art. 135 c.p. in ordine al ragguaglio tra pene pecuniarie e pene detentive ed è finalizzata, come si ricava dai lavori parlamentari, alla riduzione del numero dei detenuti presso le strutture carcerarie ed all'incameramento di maggiori somme sebbene non quantificabili.

Sarà consentito disporre il pagamento rateale della somma a norma dell'art. 133-ter c.p.

L'art. 459, comma 1-bis (che consente al giudice di determinare la pena sostituita) e l'art. 460, comma 2 (che vincola il giudice ad applicare la pena nella misura richiesta dal P.m.) sono solo apparentemente in contrasto, in quanto una lettura coordinata delle norme consente di ritenere che la “misura della pena” che vincola il giudice quando emette il decreto penale è quella detentiva indicata dal P.m. richiedente, utilizzata come moltiplicatore per il ragguaglio, che il giudice, appunto, “applica”; mentre, la pena “irrogata” cui si riferisce l'art. 459, comma 1-bis, è quella sostituita all'esito del calcolo, con la conseguenza che il giudice resta libero di rideterminare discrezionalmente il tasso giornaliero che, moltiplicato per i giorni di pena detentiva indicati dal P.m., individua l'ammontare della pena pecuniaria sostitutiva.

Si è affermato in giurisprudenza che non sembra assolutamente necessario, ai fini della quantificazione della pena sostituita, l'espletamento di specifiche e mirate attività di verifica delle condizioni economiche complessive dell'imputato e del suo nucleo familiare, tanto più quando il ragguaglio sia effettuato in misura corrispondente al minimo stabilito dalla legge, ove un problema di incongruità della pena verrebbe a porsi solo nel caso in cui sussistano elementi indicativi di capacità economiche maggiori rispetto a quelle ritenute dal P.m.: si tratta, in definitiva, di una valutazione che può essere espressa dal giudice anche in termini non specifici attraverso la considerazione globale degli elementi a disposizione (Cass. III, n. 22458/2018).

Pur se la norma appare finalizzata alla riduzione - come detto - del numero dei detenuti presso le strutture carcerarie, all'incameramento di maggiori somme ed alla necessità di diminuire il numero delle opposizioni a decreto penale di condanna (Cass. III, n. 22458/2018), è indiscutibile come la stessa possa produrre effetti sostanziali, in conseguenza della riduzione della pena pecuniaria, derivante dalla conversione della pena detentiva, anche ove applicata al massimo.

Va ricordato come la S.C. (Cass. S.U., n. 46653/2015) abbia affermato che il diritto dell'imputato, desumibile dall'art. 2, comma quarto, c.p., di essere giudicato in base al trattamento più favorevole tra quelli succedutisi nel tempo, comporti per il giudice della cognizione il dovere di applicare la lex mitior anche nel caso in cui la pena inflitta con la legge previgente rientri nella nuova cornice sopravvenuta, in quanto la finalità rieducativa della pena ed il rispetto dei principi di uguaglianza e di proporzionalità impongono di rivalutare la misura della sanzione, precedentemente individuata, sulla base dei parametri edittali modificati dal legislatore in termini di minore gravità. Su questi presupposti, la S.C. (Cass. III, n. 30691/2019: Cass. VII, n. 2922/2021; Cass. I, n. 17061/2021) ha riconosciuto la necessità dell'applicazione del disposto dell'art. 2, comma quarto, c.p. (necessariamente rimessa alla competenza del giudice dell'esecuzione) anche nell'ipotesi in cui il decreto sia emesso precedentemente all'entrata in vigore della norma più favorevole introdotta con l'art. 459, comma 1-bis, ma notificato nel vigore della disposizione successiva, derivando l'obbligo in parola dalla necessità di rispettare il principio di proporzionalità, posto che la pena viene stabilita in concreto in base a criteri che, in linea di massima, appaiono di maggiore gravità rispetto a quelli che il condannato avrebbe avuto il diritto di vedersi applicare, anche se solo in sede di conversione, sia pure con una valutazione compiuta a posteriori 

(sulla natura sostanziale e la conseguente retroattività degli effetti della disposizione dell’art. 459, comma 1-bis, v. Cass. I, n. 1296/2024).

Si segnala, inoltre, l’intervento della Corte costituzionale (Corte cost. n. 15/2020), che, con riferimento alla disciplina delle pene pecuniarie, nonostante il dispositivo di inammissibilità, ha rivolto al legislatore un monito preciso circa l’opportunità di intervenire con una disciplina che razionalizzi la materia e le restituisca effettività.

L’intervento della Corte costituzionale era stato sollecitato dal Tribunale di Firenze, investito di una richiesta di patteggiamento con sostituzione (ex art. 53 comma 2, l. n. 689/1981) della pena della reclusione con quella della multa, che l’imputato chiedeva di calcolare secondo il tasso di conversione stabilito dall’art. 459 comma 1-bis (75 euro per ogni giorno di pena detentiva, aumentabile fino al triplo tenuto conto delle condizioni economiche individuali e del nucleo familiare). Il Tribunale di Firenze, rilevato che tale criterio può operare soltanto nel procedimento per decreto penale di condanna, sollevava questione di legittimità costituzionale dell’art. 135 c.p., censurando che la previsione ivi contenuta di un diverso criterio con ambito di applicazione generale (250 euro per ogni giorno di pena detentiva) comportasse una violazione dell’art. 3 Cost. – facendo dipendere il tasso di conversione da una scelta discrezionale del P.m. circa le modalità di esercizio dell’azione penale – nonché dell’art. 27 Cost. – consentendo potenzialmente l’irrogazione di pene sproporzionate rispetto alla gravità dei fatti.

La Corte costituzionale ha dichiarato le questioni inammissibili, precisando però che quello implicitamente denunciato dal ricorrente è un “problema reale”.

Nelle motivazioni si ricostruisce anzitutto l’evoluzione che ha interessato il criterio di conversione ordinario e, in particolare, la modifica normativa (l. 94/2009) che ha innalzato il tasso a 250 euro giornalieri: questa ha reso particolarmente oneroso il risultato economico della sostituzione (alla reclusione minima di 15 giorni corrisponderebbe una multa minima di 3.750 euro) e, di conseguenza, ridotto significativamente nella prassi le richieste di sostituzione – frustrando, nota la Corte, la ratio sottostante il meccanismo sostitutivo, peraltro divenuto accessibile ai soli detenuti abbienti.

Poste tali premesse, tuttavia, la questione di legittimità sconta un vizio di “aberratio ictus”.

Vero infatti, che il criterio ordinario di ragguaglio è quello stabilito dall’art. 135 c.p., su cui si appuntano le censure del rimettente, ma non può trascurarsi – osserva la Corte – che l’art. 53 l. 689/1981, nel prevedere in generale il meccanismo sostitutivo e nel rinviare all’art. 135, prevede esso stesso una disciplina speciale: in particolare, la norma viene in rilievo nella parte in cui consente che la somma fissata dal codice possa essere aumentata sino a dieci volte, in considerazione della condizione economica dell’imputato o del suo nucleo familiare.

Una questione di legittimità concernente, come quella in esame, il solo art. 135 c.p., risulta pertanto mal direzionata sotto un duplice aspetto: da un lato, mira a modificare un criterio di ragguaglio che svolge nell’ordinamento penale una pluralità di funzioni ulteriori rispetto alla conversione della pena detentiva in pena pecuniaria, dall’altro omette di censurare la norma (il citato art. 53) la cui disciplina speciale sarebbe applicabile nel caso di specie.

Dichiarata quindi l’inammissibilità della questione, la sentenza si chiude con un monito che si ritiene opportuno riportare integralmente: «Le considerazioni poc’anzi svolte inducono, comunque, questa Corte a formulare l’auspicio che il legislatore intervenga a porre rimedio alle incongruenze evidenziate [...] nel quadro di un complessivo intervento – la cui stringente opportunità è stata anche di recente segnalata (sent. n. 279 del 2019) – volto a restituire effettività alla pena pecuniaria, anche attraverso una revisione degli attuali, farraginosi meccanismi di esecuzione forzata e di conversione in pene limitative della libertà personale. E ciò nella consapevolezza che soltanto una disciplina della pena pecuniaria in grado di garantirne una commisurazione da parte del giudice proporzionata tanto alla gravità del reato quanto alle condizioni economiche del reo, e assieme di assicurarne poi l’effettiva riscossione, può costituire una seria alternativa alla pena detentiva, così come di fatto accade in molti altri ordinamenti contemporanei».

La Corte costituzionale ha escluso che si possa definire “beneficio” la riduzione in questione, da intendersi piuttosto quale “convenienza o meno di accettare” (Corte cost. n. 344/1991); al di là delle precisazioni lessicali, è indubbio che si è di fronte ad un incentivo per la mancata opposizione.

Tuttavia, risolvere l'aspetto definitorio, può risultare utile nella misura in cui all'interprete occorra stabilire il momento del calcolo nel quale calare il “beneficio”: se, cioè, la diminuzione de qua vada calcolata sulla pena irrogabile in astratto (e, quindi, prima della verifica sulla sostituibilità o meno) ovvero in concreto. La differenza rileva perché scegliendo l'una o l'altra soluzione si apre la strada a una minore (dopo la sostituzione) o maggiore (prima della sostituzione) accessibilità al rito: anticipando la riduzione premiale, aumentano le probabilità di rientrare nel limite massimo di pena detentiva previsto dall'art. 53 l. n. 689/1981 per ottenere la sostituzione. Oltretutto, con l'altra soluzione, si pone il problema dell'assenza di un minimo edittale per la pena sostitutiva, con la conseguente impossibilità di applicare l'art. 459, comma 2, alle pene pecuniarie frutto di sostituzione. Invero, l'applicazione della diminuzione prima dell'eventuale sostituzione, oltre che più aderente al riferimento testuale al “minimo edittale”, tiene conto della principale esigenza di potenziare le capacità deflattive del rito, anche se bisogna fare i conti con le incertezze derivanti dalla possibile compromissione del principio di legalità sanzionatoria.

V'è contrasto, invece, sulle modalità operative della “diminuzione per il rito sino alla metà rispetto al minimo edittale” ed il rapporto con altre eventuali circostanze attenuanti; in particolare, ci si chiede se queste intervengano prima o dopo la riduzione de qua. A tale proposito, la natura di diminuente processuale imporrebbe l'applicazione della stessa solo dopo aver adottato eventuali circostanze del reato (come accade per il giudizio abbreviato e per il patteggiamento).

Altro nodo è stabilire se, per effetto di attenuanti, si possa scendere al di sotto della metà del minimo edittale indicato dall'art. 459, comma 2. Ferma restando l'operatività non automatica della diminuente processuale — rimessa, comunque, alla discrezionalità petitoria del P.m. — l'interrogativo cade, dunque, sulla presenza o meno del limite in questione quale quantum di pena invalicabile al ribasso.

La soluzione che non ammette la possibilità di operare abbassamenti ulteriori rispetto alla metà del minimo edittale allontana il procedimento per decreto dal giudizio abbreviato e dal patteggiamento; in tale maniera, si rende, poi, più appetibile l'opposizione, cui potrebbe ricorrersi anche solo per potere usufruire dei maggiori benefici sanzionatori altrimenti garantiti dai suddetti riti alternativi.

D'altra parte, non può sottacersi come l'inequivocabile riferimento normativo al parametro edittale minimo si ponga come limite difficilmente superabile, a meno di letture che, ribaltando la naturale operatività della diminuente processuale, la antepongano a quella delle circostanze del reato. In questo caso, la diminuzione andrebbe applicata sulla pena-base, nonostante il tenore letterale dell'art. 459, comma 2, si orienti in termini opposti; nella medesima prospettiva esegetica, del resto, si colloca l'art. 460, comma 1, lett. c) laddove impone l'obbligo motivazionale sul punto della diminuente processuale, che appare frammento di chiusura quanto a dosimetria sanzionatoria.

La questione rileva, altresì, nella misura in cui il decreto deve indicare, ai sensi dell'art. 460, comma 2, l'entità dell'eventuale diminuzione della pena al di sotto del minimo edittale.

L'intervento giurisdizionale

Oltre a un controllo sui presupposti applicativi del rito, il G.i.p. è chiamato a compiere valutazioni di merito sulla richiesta ricevuta dal P.m. (Corte cost. n. 447/1990; Corte cost. n. 502/1991). I limiti e le caratteristiche dell'intervento giurisdizionale ricordano il controllo svolto nell'applicazione della pena su richiesta delle parti.

Dalle scarne indicazioni codicistiche, è possibile trarre alcune convinzioni pur contornate da qualche incertezza. Un dato positivo richiama l'obbligo di immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità. Tenuto presente l'assetto fissato dall'art. 129, il giudice pronuncia un proscioglimento qualora non venga condivisa l'individuazione del colpevole compiuta dal P.m. (Cass. I, n. 5622/1994). E così si è espressamente riconosciuto (Cass. III, n. 36240/2020) come il G.i.p., investito della richiesta di emissione di un decreto penale di condanna può pronunciare sentenza di proscioglimento solo per una delle ipotesi tassativamente indicate nell’art. 129 e non anche perché la prova risulti mancante, insufficiente o contraddittoria ai sensi dell’art. 530, comma 2, atteso che queste categorie, in quanto non richiamate dall’art. 129, possono acquisire rilievo soltanto quando le parti, compreso il P.m., abbiano potuto esercitare compiutamente, nella sede a ciò destinata, il diritto alla prova (nello stesso senso, già Cass. S.U., n. 18/1995, in cui si dà rilevanza alla differenza tra insufficienza della prova e prova «negativa della colpevolezza, nel senso radicale dell'impossibilità di acquisirla»).

In entrambi i casi, i limiti applicativi dell'art. 129 si riversano nella procedura monitoria.

Sono sorti problemi sull'estensione applicativa dell'art. 129 nell'ambito dello schema monitorio, ponendosi la questione della possibilità o meno per il G.i.p. di emanare tale sentenza di proscioglimento a seguito di ulteriori elementi probatori emersi con la presentazione dell'opposizione.

La giurisprudenza ha riconosciuto l'abnormità del proscioglimento deciso dal G.i.p. dopo l'emissione del decreto (Cass. S.U., n. 21243/2010, in cui si puntualizza come al proscioglimento immediato giungersi anche in caso di prova mancante, «ove questa non appaia in alcun modo acquisibile»).

Il tema interessa l'estensione dei poteri del giudice che emette il decreto penale di condanna. Uno degli ostacoli per l'applicazione dell'art. 129 anche dopo l'opposizione è rappresentato dalla carenza di contraddittorio che contraddistinguerebbe la sentenza così emanata. Sul punto, si potrebbe, tuttavia, osservare come, in tale contesto, ogni parte processuale sia artefice del suo destino: il P.m., nella misura in cui decide di accedere al rito con qualche lacuna investigativa; l'imputato, nel momento in cui decide di allargare il panorama cognitivo offrendo al giudice elementi che investigazioni d'accusa più caute avrebbero potuto facilmente reperire.

Altra controindicazione a una soluzione positiva promanerebbe dal principio di legalità: tra i casi di revoca del decreto penale di condanna, osserva la giurisprudenza (Cass. S.U., n. 21243/2010 cit.), non figura l'ipotesi in esame; cosicché, per ammettere un potere di proscioglimento successivo all'opposizione, si finirebbe per crearne un altro di tipo ablatorio non previsto dal legislatore (una straordinaria apertura verso la possibilità per il G.i.p. di rilevare eventuali patologie del proprio decreto e di rimediarvi è affermata da Cass. III, n. 43471/2011)

Questione connessa è il riconoscimento di eventuali poteri istruttori in capo al G.i.p. ricevente una richiesta ai sensi dell'art. 459. Diverse ragioni sembrano porsi contro una simile evenienza. Il principio di legalità esclude a priori la possibilità per il giudice di espandere autonomamente le proprie conoscenze; siffatti poteri officiosi non possono prescindere da puntuali previsioni normative.

Più problematico appare negare la valutabilità, ai fini dello sviluppo processuale successivo all'opposizione, di elementi probatori presentati dall'imputato. Tuttavia, condividendo l'impostazione che “blinda” lo spazio operativo del G.i.p. emittente il decreto — non ammettendo, ad esempio, il proscioglimento ex art. 129 (Cass. S.U., n. 21243/2010, cit.) —, si rende addirittura superfluo qualsiasi allargamento cognitivo del G.i.p. che abbia emesso il decreto: mancherebbe un utile sbocco processuale per l'accresciuta conoscenza.

A ben vedere, la negazione sia di poteri istruttori in capo al giudice della procedura monitoria, sia di possibilità di pronunce di proscioglimento successive all'intervento dell'imputato, conferma le convinzioni di una analogia tra patteggiamento e procedimento per decreto; in entrambi i casi, il procedimento deve nascere e concludersi attorno all'originaria proposta (congiunta ovvero unilaterale) di pena, poiché il consenso delle parti deve cadere sul medesimo oggetto.

La problematicità del controllo giurisdizionale sulla richiesta di decreto si manifesta anche nella misura in cui occorre stabilire cosa accade nel caso in cui il giudice ritenga il fatto diversamente qualificato. A tale riguardo, si è escluso il potere del giudice di prosciogliere ex art. 129; ciò in considerazione dell'effetto preclusivo che, ai sensi dell'art. 649, verrebbe a prodursi in caso di mancata impugnazione (Cass. II, n. 4339/1996; contra, Cass. VI, n. 8652/1993).

La giustificazione addotta per escludere un potere di proscioglimento non convince fino in fondo, poiché la soluzione favorevole non può dipendere dalle conseguenze di eventuali scelte di parte: riscontrata una corretta qualificazione, il proscioglimento dovrebbe essere consentito quantomeno nei casi in cui al diverso nomen juris è agganciata l'estinzione del reato o l'improcedibilità. È, viceversa, più difficile ammettere l'emissione di un decreto penale che includa una riqualificazione giuridica ope iudicis. Legittimare una simile incidenza del controllo del giudice, equivale a mettere in discussione il caposaldo consensuale si cui si regge la procedura monitoria (condivisa l'analogia con il patteggiamento, è utile rilevare come si ritenga precluso, al giudice investito di una richiesta congiunta di applicazione pena, di emettere sentenza di condanna per un fatto diversamente qualificato: Cass. VI, n. 6510/2004; Cass. IV, n. 3867/1995, secondo cui il giudice non può sostituire la qualificazione giuridica proposta dalle parti per emettere sentenza di condanna, ma deve rigettare la richiesta e procedere con rito ordinario; cfr., altresì, Cass. V, n. 467/1999, per la restituzione degli atti al P.m. in caso di fatto diverso rispetto a quello descritto nell'accordo sulla pena).

Si è così riconosciuto, in termini generali, che il G.i.p., una volta emesso il decreto penale di condanna, si spoglia dei poteri decisori sul merito dell’azione penale e non può, quindi, a seguito di opposizione, operare alcuna modifica del capo di imputazione, anche se quello contenuto nel decreto, per mero errore, riporti una contestazione del tutto diversa, anche in fatto, da quella contenuta nella richiesta del P.m. (Cass. III, n. 19689/2018).

I vincoli normativi spingono, così, ad escludere la possibilità per il giudice di indicare ulteriori indagini, a differenza di quanto previsto, nel procedimento di archiviazione, dall'art. 409, comma 4. La Corte costituzionale ha sottolineato la diversa funzione dell'intervento giurisdizionale nei due casi: invero, mentre la richiesta di decreto penale di condanna è una forma di esercizio dell'azione penale, il controllo giurisdizionale disciplinato dall'art. 409 si iscrive in un contesto di mancato esercizio dell'azione penale. Il potere “istruttorio”, in quest'ultimo caso, è posto a presidio dell'art. 112 Cost. (Corte cost. n. 217/1999). A nulla vale evocare, per il giudice delle leggi, l'art. 24 Cost. poiché il diritto di difesa nel procedimento monitorio, per costante insegnamento della giurisprudenza costituzionale, è sufficientemente tutelato dalle facoltà oppositive riconosciute all'imputato.

Stesso effetto pregiudicante sancito dall'art. 34 in caso di emissione del decreto, discende dal rigetto del decreto. La Consulta ha, infatti, allargato l'ambito dell'incompatibilità anche al caso del G.i.p. che non accolga la richiesta monitoria ritenendo inadeguata la pena richiesta dal P.m. (Corte cost. n. 502/1991, cit.). Presupposto del ragionamento è il compimento di una valutazione di merito inerente all'insussistenza delle condizioni per prosciogliere ai sensi dell'art. 129. Il concetto di “giudizio” utilizzabile ai fini dell'individuazione della sede pregiudicata include tutti i possibili sbocchi processuali successivi all'opposizione (Corte cost. n. 401/1991, in cui si sottolinea come la locuzione “giudizio” sia di per sé tale da comprendere qualsiasi tipo di giudizio, «cioè ogni processo che in base ad un esame delle prove pervenga ad una decisione di merito, compreso quello che si svolge con il rito abbreviato»).

Casistica

La sentenza di proscioglimento, emessa dal G.i.p. investito della richiesta di decreto penale di condanna, può essere impugnata solo con ricorso per cassazione (Cass. IV, n. 17419/2023).

In tema di procedimento per decreto, il P.m. non è tenuto ad interrogare l'indagato prima di esercitare l'azione penale con richiesta di decreto penale di condanna, non essendo prevista, in tale procedimento, la previa notifica dell'avviso di conclusione delle indagini ai sensi dell'art. 415-bis, né tale soluzione determina alcuna lesione del diritto di difesa o del principio del contraddittorio, atteso che questo ha modo di esplicarsi nel successivo giudizio di opposizione (Cass. III, n. 16894/2015).

Il G.i.p. può prosciogliere la persona nei cui confronti il P.m. abbia richiesto l'emissione di decreto penale di condanna solo per una delle ipotesi tassativamente indicate nell'art. 129 e non anche perché la prova risulti mancante, insufficiente o contraddittoria ai sensi dell'art. 530, comma 2, posto che queste categorie, in quanto non richiamate dall'art. 129, possono acquisire rilievo soltanto quando le parti, compreso il P.m., abbiano potuto esercitare compiutamente, nella sede a ciò destinata, il diritto alla prova (Cass. III, n. 45934/2014).

È affetta da abnormità funzionale l'ordinanza con la quale il G.i.p., per ragioni di «opportunità processuale», che invadono la sfera di competenza istituzionale del P.m. in ordine alla scelta del rito, rigetta la richiesta di emissione di decreto penale di condanna, disponendo la restituzione degli atti all'ufficio requirente (Cass. V, n. 29347/2018, in fattispecie in cui la S.C. ha annullato il provvedimento impugnato che aveva motivato il rigetto in base all'assunto per il quale la gravità della condotta rendeva prevedibile l'opposizione e la verifica dibattimentale; contra, Cass. VI, n. 23829/2016, in fattispecie in cui la S.C. ha escluso l'abnormità dell'ordinanza di rigetto con la quale il G.i.p. aveva ritenuto l'inadeguatezza della pena pecuniaria a sanzionare la condotta di omesso versamento delle somme dovute dall'imputato al coniuge a titolo di mantenimento, in quanto indicativa della propensione di questi all'inadempimento delle obbligazioni pecuniarie).

Non è abnorme, e quindi non è ricorribile per cassazione, il provvedimento con cui il G.i.p., investito della richiesta di emissione del decreto penale di condanna, restituisca gli atti al P.m. perché valuti la possibilità di chiedere l'archiviazione del procedimento per particolare tenuità del fatto, ex art. 131-bis c.p. (Cass. S.U., n. 20569/2018).

È abnorme, in quanto fondato unicamente su motivi di opportunità, il provvedimento con cui il G.i.p. rigetta la richiesta di emissione di decreto penale di condanna in base alla prognosi negativa circa il pagamento, da parte dell'imputato, della pena pecuniaria indicata nella richiesta del P.m. (Cass. V, n. 14041/2023).

Il giudice che dichiara inammissibile l'opposizione a decreto penale di condanna non è tenuto ad esprimere alcuna motivazione in ordine alla regolarità formale della notifica, trattandosi di valutazione attinente a profili di diritto, e non essendo richiesta al giudice di merito alcuna esplicitazione delle ragioni addotte a sostegno della corretta interpretazione di disposizioni normative (Cass. III, n. 40234/2014).

Non è abnorme l'ordinanza con la quale il G.i.p. rigetta la richiesta di emissione del decreto penale di condanna disponendo la restituzione degli atti al P.m., per l'inosservanza del termine di sei mesi entro il quale l'istanza a norma dell'art. 459, comma 1, deve essere presentata (Cass. VI, n. 14764/2014).

Il ricorso per cassazione proposto dall'imputato avverso il decreto penale di condanna è inammissibile e non può essere convertito nell'opposizione prevista dall'art. 461, non appartenendo l'opposizione al novero dei mezzi di impugnazione in senso tecnico (Cass. IV, n. 45556/2013; contra, Cass. III, n. 22443/2013).

La scelta del rito processuale da seguire compete esclusivamente al P.m. in qualità di titolare dell'azione penale, non essendo prevista alcuna facoltà per il denunciante di opporsi alla formulazione della richiesta di emissione di decreto penale di condanna (Cass. III, n. 13028/2013).

In tema di guida in stato di ebbrezza, la violazione dell'obbligo di dare avviso al conducente da sottoporre all'esame alcolimetrico della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia, determina una nullità di ordine generale, rilevabile e deducibile nei termini di cui agli artt. 180 e 182, comma 2, con la conseguenza che, in caso di procedimento per decreto, il momento ultimo entro il quale la nullità può essere rilevata d'ufficio va individuato nell'adozione del decreto penale di condanna e quello entro il quale invece può essere dedotta dalla parte va individuato nella presentazione dell'atto di opposizione al decreto stesso (Cass. IV, n. 58379/2018, nella quale si è precisato che la discrasia temporale si giustifica in ragione del contraddittorio eventuale e differito che caratterizza il procedimento per decreto, ed è solo apparente, in quanto in entrambi i casi rileva il momento di acquisita conoscenza degli atti).

In tema di decreto penale di condanna, il G.i.p., a fronte della richiesta contenente un'errata qualificazione giuridica del fatto, è tenuto a disporre la trasmissione degli atti al P.m. ai sensi dell'art. 459, senza potere emettere sentenza ex art. 129 con riferimento al reato erroneamente contestato (Cass. VI, n. 25275/2018, in cui la S.C. ha annullato senza rinvio la sentenza di proscioglimento per difetto di querela emessa dal G.i.p. in relazione al contestato reato di cui all'art. 388 c.p., omettendo di rilevare che il fatto, per come contestato, integrava il delitto di cui all'art. 334 c.p., procedibile d'ufficio).

In caso di avvenuta emissione di decreto penale di condanna, il G.i.p., può, su istanza dell'imputato presentata nel termine di quindici giorni dalla notifica del provvedimento, ed in assenza di presentazione, da parte di questi, di atto di opposizione, procedere alla sostituzione della pena pecuniaria di cui al decreto penale con quella del lavoro di pubblica utilità prevista dall'art. 186, comma 9-bis, d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (Cass. IV, n. 6879/2021).

In tema di procedimento per decreto, non è abnorme, e quindi non è ricorribile per cassazione, il provvedimento con cui il giudice per le indagini preliminari rigetti la richiesta di emissione del decreto penale di condanna per insussistenza di elementi idonei a fondare la responsabilità dell'imputato, senza pronunciare sentenza di proscioglimento ai sensi dell'art. 129, atteso che un tale provvedimento si inserisce nel novero dei poteri cognitivi conferiti al suddetto giudice dall'art. 459, comma 3, che, al di fuori di qualsiasi automatismo, gli riconosce la possibilità di un ampio sindacato sul merito della richiesta (Cass. II, n. 28288/2021).

Il decreto penale di condanna emesso per un fatto diverso da quello oggetto della richiesta del P.m. è affetto da nullità assoluta e insanabile, rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del processo (Cass. III, n. 15213/2022).

Le modifiche introdotte dal “collegato Cartabia”

Il d.lgs. n. 31/2024, c.d. “collegato Cartabia”, interpolando, il comma 1-ter dell'art. 459, ha rispettivamente previsto che:

-la richiesta dell'imputato di chiedere la sostituzione della pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità di cui all'art. 56-bis della l. n. 689 del 1981, può essere avanzata con l'opposizione ma anche senza formulare l'opposizione;

-in difetto dei presupposti per disporre la sostituzione della pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità, il giudice respinge la richiesta e, se non è stata proposta, congiuntamente o successivamente, tempestiva opposizione, dichiara esecutivo il decreto.

La formulazione della norma introdotta nel 2022, pur prevedendo per l’imputato la possibilità di chiedere la sostituzione della pena detentiva anche senza formulare l’opposizione, sembrava rendere possibile che il giudice, verificata la mancanza dei presupposti, potesse emettere decreto di giudizio immediato anche in assenza di un esplicito atto di opposizione al decreto penale, con la conseguenza di pervenire alla celebrazione di un giudizio in mancanza di una volontà espressa, in tal senso, dall’imputato o dal suo procuratore speciale. Tale soluzione, benché astrattamente compatibile con il dato letterale della disposizione, sembrava però contrastare con la prevista possibilità riconosciuta all’imputato di formulare la richiesta di sostituzione senza una contestuale (o successiva, purché tempestiva) opposizione e, quindi, con la volontà dell’imputato di richiedere la sostituzione della pena, accettando tuttavia la possibilità, in assenza dei relativi presupposti, che il decreto divenisse esecutivo.

Ora, l’art. 2 d.lgs. n. 31, alla lett. s), onde scongiurare tali rischi, interpola il citato comma 1-ter  dell’art. 459: le operate modifiche, dichiaratamente volte – secondo i compilatori – a “semplificare l’istituto”, sembrano salvaguardare il contenuto dell’effettiva volontà dell’imputato  poiché con esse si precisa, da un lato, che la richiesta di sostituzione può essere formulata «anche senza formulare l’atto di opposizione» e, dall’altro, che in difetto dei presupposti il giudice «se non è stata proposta congiuntamente o successivamente, tempestiva opposizione, dichiara esecutivo il decreto». In questi termini – chiarisce la Relazione illustrativa al d.lgs. n. 31 – il destinatario del decreto penale può senz’altro chiedere la sostituzione in lavoro di pubblica utilità senza formulare opposizione, “consapevole del fatto che, nel caso in cui la richiesta di sostituzione venga rigettata, il decreto diventerà esecutivo”.

L’intervento correttivo è stato apprezzato dalla prima dottrina “nel quadro dell’ampliamento e della chiarezza delle garanzie processuali” e dal C.S.M., poiché semplifica l’applicazione della disposizione e consente un raccordo effettivo tra la scelta compiuta dall’imputato e lo sviluppo del procedimento”. Comparando la precedente versione del 2022 con quella odierna, si è altresì osservato che, mentre finora l’imputato richiedente il lavoro di pubblica utilità si trovava “in una posizione difficile” perché “in caso di rigetto della richiesta perdeva i benefici del decreto di condanna e andava a giudizio con il rischio di essere condannato ad una pena più elevata”, la soluzione introdotta col decreto correttivo, “oltre ad essere più equa, è in linea con il comma 5 dell’art. 461, secondo il quale il giudice ordina l’esecuzione del decreto di condanna se non è proposta opposizione o se questa è dichiarata inammissibile”.

Bibliografia

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